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    Il retroterra: la fede del popolo d'Israele (cap. 1 di: Gesù di Nazaret)


    Luis A. Gallo, GESÙ DI NAZARET. La sua storia e la sua grande causa per la vita dell'uomo. Elledici 1991


    1. Gesù di Nazaret, vero uomo

    Gesù di Nazaret, colui che nella fede cristiana viene confessato sin dagli inizi come Messia o Cristo e Salvatore, come Figlio di Dio e Signore, non è spuntato come un fungo dopo la pioggia.
    Non è nemmeno caduto bell'e fatto dal cielo come uno di quei meteoriti che ogni tanto, nelle notti serene, si staccano dai corpi celesti e piombano sul nostro pianeta.
    Egli è stato -e lo è ancora, e per sempre- un uomo della nostra stessa razza umana.
    Nei vangeli e negli altri scritti del N.Testamento questo dato viene rammentato ad ogni passo e in mille forme diverse. Oggi sembra importante ribadirlo con forza. Anche perché non è mancato nel passato chi l'ha messo in dubbio, e non manca chi continua a metterlo in dubbio ancora nel presente.
    Nei primi tempi del cristianesimo, infatti, quando la fede in Gesù entrò a contatto con la cultura diffusa nell'ambito dell'Impero romano, sorse una corrente che si chiamò "docetismo".
    I doceti sostenevano che l'umanità di Gesù non era reale, ma solo apparente; che in realtà egli era lo stesso Dio Unico, il Padre, che aveva preso un finto corpo umano per poter realizzare la redenzione dell'uomo sulla croce morendo così per essi.
    I fautori di queste idee pensavano il mondo in forma dualistica: da una parte lo spirituale, che era ciò che veramente contava, e dall'altra il materiale, considerato come qualcosa di inferiore; anzi, per loro la materia era la fonte di ogni male. Non potevano accettare, di conseguenza, che la suprema Realtà spirituale, cioè Dio, potesse avere un contatto diretto con il mondo materiale, intimamente segnato d'imperfezione.
    I veri credenti dovettero lottare strenuamente contro queste tendenze che mutilavano il loro Salvatore spogliandolo dalla sua umanità. "La carne [di Gesù Cristo] è il cardine della salvezza", asseriva per esempio con forza quel grande credente e pensatore che fu, nei secoli II e III, Tertulliano. Egli esprimeva in questo modo il sentire di tanti altri pastori e semplici cristiani che non si rassegnavano a veder ridotto Gesù a un essere puramente divino.
    Questa tendenza inziale a disumanizzare Gesù di Nazaret, a mettere tra parentesi o almeno a diminuire la densità e lo spessore della sua umanità, è stata presente poi spesso, con motivazioni diverse, tra i cristiani.
    Probabilmente essa è dovuta in buona parte alla reazione della chiesa dei primi secoli contro la prima grossa eresia formale circa l'identità di Gesù, da essa condannata solennemente mediante l'enunciazione di un dogma, l'eresia dell'"arianesimo".
    Il prete Ario di Alessandria (sec.III), che diede nome a tale movimento ereticale, e i suoi seguaci, negavano l'unità profonda e assolutamente originale di Gesù con Dio. In termini posteriori si dirà che negavano la sua divinità.
    La loro sensibilità culturale, di matrice neoplatonica, li portava a non sopportare che accanto all'Unico, Somma Verità e Sommo Bene, potesse esserci un'altro.
    Perciò mettevano in crisi la pratica liturgica della chiesa che rendeva culto a Gesù quale Figlio di Dio e Signore, considerandolo in questo modo uguale a Dio. Per loro questo Gesù al quale, utilizzando una categoria molto cara alla gente di quel tempo, attribuivano il nome di "Verbo" o "Parola" (Lógos) di Dio, non era che una creatura. Una creatura del tutto singolare, certamente, ma pur sempre una creatura.
    Questa congiuntura storica portò la chiesa a concentrare la sua attenzione sulla divinità di Gesù, e a sottolineare fortemente il suo "essere dalla parte di Dio". A scapito, come succede spesso quando si accentua polemicamente qualcosa, dell'altro aspetto, la sua umanità, il suo "essere dalla parte degli uomini".
    Lo fece nel suo primo concilio ecumenico, celebrato a Nicea per iniziativa dell'imperatore Costantino nel 325, al quale parteciparono numerosi vescovi di molte chiese fino allora fondate tanto in Oriente quanto in Occidente. Questo Concilio definì solennemente l'uguaglianza di Gesù con Dio. Coniando un termine molto raffinato, disse che egli era "co-sostanziale" da sempre con il Padre, ossia che non era stato "fatto" da Dio, sia pure prima di tutte le altre cose, come asserivano gli ariani, ma che esisteva sin dall'eternità con Lui, partecipando pienamente del suo stesso essere (sostanza) divino.
    Più tardi questa tendenza a disumanizzare Gesù si manifestò in nuove correnti ereticali.
    Così, una corrente, capeggiata da un certo vescovo orientale di nome Apollinare (sec.IV), negò che egli avesse un'anima umana come gli altri uomini. Al suo posto c'era in lui la natura divina che la sostituiva dando vita e dinamismo al suo corpo. Gesù risultava quindi composto dal suo corpo e dalla sua divinità. Grazie al primo era figlio di Maria, grazie alla seconda era Figlio di Dio.
    Poi, il monaco costantinopolitano Eutiche (sec.V) diede origine a un'altra eresia, il "monofisismo". Egli sosteneva che l'umano in Gesù era stato come assorbito dal divino, perdendo in tal modo consistenza e densità propria.
    Davanti a queste eresie, il Concilio di Calcedonia del 451 definì solennemente che Gesù, oltre ad essere "perfetto per ciò che riguarda la divinità", era anche "perfetto per ciò che riguarda l'umanità".
    Con quest'ultima affermazione voleva dire che egli era umanamente completo, che non gli mancava nulla di ciò che è veramente umano in ogni uomo.
    Diversi secoli dopo, alcuni negarono ancora l'esistenza di una vera volontà umana in Gesù: secondo loro egli aveva solo una volontà divina, quella del Figlio eterno di Dio (sec.VIII). Si chiamarono perciò "monoteliti" (una sola volontà).
    Anch'essi furono condannati dalla chiesa, come deturpatori dell'identità del Salvatore, nel Concilio Lateranense del 649.
    Tutto ciò ha lasciato indubbiamente profonde tracce nella fede vissuta dei cristiani.
    Non è raro trovarne alcuni che, ancora attualmente, identificano semplicemente Gesù con "il Padre eterno", oppure che sono molto restii ad ammettere una vera e reale umanità, uguale alle nostra, in colui che hanno imparato a confessare come Figlio di Dio.
    Non accetterebbero, per esempio, che si facessero delle esplorazioni nella sua psicologia umana, come si fa per gli altri uomini e donne. Tanto meno che si parli di lui come di un essere sessuato. Suonerebbe per loro probabilmente come una profanazione o un sacrilegio.
    Eppure, Gesù di Nazaret, colui che la fede confessa con ragione come Figlio di Dio, è un uomo. Un uomo veramente umano. Con tutte le ricchezze e tutti i limiti che ciò comporta. Perciò, come per tutti gli altri esseri umani, le sue radici sono da ricercare molto lontano, nel passato. Egli è stato preceduto da millenni di storia.
    Lo hanno ribadito, con grande realismo, gli evangelisti Matteo e Luca.
    Quest'ultimo, utilizzando un genere letterario non raro all'epoca, elabora nei primi capitoli del suo vangelo una complessa genealogia che ricollega Gesù con il primo uomo, Adamo, e si rifà così fino ai primi albori dell'umanità (Lc 3,29-38).
    Matteo, invece, mirando ad altri obiettivi, costruisce la genealogia di Gesù risalendo la storia fino al capostipite del popolo d'Israele, Abramo (Mt 1,1-16).
    In questo momento ci interessa l'impostazione di Matteo. Egli scrive il suo vangelo per credenti di estrazione giudaica. Sottolinea con forza l'appartenenza di Gesù al popolo d'Israele. Infatti, la vicenda di Gesù resterebbe incomprensibile senza questo riferimento decisivo: l'humus nel quale egli è cresciuto e dal quale si è nutrito, è la storia di fede di quel popolo. Gesù di Nazaret è anzitutto un giudeo. Se non si coglie questo, tutto resta difficile da capire in lui e nella sua vicenda.
    Perciò vogliamo ora affacciarci a questo retroterra, con l'intenzione di cogliere il rapporto esistente tra esso e tale vicenda.

    2. Il popolo d'Israele, un popolo credente in Jahvé

    Il popolo nel quale e dal quale nacque Gesù ebbe, come ogni altro popolo, una storia; una lunga storia di almeno diciotto secoli, tutta intrisa di avvenimenti lieti e dolorosi, di delusioni e di speranze.
    Di tale storia questo singolare popolo ha conservato la memoria nelle tradizioni tramandate oralmente da padre in figlio, tradizioni che poi hanno trovato lentamente espressione scritta in quella parte della Bibbia che chiamiamo Antico Testamento.

    2.1. Centralità di un avvenimento

    Come può percepire chiunque legge con una certa attenzione tali scritti, nei racconti biblici di questa lunga e aggrovigliata storia c'è un nucleo centrale, che è come la cellula germinale in cui tutto è densamente concentrato: l'avvenimento dell'esodo o uscita degli ebrei dall'Egitto.
    Gli studiosi della Bibbia fanno infatti rilevare che, pur iniziando letterariamente con la narrazione della creazione del mondo nel libro della Genesi, la storia biblica ha il suo vero inizio in questo avvenimento, al quale fanno come da cornice anzitutto il racconto della creazione del mondo (Gen 1-11), che le conferisce una portata universale, e poi quello della storia dei Patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe), che la riallaccia con le radici degli antichi antenati (Gen 12-50).
    Il popolo d'Israele conservò una memoria indelebile di tale avvenimento. Lo fece oggetto di costante ripensamento e di celebrazione ripetuta, lo pose al centro del suo cuore come un criterio di discernimento delle sue decisioni e della sua condotta, e come fonte della sua speranza.
    Stando alla narrazione biblica (Es 3,14), molto attendibile storicamente in questo punto, fu anche in tale avvenimento che il popolo imparò a conoscere e a venerare il suo Dio, un Dio che, come si vede molto spesso nel Libro santo, chiamò con un nome proprio: "Jahvé".
    In che cosa sia consistito storicamente questo esodo non lo possiamo sapere con precisione. Non possediamo testimonianze storiche extrabibliche attendibili a questo riguardo. Ciò che abbiamo invece sono le testimonianze bibliche, le quali, come avremo occasione di sottolineare più di una volta, non costituiscono un testo di storia, ma piuttosto una confessione di fede nel Dio salvatore. Perciò, i problemi che si pongono dal punto di vista storico sono molti e svariati: risulta difficile -e alle volte impossibile- stabilire fino a che punto ciò che i testi biblici dicono abbia un riscontro nella storia avvenuta. Eppure, pur senza ignorare tali problemi, non si può negare che, sullo sfondo della confessione credente, vi sia qualcosa di storico, di realmente avvenuto. È quello che ci interessa cogliere.
    Come presenta la Bibbia l'esodo? Ne parla come di un avvenimento nel quale fu radicalmente cambiata la sorte collettiva di un gruppo umano.
    Nel suo insieme lo si può vedere come un processo, in cui c'è un punto di partenza, un movimento verso una mèta, e un punto di arrivo.
    Il punto di partenza è la situazione umanamente negativa e addirittura disperata, per un insieme convergente di motivi, in cui si erano venuti a trovare i discendenti di Abramo scesi in Egitto, alcuni secoli prima, spinti dalla fame che la carestia aveva portato alla loro regione.
    Concretamente, la loro situazione appare come negativa per almeno tre motivi.
    In primo luogo, per il fatto di vivere in una terra non propria. Erano emigrati dalla terra di Canaan, invitati da Giuseppe, che i suoi fratelli avvevano venduto ai mercanti madianiti (Gen 37,28) ed era arrivato ad essere il secondo dopo il Faraone. Venuti in Egitto, si erano soffermati con i loro greggi, per concessione del Faraone, nella zona del Gossen (Gen 46,31-34; 47,1-5).
    Poi, per la condizione di oppressione e sfruttamento in cui giacevano ad opera di un altro Faraone: questi li aveva ridotti a schiavi fabbricatori di mattoni per la costruzione delle città-deposito dove s'immagazzinava il grano (Es 1,8-14; 5,15-19).
    Finalmente, per la prospettiva sicura di venire completamente soppressi a causa dell'eliminazione dei nascituri maschi, poiché il Faraone, impaurito del loro eccessivo moltiplicarsi, aveva deciso che questi venissero gettati, appena nati, nelle acque del Nilo (Es 1,15-22). Quindi, un futuro sicuro di morte.
    Il movimento di passaggio verso una nuova situazione fu iniziato dal grande liberatore Mosè, il quale, allevato nella corte faraonica e accortosi ad un tratto della sua vera identità che lo accomunava con il popolo umiliato e sofferente, scatenò una serie di interventi nei quali riuscì a coinvolgere a poco a poco l'intero gruppo. Così poterono vincere la caparbia resistenza del potente Faraone e si aprirono una strada verso la libertà.
    Il punto di arrivo del processo fu la nuova situazione in cui il popolo dei liberati venne a trovarsi: a conseguenza dell'intervento di Jahvé, concretizzato nell'azione di Mosè, degli altri suoi collaboratori e in definitiva del popolo stesso, questo entrò in una nuova condizione umanamente positiva, completamente contrapposta a quella dalla quale erano usciti.
    Concretamente, questa nuova situazione consistette nel fatto di venir liberati dalla schiavitù, dall'oppressione e dallo sfruttamento del Faraone e degli altri egiziani (Es 14,30), di acquistare a poco a poco come propria una terra "che stilla latte e miele" (Es, Gios, ecc.), e di avere la opportunià di costituire un popolo libero, acquistando così una possibilità di futuro per sé e per i loro posteri.
    Come abbiamo detto, questa è, ovviamente ridotta alle sue linee essenziali, la visione dell'esodo che propone la Bibbia. Essa è certamente il risultato di ripensamenti posteriori, e addirittura di proiezioni nel passato di esperienze vissute parecchio tempo dopo dal popolo d'Israele. Ciò che sostanzialmente si può ricavare da tutto ciò è la certezza del popolo biblico circa quanto visse "agli inizi". Si potrebbe esprimere questa certezza dicendo che il risultato di quell'avvenimento storico iniziale fu che Israele, allora schiavo e destinato alla morte, si trovò, grazia all'intervento del suo Dio Jahvé, davanti a una reale possibilità di vita.
    Occorre ancora rilevare che, sempre secondo i racconti biblici, l'avvenimento dell'esodo acquistò stabilità mediante l'alleanza che, per libera e gratuita iniziativa, il Dio-Jahvé stipulò con il popolo appena uscito dall'Egitto (Es 19-24). Essa contribuì a creare la coscienza d'Israele di essere "il popolo di Jahvé", "sua proprietà" per sempre.
    Quest'alleanza, rinnovata poi più di una volta nella storia, rivela la disposizione permanente di questo Dio verso questo popolo liberamente eletto e, in esso, verso tutta l'umanità.
    È anche il fondamento dei suoi ulteriori interventi salvifici nella storia, che riprodurranno, con sfumature proprie, lo "schema-esodo" del primo intervento.
    E sarà pure, a partire da un certo momento, il fondamento della speranza dello stesso popolo in un intervento futuro decisivo, alla fine dei tempi, in cui lo "schema-esodo" avrà la sua realizzazione piena e definitiva. Alla fine dei tempi, in fedeltà alla Promessa tante volte fatta specialmente attraverso i Profeti, Dio attuerà l'esodo definitivo e totale dell'intera umanità.

    2.2. Un popolo credente

    Come traspare dalle narrazioni bibliche, il popolo d'Israele visse questo avvenimento storico della sua liberazione dall'Egitto in una maniera molto peculiare: ne colse una dimensione ad altri occhi impercettibile, la dimensione salvifica.
    Il che significa che questo popolo visse un fenomeno di "schiudimento di senso" (disclosure), come dice uno studioso. Un fenomeno, non infrequente nell'esperienza umana, anche non religiosa, il quale consiste nel fatto che "si sperimentano cose che tutti possono provare, ma alcuni sentono in esse (improvvisamente o gradualmente) una dimensione più profonda che come tale non è oggettivabile, eppure si fa conoscere realmente attraverso questi dati empirici (o storici) dell'esperienza" (E.Schillebeekx).
    Nel caso dei protagonisti dell'esodo consistette nel fatto che, come dirà Luca più tardi dei discepoli di Gesù, "si aprirono i loro occhi" (Lc 24, 31) e videro la profondità ultima di ciò che vivevano: nella loro uscita dalla condizione di schiavitù e di morte verso la possibilità di libertà e di vita colsero la presenza e l'azione di salvezza del loro Dio Jahvé.
    Così Israele diventò un popolo credente, e credente in questo Dio. La sua fede era certezza della buona disposizione di Jahvé nei suoi confronti, era fiducia illimitata nel suo amore e nel suo potere di salvezza, era anche speranza nell'adempimento delle sue promesse, e soprattutto della sua grande Promessa.

    2.3. Abramo, emblema del credente

    La Bibbia, rifacendosi certamente a delle tradizioni molto radicate nella memoria del popolo, fece di Abramo, il capostipite del popolo, il simbolo dell'uomo credente.
    Anche in questo caso sono pochi i dati oggettivamente storici che possiamo avere su tale personaggio, così lontano nel tempo. Ma nei racconti biblici egli viene presentato come un uomo desideroso di vivere -lo manifesta soprattutto nella sua ardente brama di avere discendenza (Gen 15,2-3)-, che si trova a dibattersi con la morte che lo attanaglia in molteplici forme.
    Lo attanaglia come insicurezza, per il fatto di non avere terra propria, dal momento che è un seminomade che si sposta costantemente in cerca di pascoli per i suoi greggi; come rischio mortale, per via delle bande che possono assalirlo in qualunque momento spogliandolo di tutto: tende, persone e bestie; ma soprattutto come mancanza di futuro, a causa della sterilità di sua moglie con la quale non può avere figli che rendano possibile il superamento della morte (Gen 11,30; 16,1-2).
    A questo uomo, alle prese in tanti modi con la morte, viene fatta una promessa di vita straripante. E precisamente in contrapposizione alle condizioni di morte in cui si trova: terra propria ampia e spaziosa (Gen 12,7; 13,14-15.17); protezione contro i pericoli (Gen 15,1); discendenza più numerosa delle stelle del cielo e dei granelli di sabbia sulle spiagge del mare (Gen 13,6; 15,5).
    Questa promessa, estesa poi come benedizione a tutte le genti del mondo (Gen 12,3), mette Abramo in piedi e lo incammina verso il futuro. Egli lascia la sua terra e si dirige verso la realizzazione della grande Promessa.
    Così egli diventa il simbolo del popolo che pellegrina verso il futuro, spinto dalla Parola di Jahvé. Non è l'uomo della nostalgia, come l'Ulisse della mitologia greca che guarda al passato come al paradiso perduto, ma l'uomo della profezia, tutto proteso verso la realizzazione futura di una promessa di pienezza e ripone perciò la sua speranza sempre oltre ogni presente.

    2.4. Contributo dei Profeti alla fede d'Israele

    Nel corso della storia del popolo d'Israele sono stati soprattutto i Profeti a mantenere viva e a intensificare questa tensione verso il futuro.
    Essi, sensibilizati alla speranza di un futuro sempre migliore per il popolo -e per l'intera umanità- al contatto con il Dio dell'esodo e dell'alleanza, sono stati sempre molto sensibili a quanto avveniva nel popolo stesso, alle svolte della sua storia, alle sue sventure e ai suoi successi, alle sue attese e alle sue delusioni.
    I Profeti denunciarono con forza tutto ciò che nella vita del popolo, al suo interno e al suo esterno, contraddiceva la sua vocazione di pienezza. Mossi da incontenibile zelo per la realizzazione di questa vocazione, assunsero alle volte degli atteggiamenti molto duri, per noi perfino sconcertanti.
    Risulta emblematica al riguardo, per esempio, la narrazione sulla vicenda di Elia. Egli, dopo aver sfidato l'intero popolo a scegliere tra Jahvé, il Dio dell'esodo e perciò anche del futuro, e Baal, il dio cananeo che viceversa li bloccava ancorandoli al passato, fa sgozzare i quattrocentocinquanta sacerdoti di quest'ultimo che avevano affrontato la sfida da lui lanciata uscendone sconfitti (1 Re 18,19-40). Un atto che oggi ci appare come feroce, ma che si spiega nel contesto come espressione dello zelo del Profeta per la fedeltà del popolo al suo Dio e, quindi, per la sua tensione verso il futuro promesso.
    Ma questi uomini appassionati di Dio e del loro popolo seppero convertirsi anche in grandi poeti quando si trattava di riattivare le speranze affievolite o addirittura spente dei loro connazionali.
    Bellissimi testi come quello d'Isaia che parla del futuro intervento di Jahvé per ripristinare l'esodo, proprio in un momento in cui il popolo era in piena crisi (Is 40,1-11); o quell'altro in cui si promette che Dio cambierà in futuro le spade in vomeri e le lance in falci (Is 2,2-5) ); o ancora quello così potente di Ezechiele in cui Dio ridà vita ad un immenso campo di ossa aride (Ez 37,1-14), stanno a confermare questa straordinaria capacità dei profeti di spronare il popolo verso il futuro da Dio promesso.

    3. Il futuro regno di Dio

    C'è poi un filone che si va sempre più irrobustendo nella coscienza di fede degli israeliti: Jahvé, il loro Dio è re. Egli regna e vuole regnare sia sul popolo che ha liberato dall'Egitto e con il quale ha stipulato l'alleanza, che sull'intera umanità.
    L'appellativo reale non fu dato sin dagli inizi a Jahvé. Gli Ebrei, almeno i più fedeli tra di essi, avevano paura di contaminarsi con la religiosità dei popoli che li attorniavano. Questi invocavano spesso il loro dio principale con questo titolo. Jahvé non poteva venir offuscato nella sua peculiarità da una confusione con questi altri dèi, che "avevano occhi e non vedevano, avevano orecchi e non udivano, avevano bocca e non parlavano" (Sal 113b, 5-7).
    Ma l'esperienza positiva della regalità, fatta specialmente ai tempi di Davide, diede al popolo la possibilità di trasferire al suo Dio il titolo di re. Davide, infatti, passò alla storia come il re per eccellenza, colui che impersonava l'ideale regale dipinto con rosee tinte dal Salmo 71: "Egli renderà giustizia ai poveri del popolo, salverà i figli dei poveri ed umilierà il calunniatore ... Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e l'abbondanza della pace ... Egli libererà il povero dal potente, il povero che non ha aiuto. Avrà pietà del povero e del bisognoso, e salverà la vita dei poveri. Libererà la loro vita dall'oppressione e dal sopruso, e prezioso sarà il loro sangue dinanzi a lui" (vv.4.7.12-14).
    A poco a poco si andò creando la certezza che, in futuro, il Dio che aveva iniziato a regnare liberando il popolo dall'Egitto, avrebbe preso nelle sue mani le redini definitive della storia per realizzare pienamente la sua grande Promessa. Egli avrebbe cominciato a regnare come sovrano indiscusso non solo sul popolo che si era scelto, ma anche su tutta l'umanità e sull'intero mondo. E il suo regno sarebbe stato un regno di vita e di felicità per tutti.
    Una speranza messianica nacque e si consolidò così nella coscienza di fede di questo popolo. Una speranza che si mantenne viva e che sostenne gli animi anche in mezzo alle più grosse difficoltà che dovette affrontare nel corso della storia: mediante un suo inviato, "unto con il suo Spirito" (messia), Jahvé prenderà nelle sue mani la sorte degli oppressi per liberarli definitivamente.
    In seno a questo popolo nasce Gesù di Nazaret. Egli assorbe indubbiamente sin dalla sua infanzia, attraverso la fede della sua famiglia, la sensibilità e le attese che questa fede crea negli uomini e nelle donne di tale popolo, soprattutto di quelli che, come Maria e Giuseppe, portano profondamente nel cuore quanto di più nobile e ricco è maturato attraverso i secoli in esso.


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