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    Il lavoro e le professione (cap. 7 di: La sfida dell'azione)


    Guido Gatti, LA SFIDA DELL'AZIONE, Elledici 1996

     

    IL LAVORO E LE PROFESSIONI NELLA SOCIETÀ UMANA

    Il lavoro umano è il fattore che sta alla base di tutta la realtà economica. Con il lavoro gli uomini, trasformando le risorse che la natura offre loro, producono quei beni e quei servizi che sono necessari allo sviluppo della loro vita. Il lavoro rappresenta perciò, nell'ambito della realtà sociale umana, un settore importante e decisivo della loro responsabilità morale.
    Il lavoro segna profondamente tutta la vita dell'uomo. L'umanità nel suo insieme si realizza soltanto attraverso il lavoro, anche se molte persone sono costrette a pagare, per questa realizzazione collettiva, un prezzo molto alto in termini di fatica, di espropriazione del tempo libero, di diminuzione della libertà e della possibilità di svolgere attività più immediatamente appaganti.
    Il lavoro è stato fin dall'inizio della storia umana una delle forze di coesione sociale più decisive; gli uomini possono ottenere i beni di cui hanno bisogno soltanto collaborando: la solidale unione delle forze moltiplica la produttività individuale del lavoro, e lo rende più facilmente vittorioso nei confronti della natura. La comunità umana è sempre nelle sue radici una comunità di lavoro.

    NELLA LUCE DELLA FEDE

    In forza del suo carattere essenzialmente sociale, il lavoro e l'esercizio di una professione realizzano una forma di responsabilità oggettiva, che fa di ogni uomo un «custode» per ogni altro uomo. Qualunque sia la sua posizione all'interno dell'organizzazione produttiva, chi lavora è chiamato a vedere in ogni altro uomo un fratello, la cui vita dipende anche dalla sua sollecitudine. La funzione sociale della professione è qualcosa di oggettivo, che fa del lavoro lo strumento concreto, con cui ognuno contribuisce al benessere della comunità.
    L'esperienza e la riflessione di fede sono chiamate a valorizzare questo carattere oggettivo della professione e a vedere, nella percezione e nell'accettazione responsabile di questa dimensione del lavoro, un compito etico preciso.
    Nella luce della fede il credente si sforza di superare le motivazioni puramente interessate, egoistiche e opportunistiche che una società, ispirata al contrattualismo e dominata dallo scatenamento degli interessi corporativi, tende a privilegiare.
    Certamente la realizzazione di sé è uno dei significati della professione, ma il credente non può limitarsi a vedere la propria realizzazione unicamente in termini di reddito, prestigio sociale, esercizio del potere; e neppure nell'esercizio appagante della creatività, reponsabilità, genio, nell'espansione armoniosa e quasi ludica delle proprie qualità umane.
    Nell'odierno stadio dello sviluppo produttivo (ma anche in qualsiasi altro assetto prevedibile della produzione economica, per un futuro non illimitatamente lontano) questo sarebbe riservato veramente a troppo pochi.
    Occorre riconoscere che le capacità autorealizzatrici del lavoro sono legate piuttosto al suo significato etico, cioè al fatto che esso costituisce un servizio sociale e una forma oggettiva di solidarietà.
    Si tratta naturalmente di una concezione della realizzazione di sé comprensibile pienamente soltanto nella luce della fede, diversa da quella egocentrica dominante nella nostra cultura.
    Questo non significa la positiva e intenzionale esclusione dal lavoro di ogni aspetto positivo di appagamento, di creatività e di espansione; si tratta piuttosto di non erigere questi aspetti positivi a finalità esclusive, da perseguire a ogni costo, rifiutando sistematicamente di assumere su di sé una giusta parte della penosità del lavoro umano, per scaricarla unicamente sui più deboli.

    LA SCELTA DELLA PROFESSIONE

    Una simile concezione del lavoro e dell'autorealizzazione deve ispirare già la scelta della professione.
    Una gran parte dei giovani ancora oggi (ma in passato molto di più) non sceglie liberamente la professione. Sono i genitori a scegliere, oppure le circostanze, il bisogno, la società. Questo naturalmente spiega la disaffezione, il disimpegno, l'assenteismo, la frattura tra il lavoro e la vita. È una delle cause della alienazione del lavoro e quindi del fatto che il lavoratore (e non solo l'operaio), non sentendosi appagato dal suo lavoro, lo vive solo come dura necessità, lasciando la realizzazione di sé al «tempo libero», alla vita in famiglia, magari a una militanza politica, vissuta senza alcun legame con la professione.
    C'è qualcosa di inevitabile in tutto questo: non è per ora pensabile la totale eliminazione del carattere costrittivo della scelta professionale. La scelta del lavoro non è la scelta di un «hobby» o di una disciplina sportiva. È la scelta di un servizio e ubbidisce anche (e soprattutto) alle richieste dell'utente (in questo caso della società, che esprime le sue richieste attraverso il cosiddetto «mercato del lavoro») e alle possibilità reali dell'offerente.
    Resta peraltro vero che uno degli obiettivi più importanti della trasformazione sociale è l'allargamento più ampio possibile dello spazio di effettiva libertà di scelta della professione.
    Fa parte dei doveri dell'etica professionale anche quello di una seria preparazione specifica all'assunzione delle proprie responsabilità nel campo del lavoro e della professione.
    Tale preparazione specifica è essenzialmente quella dello studio. Il giovane studente esercita già comunque almeno il non facile mestiere di chi si prepara al lavoro e alla professione; questo esige la stessa serietà di chi esercita un servizio sociale: lo studio è il servizio specifico del giovane; benché una qualche forma di contatto diretto col lavoro vero e proprio gioverebbe moltissimo alla formazione del suo senso di responsabilità sociale.
    In questa luce trovano posto e senso nel progetto di vita del giovane esperienze di servizio al di fuori dello studio e della professione vera e propria, che lo avvicinano alla serietà dei drammi e dei problemi dell'esistenza: sono quelle attività di volontariato (assistenza agli anziani, handicappati, malati, emarginati, poveri, immigrati) che rappresentano una tradizione costante del laicato cattolico, ma che sono aperte ai giovani di ogni ispirazione ideologica o religiosa.
    Il credente ci vede un'azione che (forse più direttamente di quella politica, perché rivolta direttamente da persona a persona, al di là della pur necessaria mediazione delle strutture impersonali) costruisce la fraternità e la solidarietà tra gli uomini.

    LA DIVISIONE SOCIALE DEL LAVORO

    Spinto dalla necessità di organizzare collettivamente il lavoro, l'uomo è stato portato molto presto ad attuare, in base alla diversità delle abilità personali, una progressiva divisione e specializzazione dei compiti, che fece della comunità di lavoro una specie di organismo, con funzioni diverse cooperanti a un unico progetto, secondo il modello, esistente in natura, degli organismi viventi: è quello che potremmo chiamare «l'organismo delle professioni».
    La specializzazione delle funzioni, all'interno della comunità lavorante, si è fusa con la differenziazione dei ruoli sociali e, in un mondo segnato dal peccato, ha dato luogo a forme di stratificazione sociale, sorgenti di dominazione e di privilegio per alcuni, di schiavitù e di povertà per altri.
    La diversificazione delle professioni è stata di fatto funzionale, in tutte le culture, al carattere piramidale della società, contrassegnato dallo sfruttamento e dal dominio dell'uomo sull'uomo.
    La divisione del mondo del lavoro in professioni alte o «liberali» (perché libere di fatto dalla penosità del lavoro, e spesso anche dalla dipendenza tipica del lavoro manuale) o direttive (perché associate a ruoli di dominio), e professioni basse o servili (perché comportanti subordinazione e servitù) è stata di fatto parallela alla divisione della società in classi dominanti e classi dominate e troppo spesso sfruttate ed oppresse.
    Di qui nascono per ogni uomo, e in particolare per il credente, l'impegno e la responsabilità morale di operare per una migliore e più giusta divisione degli oneri del lavoro e dei suoi effetti positivi, siano essi costituiti dal godimento dei suoi frutti economici, oppure da un adeguato riconoscimento o status sociale e dalla possibilità, oggi preclusa a troppi, di sperimentare nel lavoro la sensazione appagante della propria autorealizzazione.

    PROBLEMI DEL LAVORO NELLA SOCIETÀ INDUSTRIALE

    Il carattere particolare della organizzazione economica scaturita dalla rivoluzione industriale e poi gradualmente evolutasi in forme che ormai preludono a una vera e propria società postindustriale ha posto e continua a porre alla coscienza cristiana problemi morali di grande rilievo riguardanti il lavoro e la sua organizzazione.
    Il primo problema etico che, in ordine di tempo, emerse dalla organizzazione industriale e capitalistica del lavoro riguardava i ritmi e le condizioni del lavoro operaio. Agli orari e alle condizioni disumane di lavoro tipiche del paleocapitalismo, sono seguite forme di divisione parcellare dei compiti produttivi e di lavorazione «a catena», che hanno reso particolarmente penoso e alienante il lavoro nella grande impresa.
    Un secondo problema fu quello di una ingiusta distribuzione dei frutti del lavoro attraverso lo strumento del salario. L'organizzazione capitalistica della produzione favoriva lo sfruttamento degli uomini del lavoro attraverso salari di fame, che li condannavano a condizioni di vita indegne dell'uomo.
    L'insegnamento sociale della Chiesa, attualizzando in indicazioni concrete gli imperativi perenni del Vangelo, e collegandosi a movimenti di opinione e di azione sociale largamente diffusi nel nostro mondo e ai quali hanno partecipato in prima persona gli stessi lavoratori, ha ripetutamente riaffermato il primato della persona umana sulle esigenze impersonali dell'efficienza produttiva, rivendicato condizioni di lavoro degne dell'uomo e ricordato a tutti gli interessati (le cosiddette «parti sociali» ma anche lo Stato, che non può restare spettatore neutrale dei conflitti sociali) il dovere rigoroso di una giusta rimunerazione del lavoro, misurata, prima ancora che sulla sua produttività, sulla dignità dell'uomo (Rerum novarum 27).
    L'economia industriale è stata inoltre caratterizzata finora dal succedersi ciclico di periodi di recessione e di stasi economica e quindi da forme ricorrenti di disoccupazione cariche di gravi conseguenze per i lavoratori e per la società.
    Abbandonato a se stesso e alle cosiddette «leggi del mercato», il dinamismo dell'economia si è rivelato incapace di trovare in se stesso il rimedio a questa situazione. L'insegnamento sociale della Chiesa ricorda ancora una volta alle parti sociali e allo Stato (la Laborem exercens parla di un «datore di lavoro indiretto») il dovere di intervenire con coraggio e creatività per assicurare a tutti il diritto al lavoro, anteponendo un aspetto così decisivo del bene comune ad altri valori economici e sociali meno drammaticamente urgenti (Laborem exercens 18).
    Va detto infine che, nonostante gli impensabili miglioramenti che la condizione operaia ha avuto nei paesi industriali, dai primi tempi del capitalismo a oggi, essa rimane tuttora una condizione largamente subordinata. Per quanto drammaticamente toccati dalle decisioni riguardanti la direzione dell'impresa industriale, gli operai restano completamente esclusi dalla formazione di queste decisioni e privi di qualsiasi potere sulle finalità e le strategie della produzione.
    Si pone quindi il problema di una loro più attiva partecipazione alle decisioni che li riguardano, attraverso la progettazione e la realizzazione di una autentica «democrazia del lavoro».
    Il diritto alla libera organizzazione sindacale dei lavoratori, come strumento di difesa dei loro giusti interessi e di partecipazione alla formazione delle decisioni che li riguardano in modo diretto, è solo una premessa indispensabile per la realizzazione di una simile democrazia economica.
    Naturalmente ai diritti dei lavoratori si affiancano i doveri correlativi: il dovere della laboriosità e del rifiuto dell'assenteismo colpevole, il dovere della solidarietà con tutti gli uomini del lavoro e con tutti i cittadini, al di là degli steccati di un corporativismo miope ed egoista, che concepisce e attua la promozione del proprio gruppo in concorrenza e a spese delle categorie più deboli e della comunità dei cittadini nel suo insieme.

    PROFESSIONE COME VOCAZIONE

    Nella luce della sua fede, il credente vede nelle possibilità positive che gli vengono offerte dalla professione e dal lavoro, come anche nelle inevitabili tentazioni connesse alla scelta e all'esercizio di una professione, un appello personale di Dio.
    Dio provvidente (attraverso le cause seconde) sta dietro il complesso di realtà che lo sollecitano e lo responsabilizzano, come Colui che chiama a un compito etico, che diventa così vocazione, una parte significativa (anche se non totalizzante) della sua concreta e originale vocazione di uomo e di cristiano.
    Le diverse professioni delineano così una struttura vocazionale all'interno del progetto di salvezza, che è un progetto di comunione e si realizza attraverso una «agape» che si fa «diaconia», servizio vicendevole.
    La professione, in quanto luogo concreto della propria dedizione ai fratelli, diventa una specie di sacramento dell'incontro con Dio. Anch'essa è segnata dalla logica pasquale: fare di essa una realizzazione di sé, che non consista primariamente nell'accumulazione di prestigio e di potere, ma nel servizio e nella disponibilità umile e fattiva, è esprimere nel concreto della vita il proprio morire con Cristo a se stessi, per vivere alla sua novità di vita nell'amore.
    Si è detto che la professione è una parte significativa ma non totalizzante della propria vocazione globale. Proprio nella luce della fede, il lavoro appare sì come una realtà rilevante anche sul piano etico e religioso, ma non costituisce né il tutto né il definitivo dell'uomo.
    Non il lavoro ma il riposo, una partecipazione eterna al misterioso sabato di Dio, sono il destino ultimo e la condizione finale dell'uomo. La fede demistifica ogni retorica e ogni sacralizzazione indebita del lavoro: l'uomo non perde la sua dignità per il fatto di sottomettersi alla legge del lavoro, ma non è questa sottomissione il segreto vero della sua dignità. Non è il lavoro la risposta ultima alla domanda umana di salvezza.
    La relativizzazione biblica del prometeismo umano e l'annuncio del sabato eterno di Dio orientano e alimentano una speranza, aperta a una autorealizzazione e a una pienezza di vita, che sta al di là della dimensione di penoso confronto con la natura che il lavoro presenta nel mondo dell'uomo.
    Tale pienezza di vita può trovare prefigurazione nella contemplazione e nelle figure, così tipicamente bibliche, dell'ospitalità e della convivialità, cioè dello stare insieme gratuito e non funzionale, salvo restando che nessuna contemplazione e nessuna forma di gratuità potrebbe essere autentica, se pretendesse di legittimare una qualche fuga dalla penosità del lavoro, ottenuta scaricando sugli altri la croce di questa penosità, invece di condividerla fraternamente, nella luce dell'insegnamento di Cristo che è venuto «per servire e non per essere servito» (Matteo 20,28).

    VOCAZIONI PARTICOLARI ALL'INTERNO DELLA CHIESA

    Ci sono nella Chiesa alcune forme di vocazione orientate in modo privilegiato al servizio del Regno di Dio. Sono vocazioni di speciale servizio ecclesiale.
    Cristo è nella Chiesa il modello di ogni diaconìa, di ogni forma di disponibilità sollecita alla diffusione del Vangelo e alla cura pastorale dei fratelli, in obbedienza alla chiamata del Padre e in risposta alle sollecitazioni dello Spirito.
    Nella Chiesa ci si serve a vicenda in un intreccio articolato di ministeri, a secondo dei doni che Dio dà a ciascuno e nella misura dei bisogni della comunità: «Ciascuno metta a servizio degli altri il carisma ricevuto» (1 Pietro 4,10; cf 1 Corinzi 12; Gaudium et spes 33).
    Alcune forme di diaconia hanno nella Chiesa, per mandato di Cristo, una specifica forma di stabilità e una particolare importanza per la fede e la vita cristiana della comunità: si tratta dei ministeri ordinati.
    Essi sono costituiti dai «diaconi», dai «presbiteri» e soprattutto dai «vescovi», successori degli apostoli e continuatori del loro mandato.
    Una forma particolare di diaconia nella Chiesa è costituita da quella testimonianza vivente del primato dei beni del Regno nei confronti di ogni realtà terrena che è la vita religiosa.
    La vocazione al ministero ordinato e alla vita religiosa costituiscono una forma speciale di vocazione ecclesiale, che presuppone particolari qualità anche umane, una scelta convergente del singolo (che tenga conto delle sue aspirazioni) e della comunità (che tenga conto dei suoi bisogni e delle doti del candidato) e inoltre un processo di formazione, molto impegnativo e serio negli anni della preparazione immediata, ma comunque esteso poi, attraverso una sistematica formazione permanente, a tutto il corso della vita.


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