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    L'impegno cristiano nel mondo (cap. 1 di: La sfida dell'azione)


    Guido Gatti, LA SFIDA DELL'AZIONE, Elledici 1996



    Al lettore

    In un precedente libretto di questa stessa collana, dal titolo Libertà e legge, abbiamo cercato di vedere chi sia il cristiano, quali siano i tratti caratteristici della sua personalità, le strade che egli è chiamato a percorrere per portare a compimento la difficile ma esaltante avventura di diventare se stesso, attraverso la sua conformazione a Cristo, modello ideale di umanità e verità ultima dell'uomo.
    Si è parlato della fede, della speranza cristiana, della libertà di cui Cristo ci ha liberati, fondata sulla spontaneità dell'amore, infuso in noi dallo Spirito; del dinamismo della coscienza morale, intelligenza dell'amore e voce di Dio nel quotidiano dell'esistenza.
    Si trattava, come è facile intuire, di una breve ma densa presentazione dei fondamenti e dei principi generali della morale cristiana.
    Ci siamo lasciati con la promessa di continuare il discorso interrotto, con la presentazione un po' più dettagliata dei contenuti valoriali e normativi della morale cristiana nei diversi settori della vita.
    La presentazione della morale cristiana fatta nel primo volumetto restava infatti sulle generali: non c'era stato lo spazio per una analisi dei problemi concreti che il credente incontra quando cerca di tradurre in atto il suo progetto di autorealizzazione umana e di conformazione a Cristo, nei diversi settori della sua esistenza quotidiana, quali sono la vita sociale e l'azione politica, l'attività economica, il mondo del lavoro e della professione, l'elaborazione della cultura, la comunicazione sociale, la vita in famiglia e la sessualità.
    I principi generali della vita in Cristo, trattati nel precedente volumetto, illuminano la consapevolezza e forniscono le motivazioni di fondo che sorreggono l'azione del credente, le danno senso e la orientano verso una speranza di pienezza umana che solo Dio può garantire. Ma tali principi non bastano a offrire quelle indicazioni specifiche, quelle norme e quei criteri di valutazione che sono necessari per districarsi all'interno del variegato mondo dell'azione, restando fedeli alla propria fede e ai propri ideali cristiani.
    Per elaborare indicazioni di questo tipo, non è sufficiente la conoscenza delle verità della fede e dei principi generali della morale cristiana; non è sufficiente neppure una conoscenza, per quanto approfondita, della verità dell'uomo: è necessaria una analisi puntuale delle diverse realtà settoriali in cui il credente si trova impegnato con diversi livelli di responsabilità.
    Nel campo della vita sociale, politica, economica, del lavoro e della cultura, le decisioni che il credente è chiamato a prendere devono essere precedute da una conoscenza, il più approfondita possibile, della dimensione specificamente tecnica di questi settori del vissuto.
    L'ultima parola resterà sempre alla coscienza morale illuminata dalla fede, ma essa dovrà integrare le parole penultime delle rispettive competenze tecniche.
    L'azione richiesta dovrà infatti essere nello stesso tempo tecnicamente corretta e moralmente retta.
    Con questo nuovo volumetto l'autore vuole, rispettando l'impegno a suo tempo preso coi lettori, offrire una guida breve, ma densa, per questo difficile compito; sarà insomma quello che potremmo chiamare una piccola trattazione di «morale settoriale».


    LA SFIDA DELL'AZIONE

    Il credente vive la sua adesione a Cristo e al Vangelo all'interno dell'avventura, per certi versi esaltante ma per altri problematica e faticosa, del suo realizzarsi come uomo in questo mondo, impegnato in una molteplicità di compiti e di settori dell'esistenza che richiedono, al di là dei principi generali e delle linee di fondo della morale cristiana, una specifica competenza e quindi una adeguata formazione.
    In questo mondo il credente è costretto a entrare in un rapporto, a volte arricchente, a volte difficile e magari drammatico, sempre carico di responsabilità, con altri uomini; egli vive dell'eredità culturale che ha ricevuto dalle generazioni che l'hanno preceduto, rielabora questa eredità, per trasmetterla, rinnovata e arricchita, alle generazioni future, progetta e produce trasformazioni sul mondo della natura e su quello della società e della cultura in cui è posto a vivere: in una parola, fa storia.
    Strumento di questi interventi sul mondo e di questo fare storia è la sua azione consapevole e libera.
    Nell'agire, l'uomo impegna tutto lo spessore della sua personalità: intelligenza, cuore, libertà. Nell'azione del presente confluiscono tutto il suo passato e i suoi progetti per il futuro.
    L'azione umana rompe il determinismo rigido che regna nell'universo materiale e introduce nel mondo la possibilità della novità radicale, la creazione di qualcosa che prima di essa ancora non esisteva in nessun modo e che senza di essa non sarebbe mai esistito: in una parola, l'azione umana introduce nel mondo la libertà.
    Ma, proprio perché nasce dalla libertà, l'azione porta con sé il problema della scelta: le scelte libere dell'uomo non sono mai indifferenti; esse sono cariche di efficacia costruttiva o distruttiva: attraverso di esse egli trasforma il mondo, costruisce felicità o infelicità per sé e per gli altri, realizza o distrugge la sua umanità; le sue azioni lo rendono responsabile.
    Sorgono allora interrogativi ineludibili: in quale direzione agire? quale progetto realizzare? quali obiettivi proporsi? che cosa è bene fare in questa data circostanza?
    E dietro questi interrogativi, che esprimono la misura della sua responsabilità morale verso il mondo e verso gli altri, se ne nascondono altri ancora più decisivi: chi essere? che modello di uomo realizzare?
    Attraverso le sue azioni, infatti, l'uomo non costruisce soltanto la storia intorno a sé; egli costruisce se stesso.
    Progetto aperto, essere essenzialmente incompiuto, egli è affidato a se stesso, alla sua libertà. Decidendo liberamente cosa fare, l'uomo decide chi essere.
    D'altra parte la risposta elle egli liberamente dà a questi interrogativi si situa dentro una certa visione globale della realtà del mondo e del suo senso, presuppone da parte sua la risposta ad altri interrogativi: qual è il senso di questo mondo? che posto vi occupo io? verso dove è incamminata la mia personale avventura e la storia umana nel suo insieme? Vale la pena di lottare per il bene? avrà il bene, alla fine, l'ultima parola?
    È il problema morale, in tutto il suo spessore e in tutta la sua ineludibile drammaticità: la sfida che l'azione rivolge alla libertà umana.

    LA RISPOSTA CRISTIANA: UNA FEDE OPERANTE ATTRAVERSO L'AMORE

    Il credente trova in Cristo, suo maestro di vita, la risposta ultima a questi interrogativi e quindi la guida per rispondere alla sfida dell'azione in modo coerente con la sua fede.
    Cristo è colui che ci rivela il Padre e il suo progetto d'amore nei confronti dell'uomo. La sua parola conferisce senso e garantisce una speranza a tutta l'impresa umana; essa illumina il cammino di ogni singolo uomo e il destino della intera storia umana.
    Egli irrompe nella vita del credente e domanda un'adesione totale alla sua parola, un affidamento incondizionato alla sua persona. Questa adesione e questo affidamento costituiscono la fede.
    La fede diventa viva e operante attraverso la carità che mette a disposizione dell'azione la forza dell'amore.
    Gesù aveva riassunto «tutta la legge e i profeti» nel duplice comandamento di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente, e dell'amare il prossimo come se stessi (Matteo 22,37-40).
    La carità è questo amare Dio con tutto se stessi e ogni altro bene in ragione di Lui, bene supremo e fontale.
    Muovendo tutta la nostra vita verso Dio, essa è la radice prima e la motivazione ultima di tutto il nostro impegno per il bene.
    Ma essa non può restare un semplice stato d'animo o un sentimento del cuore; deve tradursi nella vita, rinnovandola dalle sue radici.
    Come si può voler bene a Dio in pratica, e cioè con le nostre azioni? Possiamo noi fare qualche bene a Dio? Sarebbe irriverente e assurdo anche solo porre una tale domanda.
    Eppure il Dio che si è rivelato in Cristo si è reso accessibile al nostro amore, diventando partecipe della nostra condizione umana. Nel Figlio di Dio, si è fatto vulnerabile nella persona di ogni uomo, perché ha voluto che ogni uomo fosse per Lui un figlio. Per ogni uomo Dio piange e fa festa, come piange o fa festa un padre per un figlio smarrito e ritrovato. In questa luce dobbiamo intendere la parentela tra il secondo comandamento e il primo: «Il secondo comandamento è simile al primo» dice Gesù.
    Nella luce di Dio, il credente ama se stesso, con quell'unico amore vero con cui lo ama Dio stesso, che vuole la sua felicità e pienezza di vita con una intensità ed efficacia infinitamente maggiore di quella che l'uomo stesso nutre nei propri confronti.
    Nella luce dell'amore verso Dio, questo retto amore di sé realizza la verità del proprio essere, rispetta e difende la propria dignità, energia di base per ogni forma di bene e condizione necessaria per ogni autentica apertura agli altri.
    Il credente trova nell'amore di Dio la forza e il perché ultimo del suo amore per il prossimo; un perché valido anche quando le altre motivazioni umane farebbero difficilmente presa sulla volontà, com'è nel caso dell'amore dei nemici.
    Dio ha voluto che le manifestazioni concrete dell'amore del prossimo avessero la precedenza sulle stesse manifestazioni esteriori dell'amore per Lui: «Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello» (Matteo 5,23-24). In questa luce dobbiamo vedere la descrizione che Gesù fa del giudizio ultimo: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare... Quando Signore?... Ogni volta che avete fatto questo al più piccolo dei miei fratelli» (Matteo 25,31-46). L'amore dei fratelli non è quindi un comandamento come gli altri e neppure una sintesi di tutti i nostri doveri verso i fratelli: è una virtù «teologale» che si alimenta all'amore di Dio per noi e che traduce in pratica il nostro amore verso di Lui.
    San Giovanni, nel suo Vangelo, sottolinea con particolare insistenza il legame tra il dono di Gesù nell'ultima sua ora e il comandamento della carità. La sera dell'ultima cena, quando «dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine», Gesù pronuncia un comandamento nuovo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Giovanni 13,1 e 34-35).
    Anche nella sua prima lettera Giovanni torna sull'argomento, descrivendo l'amore cristiano per i fratelli come risposta riconoscente del credente all'amore di Dio e come partecipazione alla natura stessa di Dio che in Cristo si è rivelato come Amore: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore... In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati... Dio è amore e chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio in Lui» (1 Giovanni 4,7-16).

    LA COMPETENZA E LA SERIETÀ PROFESSIONALE

    Per il fatto di vivere la sua fede in questo mondo, il credente è chiamato a produrre frutti di giustizia non soltanto nel segreto della sua personale soggettività, ma anche nello spazio aperto, complesso e spesso conflittuale, dei diversi settori della vita pubblica: cultura, vita politica, economia e rapporti internazionali.
    Anche questi settori dell'attività umana sono inseriti nella storia della salvezza; anch'essi sono rilevanti per la costruzione del Regno di Dio e della sua giustizia.
    Ma l'impegno per la costruzione del Regno di Dio in questi settori dell'attività umana richiede che vengano prese molto sul serio alcune mediazioni.
    La prima di queste mediazioni è costituita dalla competenza e dalla serietà professionale, richieste per operare efficientemente e responsabilmente in questi campi, in cui non c'è posto per il dilettantismo e l'improvvisazione. Si può realizzare la giustizia del Regno in questi campi di azione soltanto prendendo estremamente sul serio i complessi dinamismi che regolano la loro funzionalità.
    La seconda di queste mediazioni è di natura etica; costruire il Regno di Dio nella vita pubblica significa realizzare, attraverso un impegno morale coerente, valori morali come la dignità umana, la fraternità, la giustizia e la libertà. La costruzione del Regno di Dio passa attraverso scelte, atti, comportamenti, atteggiamenti moralmente positivi.
    Ogni scelta di un certo peso nell'ambito della vita pubblica è sempre e indissolubilmente un esercizio di serietà e competenza professionale, un atto carico di responsabilità morale e una presa di posizione nei confronti del regno di Dio.
    I criteri di valutazione in base a cui giudicare le scelte e i comportamenti dell'attività professionale sono infatti più di uno, diversi per natura e per importanza e decisività.
    I criteri di valutazione di ordine tecnico regolano l'efficienza dell'agire umano e giudicano della sua capacità di produrre effettivamente i risultati che si propone: tali sono ad esempio i criteri dell'efficienza economica, politica, strategica, medica che regolano l'attività produttiva, l'azione politica, l'arte della guerra, la prassi medica e via dicendo.
    Tutti questi criteri sono caratterizzati dal contrassegno della serietà. Una serietà che potremmo chiamare funzionale, e che dipende dal carattere rigorosamente obiettivo del nesso mezzi-fine.
    In assenza di questa serietà funzionale, si cade nel dilettantismo, destinato a fallire i suoi obiettivi, buoni o cattivi che siano.
    Questi criteri metodologici non sono ancora propriamente morali, anche se a volte, proprio per la loro serietà e oggettività, vengono accostati in qualche modo ai criteri di valutazione etica: l'onestà scientifica non è ancora onestà morale in senso vero e proprio, e così la correttezza metodologica non è ancora correttezza morale.
    Non è ancora morale proprio perché qui siamo sul piano della pura efficienza: la correttezza della metodologia tecnica dipende dalla sua capacità di ottenere risultati, non dalla natura di questi risultati.

    IL SENSO DI RESPONSABILITÀ

    È invece proprio la natura di questi risultati quella che è oggetto della valutazione morale: chi condanna ad esempio l'aborto, non intende sollevare obiezioni contro le tecniche usate per realizzarlo, ma proprio contro lo scopo che queste tecniche si prefiggono.
    L'orizzonte dei criteri di valutazione comincia ad essere di ordine propriamente morale, quando fa perno sui risultati di questo agire in termini di benessere umano.
    Il giudizio di un'azione diventa quindi morale in senso vero e proprio quando, al di là della correttezza della metodologia, investe i suoi stessi obiettivi. Un'azione è moralmente accettabile o corretta quando, oltre ad essere attuata in modo efficiente dal punto di vista tecnico, si prefigge scopi e persegue risultati positivi, in termini di bene umano individuale e collettivo.
    Questo significa evidentemente che esiste una norma o principio morale generale, secondo cui la dignità della persona esige dall'uomo che egli promuova positivamente il benessere e combatta, nei limiti del possibile, la sofferenza, l'umiliazione, il male delle persone umane: esiste un imperativo che impone all'uomo di promuovere il bene e la felicità dell'uomo e di combattere ogni forma di sofferenza o di umiliazione dell'uomo in sé e negli altri.
    Il credente riconosce in questa norma una particolare formulazione del precetto della carità: nella misura in cui il comandamento dell'amore non si limita ad esigere dei «buoni sentimenti», ma comanda azioni concrete per realizzare il bene del prossimo, in modo serio ed efficiente, esso ha il valore di un criterio di valutazione etica, che dà grande rilievo alle conseguenze previste dell'azione.
    L'amore di Dio è attivo e provvidente, è una pienezza che dona e che fa essere. La risposta del credente alle sfide dell'azione si ispira a questa sollecitudine e prende la forma del senso di responsabilità.
    Spesso le parabole del Vangelo presentano il rapporto di responsabilità che lega l'uomo a Dio come il tipo di rapporto che intercorre tra un padrone e il suo amministratore. «La natura dell'amministratore è tale che non lo fa padrone ma nemmeno semplice schiavo o servo. Egli non può regolarsi a suo piacere; d'altra parte non gli vengono prescritti dei doveri nominativamente, uno per uno, cosicché gli basti adempiere i medesimi alla lettera. Gli sono affidati dei beni. Ora egli deve aprire gli occhi e riflettere sulle responsabilità che da questi beni gli derivano. Deve disporre e agire attentamente, di propria iniziativa, secondo le circostanze» (Kl. Tillmann).
    Queste parabole ci permettono di scorgere il carattere progettuale e responsabile dell'impegno morale del cristiano.
    La responsabilità morale è anzitutto una realtà oggettiva dotata di una sua esistenza anteriore a- e indipendente dalla mia consapevolezza e dalla mia ratifica: esiste dentro le cose; se sono responsabile non è prima di tutto nei confronti di un legislatore o di un giudice, ma nei confronti della realtà, cioè di me stesso, degli altri e del mondo, che vengono più o meno pesantemente influenzati dalle mie decisioni.
    Essere responsabili oggettivamente non vuol dire dover rispondere a qualcuno, ma creare, con le proprie scelte, un futuro per sé o per altri, rendere più felici o più infelici altre persone, creare valori o disvalori, dare vita o morte.
    Quella dell'uomo è una libertà responsabile perché, una volta che si è giocata nella decisione, rimane legata alle conseguenze irreversibili di questa decisione. Nessuno potrà mai più fare che questa decisione non sia stata.
    È questo contesto di realtà non manipolabile a piacere che fa responsabile la libertà.
    Ma esiste anche una responsabilità morale soggettiva, costituita dalla trasparenza e dalla consapevolezza delle conseguenze che le proprie azioni hanno sugli altri e dalla intenzionale accettazione morale dei doveri e dei compiti che questa consapevolezza comporta, accettazione che carica le scelte personali del loro dovuto spessore di serietà etica.
    Il senso di responsabilità è costituito dalla sollecitudine per il destino degli altri a noi affidati perché da noi dipendente.
    Il senso di responsabilità è una qualità etica tipica dell'adulto e dell'adulto riuscito.
    L'ingranaggio complessissimo e indecifrabile della società tecnocratica oscura la trasparenza dei legami di solidarietà oggettiva che legano tutti i membri della società.
    Di qui l'esplosione dei comportamenti individualistici, anarchici, corporativi, tanto più acuti quanto più la crisi economica o politica minaccia la sopravvivenza stessa della società. Ognuno, individuo o gruppo, si illude di salvarsi da solo, a spese di tutti gli altri.
    Questo, proprio in un momento in cui i vincoli di solidarietà oggettiva non sono mai stati così forti e universali, in un mondo che diventa sempre più piccolo e sempre più assediato dagli stessi problemi di carattere globale.
    Per quanto riguarda i giovani, la loro crisi di identità, e di conseguenza la loro difficoltà ad accedere a livelli maturi di responsabilità sociale, raggiungono punte impressionanti soprattutto nei paesi del benessere facile.
    Ai giovani si chiede sempre di meno in termini di prestazione, di responsabilità, di sacrifici, ma si offre sempre di meno in termini di partecipazione, importanza sociale, accesso a ruoli significativi nella società.
    Vorrei ricordare, a titolo di esempio, quanto era diversa a questo riguardo la situazione in un passato anche abbastanza recente. Si pensi a cosa poteva significare sul piano psicologico e dell'educazione alla responsabilità, per il giovanissimo apprendista di qualche decennio fa, il sapere di contribuire col suo lavoro al mantenimento della sua famiglia e alla creazione di utilità sociale percepibile.
    I giovani sono soggetti a una specie di artificioso prolungamento dell'adolescenza che ritarda il processo di maturazione e ne rende più problematici gli esiti.
    Questo non deve naturalmente condurci ad auspicare un impossibile ritorno al passato, all'assedio della scarsità, al lavoro precoce, allo sfruttamento e all'arretratezza culturale della gioventù.
    L'apprendistato della responsabilità attraverso una iniziazione tempestiva al lavoro socialmente utile, opportunamente graduata, educativamente programmata, e accompagnata dall'orientamento e dalla sollecitudine dell'adulto, mantiene una efficacia educativa insostituibile. Ma una trasparenza immediata dei legami di solidarietà oggettiva, in una società complessa come quella industriale avanzata, non può più essere realizzata soddisfacentemente da nessuna esperienza educativa isolata, per quanto privilegiata.
    Di qui la necessità che tale trasparenza sia comunque favorita e mediata dall'informazione: essa fa appello alla ragione e alla consapevolezza; mettendo in luce, ad esempio, i legami, sotterranei ma reali, tra le condizioni di privilegio di cui i giovani dei paesi ricchi usufruiscono passivamente e il sottosviluppo di interi popoli, essa è in grado di colpevolizzare adeguatamente i comportamenti di difesa corporativa, di assenteismo sociale, di individualismo e di consumismo che sono così spontanei alla cultura giovanile, ma anche così sottilmente solidali con le storture della società, che questa cultura stereotipicamente ma sterilmente denuncia.

    RESPONSABILI VERSO LE GENERAZIONI FUTURE

    La responsabilità morale del credente non riguarda soltanto i suoi fratelli uomini che vivono nel suo stesso presente storico; essa comprende ormai tutti gli uomini che abiteranno il nostro pianeta nel futuro più o meno lontano. Quel futuro, infatti, dipende in maniera decisiva e irreversibile dal nostro comportamento nel presente.
    Questa responsabilità riguarda soprattutto, ma non esclusivamente, il problema dell'ambiente o problema ecologico.
    Il tipo di sviluppo economico fin qui perseguito dai paesi industriali avanzati (fra i quali si pone indubbiamente il nostro) rischia di lasciare alle generazioni che ci seguiranno un mondo non più vivibile.
    Lo spreco delle risorse limitate e non rinnovabili del pianeta, l'accumulo progressivo e, in molti casi, irreversibile dell'inquinamento e la degradazione dei delicati ecosistemi della vita sulla terra hanno già alterato in modo grave certi aspetti irrinunciabili della «qualità della vita». Ma la cumulazione dei loro effetti potebbe portare a catastrofi universali di portata imprevedibile.
    L'unica via di uscita sembrerebbe allora costituita dalla conversione a un modello di sviluppo diverso, centrato sull'uomo invece che sulle cose.
    Ma la conversione a un simile modello alternativo presuppone una nuova concezione etica dell'uomo e del suo rapporto con gli altri uomini, con le generazioni future e con la stessa natura infraumana.
    Una simile conversione potrà aver luogo soltanto se l'umanità saprà trovare motivazioni adeguate, capaci di fare quanto finora la sola paura della catastrofe non è riuscita a fare.
    Per poter affrontare le inevitabili rinunce richieste da questa difficile conversione, l'umanità avrà bisogno di una speranza che le permetta di sentire che vale la pena di impegnarsi per assicurare la sopravvivenza dell'uomo sulla terra e per migliorare la qualità, anche morale, della convivenza umana.
    Nella sua fede, il credente può trovare per sé e offrire agli altri una simile motivazione e una simile speranza.

    LA GIUSTIZIA E IL DIRITTO

    La sfida dell'azione pone al credente anche il problema di che cosa sia giusto e di che cosa sia ingiusto nel suo rapporto con gli altri e con la società. L'idea di giustizia è correlativa a quella di diritto: la giustizia si commisura sui diritti delle singole persone e ne impone il rispetto incondizionato.
    Giustizia e diritto sono concetti dai contenuti intuitivi.
    Oggi la vita sociale a ogni livello è fondata sulla convinzione che esistano diritti universali, cioè che ogni uomo, per il solo fatto di essere uomo, meriti certe forme almeno minimali di riconoscimento, aiuto e tutela, e che a questi diritti corrispondano precisi doveri da parte di altre persone. Una simile convinzione, così vicina all'immagine cristiana dell'uomo, è universalmente riconosciuta e condivisa nella nostra cultura, soprattutto dopo che l'ONU ha solennemente proclamato un elenco di tali diritti universali.
    È un'idea intimamente connessa con quella della dignità della persona umana: è proprio in forza di questa dignità comune a tutti gli uomini che ogni uomo è titolare di un uguale corredo di diritti fondamentali, legati alla sua qualità di persona.
    Ma il ricorso ai concetti di diritto e di giustizia, per quanto intuitivi e perfino scontati essi appaiano, solleva in realtà una complessissima problematica sia giuridica che morale. Tale problematica riguarda tanto la definizione dei diritti di ogni singola persona, quanto la loro composizione, ogni volta che persone diverse abbiano interessi concorrenti e avanzino pretese contrapposte di diritti tra loro incompatibili.
    A quale degli interessi contrapposti spetta il titolo di vero e proprio diritto? Quale di questi interessi deve invece essere sacrificato a favore dell'altro?
    Diritti in senso proprio infatti sono quegli interessi delle persone o delle istituzioni che possono essere perseguiti senza ledere altri interessi eventualmente contrapposti e giuridicamente o moralmente prevalenti: i miei diritti incontrano sempre un limite nei diritti degli altri e cessano di essere tali quando diventano incompatibili con diritti prevalenti di altri: questo limite entra nella definizione stessa di diritto. Nessun diritto è del tutto illimitato.
    A decidere che cosa sia giusto e che cosa non lo sia in molte situazioni è la comunità civile: le leggi dello stato decidono tra le pretese concorrenti conferendo ad alcune di essere il carattere di diritto e negandolo ad altre.
    Ma la legge non opera questa discriminazione in modo del tutto arbitrario: essa lo fa applicando, se pur con qualche inevitabile margine di arbitrarietà, alcuni principi generali, ritenuti vincolanti all'interno di una certa cultura e chiamati appunto «principi di giustizia».
    Questo significa che la legge non è criterio ultimo e autonomo di giustizia: essa quindi può a sua volta essere giudicata ingiusta dalla coscienza comune, in base appunto a questi principi che si impongono allo stesso legislatore.
    Del resto, per quanto continuamente aggiornate e adeguate alla complessità e mutabilità della situazione, le leggi hanno sempre bisogno di essere interpretate e applicate. Nell'applicare le leggi, dove esse siano lacunose o generiche, nel surrogarle dove esse manchino, o nel derogarvi dove esse siano francamente ingiuste, al singolo cittadino o alle istituzioni sociali è chiesto di ispirarsi appunto ai principi della giustizia.
    Anche al credente è chiesto spesso di decidere dove stiano il giusto e l'ingiusto, il diritto e il torto nella complessità e contraddittorietà del vissuto sociale. È un compito facilitato dalle leggi, ma è un com pito che, in ultima istanza, ricade sempre sulla coscienza personale del credente stesso.
    E sarà un compito tanto più difficile, sul piano morale, quanto più tra gli interessi e le pretese che entrano nel conflitto da risolvere ci saranno i suoi stessi interessi e le sue pretese.
    Un primo e decisivo principio di giustizia, al quale ricorrere nell'espletamento di questo compito, è quello che potremmo chiamare, con qualche filosofo moderno, principio di reciprocità, oppure con altri, principio di universalizzabilità.
    Secondo questo principio, è giusto per ogni persona e in ogni situazione ciò che essa riconoscerebbe giusto per qualsiasi altra persona che fosse, sotto ogni aspetto moralmente rilevante, in una situazione uguale alla propria.
    È una regola che chiede di giudicare del giusto e dell'ingiusto mettendosi nei panni di tutti gli interessati, e vedendo le cose dal loro punto di vista.
    Si tratta di una regola in un certo senso formale ma depositaria di una saggezza universale e capace di fungere da criterio di verifica per ogni altra regola di giustizia di carattere particolare e contenutistico.

    LA DIGNITÀ E INTEGRITÀ DELLA PERSONA

    Ma la dignità della persona umana non è soltanto il fondamento ultimo di tutti gli altri valori: la dignità umana non viene soltanto promossa indirettamente e in modo generico, attuando ogni altra forma di bene morale o di valore; la dignità umana può essere promossa e difesa, oppure smentita e violata anche in una maniera più diretta, promuovendo o ledendo proprio ciò che fa la specificità umana dell'uomo.
    La specificità umana dell'uomo, e quindi la vera radice e il nucleo centrale della sua dignità, è anzitutto legata alla sua libertà responsabile, che fa di ogni uomo un essere intrinsecamente «morale»: e questa qualità costitutiva è a sua volta incorporata e specificata, per ogni singola persona, nelle sue convinzioni morali e religiose.
    Questa dignità appartiene a ogni uomo in modo così proprio e inviolabile che nulla, al di fuori delle sue scelte libere e responsabili, può veramente annullarla: il rispetto e la promozione di questa dignità è anzitutto compito e responsabilità di ogni singola persona.
    Ciò non toglie che, all'interno della convivenza umana e dei rapporti di comunicazione interpersonale che essa comporta, ognuno possa influire, se pure in maniera indiretta e imparziale, sulle qualità morali delle altre persone.
    Il valore, direttamente morale, della dignità della persona e l'imperativo di rispettarne incondizionatamente l'integrità si impone con una urgenza tutta particolare: non soltanto con la forza di un imperativo positivo che comanda un impegno di restaurazione, liberazione, guarigione, ma anche con la forza di un imperativo proibente che vieta ogni violenza, umiliazione e manipolazione.
    La dignità della persona quindi non è solo il fondamento di tutti i diritti umani, è essa stessa un diritto e il più importante di tutti: in quanto tale può trovarsi a volte in contrasto con altri diritti o altre attese della persona, ivi compreso il diritto e il desiderio del benessere psicofisico, del successo scolastico o professionale.
    Fondare l'etica del proprio impegno nel mondo anzitutto sulla dignità della persona significa subordinare al rispetto di questa dignità perfino la promozione del suo benessere psicofisico, della qualità della vita, dello sviluppo della personalità in altri aspetti, non direttamente morali, quando i mezzi per ottenere questi risultati comportassero una qualche seria violenza nei confronti dell'integrità e della dignità della persona.
    Così nessun intento, per quanto benefico ad altri livelli, potrà mai giustificare normalmente l'uso consapevole della menzogna, il disporre della persona come di una cosa, l'agire su di essa al di fuori del suo consenso o contro le sue personali convinzioni, soprattutto in campo politico, morale o religioso.


    T e r z a
    p a g i n A


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