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    Tra amore alla vita e croce (cap. 9 di: Una spiritualità per la vita quotidiana)



    9. Tra amore alla vita e croce

    Abbiamo messo la vita al centro del progetto di esistenza cristiana, perché abbiamo ritrovato la vita all'incrocio della disponibile accoglienza dell'esistente e della riscoperta dell'evangelo di Gesù a partire da questa provocazione.
    Due grossi fatti sembrano però mettere in crisi l'amore alla vita. Lo contestano e lo mettono alle corde in modo oggettivo. Sono tanto violentemente provocanti da toglierci il diritto di parlare di vita e di felicità e da controllare accuratamente coloro che continuano a parlarne, per troppa leggerezza.
    Li ricordo.
    Se ci guardiamo d'attorno, ci accorgiamo che siamo in pochi a poter parlare di vita e di felicità. Molti uomini sono stati deprivati di questo diritto, anche a causa del nostro uso egoista e perverso. «Come fare della gioia di vivere un tema spirituale, in un mondo in cui essa è negata - anche nelle sue forme più elementari - a un numero sterminato di uomini' Come trasformare il privilegio di pochi, di noi pochi, in probità e altezza di vocazione, quando quel privilegio non ha il carattere del merito ma della fortuna e, seminai, dello sfruttamento?» (A. Rizzi).
    La seconda obiezione è ancora più radicale. Nel centro dell'esistenza cristiana sta la croce di Gesù. Abbiamo il diritto di sostituire questo riferimento fondamentale con l'amore alla vita e la ricerca di felicità, mentre la croce propone un modello opposto di vita e di felicità? La croce è per la vita; lo è però come morte, ricercata e accolta, perché «il chicco di frumento ha la vita solo quando la perde totalmente» (Gv 12,23).
    Molti cristiani hanno vissuto così la loro esistenza. La croce di Gesù è stata sperimentata come il luogo, unico e definitivo, dove è possibile recuperare alla pienezza di vita una vita consegnata volontariamente alla morte.

    1. I PROBLEMI E LE PROSPETTIVE

    Su queste obiezioni la nostra ricerca si è fatta pensosa. Avevamo l'impressione di trovarci ad un bivio. La scelta di un'alternativa ci allontanava progressivamente dall'altra.
    Sentivamo però di non poter restare prigionieri di una visione così rigida.
    Ai primi passi della nostra ricerca non avevamo ancora motivazioni sufficienti per giustificare questa decisione. Ci sembrava un'intuizione importante; e nulla più.
    Senza l'accoglienza gioiosa della croce di Gesù, la nostra esistenza credente e il progetto di spiritualità restavano sbilanciati verso le logiche insidiose della presunzione e dell'autosufficienza.
    Denigrando troppo frettolosamente l'amore alla vita, ci sentivamo un po' dei traditori: di noi stessi, dei tanti amici in trepida attesa di «buone notizie» e del Signore Gesù, per tutte le cose che avevamo scoperto del suo Vangelo.
    E così l'alternativa l'abbiamo aperta molto più a monte: tra un procedimento frettoloso, che avanza a suon di battute e inventa contrasti dove non ce ne sono, e la fatica di pensare, cercando procedure nuove.
    Abbiamo meditato a lungo sul tema. Un po' alla volta abbiamo intravisto la possibilità di problematizzare le conclusioni troppo sicure. Da una parte dovevamo comprendere bene il significato cristiano della croce di Gesù. Troppi abusi, teologici e antropologici, si sono accumulati lungo i secoli su questo evento. Non possiamo di certo ripetere passivamente quello che risuona nei modelli tradizionali della spiritualità cristiana.
    Dall'altra, sul versante più specifico della spiritualità, si trattava di verificare fino a che punto un certo richiamo ascetico alla «vita dura» e alla penitenza ricercata corrisponda veramente alle esigenze irrinunciabili della croce di Gesù e se, di conseguenza, la «vita dura» vada considerata l'unica strada percorribile per restare uomini spirituali.
    Stretti da questi problemi, abbiamo scatenato un gioco ermeneutico. Caricando di sospetto le formulazioni offerte come conclusive, abbiamo cercato di ricomprendere «vita» e «croce» in un confronto reciproco. L'esito è stato insperato e affascinante: un modo, maturo e decantato, di scoprire l'amore alla vita.
    Dalla parte della vita siamo riandati al progetto di spiritualità.
    L'amore alla vita richiede il coraggio di consegnarsi alla logica imprevedibile della croce. Nasce di conseguenza una spiritualità della «vita dura», che anticipa nel ritmo quotidiano le grosse esigenze di una vita posseduta solo se affidata al Dio di Gesù?
    Anche a questo livello il confronto ermeneutico tra fede e cultura ci ha permesso di ritrovare il diritto alla gioia di vivere e alla festa. Il rapporto tra vita e croce nella prospettiva del Regno sostiene e incoraggia una svolta epocale nella esperienza spirituale dei cristiani. Ci impegna a restare gente di questo tempo, proprio mentre assumiamo seriamente la croce di Gesù.
    La meditazione sulla croce ha segnato così una tappa fondamentale del nostro itinerario di spiritualità.
    Ho anticipato le conclusioni, per legare meglio problemi e prospettive. Ora, con calma, riprendo i singoli temi.

    2. RIPENSIAMO VITA E CROCE

    Sappiamo che il modello ufficiale di esistenza cristiana, quello che ci è stato affidato dai nostri educatori, è spinto verso una riaffermazione della croce in termini radicali: ripensa la vita e la felicità da questo luogo ermeneutico.
    In questo modello la croce è il dato certo, quello che produce esigenze irrinunciabili per una esistenza spirituale. Risuona lontana da ogni desiderio di felicità. La controlla con attenzione puntigliosa e la riscrive in un progetto che riserva ogni esperienza di felicità ai tempi futuri. La vita, quella di tutti i giorni, è solo «una valle di lacrime». Solo trasfigurata nella croce, diventa vivibile.
    Possiamo però scegliere la prospettiva opposta: accogliere, in un'unica grande scommessa, croce e vita e ripensare la croce dalla parte della vita.

    2.1. Ripensiamo la croce dalla passione per la vita

    Così abbiamo fatto nella nostra ricerca sulla spiritualità giovanile.
    Una intuizione ha sostenuto la nostra proposta: Gesù di Nazaret è la scommessa di Dio sulla vita, il segno sconvolgente della sua passione. La sua croce non esprime la sconfessione del suo progetto.
    L'evento centrale dell'esistenza di Gesù è sicuramente il gesto più grande (anche se un po' misterioso, come sono tutti i gesti grandi) di amore alla vita. Gesù non muore sulla croce per denigrare l'amore alla vita, come purtroppo un certo modello di spiritualità tentava di far credere. Gesù muore per testimoniare la serietà con la quale va vissuta, la radicalità con cui va assunto l'impegno di promuovere e di rispettare la vita di ogni uomo.
    La croce di Gesù è la testimonianza dell'amore alla vita trascinato fmo alle estreme conseguenze.
    Tutto questo abbiamo scoperto, meditando il Vangelo dalla parte della vita.
    Basta rileggere la parabola dei vigniaioli ribelli. Gesù stesso l'ha raccontata per dare le sue credenziali (Lc 20,9-19).
    Il padrone della vigna, quando costata che gli hanno malmenato servi e soldati, «scommette» che le cose cambieranno perché manda suo figlio a trattare con i dipendenti in sciopero.
    Nel figlio, consegnato inesorabilmente alla morte, il padrone della vigna scommette per la vita contro la morte, perché dichiara la vittoria sicura della vita sulla morte. Lotta per la vita perché è certo della sua vittoria, nella vita data per amore fino alla morte.

    2.2. L'amore alla vita come «possesso» della vita

    Riscoperta la croce dalla parte della vita, possiamo comprendere meglio cosa comporta un autentico «amore alla vita».
    Amore alla vita è un'espressione esigente e impegnante.
    Può indicare correttamente la qualità dell'esistenza cristiana solo quando si esprime come «possesso» della vita.
    L'amore alla vita è un fatto spontaneo e naturale, quasi biologico. Il possesso della vita esige invece un movimento personale di riappropriazione riflessa, libera e responsabile. In essa entrano in gioco soprattutto gli atteggiamenti, motivati e consapevoli, del soggetto e le intenzioni che generano i suoi bisogni e i suoi desideri.
    L'uomo che vuole possedere la sua vita è posto di fronte ad una alternativa radicale: può farsi volontà di se stesso, impennandosi in una identità di autoaffermazione, oppure può accogliersi voluto dall'altro, riconoscendosi in una identità recettiva. Il bivio è quello tragico che ogni giorno si apre sulla nostra libertà: il grido presuntuoso dell'autosufficienza e della conquista o le mani alzate nell'invocazione e nell'accoglienza.
    La croce ci rivela questa esigenza di verità antropologica e la trascina fmo alle soglie del mistero di Dio.
    Possiamo «possedere» la nostra vita, assicurandoci vita e felicità, solo se accettiamo di consegnare a Dio questo nostro desiderio.
    Di lui possiamo fidarci incondizionatamente: il nostro è un Dio fedele. Ma è un Dio imprevedibile e misterioso. Non possiamo presumere di rinchiuderlo dentro i nostri modelli, né di catturarlo negli schemi delle nostre logiche. Non possiamo spiegargli di quale vita abbiamo desiderio; né gli possiamo raccomandare i tempi della nostra felicità.
    Confrontato con la sua fame di vita e di felicità, l'uomo si ritrova, povero e fiducioso, nelle mani di Dio.
    Vita e felicità sono tanto dono di Dio che ci raggiungono nelle condizioni più disperate, quando sembra che ormai non ci sia più nulla da fare. Questa impotenza è la nostra quotidiana croce.
    La croce che ha portato Gesù, in una solidarietà totale con la debolezza dell'uomo.
    La croce che tanti nostri fratelli sono costretti a trascinare, perché ad altri uomini torna più comodo che le cose procedano così, nell'oppressione, nello sfruttamento, nell'emarginazione, nella feroce privazione di ogni possibilità di vivere e di sperare.
    In tutte queste croci, in modo sovrano, Dio ci restituisce vita e felicità.
    Nella rivelazione della forza della croce in ordine alla vita, Dio manifesta l'uomo a se stesso. Gli rivela anche il senso profondo di quegli eventi, di cui la croce è il caso estremo, pieni di tanto sapore di assurdità che qualcuno ha persino tentato di utilizzare la croce di Gesù per far accedere all'umano ciò che tutti gli uomini vivono spontaneamente come disumano.

    2.3. Per «possedere» la propria vita

    L'amore alla vita non ci allontana dalla croce di Gesù. Al contrario, ce la fa riscoprire nella verità; e ci fa riconquistare, ancora nella verità, la nostra stessa vita.
    Per questo, l'atteggiamento fondamentale del cristiano di fronte alla vita è la decisione, motivata e matura, di «voler vivere». Il gesto, fragile e rischioso, che porta ad accogliere la propria vita, è una decisione, debole e forte nello stesso tempo, giocata nell'avventura quotidiana della personale esistenza e tutta orientata verso un progetto già dato, che supera, giudica e orienta gli incerti passi della vita quotidiana.
    Voler vivere è consegnarsi con piena disponibilità ad un mistero che ci sovrasta, accettando una ragione e una logica che ci sfugge, perché è dentro la vita stessa. La vita infatti, accolta e vissuta, è dimensione che si protende in avanti, è abbozzo di un progetto che chiede di perfezionarsi, attuandosi.
    La vita viene sperimentata come dono e come impegno: il «sì alla vita» celebra il dono e assume responsabilmente l'impegno.
    Chi si riappropria della personale esistenza e si impegna in processi promozionali, si scontra inesorabilmente con l'esperienza del limite che tutta l'attraversa. Per pronunciare un sì autentico alla propria vita è importante riconoscere la ragione e il significato di questa esperienza dolorosa.
    Molti condizionamenti sono legati alla radice stessa della nostra esistenza. Altri dipendono dalla malvagità dell'uomo o da strutture ingiuste e oppressive.
    Esiste però un condizionamento più profondo che attraversa inesorabilmente ogni esistenza. Esso è come il limite costitutivo dell'uomo, l'esito invalicabile della vita stessa. La sua esperienza, riflessa e consapevole, la chiamo «esperienza della finitudine». Riconquistandola, siamo restituiti a noi stessi.
    La vita dell'uomo non è come una freccia, che giunge sicura al bersaglio se è stata lanciata correttamente. O, al contrario, è impossibilitata a raggiungerlo, se è partita in modo inadeguato. Avvertiamo invece di procedere a entusiasmi e a incertezze, in un progetto sognato e mai realizzato. Ci scopriamo capaci di perseguire una qualità diversa di vita, anche quando ci costatiamo prigionieri dei nostri tradimenti. Sentiamo di doverci giocare quotidianamente tra morte e vita, proprio perché appassionati di vita.
    Questa costatazione, fatta esperienza, è la verità dell'uomo: l'esperienza della povertà, dell'inquietudine, della fragilità, di un procedere incerto a tradimenti e a ritorni. E, in una parola, l'esperienza della finitudine.
    Il confronto con la propria finitudine può aprire ad esiti diversi: la disperazione, la rassegnazione, l'autosufficienza, il disimpegno. L'esperienza della finitudine viene vissuta nella sua autenticità quando è la proiezione verso l'ulteriore da sé, in una intensa domanda di altre certezze, che si protende oltre il confine angusto della propria storia, verso l'accoglienza di un dono insperato e profondamente sognato.
    La finitudine porta l'amore alla vita ad una reale esperienza di trascendenza: riconsegna progressiva della propria invocazione ad un Dio personale, riscoperto come la ragione decisiva della propria vita in un profondo atteggiamento di creaturalità.
    Così la vita è finalmente e pienamente «posseduta».

    3. UNA SPIRITUALITÀ DELLA GIOIA DI VIVERE

    Abbiamo ripensato vita e croce in un confronto reciproco e disponibile. E così abbiamo ritrovato il loro significato più autentico.
    L'amore alla vita non è il gioco egoista di chi arraffa tutto per sé, facendosi largo a gomitate nelle mischia dell'esistenza. Amore alla vita è il suo possesso, nella decisione, rischiosa ed esaltante, di consegnare al Dio di Gesù una fame di vita e di felicità mai spenta.
    La croce non è il rifiuto della vita, come un uso disaccorto e ingenuo aveva tentato di far credere. La croce è il gesto massimo di amore alla vita, espresso da Gesù. Nella croce egli ha realizzato con i fatti quello che aveva proclamato a parole: nessuno ama di più la sua vita di colui che la dona perché tutti abbiano la vita, quella vera e completa.
    Il problema non è però ancora risolte.. Riscoperta in reciproco confronto vita e croce, resta la domanda: un progetto di spiritualità quale sensibilità è chiamato a privilegiare?
    Ci impressiona l'esistenza degli antichi monaci, rintanati in una grotta del deserto per incontrare meglio il loro Signore. Forse avranno raggiunto la gioia di vivere. La strada percorsa, però, è innegabilmente quella di una vita dura.
    Le storie di vita di tanti credenti (quelli che tutti ricordano e quelli di cui non si pronuncia più il nome, perché non sono entrati negli elenchi ufficiali della Chiesa) sono piene di inviti alla vita dura.
    Ci sono però dei santi un po' più simpatici, almeno dal nostro punto di vista. Hanno raccomandato la gioia e la festa. Qualcuno ha persino conte- stato l'abitudine di inventarsi penitenze programmate, ricordando che la «grande penitenza» è il compimento del proprio impegno quotidiano.

    3.1. Una svolta epocale nella storia della spiritualità cristiana

    C'è una spiritualità della vita dura e una spiritualità della gioia di vivere.
    Nella storia personale e collettiva della spiritualità cristiana queste due modalità sono state sempre presenti, con variazioni di accento e di intensità.
    Certamente il primo modello e il secondo rappresentano due modalità di esistere nello Spirito. Tutte e due possono esprimere egualmente bene la sostanza del possesso cristiano della vita. Dicono, in positivo, l'adesione, personale piena e coraggiosa, al Dio della vita e, in negativo, ricordano la rinuncia, seria e responsabile, ad ogni tentazione di farsene signori.
    La diversità di realizzazione è legata a fattori differenti. Molto dipende dalla sensibilità e dalla cultura personale.
    L'orizzonte antropologico collettivo governa però la prevalenza di un aspetto sull'altro.
    Quello che ha dominato per tanto tempo gli orientamenti di vita e l'organizzazione dei valori del mondo cristiano era abbastanza pessimista.
    Il cristiano che vede la sua presenza nel mondo da una prospettiva dualista, diventa, per forza di cose, un pessimista irriducibile. Se da una parte c'è il mondo di Dio e dall'altra quello dell'uomo, ci vuol poco a concludere con giudizi poco benevoli verso la vita quotidiana, la felicità, la gioia di vivere.
    L'Incarnazione ci ha aiutato a superare questa distinzione. Ha restituito all'uomo la consapevolezza di una solidarietà insperata con il suo Dio. Per questo sollecita ad una attenzione accogliente e critica del nostro tempo e della nostra vita.
    Siamo in un tempo affamato di vita e di felicità. L'abbiamo ritrovato questo profondo, insaziato desiderio, perché ci troviamo sbattuti tra paure terribili e perché abbiamo ripreso nelle nostre mani responsabili la nostra esistenza.
    Con riscoperta fierezza ci possiamo sentire ancora nel giro dei grandi uomini spirituali di tutti i tempi, anche se utilizziamo modelli culturali diversi dai loro.
    Possiamo coltivare una spiritualità della gioia di vivere come grande svolta epocale nella storia della spiritualità cristiana.

    3.2. La gioia di vivere anche nella vita dura

    Sappiamo di «possedere» la nostra vita solo nella decisione di consegnarla al Signore della vita. Ma questa scelta non ci autorizza a identificare spiritualità con fatica di vivere. Non ci trascina a considerare come inseparabili dalla vita spirituale quelle esigenze che riproducono i modelli teologici e antropologici della ascetica tradizionale. Possiamo invece mettere la festa al centro, come espressione autentica e credente dell'amore alla vita.
    Festa e Regno di Dio sono come le due facce della stessa medaglia, come amore alla vita e croce sono le due dimensioni della stessa passione. Il Regno di Dio va costruito con un impegno serio e progressivo: la vita non è ancora esplosa in tutta la sua pienezza e non è ancora vita in tutti e per tutti. Questa fatica è vissuta però nella certezza che il Regno è già in mezzo a noi, come un piccolo seme che cresce in albero grande.
    La festa della vita è per il cristiano la confessione della potenza di Dio che opera in Gesù Cristo nella storia personale e collettiva. Possiamo testimoniare che Dio ha fatto già nuove tutte le cose, in Gesù consegnato alla croce perché la vita trionfi, solo se riconosciamo i segni di questa immensa novità, anche nel groviglio dei segni di morte.
    La festa è così lo straordinario evangelo della vittoria definitiva della vita sulla morte, anche quando ci sentiamo immersi nel greve sapore della morte quotidiana.
    La croce non rattrista la nostra gioia di vivere, ma colloca la festa della vita nella sua giusta dimensione. Siamo gente di festa, viviamo una spiritualità che fa largo spazio alla festa, perché crediamo al Regno di Dio già presente nelle trame della nostra esistenza. Non possiamo però consumare la nostra festa nel disimpegno e nella alienazione, perché viviamo profondamente appassionati della causa di Gesù. Per questo la nostra festa è una esperienza di profonda solidarietà con tutti gli uomini ed è una vocazione ad espandere la vita, perché tutti siano restituiti alla gioia di far festa. Nella nostra festa hanno un posto privilegiato coloro che sono normalmente esclusi dalla gioia di vivere. I pochi fortunati che hanno assaporato la gioia della vita, vivono perciò la festa come responsabilità per eliminare progressivamente ogni esclusione.
    Troppi uomini seri hanno rimproverato i cristiani di poca speranza. Ci hanno contestato proprio nel centro della nostra ragione d'essere: la pretesa di essere la gente della speranza-oltre-ogni-speranza. Una spiritualità della festa assolve un dovere di restituzione: a piccoli frammenti nella vita quotidiana, come esperienza anticipatoria nella festa dei sacramenti, i segni del futuro dentro i segni della necessità, tutti protesi verso la festa della casa del Padre, dove ogni lacrima sarà finalmente asciugata.

    3.3. La vita dura anche nella festa

    Vivere la festa nel Regno e per il Regno comporta una intensa disponibilità a soffrire. È una conseguenza prevista e inevitabile, perché il Regno di Dio assicura il trionfo della vita solo nella croce: nella vita data alla morte per amore.
    La sofferenza per il Regno non è certo una sofferenza da programmare, in alcuni momenti della giornata o in alcuni tempi dell'anno, quasi come compenso al ritmo festoso della quotidianità.
    La vita del cristiano possiede una irrinunciabile e costitutiva dimensione di festa. La croce riaffiora spontanea: piantata al centro della festa della vita restituisce alla verità ogni festa cristiana. Queste riflessioni vanno riscritte in modo concreto. Per questo non bastano le espressioni elaborate di un libro.
    Quando ci siamo messi a confronto con questo evento fondamentale, abbiamo incominciato a parlare di festa e di sofferenza, intrecciando le storie della nostra esistenza.
    Passo dopo passo, ci siamo ritrovati nel cuore dell'esistenza credente: l'esperienza della finitudine che si fa invocazione e l'esperienza di una accoglienza che restituisce l'invocazione come rinnovata ragione di gioia.
    La strada della festa e della croce ci ha riportati alla verità di noi stessi e alla passione per la causa di Gesù.
    Delle cose che ci siamo detti trascrivo qualche battuta: un dono tra amici, per ritrovare assieme la gioia di vivere e la capacità di sperare.
    Abbiamo chiamato per nome i momenti tristi che attraversano la nostra vita: dolore, sofferenza, abbandono, malattia, fallimento, morte... Sono il segno - che brucia ogni giorno sulla nostra esperienza - che la strada verso la pienezza di vita è ancora lunga e_ la mèta è ancora lontana. E sono, nello stesso tempo, come frecce che indicano lo stato provvisorio della nostra esistenza. Ci riportano inesorabilmente al contatto con la nostra finitudine.
    Soffriamo e moriamo perché siamo gente non ancora arrivata a casa. Ci pensa la vita stessa a ricordarcelo quando, ammagliati dalla casa che abbiamo costruito con le nostre mani, ci dimentichiamo che è solo una tenda, perché la nostra vera casa è più avanti, nell'oltre radioso della casa del Padre.
    Qualche volta ce lo ricorda impietosamente l'esistenza stessa.
    Qualche volta decidiamo noi stessi di farne esperienza. E così ci stacchiamo un po' dalle cose belle che riempiono la nostra esistenza. Non lo facciamo per disprezzo e neppure per quella strana concezione di «mortificazione», che vorrebbe anticipare nel gioco quell'evento triste della cui verità abbiamo una paura terribile. Lo facciamo per scelta motivata e riflessa: la serietà e la consistenza dei «beni penultimi» non può farci dimenticare la loro provvisorietà e relatività rispetto a quelli definitivi.
    Smettiamo, per qualche momento, di goderli, per riconoscerci pellegrini in cammino verso esperienze più grandi.
    La vera «mortificazione» del cristiano è la capacità di entrare dentro le cose, in una continua ascesi del profondo, per cogliere la loro dimensione di verità. Una spiritualità della sacramentalità diffusa ha bisogno di veri «monaci delle cose»: gente capace di traforare il quotidiano, superando il suo fascino e la sua opacità. Spesso ci impegniamo a lunghi e faticosi esercizi al rallentatore, per diventare veramente capaci di una piena «contemplazione del quotidiano».
    La vita dura segna il cristiano che vuole lottare, con Gesù, per il Regno di Dio. Ci sono sacche di resistenza, dentro e fuori di noi, da controllare e sconfiggere. E questo richiede il coraggio della morte. Solo chi trascina il suo amore alla vita fino alla croce, può costruire veramente vita piena e completa, per sé e per gli altri. Gesù davvero insegna.
    L'atto supremo della vita dura del cristiano è determinato dalla capacità di perdonare, fino a costruire riconciliazione dove prima c'era lotta e divisione. Il perdono non è il gesto sciocco di chi chiude gli occhi di fronte al male per il timore di restarne troppo coinvolto o quello pericoloso di chi giustifica tutto, per rimandare la resa dei conti ai tempi che verranno. Il perdono del cristiano è invece un gesto di profonda lucidità, consapevole che chi fa il male è meno uomo di chi lo subisce: un gesto che vuole spezzare l'incantesimo del male, rompendone la logica ferrea. Il cristiano perdona per inchiodare il malvagio al suo peccato, spalancandogli le braccia nell'accoglienza. Il perdono è l'avventura della croce di Gesù: il gesto, lucido e coraggioso, che denuncia il male, lotta per il suo superamento, riconoscendo nella speranza che la croce è vittoria sicura della vita sulla morte.

    4. L'ALTERNATIVA, QUELLA VERA

    Meditando assieme vita e croce, abbiamo ritrovato il significato più autentico di una alternativa che aveva inquietato la prima, facile conclusione della nostra ricerca.
    L'alternativa non è tra amore alla vita e croce. Vita e croce vanno ricomprese bene nell'esperienza e nel messaggio di Gesù. Abbiamo capito così che è proprio un imperdonabile tradimento della sua causa la proposta di scegliere tra l'una e l'altra.
    L'alternativa, quella vera, si gioca sulla condizione per il possesso della vita.
    Nella cultura che ogni giorno respiriamo, il possesso contempla la necessità di conquistare, di arraffare, di tenere ben strette le cose. In questa logica, possiede la vita chi se la tiene stretta, come un tesoro prezioso. Magari la nasconde sotto terra, per paura dei ladri, come ha fatto il servo sciocco della parabola dei talenti (Mt 25,14-28).
    Nel progetto di Gesù, possiede invece la vita chi la sa donare, chi la butta per amore: come il chicco di grano che diventa vivo solo quando muore (Gv 12,24; cf anche Mt 16,25).
    Perdere la vita così è amore alla vita. Non è rinunciare alla vita, disprezzarla, fuggire la mischia delle cose alla ricerca di uno spazio sicuro e protetto. L'esito è il possesso pieno e assoluto. Perdere diventa la condizione per assicurare più intensamente il possesso.
    C'è proprio un modo diverso di essere uomini e, a pensarci bene, di essere cristiani. Davvero Gesù ha una logica tutta sua, sconvolgente ed esaltante. Lo trattiamo proprio male, quando lo riduciamo ad un vecchio saggio, che traspira perbenismo da tutti i pori, o quando lo facciamo diventare il triste cantore della morte ricercata e programmata.


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