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    Diventare uomini e donne di speranza (cap. 6 di: L'avventura di diventare cristiani adulti)


    Riccardo Tonelli, L'AVVENTURA DI DIVENTARE CRISTIANI ADULTI, Elledici 1994



    Nella nostra cultura tanti elementi aiutano a vivere più intensamente l'esperienza cristiana. Ci hanno persino fatto scoprire dimensioni che avevamo messo tra parentesi o che, magari, non avevamo mai considerato con la dovuta attenzione.
    Molti altri però ci costringono a verifiche e a prese di posizione forti, con lo stesso coraggio che ha portato i cristiani della prima ora persino al martirio.
    Lo sappiamo e lo sperimentiamo tutti i giorni: per diventare e rimanere cristiani, in questo nostro tempo, non basta l'entusiasmo di chi si lancia per un'avventura affascinante. Neppure possiamo sperare nel sostegno di un contesto favorevole, come poteva apparire quello tipico di un mondo tutto intriso di esperienza religiosa. Ci vuole coraggio e capacità di rischio personale, in una decisione da maturare a lungo, nella fatica di lasciarsi confrontare dalle cose che contano veramente.

    1. L'ESPERIENZA CRISTIANA SI MISURA SUI PROBLEMI VERI

    Dice un grande teologo: «Una religione che sia in grado di proferire una parola sua propria, insostituibile, deve essere una religione riferita al mondo, una religione che partendo dalla fede nel Dio liberatore si rivolge agli esseri umani e alla loro umanità dal contesto sociale e storico in cui essi vivono» (E. Schillebeeckx).
    Indicazioni come questa sono una grossa provocazione per noi cristiani. Tradotte in parole più semplici e concrete, vogliono dire: l'esperienza religiosa può diventare una voce significativa per le persone di oggi solo se ha qualcosa da dire sulle dimensioni più importanti della vita quotidiana. Quando invece essa si riferisce solo a qualche frammento dell'esistenza o dimentica i problemi inquietanti che l'attraversano, essa si preclude ogni diritto di ascolto e di incidenza. Diventa una delle tante voci, di cui è pieno il mercato, capace di conquistare un po' di audience, solo spaventando gli ingenui.
    Ci vuol poco a constatare quanto questa situazione sia purtroppo vera e diffusa. Molta gente non prende sul serio quello che noi cristiani diciamo. Spesso fanno così non perché sono in disaccordo con le cose che proponiamo, ma solo perché i nostri discorsi sono fuori dalla loro preoccupazione. Diamo l'impressione di assomigliare a quel bel tipo che raccontava la storia di Pinocchio a qualcuno che stava morendo di fame... lamentandosi magari perché restava un po' distratto.

    1.1. Per scegliere le cose che contano

    Non basta gridare più forte o minacciare più violentemente. La soluzione è un'altra, molto più impegnativa: mettere l'esperienza cristiana a confronto con le cose che contano veramente.
    Purtroppo è facile inventarsi da soli i problemi... per eccesso di zelo, per vendere con maggior foga le risposte già sperimentate, per quella pericolosa abitudine che fa diventare seri i problemi di una fetta ristretta di gente senza accorgersi di quelli gravissimi che attraversano l'esistenza dei più.
    Quali sono le cose che contano veramente? Come possiamo scoprire quando un problema è vero e autentico?
    Per decidere in modo sicuro, il cristiano adulto accetta il confronto con la vita, il suo senso e la sua qualità. In questo confronto opera in un'ottica di intenso realismo, per scoprire dove stiano davvero i problemi comuni a tutti, quelli che investono e attraversano la vita quotidiana di tutti.

    1.2. Un tempo di emergenza sulla vita

    Chi si pone dalla parte della vita quotidiana, con uno sguardo che abbraccia davvero tutte le persone, a partire dai più poveri, arriva presto alla conclusione drammatica che oggi la più grave emergenza è proprio quella sulla vita stessa.
    Per molti diventa impresa impossibile vivere una vita così come il Dio della storia l'ha progettata per gli uomini e le donne che chiama figli suoi.
    Molti hanno superato l'emergenza sulla possibilità della vita. Ma si trovano alla ricerca, disperata o rassegnata, di una qualità che la renda vivibile.
    Su tutti preme l'ombra della morte: quella quotidiana, che ci accompagna come un nemico invisibile e pervasivo, e quella violenta e conclusiva, che sembra bruciare ogni progetto. Non sappiamo più bene dove radicare la nostra speranza.
    In fondo, è proprio la morte la cosa che conta veramente, per ciascuno e per tutti. Le ragioni sono diverse. Le vie di uscita sono molto differenti. Il problema è però davvero comune.
    Con la morte non si può giocare a nascondino. Essa ghermisce ciascuno di noi, senza nessun riguardo né alla collocazione sociale né alla data di nascita né alle responsabilità che possediamo né ai compiti che ancora dobbiamo risolvere.
    Non ci sono spiegazioni capaci di addolcire il terrore che produce. L'atteggiamento più appropriato sembra quello dell'obbedienza: consegnarci con la silente remissività degli animali, quando essa chiama. Eppure l'uomo resiste alla morte. Lotta contro la morte. Cerca una ragione che la possa giustificare e in qualche modo possedere. Anche Gesù ha gridato contro la morte, quando ha dovuto farci personalmente i conti. «Allora Gesù andò con i discepoli in un podere, chiamato Getsemani, e disse loro: "Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare". E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. Disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me". E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!"» (Mt 26,36-40).
    La morte costringe al realismo: la domanda sulla vita resta inchiodata su una piattaforma di verità da cui non può fuggire.
    Sul problema della vita, del suo senso e di quell'insuperabile minaccia alla vita che è la morte, la fede cristiana è chiamata a misurarsi e su esso il cristiano adulto è sollecitato a prendere decisioni coraggiose.

    2. DIRE CON I FATTI LA VITTORIA DELLA VITA SULLA MORTE

    Gesù ci vuole gente che cammina «a testa dritta» anche di fronte alla morte. L'ho ricordato proprio all'inizio del libro.
    In quel contesto sembrava facile e limpido: la morte di cui si parlava era quella degli altri. Ora invece la morte ci riguarda: è la mia e quella dei miei amici. Possiamo dire ancora le stesse cose? Oppure ce le ricordiamo solo per consolarci e per darci un po' di tono?
    Non posso rispondere a suon di ragionamenti. Non convincono chi si trova sprofondato nella paura della morte. Ho bisogno di fatti. Nella lotta tra vita e morte solo i fatti rendono credibili le parole, le verificano o le falsificano senza appello.
    Ho ripreso in mano il Vangelo. «Quando arrivarono in mezzo alla gente, un uomo si avvicinò a Gesù, si mise in ginocchio davanti a lui e disse: "Signore, abbi pietà di mio figlio. È epilettico e quando ha una crisi spesso cade nel fuoco e nell'acqua. L'ho fatto vedere ai tuoi discepoli, ma non sono riusciti a guarirlo" . Allora Gesù rispose: "Gente malvagia e senza fede! Fino a quando dovrò restare con voi? Per quanto tempo dovrò sopportarvi? Portatemi qui il ragazzo" . Gesù minacciò lo spirito maligno: quello uscì dal ragazzo, e da quel momento il ragazzo fu guarito.
    Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù, lo presero in disparte e gli domandarono: "Perché noi non siamo stati capaci di cacciare quello spirito maligno?".
    Gesù rispose: "Perché non avete fede. Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, e il monte si sposterà. Niente sarà impossibile per voi"» (Mt 17,14-20).
    Questa pagina dà da pensare.
    C'è di mezzo la vita: quel povero ragazzo ammalato è come se fosse morto.
    Gesù si irrita con i suoi discepoli perché li vede impotenti e rassegnati di fronte alla morte. Non sopporta la vittoria della morte sulla vita.
    Riconosce che l'impresa non è certo facile. Per questo sollecita la fede: chiede di immergere il problema nel mistero grande di Dio. Qui l'impossibile diventa subito possibile.
    E la vita trionfa.
    Quello che ho raccontato non è un episodio isolato. Il Vangelo è pieno di racconti simili, dove la fede fa diventare possibile l'impossibile.
    La donna cananea crede che Gesù può restituire la salute alla figlia. E la figlia guarisce (Mt 15, 21-28).
    Il centurione romano crede che Gesù può vincere la morte che ormai ha ghermito il servo. E il servo torna alla vita (Mt 8,5-13).
    La peccatrice che gli bagna i piedi con le lacrime e glieli asciuga con i capelli, crede di poter ritrovare la dignità perduta. E Gesù la restituisce alla pienezza dell'amore (Lc 7,36-50).
    Il lebbroso, la donna che soffriva di perdite di sangue, Zaccheo e Pietro dopo il tradimento credono alla vita nel nome di Gesù.
    E tornano tutti, in modo diverso, alla pienezza di vita.
    Gesù non l'ha solo detto e fatto per gli altri. Ha creduto alla vittoria della vita e della libertà, nel nome del Padre, anche quando la morte si è affacciata violenta nella sua esistenza. Come tutti noi, ha sofferto e pianto. Poi ha gridato tutta la sua fede. E ha vinto la morte, definitivamente e per tutti noi.
    L'impossibile è diventato possibile per lui, per tanti amici suoi, per noi, perché ha creduto nella vita e ha costruito, nel piccolo, i segni della grande promessa.
    La storia dell'avventura dell'uomo non è solo piena di guerre, di intrighi, di soprusi e di violenze. Molti uomini coraggiosi hanno creduto nell'impossibile: e l'hanno fatto diventare possibile.
    Molti l'hanno fatto nel nome di Gesù.
    Altri l'hanno compiuto solo sulla grande passione per la vita che ha riempito le loro esistenze. La loro fede è stata grande anche se il riferimento al fondamento che tutto fonda, è rimasto ancora incerto, per mille differenti ragioni.
    Un po' alla volta, quello che sembrava impossibile nella logica corrente diventa davvero esperienza gioiosa e diffusa.

    3. GESÙ DI NAZARET È LA NOSTRA SPERANZA

    Il Vangelo, quello scritto poco dopo la morte di Gesù e quello vissuto dai suoi discepoli, è una grande parola di speranza, forte come la roccia.
    Il cristiano adulto continua ad annunciare la buona notizia della vittoria della vita contro la morte. È lucido davanti alle situazioni di morte, per un appassionato amore alla vita. Lotta per superarle, fino a perdere la propria vita. Pone gesti concreti, anche se piccoli e incerti. Crede intensamente. Per questo agisce, inventa, trasgredisce, spera contro ogni speranza. E non si arrende.
    I nostri gesti però sono sempre poveri e parziali. Anche i più grandi e solenni sono segnati dall'amaro del tradimento. Verrebbe spontaneo consolarsi con il silenzio... per dire solo le parole che corrispondono ai fatti.
    Il silenzio però non costruisce mai speranza, soprattutto in un tempo in cui le parole di disperazione sono gridate senza alcun pudore.
    Possiamo ritrovare la gioia e il coraggio di dire parole più grandi dei gesti che facciamo solo se queste parole non sono le nostre, anche se le pronunciamo noi e le riempiamo delle nostre esperienze. Per questo parliamo della speranza nel nome di Gesù di Nazaret, parola che viene dal silenzio del mistero e ci riporta sempre alla responsabilità di chi tratta con il mistero.
    Gesù di Nazaret è infatti la presenza sconvolgente di Dio nella nostra vita e nella storia. Dice chi siamo, verso dove siamo in cammino, come ci possiamo arrivare, facendoci toccare con mano che tutto questo non è una proposta, ma una esperienza. Ci riporta, di conseguenza, al cuore del conflitto quotidiano tra speranza e disperazione: la domanda sul senso e il fondamento su cui radicare la risposta.
    Certo possiamo rifiutare questa presenza che salva, nella frenesia di un uso suicida della nostra libertà. Ma sta davanti a noi: prima della nostra decisione e del nostro impegno. Noi siamo quello che Dio ci ha costituito in Gesù di Nazaret. Possiamo diventarlo, perché già siamo fatti così per dono.
    La vittoria definitiva della vita sulla morte, uno stile di esistenza da creature nuove, l'esperienza del senso e l'attesa del futuro che sta quotidianamente germinando in noi... il fondamento cioè della speranza cristiana è già un evento consegnato alla nostra libertà e responsabilità. Pronunciando il nome di Gesù, lo riconosciamo e lo celebriamo.

    3.1. Dare le ragioni è «confessare» il mistero

    Va compreso bene in quale rapporto stanno i nostri piccoli e poveri gesti di speranza e il ricordo del fondamento, unico e sicuro, della nostra speranza che è Gesù di Nazaret.
    Non si tratta, come qualche volta si potrebbe immaginare, di fare gesti pensando che abbiano bisogno solo di un supplemento di interpretazione. La prospettiva è molto diversa.
    Cerco di spiegarmi con un esempio.
    Il bacio che due persone si scambiano può avere tanti significati. Si va dal tradimento di Giuda all'indifferenza di certi nostri modelli culturali, dall'espressione di un egoismo che strumentalizza l'altro alla manifestazione di un affetto intenso e duraturo. Quel gesto concreto di significati ne ha però uno solo. Gli altri sono significati possibili solo sul piano ipotetico. Per evitare cattive interpretazioni del gesto, chi lo pone ha la responsabilità di precisarlo. Il contesto e la dichiarazione delle intenzioni orientano l'attenzione verso il significato autentico del gesto: lo svelamento dà, in qualche modo, le ragioni del gesto.
    La stessa cosa può essere indicata per tanti altri gesti. Colui che assume un compito educativo, lo può fare per differenti motivi. Cerca un mestiere che gli lasci un po' di tempo libero, crede alla dignità della persona e vuole impegnarsi per restituirla a tutti, spera di avere l'occasione per fare un po' di evangelizzazione, realizza la sua vocazione di servizio apostolico. Lo stesso gesto ha differenti significati. Chi lo pone, deve dire con chiarezza quale ha orientato la sua azione, se non vuole essere frainteso.
    Non è questa la logica dei gesti di speranza che poniamo e del loro riferimento a Gesù Cristo.
    Non si tratta di dare l'interpretazione corretta a un gesto che è già carico del suo valore. Al contrario, nessun nostro gesto può essere sufficiente a fondare la speranza, se è vero che la radice più profonda della nostra disperazione sta nella violenza della morte, contro cui siamo radicalmente impotenti. Abbiamo bisogno di costruire la speranza, andando all'unica radice sicura.
    Possiamo fare tante cose preziose. Sono importanti. Ma non bastano a fondare la speranza. L'eventuale riferimento a Gesù le lascerebbe inesorabilmente nella loro precarietà se non ci fosse qualcosa di più radicale e consistente.
    Proclamando il nome di Gesù, con i fatti e le parole, noi confessiamo la sua presenza nella nostra vita e nelle nostre azioni. Riconosciamo che il mistero di cui esse sono imprevedibilmente e insperabilmente cariche è, in ultima analisi, la loro verità. Per questo possiamo vincere la morte. L'abbiamo già vinta in radice, immersi nel Dio della vita per la grazia del Crocifisso risorto.
    Tutto questo resta mistero grande, sottratto alla nostra pretesa di esprimerlo con parole sapienti e convincenti. Viene dal silenzio e si immerge continuamente nel silenzio. È un fatto però che sta prima delle parole con cui lo proclamiamo. L'interpretazione non è sul piano della selezione di un significato tra i tanti possibili. Essa è fondamentalmente riconoscimento e confessione.

    3.2. La strana storia di Paolo

    Ci aiuta a pensare in questa logica una testimonianza che ci viene da molto lontano: un pezzo della vita di Paolo di Tarso, alle prese con gli stessi interrogativi. Invito a leggere il capitolo 7 e 8 della Lettera ai Romani. Qui li riassumo.
    Nel cap. 7 Paolo parla della sua paura di fronte alla morte. Lo fa in modo serio, andando alla radice dell'esperienza.
    Fariseo, zelante e impegnato, si fidava ciecamente della legge. Ma si è trovato presto deluso. Confrontato con esigenze impegnative, Paolo constata la sua fragilità. Ne ha paura, perché s'accorge quanto questa incoerenza sia radicata in lui. Fa ormai parte del suo vivere: ci vede chiaro di fronte agli obblighi della legge, ce la mette tutta per osservarli fedelmente; e si trova a fare i conti continuamente con i suoi tradimenti. «Io sono un essere debole, schiavo del peccato. Non riesco nemmeno a capire quello che faccio: quello che voglio non lo faccio, faccio invece quello che odio» (Rm 7,15).
    L'esperienza di Paolo è molto vicina a quella che facciamo tutti i giorni anche noi. La legge non produce vita; non ha mai salvato nessuno. Serve solo a inchiodare la persona al proprio peccato; è fatta per scoprire quante volte non la osserviamo correttamente. Dice ancora Paolo, con molta amarezza: «Quando venne il comandamento, il peccato prese vita, e io morii. E così la legge che doveva condurmi alla vita, nel mio caso invece mi ha condotto alla morte» (Rm 7,9-10).
    Il baratro della morte gli si spalanca davanti, come esito del suo peccato. Ha paura. E grida disperato: «Me infelice! La mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte: chi mi libererà?» (Rm 7,24).
    Dal profondo della sua angoscia, riscopre Gesù, il suo Signore e Salvatore: «Rendo grazie a Dio che mi libera per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro» (Rm, 7,25).
    Rimedita il dono grande e insperato della sua presenza. Una novità radicale è entrata nella nostra storia: «Siamo morti nei confronti della legge che ci teneva in suo potere: non siamo più al suo servizio. Per questo, non serviamo più Dio secondo il vecchio sistema che era fondato sulla legge scritta, ma lo serviamo in modo nuovo, guidati dallo Spirito» (Rm 7,6).
    Il cap. 8 è un inno, entusiasta e sorpreso, alla potenza di Dio che ci fa «creature nuove» in Gesù.
    Paolo dice forte la sua esperienza: abbiamo vinto la morte. Non possiamo più avere paura. Essa resta, inesorabile come un nemico in agguato. Ma ormai ha le armi spuntate: è un nemico vinto e legato. La vita può essere vissuta in piena fiducia.
    La ragione è il dono dello Spirito di Gesù: «La legge dello Spirito che dà la vita, per mezzo di Cristo Gesù, mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rm 8,2). Viviamo nello Spirito di Dio. Egli è la sorgente della vita; è la forza che ci fa riconoscere Dio come Padre; è quel frammento della vita stessa di Dio che ci fa diventare pienamente figli suoi, come lo è Gesù di Nazaret.
    L'evangelo di Gesù risuona come una gran bella notizia: nello Spirito che ci è stato donato abbiamo vinto la morte e la vita ritrova un senso che nessun vento di tempesta riesce più a far crollare.

    4. QUALCHE CONCRETO GESTO DI SPERANZA

    Il cristiano dà voce alla parola di speranza che è Gesù di Nazaret, ponendosi controcorrente rispetto a quelle logiche che allargano l'ombra della morte sulla vita, condannando tutti alla disperazione.
    In che direzione?
    Di fronte alle difficoltà e alle crisi, riconosciamo di essere più forti di quello che ci preoccupa se, in qualche modo, siamo in grado di prevedere i possibili sviluppi e abbiamo in serbo le soluzioni pronte per ciascuno di essi. Chi si imbarca per un lungo viaggio in automobile si sente abbastanza sicuro se ha carburante a sufficienza, ha prenotato i punti di sosta, è sicuro di un rapido cambio di macchina in caso di guasto e ha l'assistenza assicurata in caso di incidente. Certo, ogni viaggio è un rischio... ma a queste condizioni il rischio è controllato (così almeno tenta di convincere la compagnia di assicurazione di cui abbiamo firmato la polizza).
    Esiste un inventario assicurativo, capace di confortarci contro il rischio (certo e imprevedibile) della morte?
    Certamente no. Qualche modello devozionale e la presenza di talismani, più o meno religiosi, sono ormai relegati, per fortuna, tra i ricordi del passato.
    Possiamo possedere anche la morte, fino a non averne paura, solo se riusciamo ad anticipare, in termini consapevoli e maturi, quell'esperienza esistenziale a cui la morte ci condanna inesorabilmente. Si tratta sempre di un possesso più passivo che attivo: non è dominio ma affidamento. Ci affidiamo alla morte da persone adulte, capaci di scegliere uno stile di esistenza nel tempo in cui possiamo esercitare la nostra responsabilità, in modo da costruire, in libertà e a frammenti, quell'atteggiamento complessivo a cui non potremo assolutamente sottrarci.
    I gesti di speranza che il cristiano è chiamato a porre sono perciò quelli che esprimono, in una libertà grande come il suo sogno, il tentativo di anticipare, nel tempo della vita, ciò a cui la morte ci costringerà, quando sarà giunta la sua ora.
    Di questi gesti non posso fare un elenco con la pretesa di essere esaustivo. Posso solo fare degli esempi, intrecciando l'esperienza vittoriosa di Gesù di Nazaret con i modelli culturali dominanti.

    4.1. Alla ricerca della solidarietà perduta

    Un punto di scontro tra la logica del Vangelo e quella dominante è dato da una esperienza spesso sottolineata: la solidarietà.
    Per molto tempo è stato il cavallo di battaglia del mondo cattolico. La rifiutava con forza la cultura liberistica, in nome di una presunta sacralità delle leggi economiche. La guardava con sospetto anche il mondo marxista, perché temeva servisse come copertura dei conflitti sociali.
    Qualche volta però veniva vissuta come privazione volontaria e ingiustificata delle cose per motivi religiosi o, peggio, come consegna del superfluo a chi era privo del necessario.
    La dobbiamo riscoprire tutti in uno sforzo di autenticità.
    Per noi il riferimento normativo è a Gesù. In lui la povertà non è fine a se stessa, ma rivelazione di amore: condivisione che si esprime nel dono.
    Questa è la solidarietà da ricuperare e da realizzare, inventando modalità ed espressioni.
    Delle cose abbiamo il diritto di essere signori. Ci sono state affidate dall'amore di Dio creatore. Sono per la felicità di tutti.
    Abbiamo il diritto di possederle. Il problema grave è un altro: cosa significa possedere?
    I modelli culturali dominanti ci suggeriscono una figura di possesso che è legata all'avere, al tener stretto, al difendere con i denti. Più cose abbiamo e più riusciamo a stringerle forte, strappandole magari ai più deboli, e più siamo vivi.
    La logica evangelica è molto diversa. Siamo invitati a proclamarla forte con coraggio, a porla davanti al nostro sguardo per ispirare ad essa le nostre scelte e le nostre decisioni.
    Perdere per condividere diventa la condizione per assicurare più intensamente il possesso. Distacco vuol dire perciò consapevolezza crescente di una solidarietà che diventa responsabilità.
    Le cose sono per la vita di tutti. Quello che possediamo ci appartiene. Ma tutti hanno il diritto di chiederci conto del suo uso. Solo in una condivisione che permette a tutti il diritto al possesso possiamo davvero esprimere la nostra signoria sulle cose.
    Per questo la solidarietà nasce e si manifesta nella responsabilità: è risposta a un diritto di tutti sulle cose di ciascuno.
    Tre dimensioni si intersecano in questa constatazione.
    La faccenda è prima di tutto di giustizia: di uso corretto dei beni.
    La solidarietà autentica non può limitarsi al piano della giustizia. La assume e nello stesso tempo la trascende. Diventa carità. La carità porta anche alla rinuncia del proprio diritto in un dono che fa vivere l'altro nella piena disponibilità a perdere tutto, persino la vita, per assicurarla per tutti.
    Giustizia e carità sono praticabili quando sono poste in essere le condizioni che ne permettano un esercizio reale verso tutti, soprattutto nei confronti di coloro a cui questo diritto è stato più violentemente sottratto.
    Per questo la solidarietà ha sempre una risonanza direttamente politica: parte dalla denuncia e arriva alla costruzione di alternative coraggiose.

    4.2. Dal «cuore violento» alla «convivialità»

    La morte ci strappa violentemente anche dalle persone con cui abbiamo condiviso un piccolo frammento di tempo, tanta passione ed esperienza originalissime di amore. Non le possiamo portare con noi, nonostante l'affetto intenso che ci lega. Le dobbiamo abbandonare alla loro solitudine e al loro dolore.
    L'abbiamo già sperimentato personalmente. Papà o mamma ci hanno lasciato e sono scomparsi molti di coloro che ci hanno generato alla vita, dandoci ragioni per vivere. E se per fortuna sono ancora con noi, sentiamo incombente la minaccia della loro scomparsa. Lo sappiamo e ne soffriamo. Basta davvero poco per toccare dal vivo lo strappo violento e insanabile della morte.
    Parliamo tanto di amore, di solidarietà, dell'ebbrezza dello stare in compagnia. E poi... all'improvviso la luce si spegne: per noi e per gli altri.
    La solidarietà parte da un rapporto nuovo verso le cose ma sollecita immediatamente a inventare un rapporto nuovo verso le persone, anticipando nel ritmo dell'esistenza quotidiana il distacco prodotto dalla morte, per non essere colti di sorpresa, quando verrà improvvisa e inesorabile.
    Per dire in modo concreto la qualità del distacco a cui dobbiamo allenarci, penso ai doni preziosi che ci hanno fatto amici che non sono più fisicamente in nostra compagnia. Sono vivi in mezzo a noi perché ci siamo amati intensamente e perché la loro esistenza ha costruito la nostra. Quando la morte ce li strappa dal contatto fisico, resta il ricordo intenso della loro presenza. Li pensiamo con nostalgia, li avvertiamo ancora vicini perché la loro esistenza è stata un dono impagabile per la nostra vita.
    Ci hanno amato e hanno servito la nostra crescita nella libertà e nella responsabilità. Hanno generato in noi una qualità nuova di esistenza.
    Tutto ciò che ci parla di loro è per noi gradito e prezioso.
    Ci sentiamo soli e, nonostante tutto, non ne soffriamo, perché grazie a loro siamo diventati capaci di vivere in solitudine.
    Molto diverso è il rapporto con persone di cui abbiamo un ricordo triste. Si arriva persino a dire: per fortuna non ci sono più; ci hanno succhiato il sangue e ci hanno amareggiato l'esistenza... ma anche per loro la festa è finita. La loro partenza è salutata come una grande liberazione.
    Ho suggerito due situazioni opposte.
    A confronto con quello che altri sono stati per noi, è più facile dirci cosa significa imparare a vivere nel distacco verso le persone.
    Il distacco non spegne il ricordo e non brucia la capacità di generare ancora ragioni per vivere solo se, nell'avventura con gli altri, ho saputo costruire amore e libertà, servendo spassionatamente la loro gioia di vivere, la loro capacità di sperare, la responsabilità di crescere come protagonisti della storia personale e collettiva.
    Quando la mia presenza si fa ossessiva, quando cerco a tutti i costi di dominare la mano che mi chiede un aiuto, quando faccio prevalere il mio interesse su quello degli amici... non vivo nel distacco. Cerco di afferrare qualcosa che poi la morte mi strapperà violentemente. Resterò così senza quello che ho cercato di possedere e la mia partenza sarà accolta come una liberazione.
    Quando invece mi perdo nell'amore che si fa servizio, fino alla disponibilità a «dare la vita perché tutti ne abbiano in abbondanza», anticipo nel quotidiano quel distacco a cui la morte mi costringerà, presto o tardi. Il mio ricordo resta, forte come l'amore.
    Ciascuno di noi può tradurre questa esigenza in termini concreti, sostituendo alle mie parole volti e situazioni precise. Ricordo solo una di queste esigenze. Ci urge in modo particolare a causa dell'intenso confronto tra sensibilità, culture e etnie differenti, tipico del nostro tempo.
    Tanto spesso abbiamo considerato il diverso una minaccia alla nostra autenticità. Ci siamo difesi esportando le nostre sicurezze e cercando di catturare l'altro ai nostri modelli.
    Oggi, di fronte alla impraticabilità di queste situazioni, corriamo il rischio di concentrare tutta la violenza nel cuore: ci chiudiamo in un rapporto che privilegia l'omogeneità come condizione pregiudiziale e inventiamo una falsa figura di tolleranza che lascia l'altro nel suo mondo, come condizione per poter conservare intatto il nostro.
    Qualcosa di nuovo va inventato per dare voce alla speranza. Gli amici di Gesù sono chiamati a costruire rapporti nuovi tra le persone all'insegna di una reale cultura di comunione, in cui trovare punti di incontro e di condivisione, che aiutino a superare le tensioni delle differenze.

    4.3. A proposito di legalità: tra legge e istituzioni...

    A garanzia di un corretto rapporto verso le cose e le persone, la nostra cultura pone la legge e le istituzioni che la esprimono e la garantiscono.
    Le istituzioni e le leggi che le regolano hanno il compito di guidarci nell'amore. Ma spesso schiacciano l'amore. La legge viene disattesa o piegata verso il favore di qualche persona o di qualche gruppo. L'istituzione diventa impersonale e ossessiva e serve solo a ratificare il sopruso acquisito.
    Purtroppo lo constatiamo tutti i giorni. La reazione è quella spontanea: siamo in un tempo di profonda e diffusa sfiducia verso la legge, che scatena una larga crisi di legalità.
    Certo, dobbiamo trovare un rimedio.
    Il problema non è prima di tutto di metodo. Ho l'impressione che riguardi maggiormente la sostanza delle cose: in che direzione impegnarci?
    Qualcuno vuole leggi sicure e punizioni ferree per i trasgressori. Spesso anche le istituzioni educative si buttano nella stessa logica.
    La logica sembra giustificatissima. In fondo, fanno tutti così... Anche in questo ambito non basta richiamarsi al Vangelo per sapere cosa fare in concreto. Il riferimento a Gesù e al suo messaggio offrono però un punto decisivo di ispirazione.
    Mi piace meditare una pagina del Vangelo che potrebbe essere intitolata proprio: «Gesù e la legalità».
    «Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore» (Lc 2,22-24).
    La ragione di tutte le azioni (la presentazione di Gesù al tempio e l'offerta della coppia di tortore) è motivata da una ragione molto precisa: la prescrizione della Legge del Signore. La Legge è la manifestazione di Dio al suo popolo, per regolare la sua condotta. Gesù si sottopone a questa Legge e la porta a compimento, riconoscendo ad essa la funzione irrinunciabile di regolare il rapporto tra Dio e l'uomo e tra l'uomo e gli altri uomini.
    Gesù, diventato adulto, suggerisce però un atteggiamento specialissimo nei confronti della Legge: «Guai a voi, ipocriti, che pagate le tasse sulla menta e sul cumino e trascurate l'essenziale della Legge: la misericordia, la giustizia, la fedeltà». Gesù si sottopone alla Legge, ma si oppone fortemente al legalismo.
    Per questo raccomanda l'osservanza delle leggi fino ai particolari più piccoli: una virgola o un accento trasgredito bastano per finir male (Mt 5,17-19). E poi... quando c'è di mezzo la vita, infrange una delle leggi più sacre, quella del sabato, con estrema tranquillità, disposto a scatenare reazioni dure da parte dei suoi nemici (Gv 5,1-18).
    Alla fine viene condannato a morte come trasgressore della Legge, lui che si era impegnato per la sua vera osservanza, contro ogni forma di legalismo della Legge.
    La sua vita ci insegna qualcosa di serio e urgente: l'orizzonte dentro cui pensare e progettare con la fatica quotidiana di chi sa utilizzare scienza e sapienza.
    La Legge è una sola: dare vita dove c'è morte, perdendo la propria perché tutti possiamo averla piena e abbondante.
    Questo va gridato come esito della scelta di vita che porta a confessare che solo Gesù è il Signore. Le altre leggi - tutte, anche se a livelli diversi - sono importanti. Spesso rappresentano la via obbligata per far nascere vita. Qualche volta le esigenze della vita sono tali da costringerci alla libertà della trasgressione. Sempre, sono così urgenti da sollecitare a trapassare l'osservanza della legge: fino, veramente, a dare la vita.

    4.4. Il perdono per vincere la morte

    Ogni giorno facciamo i conti con mille situazioni in cui sembra che la malvagità trionfi indiscussa.
    Il cristiano non chiude gli occhi, rassegnato e pauroso. Al contrario, la forza profetica del Vangelo e la «memoria pericolosa» del suo Signore lo sollecitano a denunciare tutto ciò che distrugge l'uomo, la sua vita e la sua speranza, con estrema lucidità. Non si accontenta di parole. Alla scuola di Gesù lotta per costruire qualcosa di nuovo, con un coraggio e una temerarietà che qualche volta porta persino alla morte.
    Condivide denuncia e lotta con tanti amici che amano la vita come lui con intensa passione, anche se non riconoscono il nome di Gesù. In questa compagnia lo stile di azione del cristiano è però tanto speciale che spesso egli si trova costretto a prendere le distanze anche da coloro che, in fondo, cercano gli stessi obiettivi.
    Gesù infatti ci suggerisce un modo tutto originale di lottare per la pace e la giustizia: il perdono.
    Il perdono non è il gesto sciocco di chi chiude gli occhi di fronte al male per il timore di restarne troppo coinvolto o quello pericoloso di chi giustifica tutto, per rimandare la resa dei conti ai tempi che verranno. Il perdono è l'avventura della croce di Gesù: il gesto, lucido e coraggioso, che denuncia il male, lotta per il suo superamento, riconoscendo nella speranza che la croce è vittoria sicura della vita sulla morte. Per il cristiano è un gesto di profonda lucidità, un gesto che vuole spezzare l'incantesimo del male, rompendone la logica ferrea.
    Per questo, la via del perdono va davvero alla radice della nostra esistenza.
    Un po' alla volta, si è fatta strada la convinzione terribile di doverci difendere dagli altri, riconosciuti come nemici minacciosi per la nostra esistenza. Siamo persino arrivati a constatare il dovere di rimettere le cose a posto, nel nome della giustizia, infliggendo ai colpevoli un castigo che li faccia soffrire almeno quanto essi hanno causato di sofferenze agli altri.
    La logica è vecchia come il mondo. Gesù reagisce duramente contro questo modo di fare: nel nome della misericordia di Dio.
    Risponde con parole buone a chi lo prende a schiaffi, con la speranza di far piacere al potente di turno: «Aveva appena detto questo, che una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: Così rispondi al sommo sacerdote? Gli rispose Gesù: Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,21-23). Rinuncia ai mezzi forti di cui potrebbe tranquillamente disporre per lasciarsi incatenare, come supremo gesto di amore: «Non sai che potrei chiedere aiuto al Padre mio e subito mi manderebbe più di dodici migliaia di angeli?» (Mt 26,53).
    Gesù ci invita a una decisione coraggiosa: smettere una buona volta di rinfacciarci reciprocamente le colpe per sperimentare la gioia dell'incontro. Ci chiede di mettere al posto del nostro diritto una solidarietà esagerata: la disponibilità a regalare il mantello quando qualcuno ce lo chiede in prestito e a fare due chilometri in compagnia di chi ci chiede di farne uno con lui (cf Mt 5,41-42).
    Questo suggerimento non è condizionato a un tot di volte, raggiunto il quale si può tornare tranquillamente alle vecchie logiche: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette», dice Gesù a Pietro che gli chiede fino a che punto il discepolo deve essere disposto a perdonare (Mt 18,21-22).
    Una pagina del Vangelo va meditata, anche perché sembra contraddire, almeno in parte, a queste affermazioni. Dio ci invita al perdono... ma poi, di fronte alla malvagità, cessa di essere comprensivo con noi?
    «Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, Io soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello» (Mt 18,23-35).
    Questa storia va letta bene... per scoprire che veramente Gesù non ha mai rinunciato a proporre il perdono come unico modo di resistere al malvagio.
    Leggiamo dal positivo questa pagina che ci rivela il mistero di Dio e della nostra esistenza. Così è più facile scoprire il messaggio che essa ci lancia.
    Gesù ci ricorda che viviamo grazie alla bontà di Dio. Purtroppo però è facile dimenticarsene e continuare a comportarci come se questo segreto della nostra esistenza non ci fosse stato rivelato. Facendo così, non permettiamo a Dio di circondarci della sua bontà accogliente e misericordiosa: lo costringiamo a non essere comprensivo nei nostri riguardi.
    Questo è quello che stava a cuore a Gesù: più di tutto e sopra ogni cosa. Mette in ridicolo la preoccupazione per le ricchezze (Mc 10,17-27); trascura di giudicare le opinioni sulle contese politiche (Mc 10,42); non si preoccupa affatto del potere, del denaro, del prestigio (Mc 12,38-40). Ma predica con parole ardite il perdono: l'unico rimedio contro l'odio, il sospetto, la paura, il sopruso. Le sue parole scatenano la rabbia dei suoi nemici: con la proposta del perdono, egli distrugge tutto quello che appariva sicuro e consolidato nella normale situazione culturale, religiosa e politica.
    Anche noi, come Gesù, attraverso il perdono, mostriamo con i fatti la forza dell'amore, che vince anche la morte.

    5. L'ADULTO GENERA ALLA VITA

    Il nostro non è di certo un tempo in cui la speranza sia abbondante. Non capita a noi quello che hanno avuto la fortuna di sperimentare coloro che Gesù ha sfamato di pane, di senso e di vita: alla fine ne sono rimaste sette sporte piene. Purtroppo ci manca persino lo stretto necessario per credere sinceramente alla speranza. In questa situazione, l'adulto cristiano, restituendo speranza, genera alla vita.
    Generare alla vita è la gioia e la responsabilità del- l' adulto.
    Non voglio essere capito male. È vero: chi è diventato adulto, è in grado fisicamente di generare. Ma non possiamo di sicuro ridurre la responsabilità di generare solo alla generazione nella carne.
    Dare la vita sul piano fisico è un avvenimento misteriosamente grande e impegnativo. Continua l'impresa divina della creazione. Non è però sufficiente: dà la vita veramente solo chi dà ragioni per vivere. Senza ragioni per vivere, la vita è una disperazione: molto meglio la morte. Lo sperimentano tutti i giorni tanti poveri ragazzi che non hanno la gioia di conoscere i loro genitori o, peggio, che si vergognano di essere vivi a causa dei loro gesti.
    La generazione è piena e autentica quando due persone si scambiano ragioni per credere e per sperare. Per questo, la generazione è sempre un gesto d'amore: l'amore dà la vita, la riconosce e la sostiene.
    L'adulto cristiano ha tante concrete possibilità per realizzare il compito impegnativo di offrire ragioni di speranza. Non è possibile fare un elenco con la pretesa di racchiudere in una lista precisa le opportunità aperte alla passione e alla fantasia di chi ama la vita e la vuole, come Gesù, piena e abbondante per tutti. Soprattutto non si può davvero tentare una classifica, a suon di punti, come ormai ci siamo abituati a fare per molte esperienze della nostra esistenza.
    Qualcuno si butta in politica o nell'impegno sociale, con un coraggio che oggi sta diventando raro e difficile. Qualche altro si sprofonda nella fatica della ricerca, immerso tra libri, appunti e macchine raffinate, per trovare un rimedio ai mali che affliggono tante persone (dalla fame a malattie che sembrano incurabili), perché sa quanta speranza può sgorgare dai suoi studi.
    Molti giovani scelgono oggi la strada del volontariato, per mostrare che è possibile stare vicino ai poveri, agli ammalati, agli esclusi, nel gesto gratuito ed eloquente della presenza e del servizio.
    Ci sono persone che consacrano tutta la propria esistenza in una vocazione religiosa e sacerdotale, convinti che l'annuncio del Vangelo di Gesù è servizio pieno alla vita e alla speranza. Qualche altro non ha scelto a tempo pieno questa vocazione, ma sa ritagliare spazi generosi della sua giornata nel servizio della catechesi e dell'animazione dei più piccoli. Qualche persona si impegna, con tutte le sue energie nella via dell'educazione, convinta di costruire speranza perché restituisce a ciascuno la consapevolezza della propria dignità, la gioia di vivere e la libertà di scoprirsi protagonista della propria storia.
    Tutti costoro stanno davvero generando altri alla vita e alla speranza. Non lo fanno nella carne; qualcuno ha deciso persino di rinunciarvi per affermare una disponibilità più piena alla causa da servire. Lo fanno però veramente e pienamente: nello spirito. Lo dice molto bene Paolo, nel bellissimo biglietto scritto a Filemone per raccomandare un trattamento pieno di amore nei confronti di Onesimo, lo schiavo scappato da casa, che ora ritorna: «Ti prego per il mio figlio Onesimo, che ho generato in catene» (Fm 10).
    I modi sono tanti, tutti importanti. Indicano tutti, con tonalità differenti, il compito fondamentale dell'adulto cristiano, impegnato, con una passione speciale, sulla frontiera della vita, come amico di Gesù: restituire speranza, per aiutare tutti a diventare uomini e donne di speranza.


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