Giovanni Fedrigotti, NUOVA EVANGELIZZAZIONE CON LO STILE DI DON BOSCO, Inedito 1999
“Il mondo ha bisogno di vedere e di toccare.
Il mondo attuale vuol vedere le opere" (Don Bosco).
Giudicati sull’amore
Poche pagine evangeliche hanno la solennità ultimativa di Mt 24, 31-46. È un brano che merita un commento solenne, quale “Il Giudizio Universale” di Michelangelo può fornire. Il brano fa parte dell’ultimo discorso di Gesù, quello sugli ultimi tempi, che viene consegnato quasi come un testamento, e si colloca in un contesto segnato dall’attesa, dalla vigilanza, dallo sforzo di discernere i “segni dei tempi”. In esso, i servi fedeli, le vergini prudenti e gli industriosi trafficanti dei talenti diventano il modello. Ma - sembra suggerire il testo - fiamma di ogni lampada, talento prezioso sopra ogni altro è la carità. “Tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me” (Mt 25, 40).
È un brano che ricapitola l’intera storia dell’Antico e del Nuovo Testamento, ugualmente sensibili alla solidarietà verso il povero, l’orfano e la vedova. Ma, nel ricapitolare, si compie un decisivo passo in avanti con l’audace e incredibile identificazione fra il povero e il Signore Gesù. Si raggiunge qui il più decisivo avvicinamento fra i due massimi comandamenti. Anzi si comprende bene come essi non possano essere disgiunti, per il misterioso collegamento, istituito fra i poveri e Cristo. Chi contempla Cristo scopre in filigrana il povero. Chi serve il povero incontra Cristo. Per questo Cristo ha assunto il volto del povero. Colui che giudica è il medesimo che fa da ponte e conferisce al povero tutta la sua dignità.
Alcuni elementi meritano di essere particolarmente sottolineati.
- La centralità di Cristo. Alla luce di quanto precede, è facile comprendere che è Lui il padrone che torna alla propria casa, e vuole trovare i suoi servi al loro posto di lavoro (Mt 24, 37-51). Lui è lo sposo, atteso nella notte, che occorre corteggiare vigilando. Egli è l’uomo che dona all’uomo i suoi propri talenti e vuole trovarli moltiplicati (Mt 25, 14-30). Il padrone, lo sposo, l’uomo sono ora ricapitolati nella Parola inattesa e drammatica: “Lo avete fatto a me”, “Non lo avete fatto a me”. Anche chi si illude di schivarlo si scontra frontalmente con Lui!
- Il povero diventa il “lasciapassare”, per giungere a Cristo. La parabola tratteggia l’odissea di sei povertà, così comuni ieri, ma anche oggi, elencate all’insegna della quotidianità. Questo è quello che Madre Teresa chiamava “Il Vangelo delle cinque parole”.
- La carità diventa, nella parabola, perno della vita. L’unica virtù della carità teologale traduce in vita la duplice valenza dell’unico amore, che si apre a Dio e ai fratelli. Come non è possibile scavalcare il povero, così nessuno potrà essere salvato, se trovato col cuore vuoto di carità. Più che di peccati di trasgressione, si parla di peccati di omissione (o di indifferenza, come si potrebbe dire oggi).
- Non sfugge l’apertura “universalista” della narrazione, che colloca fra i “benedetti dal Padre” una folla che non è sicura di aver incontrato Cristo, perché l’aveva incontrato e servito solo nel volto del povero. È l’epopea vittoriosa di tutti gli uomini di buona volontà, che, imboccando la porta della casa del povero, si trovano, quasi senza saperlo, entro la soglia del Regno.
Don Bosco evangelizza con la carità
Ai suoi salesiani in partenza per le missioni don Bosco consegna un Vade mecum. Fra le altre massime, vi si trova questa: “Prendete cura specialmente degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri e guadagnerete le benedizioni di Dio e la benevolenza degli uomini” (MB XI, 389)
"Siamo in tempi - nota il santo dei giovani - in cui bisogna operare. Il mondo è divenuto materiale, perciò bisogna lavorare e far conoscere il bene che si fa. Se uno fa anche miracoli pregando giorno e notte e stando nella sua cella, il mondo non ci bada e non ci crede più. Il mondo ha bisogno di vedere e toccare. (...) Il mondo attuale vuole vedere le opere, vuol vedere il clero lavorare a istruire e a educare la gioventù povera e abbandonata, con opere caritatevoli, con ospizi, scuole, arti, mestieri... E questo è l’unico mezzo per salvare la povera gioventù istruendola nella religione e quindi di cristianizzare la società" (MB,XIII, 126-127).
Se diamo a “opera di carità” il senso pieno e interiore che essa ha, è facile vedere come tutta la vita del santo dei giovani sia costruita, mattone su mattone, da una vita quotidiana fermentata dalla carità.
Egli, uomo pratico e attento ai poveri, non trascura la carità materiale. E, fra le sue espressioni caratteristiche, egli indicava tenacemente l’elemosina, che distribuisce la ricchezza ai poveri, cui essa è destinata. Dietro la parola elemosina non c’era una semplice acquiescenza alla prassi e ai costumi di un’epoca, ma l’intuizione di una giustizia più profonda, che deve accendere atteggiamenti di vera fraternità cristiana. Il santo era profondamente convinto e predicava a chiare note che quello della solidarietà non è un optional, ma una severa esigenza morale, che deve sentire chiunque sia provvisto di beni e non voglia sentirsi dire: “Aveste più a cuore i vostri denari che non la mia gloria, più care le vostre borse che non le anime dei vostri fratelli” (MB XV, 168). Egli era talmente rigoroso su questo tema che qualcuno accusò le sue teorie di collimare con quelle dei comunisti. Eppure don Bosco continuava a ripetere, specialmente ai ricchi, fra i quali vi erano alcuni suoi generosi benefattori: “Io vi dico che chi non dà il superfluo ruba al Signore!”. Verso la fine della vita, cercava chi potesse scrivere un libro su questa severa esigenza, nonostante che anche vari dei suoi salesiani la trovassero troppo dura e restassero scandalizzati della libertà di linguaggio che, in materia, don Bosco si consentiva coi ricchi. Egli, infatti, era convinto che ai signori nessuno dice la verità sui loro obblighi di solidarietà. Con tutto questo, poteva dire: “Sognai alcune notti fa di vedere la Madonna, che mi rimproverava del mio silenzio sull’obbligo dell’elemosina” (MB XVIII,361).
Né don Bosco si limita a quella carità, grande e tradizionale, che si esprime nell’elemosina. Egli è sensibile alla carità, in tutte le sue forme.
Egli vive la carità relazionale non solo con la presenza assidua in mezzo ai giovani, ma nelle interminabili serie di udienze, nell’umile pazienza, nelle estenuanti mediazioni, nei rapporti, intensamente e lungamente coltivati, con molti benefattori, che accompagnavano con la propria solidarietà l’opera sua.
Pratica la carità pastorale nella grande disponibilità al ministero sacerdotale, nelle lunghe e quotidiane ore di confessionale, che lo sfiancano fino a farlo svenire, nelle notti consumate a stendere le pagine popolari e provvidenziali delle Letture Cattoliche, nella schiettezza con cui egli sa donare la verità evangelica ai grandi di questo mondo, non meno che ai piccoli del suo oratorio.
Realizza soprattutto - con atteggiamento di predilezione, ma anche come opzione obbligata imposta dalla gravità dell’ora - la carità educativa, che si fa segno della paterna tenerezza di Dio nei confronti dei giovani, specialmente più poveri (e, letteralmente, affamati, assetati, ignudi, vagabondi e carcerati).
Esprime tutti i tratti di una carità solidale. Tutta la vita di don Bosco è uno splendido, inarrivabile volontariato - praticato e promosso - che si fa prossimo dei bisogni vicini (che toccano la città di Torino), ma anche di quelli lontani (ricercati con la contemplazione pensosa del mappamondo); che si dona ai giovani, non meno che a tutto il popolo di Dio; che si immola totalmente in un servizio d’amore, mentre, al tempo stesso, mobilita forze e chiama a raccolta tutta la gente di buona volontà.
Potremo anche dire - per usare le parole coniate da Pio XI - che egli vive una “carità politica”, se intendiamo con questo lo sforzo di incidere sulle persone e ma anche sulle istituzioni, da cui specialmente dipende il bene comune. Don Bosco era così convinto di servire, ad un tempo, la città di Dio e la città dell’uomo, che non aveva complessi di inferiorità nel rivendicare, a tutti i livelli, i meriti civili e sociali dell’opera sua.
La parola della carità penetra il cuore dell’uomo d’oggi
È questa l’intuizione di fondo, che costituisce l’anima del documento CEI "Evangelizzazione e Testimonianza della Carità”, che orienta il presente decennio delle chiese d'Italia.
È, soprattutto, lo splendore della carità, che trasforma il cristiano in testimone, dato che "l'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, lo fa perché sono testimoni" (EN 42). Compito del testimone - notava il card. Suhard - è quello di "essere rebus, essere mistero": suscitare, cioè, forti interrogativi (dando, però, anche indizi di risposta).
Dall'amore che gli viene donato con gratuita solidarietà, attraverso la "trasparenza" del donatore, l'uomo moderno può giungere alla scoperta della tenerezza di Dio.
Allo stesso scopo, oggi la chiesa è preoccupata di restituire ad ogni azione di catechesi e di evangelizzazione la sua triplice densità - che diventa anche una triplice chiave di lettura - di "annuncio-celebrazione-azione, catechesi-liturgia-carità. Da cui si evince che, pur restando l’approdo quello del binomio azione-carità, ad esso non si giunge attraverso improbabili scorciatoie, ma passando attraverso la Parola di Verità, l’energia liturgica e sacramentale, il Fuoco di carità, che, nella chiesa, resta sempre acceso, come il focolare dentro casa.
Quale sarà la “forma di carità” più propria del villaggio globale, che, senza rinnegare le mille splendide forme della carità di ieri, sia tuttavia capace di creare, custodire, riparare il tessuto connettivo tutto particolare della società di oggi?
Tentando una rapida sintesi, mi pare che due siano le dimensioni più urgenti che deve assumere oggi la vita di carità dell’animatore cristiano.
L’intercarità
Mi si perdoni il neologismo, che vuole esprimere la risposta della carità credente alla nuova situazione del mondo, che ci troviamo a vivere. Non è esagerato chiedere a questa regina delle virtù teologali di fare i conti con i complessi risvolti della globalizzazione, che tocca ogni esperienza di vita. Chiamo intercarità quella tensione dello spirito umano, sostenuta dalla grazia, che si sporge in direzione della società interrazziale, interreligiosa, internazionale, interculturale.
C’è una carità che promuove l’apertura, spoglia di pregiudizi, ai popoli e alle trasmigrazioni, riconoscendo in ogni uomo un membro della grande famiglia di Dio, per il quale la prima parola non è quella del “foglio di via”, ma del benvenuto. Essa sta alla radice di tanto volontariato e delle pronte iniziative, testimoniate dalle chiese, su mille frontiere.
C’è una carità che alimenta il dialogo ecumenico e interreligioso. Essa si inchina rispettosa davanti al sacrario della coscienza, cercando i segni del dialogo che Dio ha già misteriosamente iniziato con ogni popolo e con ogni uomo.
C’è una carità che è più sensibile alla differenza culturale, che alla omologazione. Essa sa come ogni cultura, pur bisognosa di redenzione, è, al tempo stesso, aperta ad una possibile valorizzazione. Sa che ogni cultura è intimamente strutturata con la stessa persona, sicchè l’amore per l’uomo comporta un vero amore per la sua cultura, investigata, accolta, potenziata, assunta in tutto ciò che essa ha di positivo. La carità è anche vera inculturazione
Oggi il povero è spesso di una razza diversa e di diversa religione; si trova di frequente all’interno di flussi migratori, spesso brutalmente strumentalizzati, di popoli, che vanno in cerca di diritti umani e di libertà; porta i connotati di culture nuove, o antiche, ma verso le quali abbiamo forse nutrito sentimenti ostili. È la carità, che illumina lo sguardo e il cuore e fa esclamare, davanti ai mille volti inattesi e sconosciuti: “È il Signore!” (Gv 21,7).
Carità e verità
Globalizzazione significa anche frammentazione, pluralismo contraddittorio, riduzione del vero al rango di opinione ed esaltazione dell'opinione, forte o fortunata o brillante che sia, fino al cielo della verità. Quando Pilato esclamava davanti a Gesù “Che cosa è la verità!?”, egli poneva un interrogativo legato all’incipiente, anche se limitata, globalizzazione operata dall’impero romano in Occidente. Oggi quell’interrogativo drammatico - il cui altissimo prezzo è la morte di Cristo, quando diviene un interrogativo scettico - si ripropone. Urge ci sia chi è capace di far propria la testimonianza alla Verità, per cui il Signore è venuto.
Cristo è Parola di Dio e su Dio. È Parola di uomo e sull’uomo. È vita e parola di vita. È via e verità piena. L’uomo perde se stesso, se smarrisce il collegamento con la verità. Cade nel buio e nella morte, se si trova privato del suo splendore. Non c’è vero amore per l’uomo, quand’esso non si faccia anche testimonianza alla verità, sull’esempio di Cristo. È questo il senso della forte affermazione di S. Paolo che invita a “professare la verità nella carità” (Ef 4,15), ossia ad esercitare quella carità somma, che consiste nel donare all’uomo la luce necessaria per conoscere il senso della sua vita e della sua morte, del bene e del male, e l’amore con cui il Padre lo ha amato.
Preghiera
Mi sento già condannato,
mio Signore,
se sarà il povero
il metro del Tuo giudizio
e il testimone più accreditato
all’ultimo processo.
Ma se ci affanniamo una vita
per prendere le distanze
dal mondo della povertà,
come puoi pensare
che sia poi così facile
incrociare di nuovo
tutti quei poveri
di cui Tu parli!
Ma, dimmi, perché
non ti nascondi un poco
anche nel ricco?
Tu lo sai bene: ce n’erano
di bravi anche ai tempi tuoi
e ce ne parla il tuo vangelo.
Mi hai messo un pò paura
quando hai lasciato intendere
che nel ricco appare,
piuttosto, l’ombra sinistra
del tentatore.
Mi viene il dubbio
che quando tu invitavi
a tornare piccoli,
per avere accesso al regno,
tu, forse, volevi dire anche
che si deve tornare poveri.
E ci hai attaccato la prima
delle Tue beatitudini
Niente mi umilia
come questa tua
parola.
Niente mi fa sentire
più borghese.
e niente
Tu lo sai, Signore,
mi rende più bisognoso
della tua salvezza
e del tuo perdono.
Poiché, anch’io, o Salvatore,
sono uno di quei poveri,
che portan dentro
l’immagine di Te,
e anelano in attesa,
che, per Tua grazia,
si possa alfine
totalmente
disvelare.