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    6. Evangelizzare la bellezza


    Giovanni Fedrigotti, NUOVA EVANGELIZZAZIONE CON LO STILE DI DON BOSCO, Inedito 1999

     


    “Nella santa chiesa di Dio tutto è dell’amore, con l’amore,
    per l’amore, nell’amore” (S.Francesco di Sales)


    Cercatore d’amore: “Pietro mi ami?” (Gv 21, 15-25)

    Il dialogo tende a riabilitare Pietro nello stato di discepolo, in modo che davvero possa diventare apostolo. E il confronto non avviene più con gli altri, ma solo con lo sguardo profondo e scrutatore di Gesù. "Signore tu sai tutto, tu sai che io ti amo": Pietro diventa discepolo de-centrandosi da sé e ri-centrandosi su Cristo: persino il suo amore non ha più fondamento in Pietro (quale debole fondamento, dopo i rinnegamenti...), ma in Gesù stesso.
    Ai tre rinnegamenti corrispondono le tre professioni di amore (e sono le uniche "terne" del vangelo di Giovanni, legate a Pietro).
    Con riferimento ai caratteri del discepolo di Mc 8,34, è facile vederli tutti realizzati nel nostro racconto: il rinnegamento di sé (operato nella triplice risposta di amore), il portare la croce (vedi lo "stendere le braccia") e il seguire Gesù ("seguimi").
    Non può sfuggire il fatto che qui si tratta di un amore per Gesù risorto, dove il sentimento ha ormai poco peso (ricorda il “non mi toccare” detto alla Maddalena), e dove domina la carità (che ha nel martirio il suo vertice...).
    Il riferimento alla "passione" di Pietro. collega ancor più strettamente il brano a Gv 10, dove il buon pastore si distingue dal mercenario, per la sua capacità di dare la vita.
    La presenza del Risorto-Pastore - forza operante attraverso la nostra debolezza obbediente - emerge anche dalla insistenza sulle "mie pecore": "Custodisci le mie pecore come mie - nota Agostino - non come tue".
    È quell'amore che crea il collegamento, per cui Pietro diventa, per così dire, il prolungamento di Cristo pastore, un suo delegato, nell'esercizio di quella autorità che viene significata dall'immagine del "pascolare".
    Pietro diventa così "segno dell'amore" di Cristo, come nota S. Ambrogio: "Egli ci lasciò Pietro come vicario del suo amore". "Gesù affida quelli che ama a uno che lo ama" (Spicq). Ne troviamo l'eco in 1 Pt 5,2-3.
    È ancora l'amore che opera quella "congiunzione" con Cristo, in cui Ignazio di Lojola vede la condizione "sine qua non" di ogni efficacia apostolica.
    L'intero brano diventa allora uno splendido commento alla carità pastorale, che è un amore che tocca l'uomo, dopo essere passato attraverso il Cuore di Dio.
    Le tre domande e le tre risposte sono seguite dal mandato missionario dato a Pietro.
    Si riferisce la consuetudine, viva nel medio oriente, di ripetere una cosa tre volte, davanti a testimoni, per renderla solenne, specie in caso di contratti che conferiscono diritti, o di disposizioni legali: ciò darebbe speciale rilevanza all’incarico conferito a Pietro.
    La evocazione del triplice tradimento, che sta alla radice della riabilitazione, ci ricorda, che, anche nel governo, Dio continua a scegliere i "deboli per confondere i forti".
    Il tutto rappresenta anche la conversione delle attese messianiche di Pietro.
    Non con la spada egli sarà chiamato a difendere il suo Signore, ma con la fedeltà pastorale, fino alla morte di croce.
    Come il figlio maggiore della parabola del prodigo, egli si era dato assai da fare nella casa del suo Signore, ma solo ora ne scopre il mistero di amore (quando, come il figlio minore, gusta la tenerezza del perdono).
    "Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore".
    È chiara l'intenzione di Gesù di affidare a Pietro "tutto il gregge". Ma, forse, non è troppo il leggere nell'invito di Gesù sia una speciale attenzione alla fragilità degli agnellini (i giovani e i piccoli), che il bisogno di articolare congiuntamente il proprio intervento per giovani e adulti, accanto al desiderio apostolico insaziato di raggiungere i lontani: "Ho altre pecore che non sono di questo ovile...".

    Un amore per niente sentimentale…

    Decisive sono state - nella giovinezza di Francesco di Sales - le lezioni che Gilbert Genebrard aveva tenuto alla Sorbona sul cantico dei cantici, dimostrando che la storia del mondo è storia d’amore.
    S. Francesco di Sales è uno di quei santi, che pregano meglio davanti alla Bellezza, proprio perché destinato a diventare teologo e poeta dell’amore.
    All’amore della giustizia - è stato detto - Francesco preferisce “la giustizia dell’amore”; e all’immagine del colpevole, umiliato e timoroso davanti al giudice, Francesco ama sostituire quella del bimbo in braccio alla madre (cf Sal 131).
    In un secolo in cui ci si scanna, nelle guerre di religione, egli ha il coraggio di affermare: “È con la carità che bisogna scuotere le mura di Ginevra, con la carità che bisogna invaderla, con la carità che bisogna recuperarla”.
    Egli è convinto che un autentico amore trabocca dal cuore e invade la vita, trasformandone atteggiamenti e significato: “Noi conosciamo che la nostra preghiera è buona, e che noi in essa progrediamo se, uscendone, il nostro volto splende di carità e il nostro corpo di castità”.
    Di don Bosco si potè cantare: “Il Signore gli ha dato un cuore grande come le spiagge del mare”.
    Nell’introduzione al suo Don Bosco con Dio - scritto da don Ceria in occasione della beatificazione di don Bosco - lo storico si proponeva “di scrutarne a fondo il principio animatore, quello che ha costituito sempre il gran segreto dei Santi: lo spirito di preghiera e di unione con Dio”. Sollevare almeno un lembo di quel velo parve al biografo “fors’anche il miglior contributo” alla glorificazione del santo.
    C’è bisogno di qualche maggiore attenzione per scoprirne “i movimenti intimi e abituali”, perché di don Bosco si può ripetere “ch’egli somigliava all’Ostia Santa: fuori apparenza di pane e, dentro, Gesù Cristo” .
    Il Santo di Valdocco amava più dire “lavorare” che “amare”. Certo, c’era una diversa sensibilità culturale. Ma non dobbiamo ingannarci. Il senso era quello di un lavoro fatto con fede, speranza, carità. Di un impegno che era espressione di un amore vero. Solo che il termine “lavoro” conserva meglio il sapore della croce, che sta sempre dentro l’amore. Poiché se l’amore vale molto, bisogna essere pronti a pagarlo caro. Lavoro per eccellenza - oltre che senso profondo di ogni altro lavoro - era per don Bosco il salvar anime (Da mihi animas, caetera tolle).
    Il che comportava, d’altro canto, un coraggioso e leale schierarsi a favore della causa di Dio, che “vuole che tutti gli uomini siano salvi”, con la conseguente dichiarazione di una guerra senza quartiere al peccato. “Don Bosco è il più gran buon uomo di questo mondo. Rompete, gridate, fate birichinate, saprà compatirvi, perché siete giovani; ma non date scandali, non rovinate le vostre anime e le altrui col peccato, perché egli allora diventa inesorabile (Ceria, cit. 103).
    Anche la sua calma - sorprendente in occasione di dispiaceri lancinanti - era il segno di una vita totalmente consegnata nelle mani di Dio. Il cui amore era così vicino, da sentirsi spesso muovere al pianto. Era così forte, da sostenere una pazienza a tutta prova.
    Essa era la manifestazione forse più singolare della “temperanza”, che don Bosco continuava a raccomandare: il lavoro era carità oblativa, con cui don Bosco si faceva servo dei fratelli; la temperanza era frutto dell’autoconsegna di don Bosco e del suo stare “in braccio a Dio” (Don Albera). I due atteggiamenti erano così importanti che il motto “Lavoro e Temperanza” rischiò di entrare nel cartiglio dello stemma salesiano.
    Una delle cose più notevoli della storia del carisma di don Bosco è la profonda, consolante, incancellabile impressione che egli lasciò nel cuore di tutti coloro che poterono gustare la sua compagnia, od anche un semplice incontro (come il futuro Pio XI): quella di essere stati profondamente, totalmente, visibilmente amati. D’un amore pieno di Dio. E anche pieno di praticità, che non permette di accarezzare sentimentalismi e illusioni. Capace di farsi educazione, ricreazione, predicazione, scuola, officina, diffusione del libro, ecc. ogni volta che l’amore concreto alla persona concreta lo richiede.


    Amare Cristo nella sua Chiesa

    Nostalgia di Bellezza
    Cristo Buon Pastore - ma il testo di Gv 10,11 dice, alla greca, “bel” Pastore - si propone non solo come l’intrepida guida delle pecore, ma anche come termine del loro amore. Le chiama una ad una (10,3) e, per esse, offre la vita (10,11); conoscono la sua voce (10,4); pecore e pastore si riconoscono reciprocamente (10,14).
    “Amate il buon pastore, il bellissimo sposo - scrive Agostino - che non inganna nessuno e non vuole che alcuno perisca. La sua tenda in terra è la Chiesa”.
    Si chiede von Balthasar: “Sant’Ambrogio avrebbe donato S. Agostino alla Chiesa, se non avesse fatto uso di tutto l’incanto dell’eloquenza?”.
    G. M. Hopkins gridava in una delle sue poesie: “Restituite la bellezza, restituitela a Dio, che è la sua anima e il suo datore”.
    In uno dei più alti vertici contemplativi delle Confessioni, Agostino esclama: “Tardi ti ho amato, Bellezza sempre antica e sempre nuova. Tardi ti ho amato”.
    “Non so se vedevo qualcosa di corporeo - confessa S.Angela da Foligno - ma Egli era come è in Cielo. Cioè una Bellezza tanto grande che non si può dire altro che era Bellezza e Ognibene”.
    Commentando la parola di Paolo “vivo io, anzi, non io, è Cristo che vive in me”, Dionigi sottolinea che “egli parla così come un vero amante, come uno che, secondo le sue stesse parole, è uscito estaticamente fuori di sé, per entrare in Dio”. Il quale, a sua volta “nell’eros bello e buono per l’universo, per la sovrabbondanza della sua amorosa bontà, viene rapito fuori da se tesso e, per così dire, sopraffatto dalla bontà, dall’amore, dall’eros”.
    L’ek-stasi di Dio ispira e sostiene l’estasi dell’uomo, specie quell’“estasi dell’azione”, che Francesco di Sales propone come forma eminente di carità.

    Cristo Bellezza del Padre e Sorgente della bellezza del mondo
    “La gloria di Dio è sul Volto di Cristo” (2 Cor 4,6). Cristo è la Bellezza del Padre - Parola di Bellezza detta non solo all’orecchio, ma anche all’occhio e a tutta la vita - e il suo capolavoro supremo. Ogni bellezza del mondo - a partire da quella dell’uomo e della donna, che innamora i cuori - riflette la Bellezza del Verbo, che ne è fonte e modello, e ha il compito di indirizzare a Lui il cuore e la mente.
    La Bellezza di Dio - che splende sul Volto di Cristo - è il segreto dei Vangeli. Gabriele D’Annunzio famelico di bellezza, tanto da sembrarne ossessionato - la coglieva d’istinto, in qualche modo, quando chiamava Cristo “il mio Bellissimo Nemico”.
    Per essa i discepoli lo seguivano ammaliati. Le donne lo servivano con totalità di dedizione. E la gente gridava: “Beato il grembo che ti ha portato! Ti seguirò dovunque andrai! Nessuno ha mai parlato come quest’uomo. Andiamo anche noi a morire con Lui”.
    “Come è possibile - sia pure in misura minima - comprendere Paolo, se non ci si lascia persuadere da lui che a Damasco egli ha contemplato la Bellezza suprema?” (Von Balthasar).
    S.Giovanni della Croce, nella quinta strofa del cantico, scrive:
    “Mille grazie spargendo
    passò per questi boschi
    con snellezza,
    e, mentre li guardava,
    solo con il suo sguardo
    adorni li lasciò d’ogni bellezza”
    Quel gran teologo della Bellezza, che è S. Bonaventura, può esclamare: “Questo dà all’universo la sua bellezza: il fatto che Egli dà forma all’informe, rende il bello più bello, e rende il più bello bellissimo”.
    La più profonda teologia passa attraverso i cantici della Bibbia: cantico dei cantici, canto dei tre fanciulli, canto delle creature…
    Il modello è S. Francesco “che vide nelle cose belle Colui che è bellissimo e seguì dappertutto l’amato, seguendo le tracce impresse nelle cose” (S. Bonaventura).

    Pulchritudo crucis
    Che si tratti di una bellezza centrata nel progetto di Dio, appare chiaro dal fatto che suo lineamento essenziale è la Croce di Cristo. Tutta la bellezza di Dio viene riversata sulla Croce, irrorata dal sangue di Cristo: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a Me” (Gv 12,32).
    È chiaro che c’è anche una bellezza, cui occorre rinunciare, perché può diventare “una trappola per topi” (S.Bonaventura), proprio come accadde a Lucifero - prototipo di ogni narcisismo - preso nella trappola mortale della sua propria bellezza.
    La conversione di Agostino “si presenta come un distacco, dolorosamente lacerante, dalla bellezza sensibile”. Matura così gradualmente la sua conversione seconda, per la quale “egli, divenuto Vescovo, si dirigerà verso la nuda Croce, esponendosi spiritualmente nel minuto mercanteggio, per così dire, privo di bellezza, della cura pastorale (…) Il bello, che egli non toccò più, si irradia da tutti i pori del suo essere” (V.Balthasar).
    “Si cerchi pure la Bellezza di Cristo in una gloria di Cristo che non sia quella del Crocifisso: la si cercherà invano” (Barth)
    Il tema “amore e croce” viene coniugato da S. Giovanni della Croce, riprendendo la romanza - genere letterario dei trovatori medievali, che cantavano l’amor cortese - per dire, anche con questo, che tutto il cristianesimo è una drammatica e felice storia d’amore, nella quale si può impegnare tutta la propria esistenza.

    Un pastorello solo, addolorato,
    sta privo di piacere e di contento
    il pensiero alla donna tiene intento
    il petto dall’amore lacerato. (…)

    E dopo un po’ su un albero è salito
    Dove ha disteso le sue braccia belle
    E morto è rimasto appeso a quelle
    Il petto dall’amore lacerato”.

    Theologia pulchritudinis
    Il Cantico dei Cantici è un inno alla bellezza, che suscita l’amore. Ecco il mistero che sta nel cuore della storia della salvezza: “Dov’è andato a finire l’eros in teologia e il commento del cantico, che appartiene al centro della teologia?”, si chiede von Balthasar.
    “La nostra parola iniziale si chiama Bellezza. La Bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore ineffabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto” (idem).
    Paolo VI invitava a riscoprire e a ripercorrere la Via pulchritudinis, per toccare il cuore dell’uomo del nostro tempo. “E come diventeremo belli? - si domanda Agostino commentando Giovanni. Amando la Bellezza eterna. Quanto in te cresce l’amore, altrettanto cresce la Bellezza: poiché la carità stessa è la Bellezza dell’anima”.
    “Ricordatevi di amare con tutto il cuore colui che, tra i figli degli uomini, è il più bello... Considerate la Bellezza di Colui che amate…”, prosegue Agostino parlando alle vergini. La sua parola evidenzia ad oltranza quanto la verginità-castità sia carica di carità teologale. Al suo centro regna Cristo “insperata Bellezza” (S. Gregorio di Nissa), “Sposo bellissimo e totalmente desiderabile” (Bonaventura), freccia scoccata dal Padre, per ferirci d’amore (Origene).

    Preghiera

    Mi son trovato, o mio Signore,
    imbarazzato
    quel giorno della mia giovinezza
    in cui mi son scoperto
    talmente
    affamato di Bellezza.

    Mi son sentito,
    così all’improvviso,
    chiamato ad uscire
    fuori di me
    per ancorarmi al Cielo,

    come un bambino,
    sospeso al sorriso
    della madre
    diventa certo che quel mondo
    è la sua casa, ove l’amore
    non il timore
    saranno l’atmosfera
    dominante.

    E mentre, estasiato,
    sgranavo gli occhi
    a caccia di bellezza,
    fra le mille creature,
    che splendono di vita
    ne ho scoperta Una,
    che, per Tua Grazia,
    mi ha rapito il cuore.

    Era il Volto del Figlio,
    tessuto dallo Spirito
    nel grembo di Maria,
    Raggio di Te,
    Sorgente di Bellezza,
    e Primogenito
    di ogni creatura.

    Venne e mi prese
    ch’ero ancor fanciullo
    come il flautista
    di Hamelin
    o come un irresistibile
    ladro di ragazzi.

    Or vivo ancora
    col mio Rapitore,
    che col Suo sangue
    e con la Vita
    ha pagato il riscatto
    della mia liberazione.

     


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