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    7. Una comunità che celebra con gioia la salvezza


    Luis A. Gallo, LA CHIESA DI GESÙ. Uomini e donne per la vita del mondo, Elledici 1995

     


    Nel già più volte citato ideale di comunità ecclesiale tratteggiato dal libro degli Atti troviamo che, oltre a frequentare assiduamente l’insegnamento degli Apostoli, i suoi membri erano anche assidui “alla frazione del pane e alla preghiera” (At 2,42).
    Viene così evidenziata la sua dimensione cultuale o liturgica. Si tratta di una delle componenti costitutive della vita ecclesiale, che va compresa e vissuta nella sua genuinità, ossia all’insegna di quanto lo stesso Gesù Cristo ha proposto al riguardo.

    1. CI SONO DIVERSE MANIERE DI VIVERE IL CULTO

    Non è difficile constatare che, tra i cristiani d’oggi, esistono diversi modi di concepire il culto, tanto quello personale quanto quello comunitario, e anche diversi atteggiamenti riguardo ad esso, modi e atteggiamenti che più di una volta lasciano trapelare un misconoscimento del suo vero e genuino senso. Ne elenchiamo i principali.
    Ancora oggi ci sono dei cristiani che fanno consistere la loro appartenenza alla Chiesa esclusivamente nel partecipare a certe sue espressioni rituali: il battesimo dopo la nascita, la prima comunione nell’infanzia, il matrimonio più avanti nella vita, i funerali... Non vanno più in là di questo. Essi identificano fede con religione, religione con culto, e culto con rito. Pensano che il cristianesimo sia una delle tante religioni che cercano di rendere culto a Dio, una religione che rende culto in un determinato modo, che ha certe caratteristiche proprie ed è perciò diverso da quello di tante altre religioni esistenti nel mondo.
    Ciò li porta spesso a vivere una dicotomia tra culto e vita, come se fossero due compartimenti stagni senza uno stretto collegamento tra di loro. I sacramenti che frequentano, e in genere gli atti religiosi, costituiscono per essi come una sfera separata dalla vita quotidiana e chiusa in se stessa: la sfera del sacro, dove possono mettersi in rapporto con Dio. Si convertono così in espressioni di quel “religiosismo” di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. Il Dio che presiede questo loro culto è lontano dall’essere il Dio del regno che Gesù visse e annunciò nel portare avanti il suo progetto.
    Per altri cristiani, invece, quelli cioè che hanno preso coscienza delle situazioni contraddittorie che spesso vive il mondo nei confronti del progetto di Gesù e che hanno scoperto il bisogno e la possibilità della sua trasformazione mediante il loro impegno, il culto si converte alle volte in un ostacolo. Alcuni di essi non riescono a trovargli senso, oppure, in certi casi, arrivano a considerarlo come qualcosa di negativo. Adducono diversi motivi: per alcuni costituisce una perdita di tempo, quel tempo che dovrebbero invece dedicare all’urgente compito dell’impegno della trasformazione del mondo; altri lo trovano inadeguato, nella sua forma attuale, alla loro sensibilità e alle loro inquietudini.
    Uno dei fattori che ha esercitato maggiore influsso sul modo di pensare di questo secondo gruppo e indubbiamente il processo di secolarizzazione. Tale processo consiste sostanzialmente nel riconoscere l’autonomia delle realtà di questo nostro mondo (GS 36), ossia nel prendere coscienza che esse hanno “leggi e valori propri”, che si reggono dall’interno di se stesse senza che debbano essere mosse da altre forze superiori ed esterne. Questa presa di coscienza, effetto del processo scientifico-tecnico, porta inevitabilmente alla desacralizzazione nel senso che, affermando la non-dipendenza immediata e diretta di tali realtà dal mondo superiore o divino, le spoglia del carattere sacrale che avevano quando venivano ritenute sue manifestazioni immediate nel mondo.
    Risultato di questa desacralizzazione è che il culto tradizionale della Chiesa, incarnato perlopiù in espressioni sacrali, entra in crisi. Come dimostra una larga esperienza, sono di solito i giovani i più sensibili a questo impatto, soprattutto se appartengono alle società urbano-industriali o sono sotto l’influsso, oggi sempre più diffuso, della civiltà scientifico-tecnica.
    Ci sono infine dei cristiani che fanno della preghiera e delle altre espressioni cultuali, sia individuali che comunitarie, una specie di rifugio e di fuga dalla realtà. Paurosi davanti alle responsabilità che comporta l’esistenza, e soprattutto davanti agli impegni che implica una vera vita da discepoli di Gesù, essi trovano sicurezza in atti rituali, magari anche molto esteticamente curati, ma che servono in fondo soltanto a tenerli al riparo da tali responsabilità e impegni. Parafrasando ciò che diceva quel coraggioso cristiano che fu D. Bonhoeffer parlando di certi cristiani della Germania durante la seconda guerra mondiale, possiamo dire che questi cristiani a cui ci stiamo riferendo, anziché alzare la voce per denunciare nel nome Dio le torture inflitte ingiustamente a tanti uomini e donne, preferiscono mettersi a cantare le sue lodi in gregoriano...

    2. IL CULTO ALLA LUCE DEL VANGELO

    Questi diversi modi di pensare e di atteggiarsi davanti al culto implicano sempre una deformazione della sua vera natura. Risulta indispensabile pertanto cercare di chiarire la sua reale identità, affinché possa essere vissuto genuinamente dalle comunità dei discepoli di Gesù.
    Il culto cristiano presenta, infatti, caratteristiche proprie che lo rendono originale nei confronti sia dei culti pagani, i quali tendono a favorire quella dicotomia tra sacro e profano a cui abbiamo accennato, sia dello stesso culto dell’Antico Testamento, soprattutto in ciò che esso ha di meno genuino o perfino di deteriore. Le sue radici le troviamo tuttavia nella stessa esperienza del popolo veterotestamentario, e specialmente nell’attività svolta al suo interno dai profeti.

    2.1. I profeti in lotta per la purezza del culto

    Percorrendo la Bibbia si constata che una delle funzioni più rilevanti svolta dai profeti fu quella di lottare contro un modo di vivere il culto a Dio che lo convertiva in qualcosa di puramente esterno e ritualista. Amos, Geremia e Isaia possono essere considerati come i paladini di questa lotta. Citiamo, a modo di esempio, soltanto un testo del primo. Egli, parlando a nome di Dio, dice in certa occasione al popolo in mezzo al quale svolgeva la sua funzione: “Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco i vostri doni, e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei tuoi canti: il suono delle tue arpe non posso sentirlo. Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia scorra come un torrente perenne” (Am 5,21-24).
    Come si vede, questi profeti dell’Antico Testamento mettevano in crisi la falsa sicurezza del popolo circa la sua salvezza, quella sicurezza che pretendeva di fondarsi non su di una vita di impegno nel realizzare la volontà di Dio, ma sulla mera pratica di alcuni riti.

    2.2. Gesù, e Paolo dietro lui, per un culto “spirituale”

    Stando a quello che raccontano i Vangeli, Gesù di Nazaret fece pienamente sua e approfondì ancora maggiormente la linea dei profeti che lo precedettero, lottando apertamente contro l’ipocrisia di un culto che non corrispondeva alla vita, e annunciando al suo posto un culto nuovo svolto, come dice nel dialogo con la Samaritana, “in spirito e verità” (Gv 4,23).
    L’episodio narrato da Mc 7,1-13 è uno dei più significativi al riguardo. Ai farisei e agli scribi con cui si confronta, scrupolosi osservanti di tutte le prescrizioni rituali, Gesù rinfaccia l’inautenticità del loro culto riportando un testo del profeta Isaia: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Mi rendono un culto vano, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Mc 7,6-7, cit. Is 29,13). La ragione di questa inautenticità viene riposta da Gesù nel fatto che essi, in nome del culto a Dio, impedivano agli uomini di aiutare i loro genitori bisognosi, annullando così la Parola di Dio in forza della tradizione umana. Infatti, secondo l’uso introdotto tardivamente nel popolo, quando un figlio che possedeva dei beni li dichiarava corban, ossia dedicati al culto, restava automaticamente liberato dall’obbligo di assistere con essi i propri genitori. Così, in forza di tale uso, si lasciava da parte il precetto fondamentale dell’amore al prossimo.
    Si potrebbero addurre molti altri testi evangelici riguardanti il tema. Fra essi, per esempio, quelli che precisano la giusta interpretazione del precetto rituale del sabato. È di estrema importanza l’affermazione fatta da Gesù al riguardo: “Non è l’uomo per il sabato, ma il sabato per l’uomo” (Mc 2,27). Con queste parole egli colloca l’uomo al di sopra di un’espressione cultuale di grandissima importanza nel popolo d’Israele, quella del riposo sabbatico. Si sa, infatti, che la sua trasgressione meritava la pena di morte.
    Per Gesù, quindi, il culto rituale ha senso unicamente se è collegato a una vita vissuta secondo il volere di Dio. In caso contrario, è completamente privo di valore.
    Una ricerca approfondita sugli altri scritti del Nuovo Testamento porta gli studiosi della Bibbia a concludere che in essi vengono spesso impiegati termini del vocabolario cultuale, ma con due sensi diversi: quando si riferiscono al culto pagano o giudaico hanno un senso rituale e designano sacrifici, preghiere e atti analoghi; quando invece si riferiscono al culto cristiano designano sempre atti della vita comune e quotidiana nei quali si esprime l’amore e la donazione agli altri (S. Lyonnet).
    Uno dei testi più significativi in questo contesto è quello di Rm 12,1: “Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”.
    Secondo gli esegeti, san Paolo vuole dire qui che mentre il culto dell’Antico Testamento consisteva nell’offrire a Dio vittime immolate, animali o cose inanimate, nel Nuovo esso consiste invece nell’offrire se stessi nella vita di ogni giorno, una vita vissuta sulle orme di Gesù Cristo. L’Apostolo impiega nel testo una serie di parole proprie dell’ambito rituale giudaico (“vittime vive, sante, gradite a Dio”), ma le applica non alle cose bensì alle persone dei cristiani, i quali devono considerare se stessi come tali. E affinché nessuno dei suoi interlocutori abbia dubbi al riguardo, aggiunge la frase finale: “È questo il vostro culto spirituale”. Come a dire che per essi non c’è che un solo culto, quello spirituale, che consiste precisamente nella vita di ogni giorno, ma vissuta nell’amore disinteressato verso gli altri, come fu quella di Cristo.
    In sintesi, possiamo dire che il culto a Dio, secondo il Nuovo Testamento, si esercita in ogni atto della vita a lui veramente gradito, cioè in ogni atto veramente salvifico e vivificante. In questo modo diventa comprensibile che Dio possa avere adoratori “in spirito e verità” (Gv 4,23) dappertutto, anche oltre le frontiere visibili della comunità ecclesiale. Infatti, ogni uomo di buona volontà, che vive cercando di collaborare alla pienezza di Vita degli altri, rende in ciò stesso culto a Dio, anche senza saperlo.

    2.3. Un importante testo conciliare

    Il Vaticano II ha ripreso con coraggio e freschezza la linea neo-testamentaria su questa tematica. Lo si coglie soprattutto in un’affermazione molto densa della Lumen Gentium. Il testo si riferisce ai cristiani laici, ma va certamente oltre, fino a riferirsi a tutti i membri della Chiesa. È questo: “Ad essi [i cristiani laici] infatti, che intimamente congiunge alla sua vita e alla sua missione, Cristo concede anche parte del suo ufficio sacerdotale per esercitare un culto spirituale, affinché sia glorificato Dio e gli uomini siano salvati. Perciò i laici, essendo dedicati a Cristo e consacrati dallo Spirito Santo, sono in modo mirabile chiamati e istruiti per produrre sempre più copiosi i frutti dello Spirito. Tutte infatti le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiuti nello Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza, diventano sacrifici spirituali graditi a Dio per Gesù Cristo” (n. 34b).
    Due cose meritano di essere sottolineate in modo speciale in questo denso testo. Anzitutto, il fatto che in poche righe vengono fatti cinque riferimenti allo Spirito (come nome o come aggettivo). Viene così ribadito quanto abbiamo detto poco sopra, commentando il pensiero di san Paolo: questo culto è “spirituale” non perché escluda il corpo o le realtà materiali, ma perché ha come sorgente lo Spirito vivificante di Cristo e di Dio.
    Poi, il fatto che vengono elencati, come appartenenti all’ambito del culto spirituale, non soltanto aspetti e atti comunemente considerati come religiosi, quali le preghiere e i progetti apostolici, ma anche atti della vita comune e ordinaria, e la stessa vita coniugale, che qualche volta è stata pensata come l’aspetto meno religioso e più profano della vita cristiana.
    Secondo il Vaticano II, quindi, tutta la vita, senza eccezione, purché vissuta “nello Spirito”, è già un atto di culto a Dio. Non c’è bisogno, quindi, di nessuna aggiunta esterna che la renda tale. In questo modo si mette in evidenza che non sono le circostanze rituali quelle che rendono la vita cultuale, ma che è il cuore dell’uomo, trasformato dallo Spirito, ciò che la fa essere tale.
    Lo si coglie nella stessa attività di Gesù: egli intende rendere culto e gloria a Dio, suo Padre, con tutto ciò che fa in ordine al suo regno. Per lui è culto a Dio guarire un lebbroso, come lo è anche dare da mangiare agli affamati e liberare gli oppressi da spiriti cattivi, o perdonare i peccati.
    Si capisce pure così come il massimo atto di culto offerto a Dio nella storia, cioè l’avvenimento della passione-morte di Gesù, non abbia avuto forma rituale alcuna, ma sia stato invece un atto totalmente “profano” nelle sue connotazioni. Infatti, esso consistette in una esecuzione giudiziaria, ebbe quale protagonista un uomo sociologicamente non sacro, come ribadisce la Lettera agli Ebrei (Eb 7,13), si svolse in un momento e in un luogo non sacri (Gv 19,31; Eb 13,12), e venne realizzato utilizzando oggetti ugualmente non sacri (tra gli altri la croce, strumento di tortura visto come una maledizione: Gal 3,13).
    Questo modo di intendere il culto illumina ancora un altro aspetto della comunità ecclesiale, posto fortemente in rilievo, con un certo senso di novità, dallo stesso Vaticano II, e al quale abbiamo accennato precedentemente. Durante molti secoli il modo di agire nell’ambito liturgico portò a pensare che il sacerdozio fosse solo una prerogativa di alcuni - concretamente i vescovi e i presbiteri - che di fatto monopolizzavano il ruolo attivo nella celebrazione dei sacramenti. Si collegò così il concetto di sacerdozio con quello di culto rituale o liturgico, circoscrivendolo quasi esclusivamente ad esso. Da questo modo di agire derivò, tra l’altro, la passività degli altri fedeli nelle celebrazioni sacramentali, quell’atteggiamento di meri spettatori che assunse la maggioranza di essi, e favorì di conseguenza la dicotomia tra culto e vita.
    Tanto nella Lumen Gentium quanto, e ancora prima, nella costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Liturgia, il Concilio cercò di modificare questo modo di pensare e di fare. Senza negare l’esistenza di un sacerdozio ministeriale, del quale ci occuperemo più avanti, lasciò in chiaro l’esistenza di un altro sacerdozio, anteriore e più fondamentale, che chiamò “sacerdozio dei fedeli” (LG 10-1 1). Esso sta a dire che in realtà è la comunità tutt’intera a essere sacerdotale. Ed è tale in forza di quel sacerdozio spirituale del quale abbiamo parlato sopra. Essa (e in essa ognuno dei suoi membri) è chiamata a esercitare quel sacerdozio che consiste nell’impegnarsi concretamente perché, come voleva Gesù, gli uomini abbiano Vita, e l’abbiano in abbondanza, a cominciare da quelli che ne sono più privi.
    Si può dire ancora di più: per logica di cose bisogna affermare che in realtà ogni uomo, chiunque esso sia, esercita tale sacerdozio, dal momento che si occupa corresponsabilmente della Vita e della Morte degli altri. Nella misura in cui lo fa, è anche sacerdote del Dio vivente, benché non ne abbia coscienza. Fa parte del grande gruppo di coloro che, secondo il Vangelo di Matteo, saranno riconosciuti alla fine da Cristo come “benedetti” (Mt 25,34-36), perché avranno vissuto ciò che dice uno degli apostoli, “la religione pura e senza macchia agli occhi di Dio Padre” (Gc 1,27).

    3. E IL CULTO LITURGICO?

    L’originalità del culto cristiano appena evidenziata porta a superare radicalmente la dicotomia tra culto e vita. Infatti, è un invito urgente a trasformare tutto ciò che si fa e tutto ciò che si vive in impegno per la vita piena degli uomini. Lungi dall’essere un’alienazione o, come diceva Marx, “oppio del popolo”, si converte in un nuovo stimolo alla responsabilità, tanto più pressante quanto maggiore è la coscienza di ciò che Dio stesso vuole.
    Ma suscita anche, o almeno acuisce, una difficoltà: perché allora la Chiesa fa atti rituali? Che senso ha fare un battesimo, un matrimonio sacramentale, la stessa Messa? Se tutta la vita è culto a Dio, o può esserlo, perché fare la cresima o andare a confessarsi? Tutto ciò, non è un sottrarre forze a quell’unico impegno fondamentale che consiste nel lavorare per la “vita abbondante” della gente concreta? In poche parole, ha qualche valore tutto ciò che si riferisce alla vita liturgico-sacramentale della comunità ecclesiale?
    Queste difficoltà, come si è detto, non sono immaginarie. Tanto i cristiani meno sensibili alla vita ecclesiale comunitaria quanto quelli più desiderosi di vivere una vita evangelicamente impegnata le sperimentano. I primi, perché forse non hanno scoperto la dimensione comunitaria della fede, riducendola a un qualcosa di puramente individuale; i secondi, perché non vedono il rapporto tra una vita di donazione agli altri e gli atti rituali.
    La soluzione di tale difficoltà va cercata nel senso di celebrazione che caratterizza il culto rituale cristiano.

    3.1. Cos’è celebrare

    Da un punto di vista antropologico celebrare è fare in forma festiva, e quindi anche comunitaria e in qualche misura rituale, un’azione che di per sé è comune e corrente.
    Un esempio, tra tanti, può chiarirlo. Mangiare è un’azione che si fa ordinariamente con una certa frequenza per nutrirsi e ricuperare le energie consumate. Ma ci sono certe occasioni in cui il mangiare umano acquista un altro senso, che va al di là di questa esigenza naturale: è festa. Così l’anniversario di una data cara, uno sposalizio, un onomastico, ma anche un trionfo sportivo o professionale... In queste occasioni l’azione di mangiare cessa di essere qualcosa di comune per acquistare la tonalità della celebrazione. Si celebra allora un banchetto, nel quale si vive una continuità e una rottura con il mangiare di ogni giorno, poiché si tratta di un mangiare festivo. Si utilizzano fondamentalmente le stesse cose, si fanno sostanzialmente le stesse azioni, ma in un’altra tonalità. La tovaglia e i fiori, la cura dei cibi e delle bevande, le conversazioni tra i partecipanti e la musica, tutto insomma ha una dimensione diversa: lo si fa non tanto per riacquistare le forze fisiche, quanto soprattutto per condividere la gioia tra le persone, per stare insieme festivamente.
    L’esperienza dimostra che la celebrazione e la festa sono una necessità umana, perché gli uomini e le donne hanno bisogno di manifestarsi vicendevolmente l’affetto che si portano, e perché ogni celebrazione e ogni festa, se è autentica, rafforza i vincoli già esistenti tra di essi. Una vita umana senza celebrazioni perde in colore e in forza, e corre il rischio di disumanizzarsi. Viceversa, se è costituita da un alternarsi tra il comune e il festivo, tra il quotidiano e la celebrazione, trova in ciò una fonte di crescita e di equilibrio.
    Possiamo allora cogliere facilmente la parentela esistente tra la celebrazione nell’ambito puramente umano, e il culto liturgico e rituale della vita ecclesiale. Tutti e due sono, in realtà, azioni che rendono visibili e rafforzano realtà che passano come inavvertite nella quotidianità.

    3.2. Le celebrazioni ecclesiali

    Ogni autentica celebrazione ecclesiale, fatta da coloro che vivono e si radunano in forza della fede in Gesù Cristo e nel suo Vangelo, è un segno che rende visibile comunitariamente la salvezza concreta degli uomini, e allo stesso tempo uno strumento che la produce e la fa crescere. In questo senso, ognuna di esse ha un carattere in qualche misura sacramentale, e comporta diversi aspetti che prendiamo ora brevemente in considerazione.
    Anzitutto, ogni celebrazione ha un contenuto, celebra qualcosa. Nelle espressioni cultuali cristiane ciò che viene celebrato è la salvezza, nel senso già precedentemente spiegato, ossia il trionfo della Vita sulla Morte. Perciò hanno sempre un carattere pasquale. Tale salvezza è allo stesso tempo dono di Dio e compito dell’uomo: è grazia.
    Quando i cristiani celebrano in assenza di questo contenuto, il loro culto si riduce a pura apparenza, a culto “vano”, come quello che denunciava Gesù presso i farisei (Mc 7,7), e corre il rischio di convertirsi in un atto di magia o di ipocrisia.
    A questo riguardo è molto illuminante l’avvertimento fatto da Paolo alla comunità di Corinto (1 Cor 11,17-34). Ai cristiani di quella giovane Chiesa, che si radunavano per celebrare ciò che oggi chiamiamo la “Messa” o “Eucaristia”, l’Apostolo scriveva tassativamente: “Ciò che voi fate non è mangiare la Cena del Signore”. La loro celebrazione era vuota, non aveva contenuto, perché essi non vivevano ciò che volevano celebrare, cioè l’amore fraterno fatto realtà nella vita. Paolo enuncia due motivi per i quali il loro gesto rituale risultava vuoto: “Fra di voi ci sono divisioni” e “mentre uno è ubriaco l’altro ha fame”. E metteva in evidenza davanti ai loro occhi il risultato negativo della loro celebrazione: “Vi fa più male che bene”.
    Troviamo in queste parole di Paolo un criterio fondamentale per giudicare dell’autenticità del culto rituale nelle comunità ecclesiali di tutti i tempi: la sua vincolazione con il culto nella vita, con lo sforzo previo fatto dalla comunità per rendere a Dio il culto spirituale precedentemente descritto. È questo culto spirituale che viene elevato a livello di celebrazione negli atti liturgici e rituali della comunità. Dove esso è morto, o nella misura in cui non esiste, i partecipanti celebrano veramente nel vuoto.
    Oltre al contenuto, c’è anche il modo in cui questo trionfo della Vita sulla Morte viene celebrato. Tale modo è condizionato, concretamente, dagli aspetti della salvezza che la comunità vuole rendere evidenti e dagli effetti che ne vuole ottenere.
    Perciò nella Chiesa non c’è un’unica celebrazione, sempre uguale e costantemente ripetuta, ma esiste invece una varietà di celebrazioni.
    Di fatto, quelle fondamentali sono organizzate (almeno da un certo momento della storia) attorno ai sette grandi sacramenti, ognuno dei quali ha caratteristiche proprie e peculiari. Non è il caso di soffermarsi a parlarne lungamente. Ci limitiamo a enunciare soltanto il senso fondamentale di ognuno di essi, sottolineando l’aspetto particolare che vuole visualizzare in quanto segno, e produrre in quanto strumento.
    Nel Battesimo la comunità celebra gioiosamente l’incorporazione di un nuovo membro, con tutti gli effetti che essa comporta. È un’incorporazione che implica di per sé un’opzione - nei bambini ancora inconsapevole - di fare proprio il progetto di Gesù e di entrare a far parte della Chiesa quale “sacramento universale della salvezza” (LG 48b).
    Nella Cresima viene celebrato comunitariamente l’impegno più adulto nell’ambito dell’appartenenza alla comunità ecclesiale. Tale impegno è frutto dell’azione vivificante dello Spirito Santo (LG 11a).
    La Penitenza o Riconciliazione è celebrazione ecclesiale della conversione di quei membri della comunità che riconoscono di essere stati incoerenti con i loro impegni, chiudendosi nel loro egoismo e offendendo così se stessi, i fratelli e Dio. A tale conversione, manifestata visibilmente, corrisponde anche il visibile perdono di Dio e della comunità (LG 11 b).
    L’Unzione degli infermi è celebrazione del senso evangelico che i membri della comunità, seriamente ammalati, danno alla loro sofferenza e alla stessa loro morte (LG 11b).
    Nel sacramento dell’Ordine la Chiesa celebra invece l’opzione di alcuni cristiani di mettersi definitivamente al servizio pastorale dei loro fratelli. A tale opzione, che è già un dono di Dio, corrisponde nella celebrazione la consegna di una serie di facoltà per il servizio che essi dovranno esercitare (LG l1b).
    Nel Matrimonio viene ecclesialmente celebrato l’amore sponsale che, quale grazia di Dio, è germogliato e cresciuto tra un uomo e una donna, fino a maturare in loro la decisione di essere definitivamente l’uno per l’altro, e ambedue per gli eventuali figli.
    Nella celebrazione tale amore si fa ecclesialmente visibile ed è accolto, rafforzato e benedetto da Dio e dalla comunità (LG 1lb).
    Infine, mediante la più importante delle celebrazioni, l’Eucaristia, la comunità ecclesiale rende visibile e contribuisce a far crescere ciò che costituisce come la sostanza viva della Chiesa stessa: l’amore fraterno, l’unità della comunità, il fatto di essere “un cuor solo e un’anima sola” (At 4,32). In essa sfociano tutti gli sforzi fatti in ordine a creare una maggiore fraternità nella Chiesa e nel mondo. Perciò quello del banchetto festivo è il suo segno primordiale.
    È importante ricordare ancora che il soggetto di tali celebrazioni è sempre la comunità ecclesiale in quanto tale. Lo richiede la loro stessa natura festiva. Su questo punto ha insistito con forza il Vaticano II nella sua costituzione sulla liturgia, reagendo alla tendenza accentuatamente individualista dei secoli immediatamente precedenti (SC 14.26). Nessuno, di conseguenza, è considerato mero spettatore nelle celebrazioni ecclesiali. Ognuno invece svolge attivamente il suo ruolo. Ciò non vuol dire che tutti devano fare tutto. La comunità è organica, c’è in essa diversità di servizi, ed è indispensabile che ognuno assuma il suo. In forma molto stringata, possiamo dire che ogni autentica celebrazione ha, quindi, un vero carattere “sinfonico”.
    Aggiungiamo inoltre che, come ogni comunità umana, anche quella ecclesiale ha bisogno di alternare il comune e quotidiano con il festivo. Il ritmo di frequenza di ognuna delle sue celebrazioni si è andato determinando, lungo la storia, secondo la natura della propria azione da una parte, e la sensibilità dei tempi dall’altra. Così, per esempio, mentre agli inizi l’Eucaristia si celebrava soltanto le domeniche (At 20,7), più tardi cominciò a celebrarsi ogni giorno e addirittura parecchie volte al giorno; il Battesimo, che in un primo momento veniva celebrato in qualunque giorno, passò poi a essere celebrato solo nel tempo pasquale e più tardi e per altri motivi di nuovo senza data fissa; la Penitenza o Riconciliazione, che ebbe una forma molto solenne nei primi sei secoli per i peccatori pubblici che ricorrevano ad essa una sola volta nella vita, acquistò poi col tempo un altro ritmo e altre modalità fino ad arrivare a una periodicità settimanale e anche maggiore.
    Il fatto poi che i sacramenti siano celebrazioni, anche se nell’ambito della fede, fa sì che in essi si coniughino gli aspetti di continuità e di rottura tra il quotidiano e il festivo di cui abbiamo parlato sopra.
    Agli inizi del cristianesimo, forse per contrapporre più chiaramente l’originalità del culto annunciato da Gesù alla dicotomia tra culto e vita dei culti pagani, la comunità ecclesiale sottolineò di più la continuità con la vita che la rottura con essa. I primi cristiani, infatti, non avevano templi diversi dalle case in cui si radunavano per celebrare il banchetto fraterno come Cena del Signore; nemmeno avevano “sacerdoti” nel senso pagano o veterotestamentario del termine, ossia persone riservate esclusivamente per ufficiare il culto; né usavano oggetti sacri, destinati unicamente alle loro celebrazioni, e neanche avevano un giorno sacro in senso stretto, poiché, sebbene si radunassero “il primo giorno della settimana” (At 20,7; 16,2) in ricordo della risurrezione di Gesù, ciò non significava che per essi gli altri giorni non fossero “del Signore”.
    A questo periodo iniziale ne segui un altro, in cui si mise l’accento sul polo opposto. Come si è visto, con l’ufficializzazione del cristianesimo nel secolo IV, molti elementi religiosi del paganesimo entrarono nuovamente nella Chiesa. Si andò così rinforzando una linea di progressiva resacralizzazione che sottolineò la rottura di tutto ciò che è cultuale con il resto della vita. I cristiani cominciarono ad avere i loro templi, a separare sempre più i loro ministri dal profano, a consacrare altari, calici e svariati oggetti di culto, a riservare vesti speciali per le celebrazioni.
    Attualmente si torna a sentire il bisogno di insistere di più sulla continuità con il quotidiano che sulla rottura con esso. È anche un modo di saldare la dicotomia tra culto e vita, sempre in agguato nella vita di fede. Ciò non può tuttavia far dimenticare che ogni celebrazione, per il fatto di essere tale, esige una tonalità diversa da quella comune. Ogni celebrazione è in qualche misura festa, e la festa comporta le sue esigenze. Fra le altre, un certo grado di ritualità, espresso in determinati gesti e in determinato linguaggio che aiutino a “trasgredire” il quotidiano, a uscire verso il festivo e a realizzarlo nell’ambito della fede. La celebrazione è, quindi, il luogo per eccellenza dove la comunità può e deve dispiegare la sua dimensione estetica, dove cioè può e deve impegnarsi affinché tutto sia bello di una bellezza che, senza essere affettata, sia reale.

    4. OLTRE ALLA COMUNITÀ, LA PREGHIERA PERSONALE

    Finora abbiamo parlato delle espressioni cultuali comunitarie, cercando di evidenziare il loro senso e le condizioni della loro autenticità. Ma il rapporto cultuale con Dio non si esaurisce nel comunitario, ha anche manifestazioni individuali. Tra queste, una di notevole importanza è la preghiera personale.
    Anche da questo punto di vista la condotta di Gesù fa testo per i suoi discepoli. Impressiona, nella lettura dei Vangeli, l’insistenza con cui egli viene presentato in atteggiamento di preghiera (cf Mc 1,35; Lc 6,12, ecc.). Non si tratta, come un tempo si poteva pensare, di un “buon esempio” che egli volle lasciarci; si tratta invece, da quel che possiamo cogliere, di una profonda necessità da lui sentita. Prima ancora di raccomandare ai suoi discepoli di pregare, e di pregare con insistenza e perseveranza (Lc 9,5-13), egli stesso prega personalmente. E prega con intensità e a lungo, in mezzo all’attività più febbrile in ordine al regno di Dio, perché sa che il principale protagonista del suo avvento è Colui che egli chiama “Abbà”, il Dio-Padre della Vita che vuole appunto la Vita in pienezza per tutti e per ognuno.
    Gesù non è quindi un mero attivista, ma un uomo profondamente religioso. Non è un “bigotto”, ma è un uomo di solida preghiera. Egli agisce come aggrappato alla mano di Dio e si afferra fortemente a Lui per portare avanti il suo “sogno”. Dai dati che ricaviamo dalla lettura dei Vangeli possiamo intravedere quale sia stato il suo atteggiamento intensamente filiale nel dialogo mantenuto con Lui, e anche ciò che possiamo chiamare “la materia” della sua preghiera: il progetto del regno. Dalla preghiera trae forza, coraggio, luce e tenacia. Pregherà, stando ai testimoni sinottici, fino al momento della sua morte in croce (Mt 27,46; Lc 23,46).
    Possiamo con sufficiente certezza affermare che Gesù ha partecipato ordinariamente durante la sua vita alle attività cultuali del suo popolo: frequentava la sinagoga, ascoltava la lettura della Bibbia, pregava con i suoi connazionali, partecipava alla cena pasquale e agli atti solenni del Tempio di Gerusalemme; tutto ciò però non gli bastava per nutrire la sua dedizione appassionata alla causa della Vita della gente. Egli coltivò costantemente la preghiera personale. Potrebbero i suoi discepoli non seguirlo anche in questo?


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