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    6. Una comunità attorno alla Parola


    Luis A. Gallo, LA CHIESA DI GESÙ. Uomini e donne per la vita del mondo, Elledici 1995

     


    1. PRECISANDO UN CONCETTO

    Il libro degli Atti, nel tratteggiare quell’ideale di una comunità ecclesiale di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, oltre a dire che la chiave di volta di tutto l’edificio è la comunione, ne specifica anche tre dimensioni fondamentali. La prima è quella della fede: la Chiesa è una comunità costituita da credenti in Gesù risorto e nella sua grande proposta evangelica (At 4,32). Dalla comunione nella stessa fede deriva tutto il resto, e su di essa si fonda tutto il resto.
    È importante perciò chiarire in che cosa consista tale fede. Alle volte, infatti, si prende per essa ciò che in realtà essa non è.

    1.1. Non basta essere “religiosi”

    Alcuni confondono la fede cristiana con la semplice religiosità. Pensano che consista nel mero fatto di essere convinti dell’esistenza di un Essere Superiore che è all’origine di tutto, e che premia i buoni e punisce i cattivi, soprattutto dopo la morte.
    Da quello che leggiamo negli scritti del Nuovo Testamento capiamo che questa religiosità non è ancora fede cristiana, perché manca ancora di qualcosa di decisivo: l’accoglienza esplicita della persona di Gesù Cristo e della sua proposta evangelica.
    Altri invece confondono la fede con ciò che possiamo chiamare “religiosismo”, ossia un atteggiamento di sottomissione fatalista a forze superiori che si manifestano attraverso i fenomeni, soprattutto straordinari, della natura.
    Spesso tale atteggiamento ubbidisce a una concezione secondo la quale “dio” è pensato come rivale dell’uomo. È un dio-a-spese-dell’uomo, che richiede il suo annichilimento perché ogni sua affermazione metterebbe in pericolo il dominio e la sovranità divini.
    Tale religiosismo è una caricatura dell’autentica fede cristiana, dal momento che arriva, come conseguenza della sua impostazione di fondo, a giustificare, appellandosi alla volontà di Dio, i più grossi assurdi della storia umana quali la fame di milioni di persone, la povertà imposta, le ingiustizie, e anche quelli della natura quali le inondazioni, la siccità, i terremoti, le epidemie...
    Questo religiosismo non è in realtà una risposta a una Parola di Dio, ma piuttosto una reazione spontanea e “primitiva” alla fatalità della natura.

    1.2. Non basta neanche aderire alle dottrine proposte dalla Chiesa

    Per altri, essere credenti consiste nell’aderire fermamente, passando magari al di sopra delle eventuali ripugnanze razionali, a tutte le verità che propone ufficialmente la Chiesa (articoli del credo, dogmi e dottrine proposte dal papa o dai vescovi), verità misteriose che non si capiscono con la ragione ma che si accettano perché le ha rivelate Dio.
    Questo modo di concepire la fede è il risultato di un lungo processo storico.
    Ebbe già i suoi antecedenti remoti negli ultimi scritti del Nuovo Testamento (specialmente nelle cosiddette Lettere pastorali), che riflettono la preoccupazione di far fronte alle prime eresie emergenti nelle comunità. “Mantieni intatto il deposito della fede”, esorta l’autore della Lettera a Timoteo (6,20) concludendo una lunga serie di raccomandazioni al suo destinatario, sul modo di comportarsi davanti alle “profane novità” che vanno spuntando.
    Alcuni secoli più tardi, quando Tommaso d’Aquino analizzò la fede utilizzando lo schema della conoscenza-per-testimonianza-altrui elaborato da Aristotele, aprì una breccia che si andò allargando sempre più col tempo: quella di un’eccessiva accentuazione della componente conoscitiva o veritativa della fede a scapito delle altre sue componenti.
    A rinforzare questa accentuazione contribuì più tardi, nel secolo XVI, la decisione del Concilio di Trento contro la posizione di Lutero in questo tema. Per Lutero infatti la fede, più che in una conoscenza oggettiva di verità rivelate da Dio, consisteva in una fiducia radicale nel Dio della misericordia (DS 1562). Così, contrapponendosi a questa concezione, il Concilio Tridentino sbilanciò ancora ulteriormente il peso verso la componente conoscitiva della fede.
    Nel secolo scorso, poi, il Vaticano I, polemizzando contro il razionalismo dell’epoca che oppugnava tutto ciò che pretendesse di essere al di sopra della ragione umana, definì la fede come quella virtù soprannaturale per la quale, aiutati dalla grazia di Dio, si aderisce fermamente con l’intelligenza alle verità rivelate da Lui, in forza della sua autorità (DS 3008).
    Si può capire, in base a questi elementari dati, perché in quest’ultimo secolo molti cristiani abbiano avuto una concezione, se non esclusivamente, almeno prevalentemente dottrinale o veritativa della fede.
    Tale concezione portò già precedentemente a orientare il lavoro pastorale soprattutto verso “l’istruzione religiosa”. E diede anche origine in qualche momento ad atteggiamenti di esagerata preoccupazione per l’ortodossia, come quelli che si concretizzarono nella creazione della cosiddetta “Santa Inquisizione”.

    1.3. Verso un rinnovamento

    Alcuni anni fa, sotto l’influsso di movimenti di pensiero esistenziale e personalistico, ebbe inizio un tentativo di ripensamento della concezione della fede.
    Esso accentuò con forza gli aspetti esperienziali della fede. Pensò che credere sia soprattutto aprirsi totalmente all’incontro e alla comunione con Dio e con la sua Parola. Una Parola concepita a sua volta come espressione dell’autocomunicazione della stessa intimità divina all’uomo, in un clima di fiducia e di amicizia. “Io credo in te (ossia: io ho fiducia in te, come persona), e perciò io credo anche quello che tu mi dici”, potrebbe essere la frase che sintetizza bene questo modo di pensare la fede. Tale concezione venne assunta dal Vaticano II, specialmente nella costituzione Dei Verbum sulla divina rivelazione (n. 5), e si diffuse ampiamente nella Chiesa a livello tanto teologico quanto pastorale e catechetico.
    Essa significò indubbiamente un grande arricchimento, se la si confronta con le concezioni sopra descritte. Ma ha anche dei limiti. Fra essi uno dei più rilevanti, se si tiene conto dei dati biblici, è la sua tendenza intimistica che la porta a ignorare, o almeno a non prendere sufficientemente in conto, le dimensioni socio-strutturali dell’esistenza umana.
    Questa fede esistenziale si gioca infatti prevalentemente sul fronte del binomio “io-Tu”, dimenticando che quell’“io” è un essere umano che vive in un mondo nel quale le componenti sociali, economiche e politiche svolgono un ruolo decisivo. Resta, di conseguenza, una fede prevalentemente ridotta alla sfera del privato.

    1.4. Sulle orme dei credenti biblici

    Un autentico rinnovamento nel modo di concepire la fede non può prescindere dal ricorso alle fonti bibliche. Molte delle sottolineature del recente rinnovamento esistenziale e personalistico che abbiamo appena ricordato trovano un reale fondamento in essi, ma vi si possono ricavare ancora altri elementi.
    L’Antico Testamento ci racconta spesso le vicende di uomini e di donne che sono vissuti da veri credenti in Dio. In realtà, l’intero popolo d’Israele, protagonista dell’antica alleanza, vi appare come un popolo che cerca, in mezzo a mille difficoltà, di vivere da credente.
    Gli scrittori biblici del libro della Genesi incarnarono in un personaggio-chiave questo sforzo di secoli: è Abramo, il capostipite del popolo, che Paolo più tardi chiamerà “il padre dei credenti” (Rm 4,11). In quel primo libro della Bibbia, nel narrare la sua emblematica “avventura”, vengono messi in evidenza le componenti più rilevanti della sua fede.
    Anzitutto, la situazione in cui egli si trova al momento in cui inizia la sua avventura di credente. Abramo è un uomo attanagliato dalla morte. Il testo fa rilevare che la sua moglie è sterile (Gn 11,30), e che quindi egli è destinato a non avere discendenza; il che significava, nella mentalità del tempo, essere irremissibilmente condannato a scomparire. Fa rilevare, inoltre, che essendo un pastore seminomade e non possedendo terra propria, si trova costantemente esposto al pericolo delle bande di briganti allora molto numerose.
    In secondo luogo, il racconto biblico dice che egli, trovandosi in quelle condizioni, ascolta una Parola di Dio apportatrice di una promessa carica di futuro per lui: figli numerosi come le stelle del cielo, terra spaziosa e feconda, sicura protezione dai nemici (Gn 12,2-3.7, ecc.).
    Infine, descrive la sua risposta: Abramo, l’uomo senza futuro, si mette in cammino alla ricerca della realizzazione della promessa; smette di guardare alla sua presente situazione di morte e inizia la marcia verso il futuro traboccante di vita promessogli da Dio. Crede, agendo, che ciò che a tutte le previsioni sembra impossibile diventerà possibile perché Dio è di mezzo.
    In questo modo, come affermerà più tardi la Lettera agli Ebrei, egli vince la morte e trova la vita (Eb 11,8-12.17-19).
    Si potrebbe analizzare l’esperienza di fede di tanti altri personaggi dell’Antico Testamento e vi si troverebbero gli stessi tratti fondamentali della fede di Abramo.
    Nel Nuovo Testamento viene delineata con tratti forse ancora più chiaramente identificabili l’esperienza di fede di figure di grande rilievo. Tra esse spiccano quella di Maria, la madre di Gesù (Lc 1,26-38.45), e quella dello stesso Gesù, riconosciuto come “l’iniziatore e il consumatore della nostra fede” (Eb 12,2). In forma più esplicita vi troviamo tratteggiata la fede delle prime comunità ecclesiali. Ci soffermiamo brevemente su quest’ultima, che resta per noi emblematica.
    Anche gli uomini e le donne di queste prime comunità che si trovano alle prese, come ogni essere umano, con le mille forme di presenza della Morte nella loro esistenza personale e sociale, ricevono a un certo punto, come Abramo, una promessa di Vita straripante. Se ne sentono gli echi, per esempio, nel discorso che Pietro e gli altri discepoli rivolgono il giorno della Pentecoste a coloro che sono accorsi attratti dai segni della venuta dello Spirito: “Dio ha risuscitato Gesù di Nazaret sciogliendolo dalle angosce della Morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere 1...]. Per voi è la promessa, e per i vostri figli” (At 2,22.24.39); oppure in quello di Paolo ai giudei di Antiochia di Pisidia: “Vi annunciamo la buona notizia che la Promessa fatta da Dio ai padri Dio l’ha compiuta in noi, i figli, risuscitando Gesù” (At 13,32).
    Era questo il gioioso annuncio che i primi credenti andavano ripetendo, in forme diverse, a tutti coloro che volevano ascoltarli. Così l’attesta il libro degli Atti: “Gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù con grande forza” (4,33).
    Con ciò volevano dire che Dio aveva già cominciato a realizzare, nella persona di Gesù di Nazaret, la speranza più radicale di tutta l’umanità: il superamento totale e definitivo della Morte; e che questa prima realizzazione costituiva una garanzia del superamento della Morte per l’intera umanità. Tutto stava nel mettersi a farlo diventare reale.
    Resta così evidenziato, in poche e stringate parole, il nucleo centrale e la sostanza viva della fede. Come si può vedere, non si tratta di enunciati dottrinali astratti, ma di una promessa di futuro da “verificare” (rendere vera) con l’impegno di tutti.
    La risposta di quegli uomini e donne all’annuncio non consiste principalmente nel cercare di capirne il significato (cosa che per altro tentano anche di fare), ma piuttosto nel mettersi a realizzarlo. Appena Pietro finisce di parlare, reagiscono infatti chiedendo: “Fratelli, cosa dobbiamo fare?” (At 2,37).
    E il libro degli Atti descrive anche ciò che si mettono a fare: guariscono lo storpio del Tempio (3,1-10), sollevano molti ammalati (5,15-19), risuscitano una morta (9,36-41), liberano un’alienata sfruttata dai suoi padroni (16,16-19)...
    Inoltre, la risposta alla Parola ascoltata si concretizza nello sforzo di vivere in chiave di risurrezione, organizzandosi, come abbiamo visto nel capitolo precedente, in una comunità nella quale il criterio con cui si rapportano tra di loro non è quello dell’egoismo accaparratore che conduce alla Morte, ma quello dell’amore che condivide e genera Vita (At 4,32-35).
    Possiamo esprimere l’essenziale della loro esperienza di fede dicendo che, per essi, credere nella risurrezione avvenuta in Gesù di Nazaret consiste concretamente nel mettersi a fare la risurrezione dei morti. Perché sono fermamente convinti che la Morte è già stata vinta in lui, si danno con entusiasmo incontenibile all’opera per eliminarla ovunque essa si manifesti tra gli uomini.

    2. VIVERE IN COMUNIONE DI FEDE

    Quanto abbiamo detto finora illumina anche il senso della comunione nella fede, che è uno dei costitutivi essenziali di ogni comunità ecclesiale.
    Premettiamo, anzitutto, che esiste una comunione nella fede che va oltre all’accettazione degli enunciati espliciti da essa formulati: consiste nel condividere la realizzazione di ciò che tali enunciati propongono.
    Chi dà da mangiare all’affamato e da bere all’assetato, chi veste l’ignudo o visita l’ammalato e il carcerato è, pur senza saperlo e magari senza volerlo, in comunione di fede pratica in Gesù Cristo (Mt 25,34-40) con tutti quelli che cercano di realizzare la salvezza degli uomini.
    Questo dato fondamentale non va mai dimenticato. Da tale comunione nasce la grande comunità di coloro che sono aggregati dallo stesso Spirito vivificante (GS 22e), e che va molto al di là della comunità ecclesiale.
    Ma, senza eliminare questo primo dato, esiste anche la Chiesa come “comunità di credenti” (At 4,32).
    Fanno parte di essa coloro che hanno deciso di impegnarsi nel far trionfare la Vita sulla Morte all’insegna della specifica proposta di Gesù. Essi non sono solo in comunione di azione, ma condividono anche la visione evangelica della realtà, il modo in cui Gesù stesso l’ha vista e l’ha affrontata. Sono fermamente convinti che questa maniera di vedere le cose è la più ricca e la più feconda per l’umanità, pur senza negare che ce ne siano altre ricche e feconde. Perciò ci tengono saldamente ad essa.
    D’altra parte, da questa visione evangelica della realtà i credenti in Gesù Cristo ricevono luce per affrontare e illuminare i problemi che la vita e la storia vanno presentando loro. Per questo, dietro le orme dei primi discepoli, anch’essi cercano di alimentare la comunione nella fede mediante l’assiduità “all’insegnamento degli Apostoli” (At 2,42). Tornano cioè spesso a riprendere contatto con il grande annuncio del Vangelo, per poter cogliere tutte le sue implicanze.
    Una comunità ecclesiale che non frequenta la Parola, finisce per inaridirsi o per assumere, quale guida del suo modo di essere e di agire, altre proposte che non sono quella che dovrebbe conferirle la sua identità. È anche questo uno dei motivi per i quali si è instaurato un ritmo settimanale di incontro nell’Eucaristia.

    2.1. Ortodossia o ortoprassi?

    Come abbiamo già accennato precedentemente, in tempi non molto lontani la Chiesa è stata alle volte perfino eccessivamente preoccupata per la comunione dei suoi membri nella stessa fede. L’eresia costituì per essa come un incubo che mise a dura prova la sua serenità. Una notevole quantità di concili, regionali ed ecumenici, hanno avuto come obiettivo prioritario la lotta contro tali eresie. In realtà, tutti i concili universali della Chiesa, prima del Vaticano II, si sono mossi in tale direzione.
    Davanti a questo dato innegabile bisogna anzitutto ribadire ancora una volta l’importanza che ha la condivisione degli enunciati della fede: se la comunità ecclesiale non ne fosse convinta, non li custodirebbe con tanto zelo. Essa sa, come ricordava Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi, che ne va di mezzo la salvezza degli uomini (n. 5). È quindi convinta che non è indifferente abbracciare e proporre agli altri qualunque progetto. Quello di Gesù Cristo è il più fecondo, il più capace di contribuire alla salvezza degli uomini, e perciò ci tiene tanto a custodirlo con estrema fedeltà.
    D’altra parte occorre ricordare che se il senso più genuino di questa comunione nella fede viene oscurato, il suo contenuto finisce per convertirsi in una ideologia astratta e statica. Allora l’ortodossia si trasforma in fanatismo e genera morte.
    È di somma importanza, quindi, tener presente che l’ortodossia è al servizio della salvezza e che, pertanto, è sempre un mezzo e non un fine. Il fine è sempre uno solo: far trionfare la Vita sulla Morte.
    Ciò comporta, fra altre cose, il bisogno di rivedere costantemente gli enunciati in cui si esprime la fede, affinché conservino la loro autenticità. Una Chiesa non è in comunione nella stessa fede perché custodisce insieme qualcosa di passato e di morto, ma perché condivide una risposta seria e impegnata ai problemi reali degli uomini a partire dal Vangelo. I suoi enunciati servono precisamente a orientare rettamente tale azione di salvezza (ortoprassi).

    2.2. Ci sono gradi nell’accoglienza della fede

    È anche importante tener presente che la proposta evangelica, fatta propria nella sua integralità dai cristiani, può venire (e di fatto spesso viene) accolta solo parzialmente da altri uomini e donne che non si riconoscono membri della Chiesa.
    Ma anche all’interno della comunità ecclesiale questo può avvenire con una certa frequenza, soprattutto nel mondo giovanile, dal momento che si vive oggi in una società molto frammentata. Il vivere una pluralità di appartenenze porta spesso specialmente i giovani a essere selettivi nei confronti dei contenuti della fede.
    In altri tempi si è reagito in maniera piuttosto integrista davanti a questo fatto, applicando il criterio dell’“o tutto o niente”: chi non dimostrava di accogliere tutte e ognuna delle verità della fede, veniva estromesso dalla comunità ecclesiale. In pratica, scomunicato.
    Oggi invece questo criterio è stato in genere abbandonato. Si mantiene salda la convinzione che nella fede ci sono degli elementi essenziali che non possono venir tralasciati senza trasformarla sostanzialmente, perché sarebbe intaccarla nel suo nucleo; ma, allo stesso tempo, si riconosce che ci sono altri aspetti che hanno rapporti molto più tenui con tale nucleo, e che esiste perciò quella che il Concilio ha chiamato la “gerarchia delle verità” (UR 11; EN 25).
    Una prima conseguenza di questo cambio di prospettiva è che, all’interno della Chiesa, non risulta tanto facile qualificare qualcuno di “eretico”, come accadeva in altri tempi. La visione evangelica lascia infatti un ampio margine di flessibilità per molti aspetti che non le sono essenziali.
    Probabilmente, se la Chiesa in passato avesse tenuto più conto di questo, non si sarebbe arrivati alle rotture tra i diversi gruppi di cristiani (ortodossi, protestanti) che si sono prodotte in diversi momenti della storia.
    Una seconda conseguenza riguarda il rapporto tra le diverse Chiese che si dicono cristiane, ossia il problema dell’ecumenismo. Il fatto di riconoscere l’esistenza di una gerarchia tra gli enunciati della fede ha già avuto, e continua ad avere, una grande incidenza in quest’ambito. In esso ora le Chiese tendono ad ammettere che, in realtà, “è molto più quello che ci unisce che quello che ci separa”, come amava dire papa Giovanni XXIII.
    In genere, ciò che attualmente separa ancora questi diversi gruppi di cristiani è costituito da componenti della fede che si situano a una certa distanza dal cuore del messaggio evangelico. Alle volte, più che di contenuti diversi, si tratta di ottiche o modi di vederli culturalmente diversi. Si capisce allora perché il documento conciliare sull’ecumenismo abbia abbandonato il criterio integrista in questo contesto (UR 3-4), sostituendolo con quello della gradualità nella comunione.
    La meta dello sforzo ecumenico consiste, quindi, nel superare ciò che ancora divide le Chiese che si ispirano alla persona e al messaggio di Gesù Cristo, e nell’arrivare alla piena comunione di fede, senza però auspicare l’uniformità nel modo di esprimerla.
    Ancora una questione si ricollega strettamente con ciò che è stato detto finora. Un certo modo di concepire le cose nella teologia della fede del passato aveva portato a dimenticare quasi completamente la componente esistenziale dell’adesione alla medesima. Come se esso si producesse all’insegna della sola intelligenza.
    Più realista al riguardo si dimostrò ai suoi tempi san Tommaso, il quale sosteneva che, umanamente parlando, il motivo ultimo per il quale qualcuno si decide a dare il suo sì alla fede è il fatto di trovare in essa un appagamento del suo appetito di felicità. “Oggetto della fede sono le cose che riguardano la felicità dell’uomo”, affermava il grande Dottore.
    Questa osservazione porta a concludere che, come si è detto precedentemente, soltanto chi scopre - magari solo intuitivamente - il collegamento tra gli enunciati della fede e il proprio desiderio di pienezza di vita può dare loro il suo consenso.
    Mutare qualcuno a dare il proprio assenso alla fede comune consisterà quindi, in concreto, nel collaborare a fargli cogliere tale collegamento, a farglielo balenare, per così dire, davanti agli occhi. E ciò non avviene, ordinariamente, da un momento all’altro, ma richiede tempo e pazienza.
    Richiede, inoltre, rispetto del ritmo proprio di ciascuno. Probabilmente, date le condizioni di pluralismo e frammentarietà di cui parlavamo sopra, alcuni uomini e donne, e soprattutto alcuni giovani, non arriveranno mai a un assenso totale e definitivo a tutti i contenuti secondari della fede. Non sembra si devano per questo ripristinare i tempi dell’Inquisizione. Tanto più se, al di là di questa non-piena-ortodossia contenutistica o veritativa, essi danno segni di vivere una sostanziale ortoprassi evangelica.

    3. PERCHÉ CREDENTI, ANCHE PROFETI

    Parlare della Chiesa come comunione di fede senza alludere al tema della profezia, che costituisce uno dei suoi aspetti essenziali e di grande attualità, sarebbe lasciar disatteso un tema molto importante.
    Uno sguardo pur succinto a ciò che fu il profetismo nel popolo d’Israele può aiutare a capire meglio tale tema.

    3.1. La Parola di Dio nella storia

    In che consiste essere profeta? Molti pensano che consista nel fare vaticini misteriosi sul futuro, o nell’indovinare in anticipo ciò che avverrà in avvenire. Questa concezione non risponde pienamente all’esperienza profetica di cui parla la Bibbia, pur coincidendo in parte con essa.
    Il profeta biblico non è neanche semplicemente colui che parla nel nome di Dio, o che proferisce la sua Parola, come sembra suggerire la stessa etimologia del termine. Tutto dipende, infatti, da come viene concepita la Parola stessa di Dio.
    L’originalità dei profeti dell’Antico Testamento si coglie meglio se li si confronta con altre figure presenti in esso. Infatti, i profeti vi si distinguono tanto dai “saggi” quanto dagli “scribi”. E la distinzione fondamentale consiste precisamente nel fatto che, mentre questi ultimi si occupano di insegnamenti e spiegazioni legali, i profeti esercitano il loro ruolo soprattutto nei confronti degli avvenimenti storici del popolo.
    Essi sono mossi dalla preoccupazione di mettersi all’ascolto dei grandi movimenti storici e dei mutamenti del loro tempo, e tutta la loro predicazione è contrassegnata da una straordinaria mobilità nel seguire i fenomeni storici, e da una grande flessibilità nell’adeguarvi costantemente i loro discorsi.
    Grazie ai profeti, il popolo d’Israele poté crescere nella coscienza del progetto di Dio nella storia. Furono essi, infatti, quelli che misero vigorosamente in risalto la dimensione escatologica del tempo, ossia la sua tensione verso un futuro di pienezza.
    Per cogliere con maggior chiarezza il significato della funzione profetica, è utile approfondire il genuino senso della Parola di Dio così come l’ha esposto la costituzione conciliare Dei Verbum.
    Vi è in essa un’affermazione che racchiude la sostanza stessa della Bibbia, pur non coincidendo con nessuna delle sue frasi esplicite. È la seguente: “La rivelazione divina si realizza mediante eventi e parole intrinsecamente vincolati fra di loro [...]. Le parole portano a luce il mistero in essi contenuto” (n. 2).
    La frase finale è di una densità estrema. Include due elementi di grande importanza.
    Anzitutto, l’affermazione che il luogo proprio del “mistero” è la storia del popolo di Dio. Per “mistero” il testo intende non una verità che supera la capacità della ragione umana, ma il grande progetto divino di salvezza per l’umanità. Tale progetto, nascosto sin dall’eternità nell’intimità della libertà divina, è in via di realizzazione nel mondo, negli avvenimenti della storia del suo popolo. Questa è, di conseguenza, una epifania o manifestazione di detto disegno di Dio.
    Ciò significa che la storia umana è, nei suoi avvenimenti di salvezza, come un sacramento che rende visibile la volontà di Dio stesso.
    Il secondo elemento importante contenuto nella frase della Dei Verbum è l’affermazione che, per cogliere la densità o spessore divino della storia, ci vogliono gli occhi del profeta.
    Profeta è appunto, come abbiamo visto sopra, colui che possiede la capacità di scandagliare a fondo gli avvenimenti, di attraversare la loro “scorza” esterna e di cogliervi la presenza di Dio operatrice di salvezza.
    La fede, da questo punto di vista, consiste nella capacità di scoprire il Dio vivente all’opera nella storia.
    Ne è un caso emblematico, nell’Antico Testamento, quello del grande profeta dell’avvenimento dell’esodo, Mosè. Probabilmente ci furono nell’antichità diversi esodi simili a quello degli Ebrei (cf Am 9,7); solo il popolo d’Israele, tuttavia, arrivò, grazie alla mediazione di Mosè, a scoprire che la sua liberazione non era un mero avvenimento umano, ma aveva una densità divina.
    Nel Nuovo Testamento è invece emblematico il caso di Gesù stesso nel racconto dell’apparizione ai due discepoli di Emmaus: egli li porta a cogliere, nella vicenda della croce, la massima manifestazione della salvezza di Dio (Lc 24,13-27).
    In sostanza, quindi, si può dire che profeta è colui che annuncia la Parola colta nella storia. L’annuncia affinché coloro che l’ascoltano la accolgano e la assecondino. È questo il suo obiettivo fondamentale. La profezia non si riduce a una chiamata alla contemplazione estatica dell’intervento di Dio, ma sollecita anche all’impegno davanti a questa manifestazione. È, in definitiva, un servizio alla corresponsabilità del popolo con il Dio della storia.

    3.2. Profeti, oggi

    Verso la fine dell’Antico Testamento, quando lo spirito di profezia si stava spegnendo in Israele, gli stessi profeti annunziarono una sua futura effusione sull’intera comunità dei tempi messianici. Nel libro degli Atti un discorso di Pietro proclama davanti al mondo il compimento di tale annuncio il giorno della Pentecoste: “Sta ora accadendo quello che predisse il profeta Gioele: 'Negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno [...]. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno'” (At 2,16-18).
    Il Concilio Vaticano II riprese la linea di queste affermazioni bibliche già nella Lumen Gentium (nn. 12.33), ma soprattutto nella Gaudium et Spes al n. 11, dove dice: “Il Popolo di Dio, mosso dalla fede [...], cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio”.
    Questo testo merita un’attenzione speciale, data la sua portata. Lo analizziamo qui di seguito, rilevandone le principali componenti.
    Viene in esso segnalata, anzitutto, l’azione principale a cui vengono sollecitati i membri della comunità ecclesiale: discernere. Il che significa tentare di distinguere, in un insieme di cose, alcuni elementi da altri, in base a un criterio prestabilito. Questo verbo principale - “discernere” - viene accompagnato da un altro verbo: “si sforza”. Esso sta a indicare la difficoltà implicata in tale azione. Indubbiamente risulta più facile applicare dei principi che discernere nella realtà.
    Il materiale sul quale i credenti sono sollecitati a esercitare tale discernimento viene indicato come “gli avvenimenti, le richieste e le aspirazioni cui il Popolo di Dio prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo”. In altri termini possiamo dire:
    l’oggi della storia. Non soltanto della storia della stessa comunità ecclesiale, ma della storia umana in quanto tale.
    Si tratta di un allargamento operato dalla Gaudium et Spes nei confronti della Dei Verbum (n. 2). Qui sono gli avvenimenti storici dell’umanità in quanto tale quelli che possono essere portatori della presenza salvifica di Dio. In questo modo, la storia umana acquista una densità divina e viene collocata sul piano teologale.
    Per inciso il testo allude anche al bisogno di incarnazione nella storia dei membri della Chiesa. Essi non devono vivere in un altro mondo, ma devono immergersi nel processo della storia. Altrimenti non potrebbero partecipare con i loro contemporanei a quanto accade in essa, e neanche esercitare la loro funzione profetica a suo riguardo.
    Il Concilio precisa anche ciò che occorre cercar di scoprire mediante il discernimento: i segni veri della presenza o del piano di Dio. In concreto, dove si sta manifestando, nella storia umana, il disegno divino di salvezza. Poiché la storia è ambigua, dal momento che in essa si mescolano salvezza e perdizione, Vita e Morte, il discernimento previo risulta indispensabile per poter agire adeguatamente. Il giudizio che si formula al suo riguardo è di somma importanza, perché da esso dipende poi l’azione che s’intraprenderà.
    C’è anche un’indicazione sul soggetto al quale viene attribuita questa responsabilità, mediante l’espressione: “il Popolo di Dio”. Va intesa nel senso già precisato nella Lumen Gentium, ossia come l’intera comunità dei credenti in Cristo. Nessuno quindi può esimersi, così come nessuno può pretendere di monopolizzare tale responsabilità. La responsabilità profetica è di tutti e di ognuno, senza eccezione.
    Ciò non significa negare l’esistenza di quel servizio ecclesiale che è stato chiamato “Magistero”, esercitato da coloro che presiedono le comunità ecclesiali (papa, vescovi) nei confronti della fede. Significa invece che questa stessa funzione va svolta in chiave profetica: consisterà più nell’animare e presiedere il discernimento di fede dell’intera comunità, che nell’insegnare dottrine o verità.
    Resta da puntualizzare un aspetto, non esplicitamente rilevato nel testo che stiamo analizzando: il criterio da utilizzare nel discernimento proposto. Lo si ricava dall’avvenimento-chiave di tutta la storia della salvezza, la risurrezione di Gesù. Alla sua luce si capisce che tutto ciò che porta al trionfo della Vita sulla Morte è segno vero della presenza del disegno di Dio nella storia, e viceversa.
    È un criterio che, nella sua applicazione, richiederà l’utilizzazione di tutti i mezzi necessari per cogliere, nella concretezza delle circostanze storiche, ciò che in esse c è di Vita e ciò che c’è invece di Morte. Tenendo d’altronde presente che, ordinariamente, le due realtà si trovano mescolate fino al punto di esigere alle volte molta fatica per riuscire a distinguerle.
    Per finire questo tema, aggiungiamo un rilievo: come ogni dono, anche questo della profezia si converte in un compito per coloro che lo ricevono. Essere profeta non è un privilegio dei cristiani, ma una responsabilità davanti a Dio e alla storia. Dal giudizio pronunciato sulle situazioni storiche dipende anche l’azione che ne segue da parte della comunità ecclesiale. Di qui la sua estrema gravità.


    T e r z a
    p a g i n A


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