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    4. Proclamare al mondo il gioioso annuncio


    Luis A. Gallo, LA CHIESA DI GESÙ. Uomini e donne per la vita del mondo, Elledici 1995



    1. GESU DI NAZARET, IL PRIMO EVANGELIZZATORE

    Come vedevamo in un capitolo precedente, la passione per il regno di Dio, ossia, in concreto, per la vita in abbondanza degli uomini, spinse Gesù di Nazaret a un’attività instancabile.
    Secondo i Vangeli, c’erano giornate in cui egli non aveva neanche il tempo di mangiare (Mc 3,20). Il Vangelo di Giovanni riporta questa sua frase, detta in occasione di una disputa in cui gli veniva rinfacciato di violare la legge del riposo sabbatico perché aveva guarito in quel giorno un paralitico: “Il Padre mio opera sempre, e io anche opero” (Gv 5,17).
    Ma, oltre ad agire, Gesù anche parlava. E parlava soprattutto per comunicare il progetto del regno di Dio invitando gli altri ad accoglierlo, e per chiarirne le implicanze.
    Infatti, introducendo la narrazione della sua attività in mezzo al popolo, l’evangelista Marco dice molto laconicamente: “Andò Gesù in Galilea proclamando la buona notizia e dicendo: “Il regno di Dio è alle porte, convertitevi e credete a questo lieto annuncio'” (Mc 1,14-15).
    Più di una volta, d’altronde, i vangeli dicono che egli si rivolgeva alle folle, o ai suoi discepoli, o a qualche persona in particolare. Egli parlava nelle sinagoghe degli ebrei (Mt 4,23; Lc 4,14-15, ecc.), sulle colline ridenti che attorniano il lago di Genesaret (Mt 5,1; Mc 3,13; Lc 6,20, ecc.), a casa di amici (Lc 10,38-42; Gv 12,13, ecc.) e avversari (Lc 7,36), strada facendo (Mc 8,27; Mt 16,21, ecc.), nel Tempio (Gv 7,14.28, ecc.), e perfino davanti al tribunale del Prefetto romano (Mt 27,11; Gv 18,33-37, ecc.).
    I racconti evangelici di queste conversazioni lasciano intravedere che egli parlava veramente “dall’abbondanza del suo cuore” (Mt 12,34). E già conosciamo ciò che aveva nel cuore: il grande progetto della convivenza vivificante tra gli uomini, nella quale Dio potesse regnare.

    2. I DISCEPOLI, INVIATI A FARE DA ARALDI DEL LIETO ANNUNCIO DEL REGNO

    Stando accanto a Gesù, anche i suoi discepoli impararono ad agire per il progetto del regno di Dio. Anch’essi parteciparono alla sua travolgente attività, tanto da venir invitati da lui stesso qualche volta ad andare “in qualche posto appartato a riposare un po’” (Mc 6,31). Invito che non riuscirono d’altronde ad assecondare pienamente perché, appena messi in cammino verso il posto prescelto, le folle, scoprendo dove si dirigevano, si affrettarono a raggiungerli.
    L’abbiamo già indicato precedentemente: Gesù convocava uomini e donne perché lo seguissero abbracciando il suo progetto. Ed è proprio per questo che anch’essi, tanto durante la vicenda storica di Gesù quanto soprattutto dopo la Pasqua, si convertirono in araldi della “buona notizia” del regno.
    Il Vangelo di Matteo ci fa sapere che quando Gesù inviò i dodici in missione, disse loro: “Durante il viaggio parlate a voce alta dicendo: 'Il regno dei cieli è vicino'” (Mt 10,5). E quello di Luca, raccontando l’invio dei settantadue discepoli, riporta queste parole a lui attribuite: “Se entrate in una città e siete ben accolti, mangiate ciò che vi sarà presentato, guarite i malati che vi saranno e dite loro: 'È a voi vicino il regno di Dio'” (Lc 10,9).
    Da parte sua, il Vangelo di Marco si chiude con quel solenne invito di Gesù: “Andate per tutto il mondo e annunziate la buona novella a tutti gli uomini” (Mc 16,15).
    Nel libro degli Atti degli Apostoli questa dimensione dell’annunzio è fortemente presente; anzi, si potrebbe dire che l’intero libro non è altro che la narrazione del progressivo diffondersi dell’annunzio fatto dai primi discepoli, prima a Gerusalemme, poi nella Galilea e nella Samaria, e infine “sino ai confini del mondo” (At 1,8).
    Ormai essi, fatta l’esperienza della risurrezione di Gesù e della presenza viva e palpabilmente dinamica dello Spirito, non annunziano più il regno di Dio, ma la risurrezione del loro Messia e Signore (At 2,22-36; 3,24; 4,8-12.33, ecc.). È che, per essi, il regno di Dio come trionfo della Vita sulla Morte si è già realizzato pienamente nella persona di Gesù, quale promessa di realizzazione per tutti: Gesù risorto è il regno di Dio in persona.
    Fare questo annunzio è, per loro, comunicare agli altri la più “bella e gioiosa notizia” (evangelo) che possano dare, perché è la notizia della speranza che può riempire di senso l’intera esistenza.

    3. LA COMUNITÀ ECCLESIALE, EVANGELIZZATRICE DIETRO LE ORME DI GESÙ

    L’abbiamo ripetuto già più di una volta: la principale ragion d’essere della Chiesa come comunità di discepoli di Gesù è quella di far trionfare concretamente nel mondo la Vita sulla Morte in tutte le sue forme. Per essa, quindi, la prassi di risurrezione occupa il primo posto nella gerarchia delle sue preoccupazioni.
    Ma, appunto perché vuole prolungare Gesù nella storia, si converte, con lui e come lui, in evangelizzatrice. Oltre a fare, parla, annunzia. Continua a dire il Vangelo “a tutti gli uomini” (Mc 16,15) di tutti i tempi.
    Di questo tema si è occupato in forma del tutto particolare, dopo il Vaticano II, il Sinodo dei Vescovi del 1974. Paolo VI, e con lui tanti altri Pastori della Chiesa, preoccupati per le nuove condizioni in cui versa il mondo e per le loro ripercussioni sulla fede, celebrarono quel Sinodo per affrontarne le problematiche e le sfide. Finita la celebrazione sinodale, il Papa ne raccolse magistralmente le conclusioni nella Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, che costituisce come una specie di “magna charta” dell’impegno della Chiesa postconciliare in questo aspetto.
    Restano veramente programmatiche, e allo stesso tempo gravide di conseguenze, le parole con cui Paolo VI apre l’Esortazione: “L’impegno di annunziare il Vangelo agli uomini del nostro tempo animati dalla speranza, ma, parimente, spesso travagliati dalla paura e dall’angoscia, è senza alcun dubbio un servizio reso non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l’umanità” (n. 1).
    Ne terremo conto a continuazione, nel tentativo di esplicitare le principali componenti di questa responsabilità ecclesiale.

    4. L’ANNUNCIO COMPORTA “UN CONTENUTO ESSENZIALE”, UNA “SOSTANZA VIVA”

    È importante, per la Chiesa intera e per ognuno dei suoi membri, riproporsi spesso la domanda decisiva sul che cosa annunciare. Non è difficile, infatti, sbagliare al riguardo dando importanza a ciò che non ne ha e viceversa. Il rimprovero che Gesù rivolgeva ai farisei dei suoi tempi potrebbe farlo più di una volta a chi dice di evangelizzare oggi: “Voi filtrate i moscerini e ingoiate il cammello!” (Mt 23,24). Il paradosso rende bene l’idea: non ci si può impegnare in questioni senza rilievo trascurando quelle che sono realmente importanti.
    La Evangelii Nuntiandi afferma che “nel messaggio che la Chiesa annunzia, ci sono certamente molti elementi secondari [...]; ma c’è il contenuto essenziale, la sostanza viva, che non si può modificare né passare sotto silenzio, senza snaturare gravemente la stessa evangelizzazione” (n. 25a).
    Ma quale è questo “contenuto essenziale”? Quale questa “sostanza viva”? Non può essere altro che ciò che stava nel cuore delle preoccupazioni di Gesù di Nazaret e dei suoi primi seguaci: il gioioso annuncio del regno di Dio.
    Questa lieta novella è in definitiva, come si vede chiaramente nella prassi evangelizzatrice di Gesù, una proposta in ordine alla trasformazione dell’uomo e dell’intera realtà, affinché ci possa essere “vita in abbondanza” per tutti, a cominciare da quelli che ne hanno di meno.

    4.1. Una proposta...

    Il Vangelo di Gesù è anzitutto proposta, non imposizione. La Chiesa perciò lo offre alla libertà degli uomini e delle donne, e non lo carica pesantemente sulle loro spalle.
    In altri tempi, segnati da sensibilità culturali differenti dall’attuale, gli uomini erano più disposti alla sottomissione. Una certa esperienza del rapporto con la natura e i suoi determinismi li inchinava a sentirsi più oggetto delle decisioni altrui (Dio o la natura) che soggetti di decisioni proprie.
    Oggi non è più così. O lo è sempre di meno. Il grande movimento della modernità si è sviluppato precisamente all’insegna dell’emancipazione e, come conseguenza, gli uomini e le donne del nostro tempo sono sempre più gelosi della loro libertà e della loro responsabilità.
    D’altronde, stando anche al concetto di “dignità umana” che propone lo stesso Vaticano II (Dignitatis Humanae 1), soltanto ciò che è abbracciato liberamente è realmente consono con essa e aiuta a crescere in umanità.
    Un “vangelo” imposto - in qualunque modo, aperto o velato - cesserebbe quindi automaticamente di essere tale, sarebbe perfino una contraddizione: come potrebbe costituire una “lieta notizia” ciò che contribuisce a diminuire la dignità fondamentale dell’uomo?
    Lo capì bene Giovanni XXIII quando, convocando il Vaticano II, disse che, a differenza di tutti i precedenti concili ecumenici radunati per combattere qualche eresia o qualche disordine, questo voleva fare lo sforzo di presentare serenamente davanti al mondo ciò che la Chiesa di Gesù crede, senza pretesa alcuna di imporlo a nessuno.

    4.2. ... per la trasformazione del mondo

    L’annunzio evangelico è portatore di una proposta che trasmette un progetto, quello di trasformare la realtà, in ogni sua sfaccettatura, di portarla verso il superamento radicale e definitivo della Morte. È, per ciò stesso, segnalazione della strada della Vita.
    In questo modo, esso viene ad essere una risposta alla più profonda domanda umana di tutti i tempi: la domanda sulla pienezza della Vita.
    Diceva Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi che nella ricchezza dell’annuncio “l’umanità può trovare, in una pienezza insospettabile, tutto ciò che essa cerca a tentoni su Dio, sull’uomo e sul suo destino, sulla vita e sulla morte, sulla verità” (n. 53).
    Il Vangelo di Gesù non è quindi mai un annuncio puramente intimistico o spiritualistico, quasi una formula per raggiungere la propria perfezione individuale. È annuncio di salvezza e, in quanto tale, si apre a tutte le dimensioni della salvezza che abbiamo descritto nel capitolo precedente.
    D’altronde, soltanto se viene colto dagli uomini e dalle donne come una risposta traboccante alle loro più profonde e legittime aspirazioni potrà essere accolto da essi, ogni giorno sollecitati da tante proposte differenti dal Vangelo stesso.
    Ciò contribuisce a far prendere coscienza che, se in determinati momenti della storia la comunità dei discepoli di Gesù si è potuta soffermare su dettagli dell’annuncio, poiché “la sostanza viva” e “il contenuto essenziale” si supponevano, magari con un po’ d’ingenuità, già fondamentalmente acquisiti, nelle attuali circostanze essa è costretta a tornare a ciò che è centrale, a gerarchizzare accuratamente i suoi contenuti. Come ricordava lo stesso Paolo VI, nel messaggio che la Chiesa annuncia ci sono elementi secondari. Essi meritano quindi un’attenzione proporzionata. Altrimenti si rischia veramente di “filtrare i moscerini e ingoiare il cammello”.

    5. L’INTERA COMUNITÀ ECCLESIALE PROTAGONISTA DELL’ANNUNCIO

    Le succitate circostanze storiche hanno portato alle volte a pensare che l’annuncio della Buona Nuova di Gesù fosse soltanto responsabilità di coloro che presiedono la comunità ecclesiale: papa, vescovi, sacerdoti. È, in definitiva, una delle conseguenze del modo clericale di concepire la Chiesa, secondo il quale la gran massa dei battezzati venivano considerati solo membri passivi della medesima, sotto la dipendenza dei loro pastori.
    Né i documenti neotestamentari né quelli conciliari né le circostanze attuali favoriscono un tale modo di vedere le cose; al contrario, inducono a pensare che questo compito dell’annuncio è affidato all’intera comunità di coloro che si dicono discepoli di Gesù.
    Il Vaticano II ha ribadito più di una volta, all’insegna della sua svolta ecclesiologica, quest’idea: nessuno, se è veramente cristiano, può sentirsi solo passivo ascoltatore dell’annuncio evangelico, quasi una specie di “cliente” di coloro che lo proclamano; se lo facesse, sarebbe segno che il Vangelo di Gesù non gli ha detto nulla, o che è stato da lui accettato soltanto per inerzia sociale, per tradizione familiare o per convenienza, e non realmente come una “lieta novella”.
    Ciò non toglie importanza - anzi, l’accresce - all’affermazione della Evangelii Nuntiandi sulla necessità di una costante autoevangelizzazione della comunità ecclesiale stessa. Dice infatti l’Esortazione apostolica che, chiamata ad essere evangelizzatrice, la Chiesa “comincia con l’evangelizzare se stessa [...]. Essa ha sempre bisogno di essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunciare il Vangelo” (n. 15a).
    È come un’eco di ciò che diceva san Paolo: “Ho creduto, perciò ho parlato” (2 Cor 4,13).
    La ragione è ovvia: se non c’è un reale convincimento della validità di questo messaggio, difficilmente si può comunicare con entusiasmo agli altri. E tale convincimento è costantemente sottoposto a confronto, specialmente oggi, dato il pluralismo che si vive nel mondo. Di qui il bisogno di un costante e rinnovato ascolto dell’annuncio.
    In questo contesto diciamo una parola su due categorie di membri della comunità ecclesiale a cui spetta oggi un ruolo speciale nell’annunzio: i giovani e i poveri.
    Anzitutto, i giovani. Molti di essi soffrono oggi, a differenza di altri tempi, per il fatto di venire considerati semplici destinatari dell’evangelizzazione fatta dagli adulti. La loro energia e il loro entusiasmo giovanile costituisce una ricchezza meravigliosa per la diffusione della proposta evangelica. Forse sono loro i più adatti a scoprire le strade più adeguate per far passare nel mondo attuale questa “buona notizia”, precisamente perché, essendo giovani, sono come dotati di antenne speciali per cogliere le sensibilità dei tempi. Ciò li rende atti a esercitare un reale protagonismo nell’impegno dell’evangelizzazione, e soprattutto dell’evangelizzazione del mondo giovanile con il quale sono a contatto giorno per giorno.
    Ciò richiede ovviamente dagli adulti, e soprattutto da coloro che presiedono le diverse comunità ecclesiali, la capacità di fare loro spazio affinché possano esplicare le loro capacità.
    Sul ruolo dei poveri nell’ambito dell’annuncio evangelico si sta oggi riflettendo molto nella Chiesa, specialmente a causa delle istanze che vengono dal mondo della povertà. Il Documento dell’Assemblea dei Vescovi Latino-americani di Puebla, ricordato nel nostro capitolo secondo, prese seriamente in considerazione quanto sta avvenendo soprattutto nelle Comunità Ecclesiali di Base, e coniò un’espressione molto felice al riguardo: parlò del “potenziale evangelizzatore dei poveri” (n. 1147).
    L’espressione è molto pregnante. Essa sta a indicare la speciale capacità che hanno questi poveri reali di cogliere con estremo realismo il messaggio evangelico e di annunciarlo a se stessi e agli altri. La ragione di questa loro peculiare capacità è la loro stretta sintonia (una sorte di “connaturalità”) con il Vangelo. Essendo essi i primi e privilegiati destinatari del regno di Dio proclamato da Gesù, come si vede nei racconti evangelici, sono anche certamente essi i più predisposti ad accogliere il suo annuncio e a comunicarlo ad altri. In questo senso, come dice un teologo latino-americano, i fatti stanno scavalcando le riflessioni: i poveri, infatti, si stanno di fatto “riappropriando del Vangelo” (G. Gutiérrez).
    Probabilmente il riconoscimento di questo potenziale evangelizzatore dei poveri dovrà ancora faticare per trovare il suo posto nelle Chiese, spesso orientate in altre direzioni, ma non si può dimenticare che, stando ai più solidi dati dei Vangeli, esso costituisce un criterio decisivo di genuinità dell’annuncio stesso.

    6. UN ANNUNCIO ATTENTO ALLA PROPRIA AUTENTICITA

    L’annuncio di questa proposta evangelica da parte della comunità ecclesiale e dei singoli cristiani comporta precise esigenze che vanno accuratamente rispettate. Parlando di questo argomento la Evangelii Nuntiandi sintetizzò in una sola parola ciò che avevano enunciato al riguardo in diversi modi i documenti del Vaticano II. È la parola “fedeltà”. L’annuncio deve essere fedele in due direzioni: verso il passato, al messaggio ricevuto; verso il presente e in vista del futuro, alle persone a cui esso si rivolge concretamente (n. 4a).

    6.1. Il messaggio va consegnato nelle sua genuinità

    I cristiani non inventano il Vangelo che proclamano. Lo hanno ricevuto da colui che l’ha proclamato inizialmente quasi duemila anni fa, Gesù di Nazaret, il primo evangelizzatore (EN 7), attraverso una lunga catena di “staffette” che lo accolsero e a loro volta lo riconsegnarono. La loro fedeltà ad esso è quindi segno di genuinità.
    Il progetto del regno di Dio, proclamato dal Vangelo di Gesù, è risposta divina alle più profonde aspettative di pienezza dell’uomo. Non rispettarlo nella sua genuinità sarebbe tradire l’uomo stesso nelle sue aspirazioni più radicali di pienezza.
    Bisogna tuttavia precisare cosa vuole dire, più in concreto, tale fedeltà, per evitarne false interpretazioni.
    I cristiani non sono fedeli al messaggio di Gesù quando si attengono semplicemente a una ripetizione letterale delle parole in cui venne espresso al momento in cui egli lo proclamò, parole che troviamo riportate dai Vangeli o dagli altri scritti neotestamentari. Infatti, si sa che la massima fedeltà letterale a tali parole finisce più di una volta per costituire un’autentica infedeltà al loro contenuto. Già san Paolo ammoniva i cristiani del suo tempo in questo senso: “La lettera uccide, è lo spirito che dà vita” (2 Cor 3,6).
    Basta pensare, per esempio, alle conseguenze deprecabili a cui porta una lettura “fondamentalista” o ferreamente letterale della Bibbia presso alcuni gruppi di cristiani, protestanti o cattolici che siano, per convincersene. Essi finiscono per travisare e addirittura per rovesciare il senso profondo del messaggio stesso.
    Si è veramente fedeli a tali parole, invece, quando si cerca di cogliere in esse ciò che è messaggio di salvezza per l’uomo, ciò che è risposta alla sua genuina richiesta di felicità e di pienezza, e lo si fa poi oggetto di annuncio.
    Al riguardo il Vaticano II, parlando in genere dell’interpretazione dei testi biblici, ha creduto opportuno segnalare che “è necessario che l’interprete ricerchi il senso che lo scrittore sacro intese di esprimere ed espresse in determinate circostanze, secondo la condizione del tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso. Per comprendere infatti nel suo giusto valore ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve fare attenzione sia agli abituali e originari modi di intendere, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che allora non erano in uso nei rapporti umani” (DV 12d).
    Non basta quindi una semplice ripetizione di formule, per sacre che possano essere considerate, ma è necessario l’annuncio di quanto di salvifico per l’uomo esse contengono.

    6.2. Tenendo presente la situazione concreta

    Ma, oltre a questa fedeltà al passato, i cristiani, per essere fedeli al Vangelo, cercano di calano nel presente. Non parlano agli uomini e donne del nostro tempo come se fossero esseri extratemporali o di altri tempi. Cercano di fare in modo che la Parola di salvezza arrivi a loro nel vivo della loro concretezza.
    Essi sanno, infatti, che nei confronti dell’annuncio del Vangelo vige lo stesso principio che regge l’intero modo di agire di Dio con gli uomini: tutto ciò che Egli fa è sempre “per noi uomini e per la nostra salvezza” (Credo niceno-costantinopolitano: DS 150). La Parola che Egli dice è sempre, quindi, un messaggio per l’uomo, affinché possa trovare la sua pienezza di Vita (DV 2.7a).
    Detto più concretamente, ciò significa che anche per l’annuncio i cristiani tengono presente quello che è stato chiamato “il regime di incarnazione”. La Parola di salvezza fatta già pienamente carne individualmente una volta in passato nell’uomo Gesù di Nazaret (Gv 1,14), continua il suo processo di incarnazione nella carne collettiva dell’umanità di tutti i tempi, fino alla fine della storia. Continua ad “attendarsi” nel mondo, come dice con una bell’immagine biblica il prologo del Vangelo di Giovanni nel suo testo originale.
    Ora, come sappiamo, l’umanità collettiva è una realtà storica. Non soltanto nel senso che essa vive nel tempo, ma anche e soprattutto nel senso che essa si evolve nel tempo. In passato, sotto l’influsso predominante della cultura ellenistica, la storicità veniva pensata come un rapporto puramente accidentale ed estrinseco dell’uomo con il tempo. L’uomo era concepito come un’essenza già sostanzialmente costituita, che il tempo non faceva altro che modificare solo accidentalmente, e per di più peggiorandola.
    La sensibilità storica, che caratterizza invece così fortemente il nostro tempo, ha modificato profondamente questa visione. Per essa la “storia” è il farsi uomo dell’uomo nel tempo, il costruirsi dell’uomo ad opera dell’uomo stesso in base alle proprie opzioni libere.
    In una visione come questa, l’uomo pensa se stesso come non ancora definitivamente fatto, ma in via di costruzione, specialmente a livello collettivo; come apertura e tensione verso la sua propria identità. Storia è, quindi, sinonimo di futuro, di libertà e di responsabilità.
    Stando così le cose, si capisce come il regime d’incarnazione che regola il dinamismo della Parola rivelata richieda un ritmo costante di incarnazione-disincarnazione-reincarnazione. È l’unico modo in cui può veramente far sua la carne storica dell’uomo.
    Davanti alla problematica posta da questa realtà, la Chiesa ha fatto grandi passi in avanti in questi ultimi decenni. Essa ha superato il mero principio dell’adattamento, che era stato spesso applicato in passato nell’evangelizzazione dei nuovi popoli e che evoca l’idea di un accomodamento estrinseco e superficiale alle nuove situazioni. Ha abbandonato tale principio perché si è accorta che non raggiungeva il suo scopo.
    La Evangelii Nuntiandi lo ha messo chiaramente in evidenza. Soprattutto nel suo n. 20, dove Paolo VI afferma, con grande coraggio e realismo, che “la rottura tra Vangelo e cultura costituisce il dramma del nostro tempo”.
    Il principio dell’adattamento venne sostituito da quello dell’inculturazione, ossia da un tentativo di calare il Vangelo nella condizione culturale dei suoi destinatari non in maniera superficiale, a modo di una verniciatura, ma cercando di farlo penetrare invece “in profondità e fino alle radici della cultura e delle culture” (n. 20a).
    Gli sforzi fatti in questa direzione sono stati molto rilevanti in questi ultimi anni. Una nuova forma di evangelizzazione, aperta soprattutto al dialogo con le culture, ha prodotto frutti considerevoli.
    Più recentemente, tuttavia, si è andato prendendo coscienza che il principio dell’inculturazione non è sufficiente, perché la cultura stessa rappresenta una base troppo stretta per l’incarnazione della proposta evangelica: le dimensioni socio-politiche delle situazioni dei suoi destinatari svolgono un ruolo di primo piano da questo punto di vista. Se non le si prende seriamente in conto, si rischia di fare un annuncio in buona parte astratto.
    Molti cristiani, quindi, hanno cominciato a fare i conti con il principio della contestualizzazione. Contestualizzare significa ricomprendere il messaggio evangelico a partire dal contesto storico in cui vivono gli uomini e le donne concreti, con le sue componenti culturali, economiche, sociali, politiche e religiose e annunciarlo in questo modo. Si tratta, per dirla con un’espressione ormai molto diffusa, di applicare all’annuncio evangelico il “circolo ermeneutico”.
    Naturalmente una ricomprensione di questo tipo tende a mettere in primo piano aspetti della proposta evangelica che corrispondono più sensibilmente al contesto storico a partire dal quale viene fatta, e a lasciare invece in secondo piano altri aspetti, magari in altri momenti molto rilevanti ma che attualmente non risultano tali. Un’operazione, certo, non priva di rischi ma per la quale la comunità ecclesiale conta con l’aiuto dello Spirito (Gv 16,13).
    Ciò che stanno facendo soprattutto in diverse parti del mondo povero i cristiani seriamente impegnati ne è un chiaro esempio: ne sta nascendo una forma nuova di comprensione e di realizzazione del Vangelo piena di forza e di creatività.
    Tra l’altro, fra essi trova spazio una delle dimensioni dell’evangelizzazione che fu propria anche di quella di Gesù stesso: la denuncia. Nel nome del suo grande “sogno” questi cristiani mettono a nudo, con coraggio e decisione, quanto vedono di contrario alla proposta da lui fatta. Sono infatti convinti che tutto ciò che è contrario alla Vita in pienezza degli uomini, e specialmente dei più piccoli e deboli tra di essi, non può essere visto con indifferenza o, peggio ancora, con benevolenza, ma che viceversa va denunciato con forza. È in gioco la salvezza concreta degli uomini e davanti ad essa non si può venire a patti.

    7. ANNUNCIARE IL VANGELO: COME E PERCHÉ?

    L’annuncio del Vangelo può andare oggi a vuoto, senza arrivare a coloro a cui si rivolge. È già capitato ai tempi dello stesso Gesù, come attestano i Vangeli e come lascia capire soprattutto la sua morte in croce. Ma capita ancora così anche oggi tante volte.
    Ciò può avvenire per motivi soggettivi degli stessi ascoltatori del messaggio, resi insensibili o indifferenti o anche ostili nei suoi confronti per diverse cause: egoismo, pigrizia, interessi meschini...
    Ma l’annuncio può anche andare a vuoto a causa della modalità in cui viene fatto da coloro che lo proclamano. È indispensabile che anche questo aspetto vada tenuto presente se si vuole che il Vangelo di Gesù risulti veramente una parola vivificante per gli uomini.

    7.1. Trovare il punto d’innesto

    La proposta evangelica può restare infeconda anzitutto e fondamentalmente perché gli evangelizzatori non sanno o non riescono a trovare il suo adeguato punto d’innesto o, con altre parole, la giusta sintonia con coloro a cui si rivolgono.
    Trovare questo punto d’innesto e questa sintonia è assolutamente indispensabile; altrimenti l’annuncio resta irrimediabilmente sterile o, nel caso di essere accolto, verrà portato addosso in maniera posticcia, come un soprappiù insignificante o addirittura come un peso.
    Quale può essere questo punto di innesto e di sintonia? Su che cosa occorrerà far leva? Il modo di agire di Gesù e dei suoi discepoli e la conoscenza del modo in cui “funziona” l’essere umano, aiutano a capire che la risposta a tale domanda si trova in ciò che costituisce l’esperienza più radicale (perché tocca le radici) e più universale (perché interessa ogni essere umano senza eccezione) degli uomini: l’esperienza dell’antitesi Vita-Morte. Si tratta di un’esperienza che comporta due facce complementari, ma di una complementarità peculiare, come vedremo subito.
    La prima faccia è quella del desiderio di vivere, e di vivere in pienezza, radicalmente e attivamente presente in ogni essere umano. Tale desiderio è il più profondo tra quelli che esperisce ogni uomo. Infatti, se lo si considera attentamente, si scopre che ogni desiderio, individuale o collettivo, è espressione del desiderio di vivere e di vivere senza ritagli, in pienezza di qualità e di durata. Parliamo perciò del desiderio di Vita, con la maiuscola, per indicare tale pienezza. Ad appagare tale desiderio vanno indirizzati, in ultima istanza, tutti gli sforzi umani, a ogni livello. Ed è pure questo desiderio di Vita quello che muove ogni dinamismo umano, singolo o collettivo.
    L’uomo potrebbe venir definito, da questo punto di vista, come “un essere radicalmente affamato di Vita”.
    Ma, accanto a questa prima faccia dell’esperienza, ce n’è un’altra di portata non meno universale né meno radicale: esiste la Morte. Per Morte, anche qui con la maiuscola, intendiamo tutto ciò che in qualunque modo contraddice il desiderio di vivere in pienezza presente nell’uomo o si oppone ad esso: ciò che non permette a questo desiderio di esprimersi, o di esprimersi adeguatamente, ciò che lo soffoca, che lo ostacola, che lo devia.
    Questo secondo aspetto trova la sua massima e più palpabile espressione nella morte corporale o biologica, nella quale l’uomo vede venir meno ogni possibilità di soddisfare il più radicale dei suoi desideri. Ma oltre a questo fatto-limite, ci sono altre innumerevoli manifestazioni della Morte nell’esperienza umana: la fame non saziata, la malattia corporale o psichica, l’insicurezza psicologica, l’angoscia, la solitudine forzata, l’incapacità di mantenere rapporti interpersonali, la mancanza dei beni elementari della vita, l’emarginazione imposta per motivi razziali o religiosi, la schiavitù psicologica o sociologica, la perdita del senso o del gusto della vita, lo sfruttamento subito, la preclusione all’autodeterminazione, ecc. In una parola, ogni forma di menomazione umana.
    Questa duplice esperienza radicale è, come abbiamo anticipato sopra, l’esperienza dell’antitesi Vita-Morte: dove c’è la Vita viene eliminata o soppressa la Morte, e viceversa. Tale antitesi si concretizza in molti modi diversi. Eccone, a modo di esempio, alcuni: sazietà-fame, salute-malattia, sicurezza-insicurezza, serenità-angoscia, comunione-solitudine, gioia-tristezza, senso-nonsenso della vita, benessere-povertà, partecipazione-emarginazione, pace-guerra, libertà-schiavitù, ecc.
    In ognuno di questi binomi antitetici, che si potrebbero moltiplicare all’infinito, il primo membro concretizza la Vita, il secondo la Morte.
    Se poi dovessimo dire in che cosa consista concretamente quella Vita-senza-Morte che è così universalmente e radicalmente ricercata dagli uomini, dovremmo confessare che non lo sappiamo con precisione. Appunto perché immersi nella antinomia Vita-Morte, non possiamo averne l’esperienza. La nostra è sempre un’esperienza di Vita-con-la-Morte, di una vita vissuta, come si è detto, sotto il segno allo stesso tempo del desiderio della Vita e delle mille presenze della Morte.
    Vita-senza-Morte è quindi un’espressione-limite, senza riferimento nel reale empirico. Di essa abbiamo dei sospetti in quei momenti in cui esperiamo in qualche misura una situazione di pienezza, di realizzazione, di felicità. Momenti d’altronde sempre minacciati di instabilità e di fugacità: essi non sono la Vita-senza-limiti di qualità e di durata alla quale aspiriamo instancabilmente, anche quando sopprimiamo la vita biologica o quando ci lasciamo prendere dal non-senso della nostra esistenza.
    È molto importante rilevare ancora, agli effetti dell’annuncio del lieto messaggio evangelico oggi, che l’antitesi Vita-Morte non ha risvolti solo individuali, ma anche collettivi. Quando la ricerca della Vita-senza-Morte interessa questi risvolti collettivi, allora interessa necessariamente la storia umana. Questa, infatti, consiste nel cammino che l’umanità va facendo nel tempo verso il futuro, un cammino in cui ogni vittoria della Vita sulle manifestazioni collettive della Morte costituisce un passo avanti, mentre ogni trionfo della Morte implica un blocco della marcia, se non addirittura un passo indietro in essa. Si può allora dire che la storia umana è l’antitesi Vita-Morte vista nei suoi risvolti collettivi.
    L’annuncio del Vangelo che fa la comunità ecclesiale dovrà quindi innestarsi su quest’esperienza radicale e universale se non vuole andare a vuoto. Appunto perché viene fatto sempre con l’unica finalità basilare di contribuire a far sì che gli uomini e le donne concrete a cui si rivolge “abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Era la finalità per la quale, come abbiamo indicato a suo tempo, Gesù di Nazaret proclamava la Buona Novella del regno di Dio.

    7.2. Evangelizzare narrando

    Oltre a trovare il giusto punto d’innesto, gli evangelizzatori devono cercare di utilizzare anche il tipo di linguaggio adeguato per porgere il Vangelo. In questo senso, il modo in cui Gesù e i suoi primi seguaci fecero la proposta fa sempre testo.
    Da quel che ricaviamo dai Vangeli, il modo di parlare di Gesù ha certi tratti molto singolari. Il suo non è un parlare concettuale, ma per lo più metaforico e narrativo.
    Sono metaforici, in primo luogo, gli appellativi con cui egli si rivolge a Dio. Tra essi spicca quello di “Abbà” (Mc 14,36). Dire, come fa Gesù, che il Mistero ultimo della realtà è “babbo” (perché ciò significa il termine della sua lingua materna), è indubbiamente creare la massima tensione che possa esistere tra un discorso umanamente verificabile e un discorso che va al di là di ogni possibilità di tale verifica. Si tratta veramente in questo caso, stando alla felice formulazione di Paul Ricoeur, del più grande “errore calcolato” che si possa fare. Il discorso è costretto, in questo caso, a subire un radicale smantellamento del suo significato ovvio e scontato (la paternità sperimentata in “questo” mondo), per acquistarne un altro inverosimilmente nuovo, imprevisto, sconvolgente: la Realtà più “lontana” diventa intima, “vicinissima”. E ciò è parlare metaforicamente, ossia trasgredendo la realtà, andando oltre ad essa.
    Sono anche metaforiche, in secondo luogo, le parabole mediante le quali Gesù parla del regno di Dio. In esse il discorso non è in realtà solo metaforico, ma diventa anche narrativo-metaforico. Infatti, in queste sue parabole egli elabora le narrazioni mediante un procedimento singolare, che consiste nello smontare l’andamento ovvio e “logico” di un racconto per farlo sfociare in un finale imprevedibile e inatteso. Illogico perfino, se si sta alla logica corrente.
    Lo si vede, per esempio, nella parabola degli operai chiamati per ultimi a lavorare nella vigna, i quali ricevono la stessa paga di tutti gli altri, e addirittura per primi (Mt 20,1-16); o in quella del padre che, abbandonato insolentemente dal figlio, lo accoglie al suo ritorno a braccia aperte e organizza una festa in suo onore (Lc 15,11-32); oppure in quell’altra in cui il pubblicano, disprezzato dal fariseo quale peccatore respinto da Dio, se ne torna a casa “esaltato” da Dio mentre chi lo disprezzava se ne torna “umiliato” (Mt 18,9-14).
    Si può intravedere, attraverso questo modo di fare, che Gesù trova più compatibilità con la sua Buona Notizia in questo suo modo di parlare che nel modo concettuale.
    Ma anche i primi discepoli seguirono questa strada. Essi fecero l’annuncio del Vangelo raccontando gioiosamente una storia paradossale, umanamente incredibile: la storia di Dio con gli uomini.
    All’interno di questa grande storia, che abbraccia quella d’Israe0le e anche quella più vasta dell’umanità intera, essi raccontarono la vicenda di Gesù di Nazaret morto e risorto, salvezza per tutti gli uomini.
    Ne troviamo una testimonianza privilegiata nel libro degli Atti degli Apostoli. Così, per esempio, dopo aver guarito lo storpio del Tempio, Pietro prende la parola e parla. Parla per dare ragione di ciò che è avvenuto. E a questo scopo racconta la vicenda di Gesù, nella quale il grande primo Protagonista è “il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri” (At 3,13), il cui intervento sconvolgente consiste nel glorificare “il suo Servo Gesù”, nel risuscitarlo dai morti.
    E in seguito vengono riportati numerosi altri discorsi dei discepoli a uomini e donne, sia del loro popolo sia di altri popoli di cultura e tradizione religiosa diversa. in tutti senza eccezione il riferimento alla salvezza offerta da Dio viene fatto non direttamente, ma all’interno di una storia. Perfino il discorso che si potrebbe considerare come il più “intellettuale”, quello di Paolo nell’areopago di Atene davanti a un uditorio ellenistico (At 17,22-31), pur senza riallacciarsi espressamente alla vicenda veterotestamentana, ha un andamento narrativo e culmina con la risurrezione di Gesù.
    La comunità ecclesiale ha continuato sempre, attraverso i secoli, a raccontare questa grande storia.
    È vero che ci sono stati momenti in cui una certa tendenza concettualizzante ha alquanto oscurato questo modo caratteristico di fare l’annuncio evangelico. La tendenza di una teologia portata in prevalenza a spiegare intellettualmente i contenuti della fede ha finito, in tempi non molto lontani da noi, per privilegiare altri modi di parlare di Gesù e della sua proposta. Ma l’istanza narrativa iniziale si sta riscoprendo oggi di nuovo in tutta la sua forza. Essa non pretende certamente di occupare l’intero campo dell’annuncio, ma sta riportando alla convinzione che, nell’evangelizzare, è indispensabile narrare per aiutare a vivere.


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