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    3. Essere Chiesa per la vita del mondo


    Luis A. Gallo, LA CHIESA DI GESÙ. Uomini e donne per la vita del mondo, Elledici 1995



    Nel capitolo precedente, rivisitando, sotto la guida del Vaticano II, le origini della Chiesa abbiamo riscoperto la sua fondamentale ragion d’essere: quella di fare sua, come comunità di uomini e donne che vogliono seguire Gesù Cristo, il grande progetto che egli visse appassionatamente e che chiamò “regno di Dio”.
    Tradizionalmente ciò è stato detto con un’altra affermazione equivalente: la Chiesa ha come fine supremo della sua esistenza e della sua azione la salvezza. Appunto perché confessa che Gesù Cristo èil Salvatore, essa, in quanto sua continuatrice nel tempo, deve cercare di vivere polarizzata attorno a questa fondamentale preoccupazione.
    Così regno di Dio e salvezza sono venuti a coincidere nella coscienza dei cristiani.
    Ora, il modo di concepire la salvezza ha subito profonde trasformazioni attraverso i secoli. È importante, quindi, per una Chiesa che vuole rinnovarsi nella sua autenticità e vivere con coerenza la sua identità, verificare fino a che punto il suo concetto di salvezza sia genuino e corrisponda veramente a ciò che colui che l’ha convocata aveva nel cuore e nella mente, e cercava nell’azione.

    1. UNA CONCEZIONE “TRADIZIONALE” DELLA SALVEZZA CRISTIANA

    Il modello ecclesiologico preconciliare precedentemente descritto comportava un determinato concetto di salvezza che, per il fatto di essere stato in vigore durante tanti secoli, sembrava a molti cristiani “il” concetto di salvezza unico e definitivo. Vedremo poi che in realtà non è così.

    1.1. La concezione

    Tale concetto si esprimeva, soprattutto a livello popolare, mediante una frase molto caratteristica: “andare in paradiso”.
    “Salvarsi” e “andare in paradiso” erano praticamente equivalenti. E “andare in paradiso” significava che, dopo la morte avvenuta in stato di grazia di Dio, l’anima, separata ormai dal corpo corruttibile, superato il giudizio particolare e, se ne era il caso, anche debitamente purificata in Purgatorio, se ne andava a contemplare per sempre Dio a faccia a faccia in una “visione beatifica” che appagava ampiamente tutte le sue attese e la rendeva pienamente felice per l’eternità.
    Per completezza si aggiungeva che dopo il giudizio universale anche il corpo, risuscitato e debitamente trasformato, avrebbe raggiunto il cielo riunendosi all’anima per sempre. Solo allora, in realtà, la salvezza sarebbe stata conseguita completamente.
    Nella cornice di tale concezione veniva interpretato anche il ruolo salvifico di Cristo e della Chiesa. Cristo è il Salvatore venuto al mondo da parte di Dio, colui cioè che fa all’umanità il dono della salvezza piena e definitiva. Ed è tale perché in passato si offrì vittima per i peccati degli uomini sulla croce, riaprendo loro in questo modo le porte del paradiso chiuse dal peccato di Adamo; lo è anche nel presente in quanto comunica loro la grazia divina, specialmente nei sacramenti e per mezzo di essi.
    La Chiesa prolunga quest’azione di salvezza cercando anzitutto e soprattutto di portare le anime in paradiso, scopo per il quale è munita dei mezzi necessari: la Parola, i sacramenti, l’organizzazione.

    1.2. Sotto l’influsso culturale ellenistico

    Questo modo di concepire la salvezza è nato sotto l’influsso di determinati fattori culturali. È il risultato dell’inculturazione intentata dai cristiani quando, entrando nell’ambito dell’impero romano, cercarono di calare il messaggio evangelico nella sensibilità culturale in esso ampiamente diffusa. Si trattava di una sensibilità a più registri, ma tra essi prevaleva quello d’ispirazione platonica.
    Semplificando alquanto le cose, si può dire che la visione della realtà che comportava quella sensibilità era caratterizzata fondamentalmente da tre dualismi strettamente collegati tra di loro.
    Anzitutto quello ontologico: la realtà intera veniva pensata come divisa in due strati, quello superiore e spirituale, considerato come ambito del bene e della verità, e quello inferiore e materiale, considerato come ambito dove hanno posto il male, l’errore e la menzogna.
    Seguiva poi il dualismo antropologico: l’uomo risultava una realtà complessa, costituita da una componente spirituale (l’anima) e da una componente materiale (il corpo), in modo tale però che la prima si trovava in una situazione in certo qual modo violenta nei confronti della seconda che, avvolgendola, la opprimeva e le faceva da carcere o sepolcro. “Il corpo è la tomba dell’anima”, sentenzia un antico pensatore greco.
    Il terzo dualismo era quello soteriologico, logica conseguenza dei due precedenti: la salvezza (sotería) umana veniva pensata come liberazione dalla materia e da tutti i condizionamenti da essa derivanti, come un ritornare alla primigenia condizione spirituale, al mondo di lassù, dove la contemplazione delle realtà superiori e spirituali poteva soddisfare le sue più genuine aspirazioni. Di tale ritorno si poteva avere un anticipo imperfetto nella ricerca della verità attraverso la filosofia e della virtù ad essa collegata, ma la sua vera realizzazione si dava solo con la morte, vista come scioglimento pieno e definitivo dell’anima dai vincoli della materia.

    1.3. Principali caratteristiche

    A uno sguardo anche superficiale risulta facile cogliere quanto lo schema sopra tratteggiato abbia influito nella concezione della salvezza cristiana. I tre dualismi menzionati, ridimensionati ovviamente alla luce delle esigenze della fede, furono accolti nell’ambito del cristianesimo pensato e vissuto. Ne derivano anche alcune delle caratteristiche che accompagnano la salvezza in tale concezione. Essa vi appare, infatti, come prevalentemente spirituale, ultraterrena, avulsa dalla storia.

    L ‘accento sullo spirituale

    Questa salvezza è, in primo luogo, prevalentemente spirituale.
    L’accento viene posto chiaramente sull’anima. Ne è una conferma il linguaggio adoperato sia a livello popolare, dove la frase “salvare l’anima” esprime la mèta suprema della vita credente, sia a livello più tecnico, dove la missione della Chiesa viene qualificata come “guadagnare anime a Cristo o a Dio”, oppure come “portare anime al cielo”, e dove lavorare pastoralmente significa lavorare “per la salvezza delle anime”.
    Se si guarda con oggettività la storia del cristianesimo si deve constatare che, anche se non ha mai accettato teoricamente il radicale dualismo tra spirito e materia, nel suo vissuto ne è rimasto tuttavia notevolmente intaccato a partire dal suo ingresso nel mondo culturale ellenistico.
    È vero che già dalle prime pagine della Bibbia i cristiani avevano imparato a riconoscere il valore positivo dell’intero mondo materiale, creato da Dio come “molto buono” (Gn 1, passim); è anche vero che grandi pensatori cristiani dei primi secoli, quali ad esempio Tertulliano e Ireneo, avevano tessuto le lodi della “carne” (ossia la corporalità) nella storia della salvezza, dal momento che Dio stesso si era unito ad essa in Gesù Cristo; ma tutto ciò non toglie il fatto che l’influsso della sensibilità ellenistica dominante abbia portato spesso i credenti a svalutare, se non a disprezzare, quanto sapeva di materiale.
    Ciò influì inevitabilmente anche sulla concezione della salvezza. Le espressioni popolari e pastorali sopra riportate, bene intese, hanno una loro ragione d’essere; si voleva indicare con esse che la salvezza apportata da Cristo e dalla Chiesa non è una salvezza qualunque, ma quella trascendente e definitiva, quella cioè che riguarda il destino supremo dell’uomo; ma sta di fatto che molto spesso tali espressioni diedero adito a interpretazioni spiritualistiche e addirittura dualistiche, secondo le quali il vero oggetto della salvezza e quindi dell’impegno pastorale è l’anima dell’uomo, mentre al corpo e a quanto con esso si ricollega tale salvezza arriva solo indirettamente, come per estensione.

    L’insistenza sull’aldilà

    Oltre ad essere prevalentemente spirituale, questa salvezza è anche accentuatamente ultraterrena.
    C’è infatti in questa concezione una forte accentuazione dell’aldilà, del dopo-la-morte. È quello il luogo della vera saggezza. Nessuno si può considerare veramente salvo finché rimane “nel corpo”, in “questo mondo”, “quaggiù”. D’altronde, il momento della morte, concepita alla maniera greca come separazione dell’anima dal corpo, acquista un’importanza decisiva nei confronti della salvezza: in esso si gioca, in definitiva, il destino eterno dell’uomo.
    A dire il vero, la teologia aveva teorizzato il rapporto tra vita terrena e vita celeste in termini di germe (la grazia) e pianta (la gloria), una teorizzazione che portava a riconoscere il potenziale valore salvifico dell’aldiqua, di quanto si fa nella vita terrena; ma ciò non è stato in realtà molto recepito a livello di fede popolare.
    La dottrina sui meriti che si possono acquistare in questa vita e che poi fruttificano nell’altra non favorì nemmeno tale recezione.

    L'estraneità dalla storia

    Conseguenza delle due precedenti accentuazioni fu una visione della salvezza notevolmente avulsa dalla storia.
    Si sa quanto restia fosse la mentalità ellenica in genere alla dimensione storica della realtà. Tale atteggiamento era dovuto al fatto di vederla collegata radicalmente con la materia. Infatti, secondo i filosofi greci c’è storia, perché c’è tempo, e c’è tempo perché c’è materia. La storia, d’altronde, è segno di mutabilità nel tempo, e ogni mutabilità è a sua volta segno di imperfezione. L’essere spirituale, quello vero, non ha in realtà storia perché è al di fuori del tempo. La vera salvezza ha luogo, quindi, fuori del tempo, nell’eternità. Anzi, si potrebbe dire che per gli ellenici salvarsi era salvarsi dalla storia, dal tempo, dalla mutabilità che comporta la materia.
    Il cristianesimo, erede della millenaria fede ebraica, si trovò necessariamente scomodo all’interno di una cultura eminentemente avulsa dalla storia come era quella greca. Esso, infatti, è essenzialmente storico. Il suo Dio si è manifestato salvificamente in avvenimenti storici, dei quali quello iniziale (l’esodo dall’Egitto) e quello culminante (la risurrezione di Cristo) sono i più importanti e decisivi. Eppure, entrando nell’ambito della cultura ellenistica, pur senza perdere completamente il fondamentale marchio storico, il cristianesimo vissuto finì per assimilarne in gran parte le istanze. Così non stupisce che abbia pensato la salvezza senza quasi fare riferimento alcuno a quanto avviene nel mondo. Essendo prevalentemente spirituale e ultraterrena, questa salvezza si può ottenere a prescindere da ciò che succede nella storia.
    È vero che i cristiani sono stati spesso richiamati all’impegno nel mondo, nelle vicende storiche. Con il diffondersi dei movimenti laicali nel presente secolo tale richiamo diventò ancora più incalzante e divenne fonte di feconde realizzazioni. Ma, restando in vigore quel concetto di salvezza del quale ci stiamo occupando, l’impegno nel mondo rimaneva estrinseco alla salvezza stessa. In fondo, si trattava di impegnarsi nel mondo e nella storia in vista della salvezza della propria anima, dal momento che non facendolo si rischiava di perderla.

    1.4. Una concezione in crisi

    Uno degli effetti del profondo cambio attualmente in corso nel mondo è la messa in crisi di questo concetto “tradizionale” di salvezza presso non pochi cristiani. Ovviamente, nel caso che essi non vivano in maniera schizofrenica la loro fede, trascinandosi dietro le credenze cristiane espresse in sensibilità culturali eterogenee alle loro. Fenomeno d’altronde non totalmente estraneo a gruppi e movimenti nostalgici, per svariati motivi, del passato.
    A molti cristiani d’oggi la “salvezza dell’anima” non dice ormai più niente o quasi, precisamente perché sono crollati per loro, più o meno consciamente, i pilastri culturali su cui poggiava quella maniera di concepire la salvezza. Una maniera che, d’altronde, data la sua consonanza con le esigenze culturali dell’epoca, aveva prodotto frutti mirabili per la vita della Chiesa e del mondo in tempi passati. Migliaia di uomini e di donne, infatti, vissero con fedeltà la loro dedizione alla causa di Gesù Cristo all’insegna di questa “salvezza delle anime”, e appoggiandosi anche su di essa la Chiesa e i suoi membri collaborarono in maniera spesso rilevante al progresso 4nche materiale del mondo del loro tempo.
    Ma non ci vuole molto per capire come la visione della realtà che sorreggeva tale concezione sia al presente superata o in via di progressivo superamento, a causa dei profondi cambi in corso.
    Così, quella visione secondo la quale il mondo vero è quello spirituale mentre quello materiale ne è solo un’ombra o addirittura una replica negativa, non ha più posto generalmente nella mente degli uomini e delle donne d’oggi. Diversi fattori sono intervenuti a farla scomparire. Non ultimo quello del progresso scientifico-tecnico, che li ha messi a contatto diretto con la straordinaria potenzialità del mondo della materia. Se c’è oggi una tendenza prevalente è caso mai l’opposta, quella di dare più importanza al materiale che allo spirituale.
    A superare il dualismo antropologico hanno collaborato, tra l’altro, le ricerche realizzate nell’ambito psicologico. Ormai gli uomini e le donne sanno che non ci sono fenomeni puramente spirituali, come non ce ne sono di puramente corporali. La valutazione della corporalità umana è cresciuta enormemente ai loro occhi, e ciò ha provocato un’autentica rivoluzione anche nel campo della sessualità e dei valori ad essa connessi.
    Perciò, continuare a fare della salvezza una questione prevalentemente spirituale, ultraterrena e avulsa dalla storia, è qualcosa che per loro non ha senso. Essi intuiscono che è l’uomo tutto intero, in tutte le sue dimensioni, che deve venire salvato; che ciò che si usa chiamare “il corpo” non è solo una specie di appendice a cui la salvezza portata da Cristo arriva solo “per estensione”, ma ha una sua consistenza e una sua dignità che vanno rispettate anche e soprattutto dal punto di vista soteriologico.
    Sono inoltre portati a non rimandare la salvezza nell’aldilà, nel dopo-la-morte, nel cielo, ma a riconoscere valenza e spessore salvifico già all’aldiqua, al durante-questa-vita, alla terra.
    Anzi, in certi casi sembrano inclini quasi a capovolgere le cose; sembrano dare maggior importanza agli impegni per la salvezza presente, e mettere fra parentesi quella escatologica e definitiva.
    Tutto ciò perché in essi è cresciuto notevolmente il senso storico. Hanno acquisito, come diceva già la Gaudium et Spes, una visione accentuatamente dinamica ed evolutiva della realtà (n. 5c); stanno respirando l’aria di un nuovo umanesimo, caratterizzato dalla coscienza degli stretti vincoli che intercorrono tra gli uomini e tra i gruppi umani, e di questi con la natura, in modo tale che nulla succede nel singolo che non abbia qualche ripercussione nell’insieme e viceversa (cf n. 55).
    Si capisce allora come e perché siano portati a pensare la salvezza come qualcosa che non si può raggiungere prescindendo da ciò che avviene nel mondo.
    Il senso storico odierno ha ancora un altro risvolto, che non va disatteso. Dire storia significa dire futuro e libertà, ma significa anche dire responsabilità. La presa di coscienza, favorita dal progresso scientifico-tecnico, di tenere sempre più il proprio futuro nelle proprie mani va accompagnato a una crescita del senso di responsabilità. Se ci si può costruire da sé, e non si è “fatti” da altri, occorre decidere responsabilmente su ciò che si vuoi fare di se stessi. Questo acuisce negli uomini d’oggi la coscienza del proprio protagonismo. Il che spiega perché l’insistenza su una concezione della salvezza come dono può trovare resistenze in loro.

    2. PER UN RINNOVAMENTO DELLA CONCEZIONE DELLA SALVEZZA CRISTIANA

    La problematica appena accennata evidenzia l’urgenza di una ricomprensione della salvezza cristiana. Con una concezione come quella che abbiamo descritto sopra, difficilmente la Chiesa può ripensarsi e riprogrammarsi in sintonia con tutto ciò che lo Spirito di Gesù è andato suscitando in essa negli ultimi decenni. Urge trovare una nuova maniera di pensare la salvezza che possa fare da perno a una maniera attualizzata di essere Chiesa oggi.

    2.1. La salvezza nella Bibbia

    Per assicurare l’autenticità di questa operazione risulta imprescindibile, anzitutto, il ricorso alla fonte prima e permanente della fede, la Bibbia.
    Nella Bibbia non ci sono definizioni concettuali di salvezza. Non è nel suo stile e non risponde all’indole culturale dei suoi autori. Non bisogna però dimenticare che essa è tutt’intera un messaggio di salvezza. Ciò vuoi dire che, in realtà, basterebbe approfondire qualunque pagina biblica per arrivare a cogliere quale concetto essa abbia della salvezza che annuncia e promette da parte di Dio.
    Un cammino tuttavia più agevole a questo scopo è quello di analizzare i due avvenimenti biblici centrali, che sono appunto due avvenimenti salvifici per antonomasia: l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto nell’Antico Testamento, e la Pasqua di Gesù Cristo nel Nuovo.
    Una tale analisi ci può fornire dei dati fondamentali al riguardo.
    Anzitutto e globalmente parlando, in tutti e due questi avvenimenti la salvezza appare come un processo, come un passaggio cioè da una situazione a un’altra: situazione negativa e di “perdizione” la prima; situazione positiva e di “salvezza” la seconda.
    Più concretamente, nell’avvenimento dell’esodo il punto di partenza del processo è la condizione disperata del gruppo dei discendenti di Abramo residente in Egitto. Essa viene descritta, in modo certamente schematico, dal libro dell’Esodo (1,8-22; 5,1-18).
    Si tratta di uomini e donne ridotti in schiavitù, abitanti in una terra che non è di loro proprietà, sottoposti a lavori pesanti e sempre più gravosi da parte del Faraone e dei suoi, minacciati inoltre dalla tentazione di cadere nell’idolatria delle false divinità egiziane.
    Già il loro presente può dirsi una condizione di morte a causa dell’insicurezza in cui si trovano, dell’oppressione e dello sfruttamento a cui sono soggetti; ma soprattutto il loro avvenire si presenta come un futuro di morte: il Faraone ha deciso di far sopprimere tutti i figli maschi che costituiscono, per la mentalità dell’epoca, la vera riserva di futuro e di vita (Es 1,22).
    Il punto di arrivo del processo di salvezza per questo popolo di schiavi è la nuova condizione in cui vengono a trovarsi uscendo dall’Egitto dietro la conduzione di Mosè. La Bibbia utilizza diversi generi letterari per riferirsi ad essa, ma i suoi elementi sostanziali sono facilmente identificabili: essi si scrollano di dosso la schiavitù e l’oppressione faraonica, riescono ad avere una terra propria, a costituire un popolo in comunione di alleanza con l’unico vero Dio, e vanno incontro a un futuro di libertà e di vita.
    Nell’avvenimento della Pasqua il punto di partenza è la condizione in cui la cattiveria degli uomini, e specialmente dei capi politici e religiosi di Israele, ha ridotto Gesù di Nazaret, una condizione di morte molteplice: corporale, anzitutto, ma anche psichica, sociale e addirittura religiosa. Il sepolcro in cui egli viene affrettatamente collocato dopo il supplizio della croce è come un emblema di tale situazione: una grande pietra viene rotolata davanti al suo ingresso (Mt 27,60).
    Il punto di arrivo della salvezza pasquale è la nuova situazione in cui Dio, per la potenza del suo Spirito, introduce Gesù per sempre una volta strappato dal sepolcro: una pienezza definitiva di vita. Egli, infatti, diventa da quel momento “il Vivente per i secoli dei secoli” (Ap 1,18).
    Nei due avvenimenti il protagonista principale, iniziatore assoluto del processo di salvezza, è certamente Dio; ma non ne è protagonista unico, poiché gli stessi uomini salvati vi sono coinvolti attivamente. Si può dire che essi sono salvati e salvatori di se stessi allo stesso tempo.
    Ciò vale già per l’esodo nel quale Mosè prima, ma poi anche l’intero popolo, agiscono in ordine alla propria salvezza; ma vale soprattutto per la Pasqua, nella quale Gesù, mediante tutto il suo agire precedente, prepara implicitamente la propria risurrezione.
    Da questa elementare analisi, ma specialmente da quella dell’avvenimento pasquale nel quale il pensiero biblico arriva al suo punto culminante, appare già con sufficiente chiarezza cosa intenda la Bibbia per salvezza: è il passaggio dalla Morte alla Vita o, in altre parole equivalenti, la vittoria della Vita sulla Morte. Intendo per “Morte”, con la maiuscola, tutto ciò che è negatività per l’uomo, in tutte le sue dimensioni; e per “Vita”, pure con la maiuscola, tutto ciò che è positività per lui.
    Esprime molto bene quest’idea l’antica Sequenza della Messa di Pasqua, che canta così: “La Morte e la Vita si sono affrontate [nella croce] in un duello colossale: Gesù, il Condottiero della Vita, vinto [per un momento] dalla morte, ora regna Vivo!”.

    2.2. La ricomprensione culturale

    Per attualizzare la concezione della salvezza non è tuttavia sufficiente il ricorso alla Bibbia, è necessario calare anche il suo modo di pensarla nella sensibilità culturale del momento attuale.
    Lo rilevava nella sua Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi il papa Paolo VI, segnalando che “la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca” (n. 20).

    Il tramonto di una identificazione

    La concezione della salvezza che abbiamo qualificato come “tradizionale”, secondo la quale salvarsi consisteva nell’“andare in cielo”, era già in realtà una interpretazione di quanto abbiamo trovato nella Bibbia, a partire da una determinata sensibilità culturale, quella tipica del mondo greco-romano.
    “Salvarsi l’anima” era infatti, per i cristiani di quel mondo culturale, ottenere il trionfo pieno e definitivo della Vita sulla Morte, la realizzazione piena della Pasqua di Cristo in ognuno dei salvati.
    Vita e Morte erano interpretate da essi in un modo caratteristico, determinato appunto dai condizionamenti della cultura del tempo: se la Vita era il cielo, concepito sostanzialmente come visione beatifica di Dio, la Morte era l’inferno, inteso come perdita definitiva di tale visione, con tutto ciò che essa significava per l’uomo.
    Salvarsi era quindi, in poche parole, sfuggire l’inferno ed entrare in cielo.
    Di tale Vita-cielo e di tale Morte-inferno era possibile avere un anticipo imperfetto sulla terra, nella misura in cui l’anima viveva in grazia o in peccato rispettivamente. Uscire dal peccato (mortale) significava già in qualche modo salvarsi, benché provvisoriamente e condizionatamente, dalla perdizione.
    È evidente che, in genere, non si può continuare a proporre agli uomini e alle donne di oggi questo tipo di salvezza se non tradendo la loro sensibilità culturale. Farlo sarebbe condannare la proposta al fallimento e forzare gli uomini a ritornare culturalmente indietro per poter confessare Cristo quale loro Salvatore. Procedimento, in fondo, simile a quello dei giudaizzanti delle prime ore della Chiesa, che identificavano l’inculturazione giudaica del cristianesimo con il cristianesimo stesso.
    Una Chiesa che agisse oggi con un concetto di salvezza come questo non potrebbe dirsi genuinamente continuatrice di Gesù Cristo nella sua proposta del regno di Dio.
    Ciò vuol dire che attualmente non funziona più l’identificazione tra regno di Dio e salvezza delle anime che andava bene in altri tempi.
    Al presente, due sensibilità culturali sollecitano principalmente i cristiani a uno sforzo di ricomprensione dell’intera fede e di conseguenza anche della concezione della salvezza.

    Salvezza come “realizzazione personale”

    La prima è quella di tipo esistenziale-personalistico, ampiamente diffusa soprattutto nei paesi più sviluppati dell’umanità, dal punto di vista scientifico-tecnico.
    Tale sensibilità è il risultato di diverse correnti di pensiero che, reagendo alla tendenza prevalentemente oggettivistica della cultura precedente, contribuirono a produrre quella svolta antropologica che pose l’uomo come soggetto personale al centro della loro riflessione e quale ottica della medesima. Esse pensano la persona in chiave essenzialmente relazionale, definendola come libertà in cerca di autorealizzazione e di autenticità mediante il dialogo e la comunione interpersonale che diano senso alla vita.
    Una tale svolta si mostrò carica di conseguenze ari-che per la fede cristiana.
    Per ciò che riguarda concretamente la nostra tematica, essa portò molti cristiani a una ricomprensione molto caratteristica del concetto di salvezza come trionfo della Vita sulla Morte.
    Per essi Vita significa, infatti, la piena e definitiva realizzazione della persona, il raggiungimento della sua totale autenticità, il compimento totale del senso della sua vita. Realizzazione, autenticità e compimento che si ottengono mediante la completa e definitiva comunione interpersonale con Dio e con gli altri, e che costituiscono il “cielo”.
    Per contrapposizione Morte significa il fallimento esistenziale pieno e definitivo della persona. Fallimento esistenziale che consiste a sua volta nell’impossibilità di entrare in comunione con Dio e con gli altri, e che costituisce l’“inferno”.
    Sfuggire tale inferno-fallimento e raggiungere il cielo-realizzazione è raggiungere la salvezza.
    Secondo questa concezione della Vita-realizzazione-esistenziale e della Morte-fallimento-esistenziale pieni e definitivi si può avere un anticipo parziale e imperfetto già nel presente, nella misura in cui la persona è rispettivamente in grazia-comunione o in peccato-non-comunione con Dio e con gli altri.
    Salvarsi, in questo senso parziale, significa passare dalla non-comunione con Dio e con gli altri alla comunione con loro, uscire dalla chiusura e dal ripiegamento egoistico su se stessi e aprirsi all’amore dell’Altro e degli altri. Una salvezza vera e reale, anche se ancora imperfetta e provvisoria, capace di dare senso all’intera esistenza.
    È naturale che, rinnovata la concezione della salvezza in questo modo, anche il ruolo salvifico di Cristo venga visto sotto una luce nuova. Egli viene confessato da questi cristiani come Salvatore precisamente perché, nel passato, mediante la sua esistenza vissuta in intensa comunione con Dio e con gli altri, di cui la Pasqua è veramente il vertice, restituì agli uomini la capacità di realizzarsi e di trovare la loro autenticità che il peccato del primo uomo e i propri peccati personali avevano loro sottratto. Ma è confessato come Salvatore anche perché, nel presente, agisce attraverso il suo Spirito perdonando i peccati e donando la grazia, cioè la comunione con Dio e con gli altri, e restituendo così senso alla vita.
    È questo il modo di pensare la salvezza che soggiace al modello ecclesiologico comunionale, nel quale la Chiesa è chiamata ad essere “sacramento, ossia segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano” (cf LG 1).

    Salvezza come liberazione integrale

    L’altra sensibilità culturale oggi predominante è diffusa prevalentemente nel vasto mondo della povertà. La condizione di emarginazione economica, sociale, politica e culturale in cui giacciono milioni di uomini e donne, e la progressiva presa di coscienza delle cause di tipo strutturale che la producono, hanno svegliato in essi una forte sensibilità di tipo prassico: essi guardano la realtà come qualcosa da trasformare radicalmente. Sono convinti che la realizzazione della persona umana, anche per ciò che riguarda i suoi rapporti interpersonali, è fortemente Condizionata dal modo in cui sono organizzati i rapporti sociali e le strutture nelle quali essi si cristallizzano, rapporti e strutture che a loro volta dipendono direttamente dal modo di relazionarsi con i beni materiali, naturali o prodotti dal lavoro dell’uomo. Perciò sostengono che sia imprescindibile intraprendere un’azione storica di trasformazione (prassi) che prenda di mira tali rapporti e le loro cristallizzazioni strutturali e li elimini sostituendoli con altri.
    L’impatto di questa sensibilità sulla fede è cominciato a farsi sentire da qualche tempo con forza. Tanto più che diversi dei paesi dove regna tale povertà sono ancora massicciamente cristiani. Ne sta nascendo un nuovo modo di comprendere e di vivere l’intera fede.
    A partire da questa nuova sensibilità, non pochi cristiani hanno fatto lo sforzo di ripensare la concezione biblica della salvezza quale trionfo della Vita sulla Morte. E, come nella sensibilità precedentemente accennata, la ricomprensione dei due termini in gioco li ha portati a una sua nuova interpretazione.
    Essi, infatti, intendono per Morte la condizione di emarginazione, schiavitù, oppressione e sfruttamento in cui giacciono i milioni di uomini e donne che sono vittime della povertà; ma anche, di rimbalzo, la condizione emarginante, schiavizzante, oppressiva e sfruttatrice in cui si trovano quei popoli o gruppi umani che, mediante rapporti e strutture ingiuste, creano la condizione di povertà ed emarginazione dei primi.
    Si tratta di una Morte collettiva, ma che congloba in sé le innumerevoli morti dei singoli nei diversi aspetti dell’esistenza umana: dal più elementare, quello biologico, fino al più alto, la comunione personale con Dio.
    Come è logico, nell’ambito di tale sensibilità l’accento viene posto principalmente sugli aspetti strutturali di questa condizione di Morte, poiché si è convinti che essi ne siano la causa principale.
    Per contrapposizione alla Morte così concepita, questi cristiani pensano la Vita come quella condizione dell’umanità in cui tale Morte verrà completamente eliminata. Quindi, quella condizione in cui non ci saranno più rapporti emarginanti, schiavizzanti, oppressivi e sfruttatori tra gli uomini. In ciò consisterà il “cielo”.
    La salvezza consiste dunque nel liberarsi come umanità da questa Morte ed entrare definitivamente in questa Vita.
    Di per sé, questa visione sembrerebbe esclusivamente orizzontale, intramondana. Ciò che le conferisce verticalità e apertura alla trascendenza è il fatto, asserito costantemente dalla fede, che il rapporto di figliolanza nei confronti di Dio trova la sua verifica in quello di fraternità con gli uomini, una fraternità che ha il suo inizio nella condivisione dei beni materiali.
    In realtà, nell’ambito di questa rilettura, come d’altronde già in quella precedente, l’attenzione dei cristiani viene posta più sulla salvezza presente che su quella escatologica o definitiva.
    Sono infatti convinti che quella condizione futura di liberazione dalla Morte può e deve venir anticipata al presente. Cosa che avviene realmente, sempre che, nei diversi ambiti della realtà umana, le situazioni collettive di emarginazione, oppressione e sfruttamento vengano eliminate e vengano sostituite da altre di segno opposto. È la salvezza parziale, ma vera e reale, alla quale viene dato il nome di “liberazione”.
    Si tratta di liberazioni di innegabile portata intramondana, dal momento che riguardano aspetti economici, sociali, politici e culturali, ma che, considerate alla luce della fede, svelano la loro densità teologale: esse anticipano veramente, anche se in maniera imperfetta e provvisoria, la salvezza piena e definitiva della fine dei tempi.
    Alla luce di questa ricomprensione della salvezza questi credenti ripensano anche il ruolo salvifico di Cristo: egli è il Salvatore-liberatore.
    Lo è stato nel passato, durante la sua vicenda storica, profondamente segnata dal suo impegno per il regno di Dio, che si manifesta concretamente nell’impegno per la salvezza da ogni forma di emarginazione, schiavitù e sfruttamento, anche nei loro risvolti strutturali. La sua morte poi segnò il vertice di tale impegno e la sua risurrezione fu la conferma piena e definitiva da parte di Dio di quanto avvenne nella sua vicenda storica.
    Ma è anche il Salvatore-liberatore nel presente in quanto comunica agli uomini, mediante il suo Spirito, la capacità di impegnarsi seriamente nelle stesse cose per le quali lavorò, lottò e morì egli stesso. Ovviamente, tenendo conto dei cambi avvenuti nella realtà.
    Di questo impegno liberatore la Chiesa si sforza di essere un segno chiaro ed efficace.
    Questo modo di concepire la salvezza è implicitamente alla base dell’ecclesiologia di servizio al mondo, proprio della Gaudium et Spes, ed esplicitamente di quella corrente ecclesiologica che postula una “Chiesa dei poveri”.

    Caratteristiche comuni e differenze

    Una serie di accentuazioni, rispondenti alla sensibilità culturale in cui hanno luogo le due ricomprensioni della salvezza appena esaminate, ne tratteggiano più chiaramente la concezione stessa.
    In alcune di esse c’è una coincidenza fondamentale tra le due, in qualche aspetto invece divergono.
    C’è, anzitutto, in entrambe un’insistenza sull’integralità della salvezza. Tanto i cristiani che si muovono nell’ottica esistenziale e personalistica quanto quelli che lo fanno nella sensibilità prassica e storica hanno abbandonato decisamente la concezione dualistica dell’uomo e la conseguente tendenza spiritualistica. Perciò vi integrano a pieno diritto la sua dimensione corporale. Non pensano più quindi a una “salvezza dell’anima”, ma a una salvezza dell’uomo tutto intero. Per tutti e due, di conseguenza, Cristo non è più semplicemente il Salvatore delle anime, ma il Salvatore dell’uomo nella sua integralità.
    Ambedue i gruppi accentuano il potenziale valore salvifico dell’aldiqua, di ciò che è prima della morte. La salvezza, infatti, è per loro una realtà che inizia nel presente, benché sia destinata a trovare la sua piena realizzazione nel futuro. “Il cielo si costruisce sulla terra”, potrebbe essere la frase che esprime il loro pensiero.
    Ancora di più, si constata in essi una certa tendenza a privilegiare nella loro attenzione la salvezza in processo, in costruzione, anziché la salvezza in realizzazione definitiva.
    In un aspetto sembra che ci sia più differenza che affinità tra i due modi di pensare la salvezza: nell’ambito del rapporto tra dono e compito.
    Quelli che hanno abbracciato una sua concezione esistenziale, proprio in ragione della sua sensibilità di fondo sono portati a sottolineare il carattere di dono della salvezza, perché sanno che la comunione implica sempre un dono dell’Altro e degli altri.
    Quelli invece che hanno preferito la concezione prassica accentuano più fortemente la dimensione di responsabilità nella trasformazione liberatrice della realtà, e quindi mettono anche fortemente l’accento sulla dimensione di compito nella salvezza. Senza negare che Dio sia il suo autore primo e principale, ribadiscono l’idea che ciò non toglie nulla alla responsabilità dell’uomo, anzi la sollecita.

    3. QUALE CONCEZIONE DELLA SALVEZZA PER LA CHIESA D’OGGI?

    Da quanto abbiamo detto finora, una cosa soprattutto risulta chiara, ed è questa: la missione fondamentale della Chiesa è la vita, la “vita in abbondanza” (Gv 10,10) degli uomini e delle donne concreti di ogni tempo. Come Gesù di Nazaret e seguendo le sue tracce, la Chiesa e i suoi membri vogliono concentrare tutte le loro energie principalmente su questo punto. Solo così possono essere davvero discepoli e seguaci suoi.
    Ora, come dimostra l’esperienza, il mondo ricco e sempre più economicamente benestante esprime la sua sete di vita soprattutto come ricerca di senso e di comunione interpersonale. Il progresso scientifico-tecnico, prendendo la piega che conosciamo, lo ha portato alla perdita del gusto della vita, allo smarrimento delle ragioni per vivere. Mille manifestazioni lo confermano, anche nel mondo giovanile: il dilagare della droga, il moltiplicarsi dei suicidi, la crescita della violenza di diverso genere... L’unica uscita è quella dell’intersoggettività che venga ad appagare la fame sconfinata di incontro e comunione radicata nel cuore umano.
    Nel mondo della povertà massiccia e crescente l’ansia di vivere si esprime a livelli ancora più elementari di questi: c’è bisogno del pane per sfamarsi, del tetto che dia sicurezza, del vestito che difenda dal freddo, dell’assistenza sanitaria che porti a superare la morte prematura dei bambini e dei giovani. La Vita e la Morte si giocano qui sul fronte più vasto dei bisogni primari.
    Una Chiesa appassionata per “la vita in abbondanza” degli uomini non rimane insensibile e indifferente davanti a queste situazioni. Come il Buon Samaritano della parabola raccontata da Gesù (Lc 10,30-37), essa si lascia “commuovere fino alle viscere” da queste situazioni e s’impegna a dare loro risposta. Se facesse come il sacerdote e il levita della parabola, tradirebbe la sua ragione fondamentale di essere. Non può lasciarsi prendere dai suoi problemi interni in modo tale che ciò le impedisca di occuparsi di quelli del mondo, nei quali si gioca la Vita e la Morte concreta della gente.
    In realtà, come abbiamo visto precedentemente, in questi ultimi anni la Chiesa, ripensando la sua identità, ha cercato di rendere molto concreta la sua passione evangelica per la Vita.
    Con il modello ecclesiologico comunionale è uscita all’incontro delle istanze del mondo ricco e sviluppato, e con il modello della “Chiesa dei poveri” ha cercato di dare risposta a quelle che provengono dal mondo della povertà.
    Forse c’è ancora un passo da fare al riguardo: quello di sensibilizzare l’intera Chiesa a quello che possiamo chiamare il criterio di urgenza. Infatti, non tutte le situazioni di mancanza di vita sono ugualmente gravi. C’è una gerarchia in questo senso: lì dove la Vita si gioca ai suoi livelli più elementari, l’urgenza è certamente maggiore. Non per niente i Vangeli ci fanno sapere che Gesù, nel portare avanti il progetto del regno di Dio, fece certe opzioni. E le sue opzioni, come abbiamo visto, avevano sempre per oggetto i più deboli, i più piccoli, gli esclusi ed emarginati, gli ultimi della società del suo tempo.
    La gerarchia delle urgenze porterà la Chiesa a fare suo questo criterio genuinamente evangelico. In tale modo, senza negare le ricchezze del modello comunionale, cercherà di aprire la comunione alle esigenze che vengono, anche a livello mondiale, dalla decisione di partire, nella ricerca della “vita in abbondanza”, da coloro che di Vita ne hanno meno. Probabilmente questo contribuirà anche a dare ragioni per vivere a chi, sospinto dalla crisi del senso, le cerca disperatamente. Poiché c’è una parola di Gesù che dice: “Chi ama la propria vita, la perderà; chi invece è pronto a perdere la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,25).


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