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    La coscienza morale, intelligenza dell'amore (cap. 6 di: Libertà e legge)


    Guido Gatti, LIBERTÀ E LEGGE, Elledici 1995

     

    La coerenza dell'amore

    L'amore impone a chi ama una particolare attenzione nella scelta delle azioni con cui esprimere il suo amore: non voglio veramente un certo scopo se non mi preoccupo di scegliere il mezzo più adatto per raggiungerlo veramente. Non posso dire di amare Dio se scelgo e compio di fatto azioni che Dio non può volere, che non gli possono far piacere. Non basta una generica buona intenzione. È veramente buona solo quell'intenzione che si preoccupa di scegliere il mezzo giusto per attuarsi ed esprimersi.
    Un atto particolare è moralmente buono, e perciò coerente con il sì della mia vita a Dio e capace di dar corpo a questo mio sì, solo se possiede in se stesso una sua intrinseca positività morale: un atto di giustizia è moralmente buono perché riconosce coi fatti la uguale dignità di tutti gli uomini, un atto di veracità perché esprime la ricerca, l'amore e la trasmissione fedele della verità.
    Proprio in forza di questa loro oggettiva positività morale sono capaci di esprimere o di dare corpo all'amore di carità verso Dio.
    Al contrario, un atto moralmente negativo, una menzogna grave, un atto di ingiustizia o un omicidio trovano la ragione della loro negatività morale anzitutto nel fatto che essi comportano la negazione o distruzione di valori morali, una contraffazione patente di quella verità dell'uomo che è il fondamento vero della normativa morale.
    E tuttavia proprio in forza di questa loro negatività oggettiva essi sono in se stessi capaci di esprimere un no radicale a Dio.
    Solo accettando il carattere moralmente vincolante della verità di cui è fatto, l'uomo accetta il progetto di Dio nei suoi confronti, fa propria la sua volontà piena di amore, vuole, al di fuori di ogni costrizione, perché mosso ultimamente dall'amore di Dio, quella pienezza di vita e di felicità che Dio vuole per lui. Non è una sottomissione alienante ma l'interna coerenza dell'amore.
    Il peccato al contrario non rappresenta tanto una di quelle forme di emancipazione e di assunzione autonome delle proprie responsabilità che sono tanto apprezzate all'interno della nostra cultura, quanto il rifiuto di accogliere liberamente l'amore di Dio che vuole per noi soltanto la pienezza della vita e dell'essere. Proprio perché rivolto anzitutto contro di noi, contro la verità del nostro essere, il peccato è rivolto anche contro Dio; è in quanto rifiuto delle nostre possibilità di autorealizzazione che è anche un rifiuto di rispondere con l'amore all'amore gratuito e preveniente di Dio.
    Ma come possiamo nell'intrico inestricabile del nostro quotidiano discernere con una certa sicurezza ciò che, essendo coerente con la verità di cui siamo fatti, è capace di esprimere e incarnare un'autentica risposta di amore a Dio da ciò che, rinnegando questa verità, comporta un inevitabile rifiuto di Dio e del suo amore?
    La risposta a questo interrogativo va cercata ancora una volta in quella realtà misteriosa che la Bibbia chiama «cuore».
    Il cuore umano può essere aperto all'amore di Dio, oppure ostinatamente ribelle al suo richiamo. Ma allo stesso modo il cuore umano può farsi disponibile al riconoscimento della verità, oppure restare colpevolmente accecato e chiuso alla sua luce.
    Il richiamo che la verità del bene esercita sul cuore umano, e la capacità del cuore umano di discernere la luce di questa verità dalla ingannevole suggestione del male ha, nel linguaggio tradizionale della fede, un nome solenne e carico di mistero: coscienza.
    «Due cose - diceva il grande filosofo tedesco Kant - colmano di meraviglia e di venerazione sempre nuove e crescenti, a misura che ci si dedica attenzione più frequente e più durevole: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me...: io le vedo dinanzi a me e le connetto immediatamente con l'esperienza del mio esistere... Senonché ammirazione e venerazione possono certamente sollecitare alla ricerca, ma non supplire alla mancanza di questa».
    Di fatto la presenza di questo richiamo interiore ha sempre incuriosito l'umanità ed è sempre stato oggetto di indagini appassionate.
    Ma in nessuna cultura morale e in nessuna religione questa indagine è stata portata tanto a fondo quanto in seno alla riflessione morale cristiana. E si capisce: nessun'altra cultura e nessun'altra religione attribuisce un ruolo così decisivo nella vita morale all'interiorità dell'uomo, al suo cuore.

    La possibilità di un conflitto

    Il fatto è che la riflessione di fede ha sempre visto nella coscienza morale una specie di voce interiore, in cui risuona per ogni uomo un imperativo di Dio, quindi una specie di comandamento personalizzato e situato, accanto a quelli più generali, contenuti nel decalogo e nel Vangelo.
    Un simile imperativo illumina le situazioni particolari in cui ogni uomo è chiamato a vivere la volontà di Dio e a realizzare il progetto di Dio nei suoi confronti.
    Questo naturalmente può comportare qualche problema.
    In teoria, dato che Dio non può essere in contraddizione con se stesso, i comandi particolari che Dio rivolge al singolo attraverso la voce della coscienza dovrebbero essere in linea con quelli universali, contenuti nel decalogo e nel Vangelo e nell'interpretazione che di essi offre ai credenti l'insegnamento morale della Chiesa.
    Di fatto però questa armonizzazione non si verifica sempre. A volte il credente, pur sinceramente interessato a scoprire la volontà di Dio e a uniformarsi ad essa, sperimenta un certo conflitto tra ciò che Dio sembra chiedergli attraverso la sua coscienza e ciò che Dio chiede attraverso le sue leggi e l'interpretazione autorevole che gliene propone la Chiesa.
    L'enfasi che la cultura pone oggi sui valori della soggettività e la necessità che l'esperienza morale, per essere veramente matura, sia sottratta a ogni forma di eteronomia e di soggezione alienante a una volontà estranea portano questo conflitto all'esasperazione, col rischio di fare della coscienza un alibi per trasgredire la legge di Dio o almeno per rifiutare l'interpretazione che ne dà la Chiesa.

    Legge generale e verdetto del giudice

    Per superare questo conflitto è necessaria una migliore comprensione del rapporto tra la legge e la coscienza.
    In prima approssimazione potremmo paragonare questo rapporto a quello che esiste tra la legge civile e il giudice che la deve applicare, in una causa particolare o in una situazione concreta, in cui questa applicazione non sia immediatamente evidente.
    Il giudice non è legislatore; non giudica della legge ma in base alla legge. D'altra parte, il suo giudizio assume nel caso particolare valore di legge. Questo perché la legge generale non può esser fatta valere nel caso particolare senza il verdetto di un giudice che la faccia diventare «legge-in-situazione». Ma la decisione del giudice non ha nulla di arbitrario: è una forma di «discernimento», cioè un atto dell'intelligenza che valuta la situazione particolare in rapporto alla legge, e scopre che cosa la legge disponga per quel caso concreto.
    Così la coscienza applica la norma morale generale a un caso concreto: nel giudizio della coscienza, la legge generale (o «norma remota», cioè lontana dalla situazione particolare) diventa imperativo singolare (o «norma prossima», cioè vicina alla situazione), capace di esprimere ciò che Dio (e la sua legge) vogliono per quel caso concreto.
    Ma anche il giudizio della coscienza non è una decisione arbitraria: anch'esso è un atto di discernimento intelligente. Ha la forza di un imperativo ma non è un imperativo a capriccio: esso sta sotto il dominio di un imperativo più generale; è norma, ma «norma normata».
    E a normarla non è solo la legge scritta, ma al di là di essa la forza di una verità morale oggettiva, anteriore a ogni legge scritta, che si impone alla coscienza e che la coscienza è chiamata a riconoscere e ad ubbidire. Tale legge affonda le sue radici nella verità di cui l'uomo è fatto. La stessa legge scritta di Dio, contenuta nel decalogo e nel Vangelo, è solo una formulazione di questa verità oggettiva e uno strumento per poterla conoscere meglio.
    Il conflitto nasce appunto là dove la coscienza ritiene di poter cogliere questa verità, e la sua rilevanza per la situazione particolare, in modo più adeguato di quanto non facciano le leggi morali promulgate da Dio e insegnate dalla Chiesa.
    In una situazione di questo genere, la coscienza (in quanto «norma prossima», cioè più vicina alla situazione concreta in cui si trova il singolo credente) può onestamente dire di cercare davvero la verità morale («norma remota o fondante») solo se si confronta umilmente e senza preconcetti con quelle «mediazioni» (parola di Dio e insegnamento della Chiesa) in cui, proprio per un fatto di coerenza con la sua fede, essa dovrebbe vedere una fonte di conoscenza morale dotata di una forte presunzione di verità.

    Una coscienza progettuale

    Va detto peraltro che la verità morale non è soltanto una verità già totalmente determinata, che domanda unicamente riconoscimento e applicazione fedele; la verità morale è anche, almeno in parte, una verità da inventare e da progettare. I comandamenti di Dio e le altre norme morali generali non contengono mai tutte le indicazioni sufficienti per risolvere i problemi morali posti dalle situazioni concrete della vita; soprattutto quando, come normalmente avviene, non si tratta soltanto di definire bene il confine tra il lecito e l'illecito, ma si vuole sapere come realizzare in concreto quel bene, che nel suo versante positivo è abbastanza indeterminato così da aver bisogno di una ricerca creativa e progettuale.
    La vita morale non si riduce mai alla applicazione di una norma morale generale (magari proibente) a una situazione particolare. Essa chiede anche la realizzazione positiva del bene, secondo modalità sempre nuove e inedite, legate alle condizioni irripetibili e alla unicità della persona in situazione. Per questo la verità morale ha anche l'aspetto di un progetto architettonico: sottostà a leggi fisse che non è lecito ignorare, in quanto espressione di una realtà oggettiva con cui si deve comunque fare i conti, ma ha anche l'aspetto di un capolavoro della inventiva e del genio originale della persona, che impegna nella elaborazione di un progetto di vita tutta la creatività di cui Dio l'ha dotata.
    Come la realizzazione di un progetto non si riduce all'applicazione delle regole, che pure presiedono alla sua elaborazione, così la realizzazione di una vita buona non può risolversi nell'applicazione di norme generali a casi particolari: ogni vita è chiamata a diventare un capolavoro originale della grazia di Dio e della creatività dell'uomo: la coscienza morale, illuminata dallo Spirito Santo, è lo strumento umano di questa creatività.

    La coscienza, voce di Dio?

    Quando, dopo aver cercato con sincerità e umiltà, valutando spassionatamente tutti i pro e tutti i contro, il credente arriva a un verdetto (oppure elabora un progetto) che egli, in perfetta buona fede, ritiene giusto e vero, è tenuto a ubbidire a questo giudizio come alla voce della verità e alla parola di Dio.
    Questo giudizio potrebbe anche essere erroneo, cioè non corrispondente a quella verità morale oggettiva che pure la coscienza ha cercato con sincero amore. Nessuna coscienza è infallibile in questo senso.
    E tuttavia anche in questo caso questo verdetto potrebbe ugualmente essere considerato voce di Dio. Non che Dio comandi espressamente l'errore; ma Egli lo accetta come uno scarto inevitabile, dovuto alla insuperabile finitezza dell'uomo. Ubbidendo a questo verdetto, l'uomo ubbidisce a Dio che gli chiede anzitutto di cercare la verità e di fare quel bene che egli in coscienza ritiene essere il vero bene.
    Da questo punto di vista, cercare la verità morale è già averla trovata, perché essa consiste anzitutto nell'amore con cui la si cerca.
    Da un punto di vista teorico, tutto questo è molto chiaro e convincente. Ma il problema non è semplice sul piano della vita vissuta. Non è infatti così facile verificare in modo sicuro e tranquillizzante la sincerità di questa ricerca della verità da parte della coscienza, e quindi l'intima qualità morale della coscienza stessa. La voce di Dio infatti non risuona nella coscienza in modo diretto e quasi meccanico, come se la coscienza fosse una specie di registratore. Dio parla solo attraverso la sincerità con cui la coscienza cerca e ama il bene. E questa sincerità non è garantita in modo automatico, ma va continuamente verificata, purificata e difesa contro la possibilità che secondi fini, motivazioni interessate più o meno consapevoli, la rendano meno autentica, e le impediscano così di essere veramente eco della volontà di Dio.
    La verità morale non è una verità qualunque; la persona non è mai neutrale nei suoi confronti, poiché è costituita da qualcosa che essa deve fare, da qualcosa che avanza pretese, spesso molto esigenti, sulla sua vita. Nella ricerca di questa verità, l'intelligenza non opera indipendentemente dalla volontà e da tutte le sue, anche più oscure e inconsapevoli, propensioni. Su questa ricerca influiscono quindi in modo spesso decisivo le qualità morali della persona, buone o cattive che siano, la sua storia di vita, le sue abitudini, le sue virtù ma anche le scelte morali negative del suo passato.
    Particolarmente decisive saranno le scelte di fondo, che danno alla persona il suo orientamento morale globale. In forza di queste scelte, la coscienza è già pregiudizialmente aperta a certe verità, oppure chiusa e ostile nei loro confronti.
    Per chi ama il bene, ubbidire alla coscienza è ubbidire alla sincera volontà di bene che in essa si esprime; per chi ha scelto, con una decisione di fondo, l'egoismo o il disimpegno morale, ubbidire alla coscienza significa troppo spesso ubbidire a scelte di comodo, e quindi sfuggire alla verità del proprio essere e alla possibilità di un vero incontro con Dio e con la sua volontà.

    Responsabili di fronte a Dio

    Se le cose stanno così, si può capire meglio perché l'ascolto della parola di Dio, incisa nei suoi comandamenti e insegnata dalla Chiesa, rappresenti una garanzia non solo della verità oggettiva che si cerca, ma anche della soggettiva sincerità con cui la si cerca. A una tale garanzia il credente non può rinunciare senza una qualche incoerenza con la fede che dice di professare. Questo non significa che il dissenso dall'insegnamento morale della Chiesa, su punti particolari che essa non ha definito in modo infallibile, sia necessariamente un peccato o un tradimento della propria fede. Ma il credente, che pensa di dover portare avanti un simile dissenso, deve sapere che, in questa ricerca della verità morale, egli non è solo con se stesso, padrone della verità e sovrano del bene e del male; egli sta, con la sua coscienza, davanti a Dio che lo interpella. Quando al termine di una ricerca, il più possibile sincera, dopo aver valutato spassionatamente tutti i dati del problema, egli elabora un giudizio finale, di questo giudizio si assume per intero la responsabilità davanti a Dio.
    Egli deve perciò vigilare contro il pericolo, tutt'altro che remoto, che la sua coscienza ubbidisca in realtà a una qualche forma di razionalizzazione, cioè di manipolazione interessata e più o meno colpevole della verità.
    A un pericolo di questo genere ci sembrano richiamare, in modo abbastanza esplicito, due pagine del Vangelo, dove si parla di luce e di tenebre: la prima riferisce un detto interessante di Gesù che accenna alla possibilità che quella luce interiore che è la coscienza possa diventare tenebra: «La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grandi saranno le tenebre!» (Matteo 7,22-23).
    La seconda è invece una riflessione, contenuta nel dialogo tra Gesù e Nicodemo, riferita dall'evangelista Giovanni: «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage. Chiunque infatti fa il male odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Giovanni 3,19-21).
    Ricordiamo infine la parabola del fariseo che se ne sta ritto e solenne davanti a Dio a proclamare la sua giustizia, fondata sull'osservanza della legge. Gesù ci dice che se ne tornò a casa non giustificato. Non è forse un richiamo al pensiero che il ritenersi creditori di Dio per il solo fatto di aver ubbidito alla propria coscienza possa risultare alla fine ugualmente illusorio?

    Una coscienza illuminata dallo Spirito

    Proprio per questo il credente non dovrebbe mai chiudere del tutto la porta della sua coscienza al dubbio e all'inquietudine. Certo, è necessario superare i singoli particolari dubbi di coscienza, perché si deve pur agire e il dubbio paralizza l'azione. Ma c'è una più remota capacità di dubitare, di mettersi in questione, di mantenere vivo il bisogno di verificare la propria sincerità di fondo; questa capacità di dubitare di noi tiene aperta la porta del nostro cuore all'ingresso di una verità più perfetta e più completa; ma soprattutto ci permette a stare davanti a Dio, non come il fariseo, sicuro di sé e della propria bravura, ma come il pubblicano, consapevole dei suoi limiti, ma fiducioso nella bontà del Signore che lo salva; lo diceva già di sé san Paolo: «La mia coscienza non mi rimprovera di nulla, ma non è per questo che mi ritengo giusto; chi mi giudica è il Signore» (1 Corinzi 4,4).
    Questo in negativo.
    Ma la cura che dobbiamo avere della nostra coscienza ha anche un versante positivo: la verità morale si disvela solo a coloro che la cercano, possedendone già nella loro vita il segreto, a coloro che hanno acquisito nei suoi confronti una certa «connaturalità».
    La conoscenza del bene è una conoscenza esperienziale: bisogna averci «fatto pratica», bisogna avere acquisito con essa una certa familiarità.
    Ma questa connaturalità con il bene morale non è solo il frutto di una conquista umana: è prima di tutto un dono dello Spirito: come ci ha promesso Gesù, è lo Spirito che insegna tutta la verità (Giovanni 16,13).
    Il cuore abitato dallo Spirito è un cuore illuminato.
    Ma lo Spirito è l'amore divino personificato: possiede lo Spirito chi ama. La sapienza cristiana è l'amore. La coscienza cristiana è luminosa quando si identifica con l'intelligenza dell'amore.


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