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    Liberi della libertà di Cristo (cap. 4 di: Libertà e legge)


    Guido Gatti, LIBERTÀ E LEGGE, Elledici 1995

     


    Legge e fede, realtà contrapposte?

    Per l'uomo della strada parlare di morale è lo stesso che parlare di «obbligazione», di «legge», di «dovere», di «comandamenti»; si tratta effettivamente di termini cui l'aggettivo «morale» sembra attagliarsi perfettamente.
    Ma sono anche termini che richiamano idee non del tutto simpatiche, come quelle di autorinnegamento, di costrizione, di sottomissione forzata, di violenza, almeno psicologica, subita da colui che è soggetto alla legge morale, e perfino di castighi, comminati a colui che osasse ribellarsi a questa legge, commettendo il peccato.
    Si capisce allora che, in tempi di febbre d'emancipazione come quelli che stiamo vivendo, la morale, facilmente gabbata per «moralismo», non goda di una buona stampa. La morale cristiana poi, nota per la sua particolare severità, e per il fatto di poter contare sull'appoggio dell'istanza autoritativa più alta che si possa pensare, Dio stesso, autore e tutore delle sue leggi, pronto a punire con l'inferno coloro che vi si ribellano, è presa di mira con ancor più accanimento.
    Ma a scorrere alcuni testi del Nuovo Testamento si ha il sospetto che questo collegamento tra «morale» e «legge», se pure del tutto valido per altre forme di morale, faccia qualche problema per la morale cristiana: sono testi che osano (si direbbe proprio così) contrapporre il termine legge ad alcune delle parole più caratteristiche e più sacre del linguaggio cristiano, come grazia o regno di Dio o fede.
    Secondo il Vangelo di Giovanni, «la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Giovanni 1,17).
    Gesù stesso ha detto: «La legge e i profeti fino a Giovanni Battista; da allora in poi viene annunciato il Regno di Dio» (Luca 16,16).
    Ma questa prima e incerta forma di contrapposizione trova la sua espressione più forte e più ampiamente sviluppata negli scritti di san Paolo.
    Questa contrapposizione tra una morale legata all'idea di legge e una morale fondata su una realtà radicalmente diversa cui viene appunto dato il nome di fede, diventa in san Paolo polemica esplicita, che raggiunge l'acme nella lettera ai Galati, dove la legge viene apertamente dichiarata incapace, da sola, di salvare, anzi incompatibile con la fede in Cristo, e perciò abolita e sostituita dalla fede, che assume ormai, in modo pienamente autonomo, le funzioni di guida e di sostegno della vita morale, nella nuova condizione instaurata da Cristo, in cui il credente non è più nella casa del Padre come servo, ma come figlio.
    La lettera ha il tono di un rimprovero acerbo, rivolto ai cristiani della Galazia che, secondo Paolo, sono rapidamente «passati ad un altro vangelo» (Ga-lati 1,6).
    Egli si chiede chi li abbia «ammaliati» fino al punto di spingerli, dopo avere cominciato con lo Spirito, a «finire nuovamente con la carne», vanificando l'esperienza dello Spirito, fatta in precedenza (3,2-4).
    Dal seguito della lettera non è difficile risalire ai motivi del corruccio di Paolo: dopo che egli si era allontanato dalla Galazia, erano sopraggiunti tra i nuovi fedeli alcuni cristiani provenienti dal giudaismo, ancora abbarbicati alle particolarità religiose e culturali del mondo giudaico, e perciò incapaci di cogliere tutta la radicale novità dell'evento cristiano.
    Costoro avevano cercato di convincere i Galati che per poter ottenere la giustificazione davanti a Dio, e quindi la salvezza, non bastava la sola fede in Cristo, era anche necessario osservare tutta la legge di Mosè (ben al di là quindi del semplice decalogo), e soprattutto ricevere la circoncisione, simbolo di appartenenza al popolo giudaico, e perciò stesso di rinnegamento della propria identità nazionale e della propria cultura, ma anche di una totale sottomissione al giogo della legislazione mosaica.
    San Paolo percepì naturalmente il pericolo che una simile posizione comportava per il cristianesimo delle origini: essa metteva apertamente in questione l'apertura universalistica del Vangelo e conteneva in sé una minaccia di regressione a quell'esclusivismo etnico e culturale che era stato uno dei principali ostacoli alla diffusione dell'esperienza religiosa di Israele nel mondo pagano.
    Ma era soprattutto la radicale novità del cristianesimo ad essere minacciata e, secondo san Paolo, tale novità non poteva essere salvata senza una precisa ridefinizione e un deciso ridimensionamento del ruolo della legge-in-quanto-legge nella vita di fede.
    Si trattava di chiarire una volta per tutte se la salvezza viene all'uomo dalle opere e dalla fiducia nelle opere della legge, oppure in modo gratuito, attraverso la fede in Cristo. Le due cose parevano a Paolo alternative e inconciliabili.
    Per questo accettare le pretese dei «giudaizzanti» equivaleva per Paolo a una specie di apostasia.

    La legge che non salva

    San Paolo precisa la sua posizione fin dalle prime righe della lettera: «Noi che per nascita siamo giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo, per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno» (Calati 2,15-16). Sostenere che l'uomo possa salvarsi con le sole sue forze attraverso l'osservanza della legge equivale a dichiarare inutile la redenzione operata da Cristo: «Infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano» (2,21). La condizione di peccato in cui vivono tutti gli uomini (che non dipende solo dai loro peccati personali, ma anche dalla solidarietà che lega ognuno al «peccato del mondo», operante dentro la storia umana fin dal suo esordio) e che rende loro impossibile una totale fedeltà alla legge, fa sì che la legge, che pure in se stessa è giusta e santa, al di fuori della grazia si trasformi in una specie di maledizione: «Quelli che si richiamano alle opere della legge stanno sotto la maledizione, poiché sta scritto: maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della legge per praticarle» (3,16). «Se infatti fosse stata data una legge capace di conferire la vita, la giustificazione scaturirebbe davvero dalla legge; la Scrittura invece ha racchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo» (Galati 3,21-22).
    La legge infatti non rappresenta l'ultima parola di Dio all'uomo; tale parola è la Parola vivente di Dio, il Cristo, parola di benedizione per tutti gli uomini nonostante la loro condizione di peccato. La legge ha svolto una funzione pedagogica, «è come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo» (3,24): suo compito è stato quello di smascherare il peccato e preparare così le coscienze alla fede: «Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo» (3,25). «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli» (4,4).
    La legge non è soltanto da considerare decaduta, va positivamente superata: «Non ha più nulla a che fare con Cristo chi cerca la giustificazione nella legge; è decaduto dalla grazia» (5,4). Grazia significa qui proprio il contrario di legge, e quindi salvezza efficace proprio solo nella sua gratuità.

    Una legge «diversa»

    Il cristiano vive sotto l'impero di una legge nuova, la legge dello Spirito. Essa è legge in un senso radicalmente diverso da quello in cui lo è una qualunque legge morale; essa è legge nel senso di un dinamismo interiore. È la forza di un amore-dono, infuso nel cuore dei credenti dallo Spirito Santo. Questa legge nuova porta a fare lo stesso bene e a evitare lo stesso male rispettivamente comandato o proibito dalla legge vecchia, ma con maggiore fedeltà e generosità, perché l'amore sa essere più fedele e generoso della sottomissione e della paura; essa è ormai cosa diversa rispetto al decalogo e, in un certo senso, incompatibile col suo modo vecchio di essere legge.
    La posizione polemica di san Paolo nei confronti della fiducia illusoria nella legge (che si risolve poi in una schiavitù della legge stessa) trova il suo punto più vibrante nella lettera ai Galati, ma è diffusa, a volte in modo più pacato e sistematico, oppure soltanto in modo occasionale, un po' in tutte le sue lettere, soprattutto in quella rivolta ai cristiani di Roma. Ma accenni a questo tema, che presuppongono una piena recezione della concezione paolina nella Chiesa primitiva, si trovano anche negli altri scritti del Nuovo Testamento.
    Naturalmente la contrapposizione di san Paolo tra fede e legge ha bisogno di una spiegazione calibrata: il suo invito a vivere nella libertà è tutto eccetto che l'invito a una qualsiasi forma di amoralismo.
    San Paolo stesso invita i credenti a non illudersi: né i ladri, né gli omicidi, né i mentitori, né gli impudichi possederanno il regno di Dio (1 Corinzi 6,10).
    Dunque, se c'è un senso in cui la legge è stata abolita, c'è anche un senso in cui la legge non è stata abolita. Si dice spesso che Cristo non ha abolito la legge ma l'ha perfezionata, ed è vero: a patto però che il perfezionamento non sia inteso nel semplice senso di un arricchimento di ulteriori norme, di un incremento del suo peso e del suo carattere costrittivo.
    Il perfezionamento riguarda la stessa natura della legge, il suo modo di essere legge; un modo così radicalmente diverso che san Paolo ritiene che il vecchio termine sia sviante se adoperato per la nuova realtà e sia perciò forse meglio abbandonarlo.
    Se si continua a usarlo (e la riflessione cristiana lo ha sempre fatto) è necessario accompagnarlo da un corredo adeguato di precisazioni. È necessario ricordare con san Giacomo che la legge di cui parliamo è una legge di libertà, perché tutto il messaggio cristiano, anche nella sua dimensione etica, è anzitutto un messaggio di liberazione.

    Una legge che libera

    Il messaggio morale cristiano è infatti essenzialmente un annuncio di liberazione: la morale cristiana o si risolve in un annuncio di libertà, o non è veramente cristiana.
    «La verità vi farà liberi - ha promesso Gesù - ... Se dunque il Figlio vi farà liberi sarete liberi davvero» (Giovanni 8,32-36). «Cristo ci ha liberati -dice san Paolo - perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della servitù» (Galati 5,1); e ancora: «Non avete ricevuto uno Spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno Spirito da figli» (Romani 8,15). Questo significa che, se si potrà ancora parlare di «legge» in un ambito morale cristiano, dovrà trattarsi di una legge di libertà, o almeno di una legge che non ostacoli la libertà filiale del cristiano, che non si risolva nuovamente in un giogo di schiavitù.
    Giustamente san Giacomo chiama la legge morale cristiana «legge perfetta della libertà» (Giacomo 1,25; 2,12), e san Paolo la chiama legge dello Spirito che dà vita e libertà (Romani 8,2).
    Questo spiega perché nella catechesi cristiana si ripeta tanto spesso e con tanta enfasi che la morale cristiana è «una legge che libera»: «Forti di una legge che libera» è ad esempio il titolo del capitolo dedicato a questo tema del Catechismo italiano degli adulti «Signore, da chi andremo?» (361).
    In molte di queste forme di catechesi però, questa affermazione, per quanto ripetuta, non viene sempre sufficientemente approfondita e tanto meno dimostrata; resta sospesa nel vuoto e assume il carattere di una figura retorica.
    E naturalmente è più che legittima la domanda: ma come può veramente liberare una legge, sia pure una legge morale?
    Le leggi civili, perfino quelle che esprimono e difendono una concezione totalitaria dello Stato, hanno sempre un qualche rapporto, non puramente retorico, con la libertà dei cittadini. Non per nulla i popoli dell'antica Grecia e di Roma ascrivevano l'inizio delle loro democrazie (o almeno del loro «stato di diritto» e di quel tanto di democrazia che era pensabile e possibile in quella situazione storica) alla prima redazione scritta di un corpo di leggi (ad opera di Solone, Licurgo, o dei «decemviri»). La legge garantisce almeno dal sopruso arbitrario. Naturalmente i potenti, gli astuti, gli appoggiati riescono spesso a eludere la legge o a piegarla ai loro capricci, ma, almeno in linea di principio, essa garantisce quel minimo di libertà che è la «certezza del diritto». Perché, mentre dichiara i miei obblighi nei confronti degli altri cittadini, essa proclama i miei diritti, e perciò gli obblighi degli altri e dello stesso Stato nei miei confronti.
    Imponendosi ugualmente ai giusti e agli ingiusti, e minacciando ai trasgressori le sanzioni previste, la legge garantisce ai diritti di tutti quel minimo di esigibilità che assicura una situazione di ordine e di libertà almeno elementare.
    Ma una legge morale, per sé, non assicura neppure questo livello minimo di libertà. Le sue sanzioni sono, almeno qui in terra, puramente interiori e hanno efficacia quasi soltanto nei confronti dei buoni, cioè di coloro che rispetterebbero la giustizia anche a prescindere dalle norme di una legge.
    Di fronte a colui che, violando una legge esclusivamente morale, mi danneggia ingiustamente, non posso appellarmi a nessun tribunale per avere giustizia; la forza coattiva dello Stato veglia, quando pure riesce, per esigere l'osservanza delle sue leggi, non di quelle di un qualche codice morale che gli sia estraneo. Nella migliore delle ipotesi, cioè quando sia giusto e forte, lo Stato impone l'osservanza di quelle norme morali che sono anche leggi civili. Al di fuori di questo, l'ordine morale non gode di altra tutela che quella della coscienza dei singoli.
    Da questo punto di vista, la legge morale non garantisce nessuna situazione di libertà.
    Ma si potrebbe obiettare che la legge morale libera di quella libertà che è data dal possesso della verità morale, cioè di quella verità che essendo in fondo la verità stessa del nostro essere, fa da fondamento alla nostra personale qualità umana, e quindi alla libertà di essere veramente noi stessi, secondo la verità oggettiva del nostro essere.
    Nel caso della legge morale cristiana poi, la verità e la pienezza di vita che essa promette è la «vita eterna», cioè la felicità infinita nel possesso eterno di Dio: il massimo di vera libertà cui si può pensare, ciò che nessuna libera volontà umana potrebbe, se la conoscesse veramente, esimersi dal desiderare, con la più insopprimibile tensione delle sue aspirazioni.

    La schiavitù del peccato

    Ma purtroppo neppure questa libertà è assicurata automaticamente dalla legge; a garantirla sarebbe solo l'osservanza interiore ed esteriore della legge stessa.
    Ma una simile osservanza non è possibile all'uomo storicamente esistente, schiavo della potenza del peccato. Essa rientrerebbe, al massimo, nelle possibilità di un uomo ideale, che non fosse segnato, come siamo invece noi, da quella profonda solidarietà con una storia di peccato cui si dà il nome di «peccato originale».
    Questa solidarietà instaura nell'uomo, dentro le strutture stesse della sua personalità, una misteriosa legge del peccato (quello che san Paolo chiama «peccato inabitante») che gli rende impossibile una scelta radicale di adesione incondizionata a Dio, al bene, alla verità.
    San Paolo descrive molto bene questa situazione nella lettera ai Romani: «Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. lo non riesco neppure a capire ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo... Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato. Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Romani 7,14-24).
    L'angoscia del senso di colpa, la consapevolezza della propria fragilità e impotenza di fronte al bene, le contraddizioni laceranti che dividono il mondo del desiderio trascinandolo in direzioni contrapposte, sono esperienze universali di cui nessuno, comunque le interpreti, nega il carattere alienante e drammatico, e che smentiscono tanta retorica e demistificano tante illusioni.
    Questa schiavitù del peccato, vista nella luce della fede, rivela un carattere ancora più universale e radicale di quanto già possa testimoniare l'esperienza psicologica dei singoli e dell'intera umanità: essa assume il significato di una misteriosa tragedia storica che pone tutta quanta l'umanità fuori dal progetto di Dio, separata dal suo amore, chiusa alla efficacia creatrice di questo amore, incapace di vera giustizia, autorealizzazione e salvezza.
    Il carattere di «buona notizia», che è proprio del messaggio evangelico, assume tutto il suo rilievo proprio dal fatto che esso si staglia sullo sfondo di una simile tragedia: l'universale dominio del peccato su tutto quanto il mondo dell'uomo, sulla società, sulle strutture psicologiche della personalità e su tutto il corso della storia umana.
    Il dono che Dio fa di sé all'uomo in Cristo non raggiunge l'uomo in un punto di partenza innocente o neutrale, ma al termine di una lunga vicenda di peccato, che ne ha accumulato gli effetti in una specie di «integrale del peccato». Non si parte da zero ma da molto sotto lo zero.
    L'esperienza del peccato è l'aggancio psicologico a cui si appoggia la predicazione di Gesù e degli apostoli. Essi si presentano a una umanità che si sente profondamente contaminata e minacciata dal peccato, promettendo e attuando anzitutto una liberazione dal peccato, come segno e garanzia del Regno di Dio che viene.
    Ma è san Paolo che, come si è visto, analizza in maniera più rigorosa e sistematica il contenuto di questa oscura esperienza collettiva.
    Nella lettera ai Romani egli racchiude pagani ed ebrei in una comune condizione di peccato e di condanna. Con la legge o senza la legge, essi stanno ugualmente sotto il segno di questa maledizione universale (Romani 1,18-2,12).
    San Paolo trova le cause profonde di questa universale situazione di peccato nella solidarietà che lega ogni uomo e ogni popolo a una storia interamente fatta di peccato: il dominio del peccato incombe sull'umanità fin dall'esordio della storia umana: «Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato... Per la caduta di uno solo morirono tutti» (Romani 5, 12-15).

    La pedagogia della legge

    In una situazione di questo genere, la legge morale, benché sia promulgata da Dio ed esprima la oggettiva verità e santità del bene, si rivela del tutto insufficiente a salvare e a rendere giusto e degno di Dio l'uomo. Essa lo mette sì di fronte alla verità del bene; ma essa resta fondamentalmente estranea alla dinamica dei desideri umani e delle tendenze naturali dell'uomo; così si rivela incapace di cambiarlo dentro e si risolve in una accresciuta occasione di colpa, in uno strumento di accusa, in una causa di cattiva coscienza; in una parola, essa finisce per diventare una vera e propria maledizione, al punto che san Paolo si chiede se essa non si identifichi direttamente col peccato: «Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge... La legge che doveva servire per la vita è diventata per me motivo di morte... perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento» (Romani 7,7-13).
    Forse è bene ricordare qui che la legge di cui san Paolo sta parlando non è una qualunque legge umana positiva, come le leggi dello Stato, ma la legge morale in quanto legge di Dio. Perché allora Dio ci ha dato una legge che non libera e che anzi, ribadendo la nostra schiavitù, si traduce in una forza di morte?
    Lo stesso Paolo si pone questa domanda, o almeno la pone, come possibile obiezione, sulle labbra dei suoi lettori.
    Si potrebbe anzitutto rispondere che la legge morale è qualcosa di necessario e di oggettivo, inciso nel nostro stesso essere, perché è la verità di cui siamo fatti e per cui siamo fatti. Questa legge esprime soltanto la via obbligata del nostro diventare noi stessi. Prima che sul Sinai, Dio l'ha promulgata con il «fiat» della creazione; egli non potrebbe abrogarla senza distruggerci.
    Essa resta una delle buone realtà che Dio mette sulla strada della nostra autorealizzazione. Non può essere ascritto a lui il fatto che, a causa della nostra condizione di peccato, questo dono si risolva in perdizione.
    Ma Paolo non si accontenta di questa risposta: egli vede la legge soltanto come tappa e momento parziale nella attuazione di un piano divino di salvezza, che sarà alla fine capace di avere ragione di tutte le nostre resistenze e fragilità.
    La legge non è l'ultima parola di Dio all'uomo bisognoso di salvezza; essa è stata data all'uomo soltanto come pedagogo, con il compito di prepararlo a Cristo e di condurlo alla fede in lui. Solo Cristo è veramente capace di liberare l'uomo dalla schiavitù del peccato; a differenza della legge che non salva, la fede in Cristo può salvare: «Prima però che venisse la fede, noi eravamo rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto il pedagogo» (Galati 3,23-25). «Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli... quindi non sei più schiavo ma figlio, se poi figlio, sei anche erede per volontà di Dio» (Galati 4,1-7).

    Ma chi libera veramente è Cristo

    Chi veramente libera dunque è Cristo; la fede in lui ci pone in una condizione oggettiva di libertà filiale; come pegno della nostra eredità futura ci è già dato il dono di una presenza illuminante dello Spirito Santo che, infondendo in noi l'agape, come misteriosa partecipazione all'amore stesso con cui Dio ama, cambia il nostro cuore e ci rende possibile un'osservanza piena e amorosa (non più solo legale e quindi forzata) della volontà di Dio e una collaborazione senza riserve alla sua azione salvifica.
    La legge resta per il credente giusta e santa, cioè espressione autentica di quella verità morale di cui siamo costituiti; ma essa non è più legge nel senso deteriore della parola, cioè obbligazione che lo costringe a prestazioni troppo superiori alle sue forze, perché estranee al dinamismo delle sue tendenze e dei suoi desideri. Ciò che era impossibile alla legge è diventato possibile all'amore, presente in noi come dono.
    Se esiste una legge che veramente libera, questa legge è costituita dal dono dello Spirito Santo, dalla grazia che trasforma interiormente il nostro cuore. Ma si tratta di una realtà che può esser detta legge solo in un senso analogico e molto particolare; nel senso, ad esempio, in cui noi chiamiamo legge la gravitazione universale, cioè la forza capace di tenere insieme l'universo.
    Essa è veramente «legge dello Spirito che dà la vita», «legge perfetta della libertà».
    Come ogni buon pedagogo, anche la legge ha il compito di rendersi inutile in quanto legge; essa finisce nella misura in cui viene veramente la fede; allora «non siamo più sotto il pedagogo»; il pedagogo è diventato inutile.
    Si può in un certo senso dire che coloro che il dono dello Spirito rende buoni «dentro» non hanno più bisogno di una legge «fuori», scritta su tavole di pietra o su fogli di carta: «I giusti e i virtuosi non sono soggetti alla legge; lo sono solo i cattivi. Ciò che è coatto e violento è contrario alla volontà; ma la volontà buona concorda con la legge, da cui invece discorda la volontà dei cattivi» (san Tommaso d'Aquino).

    La libertà è l'amore

    Si dice che sull'ingresso della sua famosa «Città dei ragazzi», Padre Flanagan, che ne fu il fondatore, avesse fatto dipingere, quasi come emblema di tutto ciò che ispirava la sua opera, la figura di due ragazzi: il più grande dei due portava sulle sue spalle il più piccolo, che non poteva camminare. E sotto il dipinto stava una scritta che ne doveva illustrare il senso: «Padre, non è pesante, è mio fratello!».
    Potrebbe essere, nell'araldica della fede, lo stemma della libertà cristiana: non c'è costrizione dove c'è amore. Lo aveva già detto l'apostolo Giovanni: «L'amore perfetto caccia la paura» (1 Giovanni 4,18).
    Paura e fatica affliggono chi non ama e gli rendono pesante l'esecuzione di un bene, che egli vede quasi esclusivamente nella forma di un dovere ostico, imposto dall'esterno. L'amore libera da ogni costrizione e da ogni paura; dà al bene il volto desiderabile di ciò che ci realizza e ci fa felici e quindi di ciò che liberamente vogliamo con la più profonda e insopprimibile delle nostre aspirazioni.
    A operare il miracolo della liberazione dalla schiavitù del peccato, e quindi della legge in quanto legge, non è perciò una qualche forma di emancipazione ribelle, ma la spontaneità che nasce dall'amore: «Siamo servi buoni e fedeli, che servono per amore e perciò conseguiamo la libertà per mezzo del Figlio» (san Tommaso d'Aquino). L'amore che ispira una nobile fedeltà nel servizio del Padre sostiene anche la spontanea dedizione ai fratelli, la libertà del servizio reciproco nell'amore: «La carità esige che ci serviamo a vicenda e tuttavia è libera... libera perché causa di se stessa» (san Tommaso d'Aquino).
    Ma la libertà che nasce dall'amore non è il prodotto della legge né di un impegno puramente umano: non si impara ad amare come si imparano altre qualità e abilità umane: l'amore è anzitutto un dono, il frutto di una «legge nuova». Questa legge nuova è legge dello Spirito o «legge spirituale» nel senso che è in se stessa Spirito: «Legge dello Spirito, cioè legge che è Spirito» (san Tommaso d'Aquino).
    Questa «lex indita», cioè questa legge «data dentro», non fa nessuna violenza alla nostra libertà, perché si identifica misteriosamente con essa, è qualcosa che ci appartiene come anima della nostra anima: «I giusti non sono sotto la legge perché l'istinto dello Spirito Santo è in loro il loro proprio istinto... poiché hanno una legge interiore e fanno spontaneamente ciò che la legge (esteriore) comanda» (san Tommaso d'Aquino).

    Libertà e grazia

    Si può capire a questo punto perché e in che senso della legge morale si possa dire che è una legge che libera: la legge morale, in quanto legge, cioè in quanto espressione di un ordine morale che supera le forze dell'uomo, ancora prigioniero della schiavitù del peccato, non libera affatto; affermarlo sarebbe pura retorica.
    Ma questa condizione di invincibile impotenza di fronte al bene, che fa della legge morale una maledizione, è stata radicalmente rovesciata dalla redenzione operata da Cristo.
    Proprio come la condizione dell'integrità originale (quella, per intenderci, di un uomo non ancora preda del peccato), la condizione dell'uomo totalmente schiavo del peccato è solo un aspetto parziale della reale condizione umana; essa è la situazione ipotetica in cui si troverebbe l'uomo se si potesse prescindere, nel considerare la sua condizione storica, dalla redenzione operata da Cristo. Ma non si può prescindere davvero da Cristo nel considerare la realtà storica dell'uomo, quando sappiamo dalla rivelazione che tutto è stato creato per mezzo di Lui e in vista di Lui, quando tutto ha consistenza solo in Lui. La sua redenzione rappresenta, rispetto a tutta la vicenda umana e a ogni concreta storia di uomo, un «primum» logico e ontologico da cui non avrebbe senso prescindere.
    In una simile condizione, può restare irrimediabilmente schiavo del peccato solo colui che colpevolmente rifiuta Cristo e il dono dello Spirito, offerto realmente a ogni uomo e capace di aprire il cuore di ogni uomo all'amore che salva.
    L'analisi che san Paolo fa della oscura consapevolezza dell'uomo di essere irrimediabilmente schiavo del peccato e della morte, è solo lo sfondo su cui egli stesso disegna l'annuncio dell'universale e gratuita redenzione operata da Dio in Cristo: «Ma il dono della grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini... Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo» (Romani 5,15-17).
    L'universalità del peccato e la radicalità dell'impotenza umana di salvarsi attraverso l'impegno morale è pari solo all'universalità della redenzione operata in noi dall'amore misericordioso di Dio: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia» (Romani 11,32).
    Naturalmente l'universalità della redenzione e della salvezza in Cristo da possibilità offerta diventa realtà vissuta solo in forza della fede, cioè di quel sì incondizionato a Cristo che fa del credente un uomo nuovo, incamminato verso una vita nuova.
    Questa necessità della fede non fa però rientrare dalla finestra una qualche idea di autosufficienza umana. Senza l'iniziativa preveniente di Dio, l'uomo sarebbe davvero del tutto prigioniero del male, incapace di quella profonda trasformazione interiore che è il frutto della fede.
    La profondità stessa di questa trasformazione esclude che essa possa nascere da una autonoma iniziativa dell'uomo; essa è suscitata e sorretta nell'uomo dall'azione di Dio. Naturalmente non senza la nostra libera collaborazione, non senza l'accettazione di questo dono di Dio per mezzo della fede, ma sempre in risposta a una iniziativa preveniente di Dio.
    Dunque la libera risposta di fede dell'uomo a Dio introduce in un modo nuovo di vivere l'impegno morale, un modo contrassegnato dalla libertà. La legge non è più legge in senso legale, ma splendore della verità e desiderabilità del bene, vittorioso su ogni suggestione contraria e sulla forza del «peccato inabitante».
    Quella libertà che appartiene in maniera eminente e fondante alla grazia, appartiene allora, ma solo in maniera derivata e subordinata, anche alla legge morale.
    La legge è diventata in Cristo «legge nuova», legge di libertà; ha assunto un significato e una consistenza nuova. Se la vera «Legge Nuova» capace di salvare è soltanto la grazia dello Spirito Santo, a questa grazia appartiene, come conseguenza prodotta in noi dallo Spirito Santo, ma resa possibile dalla nostra docilità alla sua voce, un impegno morale che, essendo ispirato all'amore, ricupera e invera anche l'ordine morale naturale, testimoniato dalla legge morale.
    In questo caso l'amore diventa veramente pienezza della legge, cioè suo pieno compimento. L'amore è la vera spiegazione del carattere libero del nostro ubbidire alla legge; ubbidiamo non perché obbligati dalle minacce (le maledizioni che l'accompagnano), ma perché spinti da un amore che ci porta ben al di là della soglia minimale del giusto e dell'ingiusto fissata dalla legge.
    Anche il decalogo allora viene attuato in maniera libera, e partecipa del carattere liberante dell'evento che Io assume e lo porta a compimento.
    In questo senso, e solo in questo senso, la legge morale libera veramente.
    Purtroppo una certa catechesi popolare, prigioniera di una facile retorica o timorosa che il messaggio di san Paolo sulla libertà cristiana possa essere frainteso, si dimentica troppo spesso di spiegarlo.

    Liberi per diventarlo

    A questo punto però sorge impellente una domanda.
    Ci si può chiedere anzitutto quanti siano i credenti che vivono la fede a un tale livello di convinzione interiore e di maturità morale da poter rappresentare al vivo il modello di libertà delineato da san Paolo.
    Dobbiamo cioè chiederci se san Paolo non abbia proiettato, sulla vita cristiana del fedele medio, una particolare esperienza di unità interiore e di spontaneità nel bene che era data a lui come privilegio o che egli aveva conquistato comunque, con un impegno e una dedizione a Cristo del tutto eccezionale.
    In realtà quella che san Paolo descrive non vuole essere la situazione psicologica reale del cristiano medio, e tanto meno di colui che ha appena iniziato l'itinerario della crescita nella fede. Egli vuole descrivere l'intima natura dell'esperienza di fede e quindi la logica secondo cui essa si sviluppa e cresce verso la sua autenticità.
    Il cristiano medio trova in questa logica l'indicazione dell'impegno di maturazione della sua fede e dei dinamismi cui attingere la forza per portare avanti questa maturazione.
    Legge e libertà sono gli estremi che delimitano una polarità di tensione, che attraversa tutta l'esistenza e che segna di sé tutti i momenti e le tappe della vita.
    Non si è mai già del tutto liberi di quella libertà, che pure Cristo ha conquistato per tutti: la presenza del peccato nella nostra vita è lì a ricordarcelo; è la presenza del peccato a riportare sempre nuovamente con sé il richiamo della legge: la legge è data appunto per i peccatori. Nella misura in cui non amiamo abbastanza, abbiamo bisogno della amara pedagogia della legge; essa ci mette con le spalle al muro, demistifica le nostre illusioni, ma nello stesso tempo, facendoci sentire ancora una volta il bisogno di una salvezza che non siamo capaci di darci da noi, ci rimanda a Cristo e alla sua salvezza, che viene a noi anzitutto come dono.
    La libertà che nasce dalla fede e dalla carità si dà quindi, nel concreto dell'esistenza cristiana, solo come liberazione progressiva, una liberazione che è dono e impegno nello stesso tempo. Ci è fatto dono di impegnarci per una conquista, che di per sé supererebbe le nostre capacità, ma che diventa possibile in Colui che è la nostra forza.
    Del resto la fede stessa ci è data solo come dono da sviluppare; si è cristiani per diventarlo.
    Fede e libertà sono dinamismi da portare a compimento, germi soggetti a una maturazione mai pienamente compiuta in questa vita, perché destinati a una pienezza conseguibile solo nella manifestazione finale di quel Regno, che è appunto il Regno della consumazione di tutto nell'amore.

     


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