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    Conclusione a «Celebrare la vita»


    Carmine Di Sante, CELEBRARE LA VITA. Viaggio nel mondo dei sacramenti, Elledici

     

    CONCLUSIONE


    Sotto il ponte di Praga

    Rabbi Eisik di Cracovia racconta che un giorno ricevette, in sogno, l'ordine da Dio di andare a Praga per cercarvi un tesoro nascosto sotto il ponte che conduce al palazzo reale. Essendosi il sogno ripetuto per la terza volta, il sant'uomo alla fine si decise a partire ma, giunto a Praga, constatò con sorpresa che il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle. Un giorno il capitano, avendo notato il suo andirivieni, gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa e, al racconto del sogno del rabbi che lo aveva spinto fin lì dal suo lontano paese, scoppiò a ridere commentando: «E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno, sei venuto fin qui a piedi? Ah, ah, ah! Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch'io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! ... E rise nuovamente». La storia termina dicendo che, tornando a casa, rabbi Eisik veramente trovò sotto la stufa della sua casa il tesoro del quale il capitano gli aveva parlato.[1]
    A commento di questo racconto, che così da vicino richiama la parabola matteana del tesoro nascosto e della perla (Mt 13,44-46), M. Buber scrive: «C'è una cosa che si può trovare in un unico luogo del mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell'esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova. La maggior parte di noi giunge solo in rari momenti alla piena coscienza del fatto che non abbiamo assaporato il compimento dell'esistenza. Eppure non cessiamo mai di avvertire la mancanza, ci sforziamo sempre, in un modo o in un altro, di trovare da qualche parte quello che ci manca. Da qualche parte, in una zona qualsiasi del mondo o dello spirito, ovunque tranne là dove siamo, là dove siamo stati posti: ma è proprio là, e da nessun'altra parte, che si trova il tesoro. Nell'ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte, in quello che mi capita giorno dopo giorno, in quello che la vita quotidiana mi richiede: proprio in questo risiede il mio compito essenziale, lì si trova il compimento dell'esistenza messo alla mia portata... È qui, nel luogo preciso in cui ci troviamo, che si tratta di far risplendere la luce della vita divina nascosta».[2]
    I sacramenti dei quali abbiamo parlato nei capitoli precedenti non sono il tesoro della parabola perché questo, più che nei simboli religiosi, si trova, come vuole il racconto di rabbi Eisik di Cracovia, «sotto la stufa», cioè al centro del quotidiano più ordinario e banale, essendo la stufa ciò che c'è di più ordinario e, all'apparenza, banale.

    Il «tesoro»

    Ma se non sono il tesoro, i sacramenti, in quanto linguaggio, rimandano ad esso, parlando della sua esistenza e della sua potenza di arricchimento e chiamandolo con nomi vari tra i quali quelli dell'amore, della compagnia, dell'agape e del perdono, che tutti si riassumono in quello della grazia. Ogni momento, in quello che ci capita giorno dopo giorno e in ogni luogo preciso in cui ci troviamo, ci è dato di far risplendere la luce della grazia sottesa alla nostra «stufa», al nostro quotidiano.
    Nella rilettura che dei sacramenti è stata fatta - una rilettura attenta alla dimensione soprattutto interpretativa, tesa a cogliere l'intenzionalità portante dell'universo sacramentale - si è sottolineato il senso di questa grazia: è sì l'amore di Dio, ma un amore che, contrariamente a una lunga tradizione troppo debitrice della tradizione platonico-ellenistica, non si offre come oggetto ma come soggetto, non dice «prendimi» ma «obbediscimi»; un amore, pertanto, che in tanto è amore in quanto comanda l'amore, in quanto è, paradossalmente, il comandamento dell'amore: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
    Ad un orecchio poco familiare con la tradizione biblica può sembrare strano presentare l'amore come comandamento e per esso può essere facile l'obiezione: «Se l'amore è spontaneo non è un controsenso comandarlo?».
    Il discorso fatto nelle pagine precedenti si è sforzato di mostrare come l'amore di cui parla la Bibbia non è l'amore di desiderio, che si avvicina all'altro per catturarlo entro l'orizzonte dell'io, ma l'amore di alterità che gli si fa compagnia nella sua assoluta alterità. Appunto perché questo amore, che il Nuovo Testamento chiama agàpe, non rientra nelle possibilità umane, essendo solo divino - «Dio è agape», secondo la celebre definizione giovannea (1Gv 4,7) - esso può essere solo comandato e il suo comandamento, lungi dall'essere una violenza, è il dischiudersi, per l'uomo, di una nuova possibilità.
    Dio per la Bibbia è Amore in quanto Comandamento di amore e la grazia è l'evento di questo amore di alterità che si accende in un soggetto umano quando, scoprendosi, in forza della vocazione all'amore, oltre la sua dimensione di bisogno, si fa capace, come Dio, di amore di alterità.
    Sotto ogni «stufa», cioè in tutte le circostanze, sia per chi vive in un convento o per chi è rinchiuso in un carcere, si nasconde la «grazia»: la parola d'amore con cui Dio ci chiama all'amore dischiudendo alla nostra esistenza l'unico spazio della felicità e del senso. Il tesoro nascosto che ogni uomo e ogni donna si porta dentro è il tesoro di questa «grazia» che nessuno, neppure il soggetto più violento, può cancellare, essendo dono del perdono di Cristo morto e risorto.

    Dove abita Dio?

    Un giorno il rabbi di Kozk fu preso dal problema di dove abitasse Dio. Ed ecco che all'improvviso gli si fece chiara la risposta: «Dio abita dove lo si fa entrare».[3]
    Il comandamento dell'amore, con cui Dio appare alla coscienza umana offrendole la possibilità divina di amare, lungi dal reprimere l'uomo, gli dischiude l'unica vera libertà, non quella che si esercita tra più oggetti appetibili ma quella che si esercita tra l'appetibilità in quanto tale, qualunque essa sia e a qualunque oggetto inerisca, e ciò che la trascende e che, per la Bibbia, è il Bene o il Giusto. Da questo punto di vista la Bibbia instaura una concezione della libertà altra da quella del moderno e del post-moderno. Qui la libertà si configura come libertà da e libertà di, dove il primo tratto traduce l'assenza del condizionamento esterno, sociale e psichico che sia, il secondo la finalità di questa assenza che consiste nel permettere l'autorealizzazione del soggetto: l'io, libero dai limiti esterni, è finalmente libero di realizzarsi autenticamente. Ma superare «il determinismo biologico e sociologico non è ancora entrare nel regno della libertà. La schiavitù più profonda [infatti] è quella che la volontà si cova in seno, nella sua stessa natura di irresistibile abbandono alla chiamata del motivo. L'essenza della volontà è di prostituirsi al miglior offerente».[4]
    Ne consegue che l'innamorato che sceglie la sua amata non è, né può essere, per la Bibbia un atto di libertà iscrivendosi quest'ultimo entro il dinamismo dell'io desiderante volto all'autocompimento. Per la Bibbia invece la vera libertà è libertà dall'io come principio di autocompimento dove il soggetto, non più «portato» dal desiderio, come la barca portata dalla corrente, si scopre responsabile, cioè capacità di rispondere sì o no di fronte a Dio che lo chiama ad amare il fratello con un amore di alterità.
    Dio è Dio per la Bibbia perché, lungi dall'attrarre l'uomo a sé con la forza della spontaneità o la «seduzione», lo crea come radicale responsabilità, capace di un sì e di un no dal quale lui stesso dipende. Dio «abita» solo dove lo si fa entrare, cioè il suo sì all'uomo - dargli la vita e renderlo felice - entra nella storia e si fa realtà solo attraverso il sì dell'altro dato nella libertà.
    La «casa» di Dio è, per la Bibbia, la libertà buona dell'uomo!
    I sacramenti, come ne abbiamo parlato nelle pagine precedenti, svelano e ridicono, con il linguaggio del rito, l'unico/duplice sì - il sì di Dio all'uomo e il sì dell'uomo a Dio - dal quale fiorisce il mondo buono e felice.

    «Tu» sei il Messia

    «Un giorno Rabbi Joshua ben Levi interrogò il profeta Elia: "Quando verrà il Messia?". Elia rispose: "Va' a chiederglielo". Rabbi Joshua disse: "Ma dove?". Elia rispose: "Alla porta di Roma...". Rabbi Joshua andò da lui e lo salutò: "Pace a te, maestro". "Pace a te, figlio di Levi". "Quando verrai, maestro?". "Oggi". Più tardi Rabbi Joshua ben Levi si lamentò con Elia: "Il Messia mi ha mentito. Ha detto che sarebbe venuto oggi e non è venuto". Ma Elia disse: "Non l'hai capito bene. Egli ti ha citato il Salmo 95,7: Oggi se ascolterete la sua voce "» (Talmud di Babilonia, Sanhedrin 98a).
    Se Dio abita dove l'uomo lo fa abitare attraverso il suo sì responsabile, messia è ognuno che pronuncia questo sì e che, in forza di esso, redime il mondo creandolo e ricreandolo giorno dopo giorno.
    I sacramenti non solo annunciano che questo sì è possibile ma proclamano che esso, nella storia, già è stato detto pienamente da Gesù e che, in forza di lui e del suo Spirito, ogni uomo e ogni donna tutti i giorni possono tornare a ridirlo, in qualunque situazione si trovino, fosse anche la più disperata. Il linguaggio sacramentale, pur fondandosi su un evento passato che è l'amore di Dio riproposto nel Cristo morto e risorto - ciò che con linguaggio teologico viene chiamato «memoriale» - e pur anticipando un evento futuro che è il compimento finale del regno di Dio, rimandano soprattutto all'evento dell'oggi - si ricordi il celebre hodie così caro alla liturgia e al Deuteronomio - e dell'istante in cui ciascuno, in forza del Messia morto e risorto, può, anzi deve, farsi messia, continuando la sua opera e prestandogli le sue «mani» e i suoi «piedi» e, prima ancora, il suo «cuore», cioè la sua libertà buona, capace di amore di agape.
    Di questo «oggi», dove in forza del Messia ogni uomo in ogni istante può nascere e irrompere anch'egli come messia, le pagine precedenti sono state il dispiegamento, svelandone e narrandone la potenza di evento e consegnandolo a tutti come dono.


    NOTE

    [1] Il testo in M. Buber, Il cammino dell'uomo secondo l'insegnamento rabbinico, Qiqajon. Magnano 1990, pp. 57-58.
    [2] Ivi, p. 60.
    [3] In M. Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1979, pp. 604s.
    [4] A. Rizzi, Cristo verità dell'uomo. Saggio di cristologia fenomenologica, AVE, Roma 1972, p. 60.

     


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