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    7. L'Unzione


    Carmine Di Sante, CELEBRARE LA VITA. Viaggio nel mondo dei sacramenti, Elledici

     

    Capitolo settimo
    IL SACRAMENTO DELL'UNZIONE
    La risignificazione della sofferenza: il cuore non violento


    La malattia

    La storia umana è, dal suo inizio ad oggi, storia di sofferenze e di patimenti inauditi: di corpi martoriati dal dolore, di psichismi sconvolti dalla pazzia, di carestie, di pestilenze, di terremoti, di catastrofi e di ogni sorta di violenze e di guerre.
    Tra le diverse figure di sofferenza, il «corpo malato» è quello primario e «nucleare» perché è in esso, nel «corpo» in quanto oggettivazione e manifestazione dell'io e della sua irriducibile singolarità, che si iscrive e si registra ogni forma di sofferenza in maniera indelebile. L'uomo soffre attraverso il suo corpo, linguaggio e ricettacolo di tutto il negativo del mondo con il quale si imbatte e dal quale è colpito.
    Il «corpo malato» è il corpo piegato, piagato, ferito, infermo. «In-fermo»: cioè non più fermo, non più stabile, non più sicuro, non più «in piedi», non più capace di muoversi e di agire. Nel libro I sentieri della libertà, Sartre, attraverso la voce di un paralitico, divide l'umanità in due grandi categorie: quelli che sono distesi e quelli che hanno le «due gambe», i primi i «corpi» malati, i secondi i «corpi» sani.
    I «corpi malati» sono corpi inattivi, costretti all'inamovibilità e incapaci di progettarsi, corpi nei quali il desiderio e il volere («questa sera vorrei fare questo e quello») si scoprono bloccati e impotenti: «non è possibile». Il corpo malato è il corpo impossibilitato a realizzare il suo progetto; è il progetto interrotto, infranto, fermato a metà strada. L'irrealizzazione del progetto: questa, e solo questa, è la radice dolente sottesa alla sofferenza del corpo malato.
    Ma per la Bibbia, paradosso tra i paradossi, proprio in questa irrealizzazione del progetto causata dalla malattia, per il corpo malato si nasconde la possibilità della sua guarigione radicale.

    Gesù lotta contro le malattie

    Secondo la testimonianza unanime dei Sinottici, l'attività pubblica di Gesù è un'attività terapeutica: «Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guariva» (Mt 4,23-25; cf Mc 1,39; 3,7-8; Lc 4,14-15.44).
    I vangeli, i testi narrativi della letteratura neotestamentaria, non solo presentano Gesù come terapeuta ma riferiscono molti esempi concreti di guarigioni: dagli zoppi ai ciechi, ai muti, ai sordi, ai paralitici, ai lebbrosi, agli epilettici, agli idropici, agli «indemoniati».
    Il senso di questa impressionante serie di guarigioni, prima che al potere taumaturgico di Gesù, va attribuito al volere buono di Dio di cui egli, in un mondo di peccato e di sofferenza, torna ad essere, con la sua obbedienza, l'interprete fedele e la rivelazione ultima. Guarendo infatti i malati Gesù reinstaura il mondo buono e felice voluto da Dio, il mondo dell'eden, sette volte buono, dove non c'è posto per la malattia e per la sofferenza; in termini profetici egli inaugura i tempi messianici, secondo la testimonianza esplicita dello stesso testo evangelico: «Giovanni intanto che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: "Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?". Gesù rispose: "Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me"» (Mt 11,2-6).
    Gesù è messia, cioè colui attraverso il quale Dio torna ad agire nel mondo alienato, per le guarigioni che opera a favore dei ciechi, degli storpi, dei lebbrosi, dei sordi, dei morti e dei poveri. La fine di queste negatività prima che sociale è, per il vangelo, un evento soprattutto teologale, che riguarda Dio, perché testimonia che, dove non ci sono più sofferenze, lì il Regno di Dio, cioè il suo mondo buono e felice voluto per l'uomo, sta per realizzarsi.
    In forza di che cosa Gesù guarisce?
    È noto come i miracoli, di cui le guarigioni sono gli esempi più numerosi e rilevanti, si sono sempre presentati a una non facile lettura che, di volta in volta, a seconda delle precomprensioni di parte, ha oscillato tra il letteralismo da un lato e la negazione di ogni senso dall'altro.
    Per una interpretazione corretta dei miracoli di Gesù è di fondamentale importanza capire in forza di che cosa egli riesce a compierli.
    Una prima risposta, di tipo miracolistico, è quella che afferma che Gesù li compie in forza di particolari poteri di cui si scopre dotato, poteri soprannaturali (per chi crede) o paranormali (per chi non crede) che altri non hanno e che egli possiede o in quanto figlio di Dio, nel primo caso, o in quanto essere straordinario, nel secondo.
    Una seconda risposta, di tipo razionalistico o pragmatico, è quella di chi mette le guarigioni di Gesù sullo stesso piano di tanti altri guaritori dell'epoca i quali, per curare le malattie, disponevano di tecniche, pratiche, teorie e - perché no? - segreti e trucchi noti solo ad essi ma non alla maggioranza.
    La verità è che, stando fedelmente ai testi, Gesù, per i vangeli, guarisce non perché dispone di doti «paranormali» e neppure perché, come avrebbe fatto e farebbe ogni medico, conosce ed applica determinate tecniche, ma perché è «servo» di Dio, cioè, secondo il duplice significato di questo termine già precedentemente analizzato, obbediente a Dio e responsabile del fratello. La potenza di Gesù è la potenza del suo «sì» a Dio, con cui vi aderisce e lascia trasparire, non naturalisticamente ma liberamente, l'amore creatore. Gesù guarisce in forza di questa obbedienza al volere creatore che è volere di amore che vince il caos e non vuole la malattia ma crea il mondo buono e felice. La potenza di Gesù è la potenza del suo «sguardo» - lo stesso sguardo di amore del Padre - che, posandosi sul corpo dei malati, portatori nella loro carne di nuovo del caos, riaccende in essi lo splendore delle origini dove, secondo il racconto genesiaco, i «corpi» dei progenitori erano «nudi» e senza vergogna (cf Gn 2,25), cioè totale armonia e trasparenza. La forza terapeutica di Gesù è perciò la forza del suo amore, l'amore di alterità, che, provenendo da Dio e avvolgendo l'altro nella sua alterità e lontananza, lo ricrea, come Dio e con Dio, nel suo corpo malato.
    L'amore creatore, che Gesù dona e il malato accoglie, è la vera forza di risanazione e di ricreazione dei corpi malati, cioè dei soggetti sofferenti. Per questo nei vangeli i miracoli sono sempre associati alla fede: «Va', la tua fede ti ha salvato» (Mt 9,22).

    Il sacramento dell'unzione

    Sull'esempio di Gesù che, con la sua prassi terapeutica, guariva i malati, anche la Chiesa primitiva, come ci testimonia la lettera di Giacomo, mostrava loro una particolare attenzione: «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati gli uni gli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza» (Gc 5,14-16).
    Su questo testo - che ci dà quattro informazioni fondamentali: la visita dei presbiteri ai malati, la preghiera per loro, il gesto dell'unzione che l'accompagna e la remissione dei peccati - la Chiesa ha fondato il sacramento degli infermi che, come tutti gli altri, oltre a conoscere nomi diversi, ha subìto nel corso dei secoli diversi adattamenti.
    Il sacramento dell'unzione, sottinteso dei malati o degli infermi, veniva inizialmente amministrato, stando alla testimonianza neotestamentaria, alle persone gravemente malate, nella convinzione che, pregando per esse e ungendole con l'olio, simbolo di gioia e di forza attribuite particolarmente allo Spirito, potessero, come i malati dei vangeli, guarire, a condizione che riconoscessero i loro peccati.
    Successivamente, per motivi dovuti ad influenze extrabibliche, il sacramento dell'unzione ha subìto un duplice slittamento che solo la recente riforma liturgica ha autorevolmente corretto, tornando alla prassi originaria. Il primo ha riguardato il soggetto del sacramento che, con il tempo, ha cessato di essere il malato più o meno grave per diventare il moribondo e quasi sempre il moribondo - a causa di una pietosa pratica liturgica che non voleva impressionarlo! - privo di coscienza. A causa di questo slittamento il sacramento dei malati era finito per diventare il sacramento che annunciava la morte imminente.
    Il secondo slittamento, non meno grave del precedente, ha riguardato il fine del sacramento che non era più, come per il testo biblico, il ricupero della salute ma l'acquisto della vita eterna. A causa di questo secondo slittamento il sacramento dell'unzione è finito spesso per essere assimilato ad un sacramento della buona morte e fatto coincidere, in un modo o in un altro, come un momento del rituale delle esequie.
    In realtà il sacramento dell'unzione non riguarda i moribondi e neppure il loro ingresso nella vita eterna, ma ogni singolo battezzato (e, pertanto, ogni singolo uomo, essendo il battesimo un segno), perché nel momento in cui è visitato dalla malattia grave, invece di soccombervi sappia rileggerla e risignificarla.

    La sofferenza è estranea al piano di Dio

    Il sacramento dell'unzione, con i suoi testi e i suoi simboli, immette la malattia - la malattia che ferisce il corpo e sfigura la faccia della terra - dentro l'orizzonte del Dio biblico e, così facendo, la vince e per questo guarisce. Alla luce del Dio biblico, che è il Dio dell'amore di alterità, la sofferenza dei corpi malati cessa, paradossalmente, di essere tale per farsi essa stessa grazia, offrendosi come luogo privilegiato capace di dischiudere al soggetto una nuova coscienza.
    Ma quale coscienza?
    Per la maggior parte delle concezioni naturalistiche il bene e il male, la gioia e la sofferenza, la vita e la morte sono facce organicamente collegate, l'una necessaria all'altra e l'una come l'altra iscritte ambedue nel volere creatore. Lo stesso, pertanto, vale per la malattia, la cui origine ultima va ricercata in una legge necessitante al di fuori del soggetto singolo (nel fato, nella natura, in Dio o nello stesso caso) e che è giocoforza accettare stoicamente. Il corpo malato, in questo orizzonte di pensiero, si iscrive nell'ordine della necessità fatale che al soggetto non è dato modificare.
    Per la concezione biblica invece, e per il sacramento dell'unzione che l'oggettiva ritualmente, la malattia, in tutte le sue forme, non si iscrive nell'ordine della necessità ma in quello della storicità e per questo può essere combattuta e vinta. Affermare che la malattia appartiene all'ordine della contingenza, vuol dire non lasciarle mai l'ultima parola sottraendosi così alla sua violenza debilitante e a volte distruttiva.
    Nel bellissimo Diario di Etty Hillesum, la giovane ebrea di Amsterdam morta il 30 novembre del 1943 ad Auschwitz, si legge questa sconvolgente testimonianza:
    «Sono ammalata, non ci posso far niente. Più tardi raccoglierò tutte le lacrime e le paure laggiù. In fondo lo faccio già in questo letto. Forse è per questo che ho la febbre e il capogiro? Non voglio essere il cronista di orrori. E neanche di fatti sensazionali. Ancora stamattina ho detto a Jopie: eppure arrivo sempre alla stessa conclusione: la vita è bella. E credo in Dio. E voglio stare proprio in mezzo ai cosiddetti "orrori" e dire ugualmente che la vita è bella. E ora eccomi coricata in un angolino con febbre e capogiro, e non posso far nulla. Poco fa mi sono svegliata con la gola secca, ho afferrato il mio bicchiere ed ero così riconoscente per quel sorso d'acqua, ho pensato: Se solo potessi andare in giro fra quelle migliaia di uomini ammassati laggiù e potessi offrire un sorso d'acqua ad alcuni di loro».[1]

    Amare la vita malgrado la sofferenza

    Il primo sapere - un sapère che è un sàpere che appartiene all'ordine dell'esperienza personale - di cui fa dono la rilettura biblica della sofferenza che nel sacramento dell'unzione si esprime ritualmente, è che questa non impedisce né può impedire l'amore alla vita. Questa va amata nonostante la sofferenza e malgrado la malattia perché, per quanto storicamente violente e invadenti, esse non sono iscritte nella volontà creatrice, alla cui luce si rivelano nella loro inconsistenza.
    Farsi vicino al fratello malato e ungerlo, nel nome di Cristo, dell'olio è testimoniare a lui e anche agli altri - essendo il sacramento sempre e necessariamente un evento «linguistico» che, in quanto tale, parla a tutti - che la sua vita può essere amata nonostante la malattia, per quanto grave essa sia, non essendo la parola ultima e definitiva: «Ero andata a dormire presto, dal mio letto guardavo fuori attraverso la grande finestra aperta. Ed era come se la vita con tutti i suoi segreti mi fosse nuovamente accanto, come se la potessi toccare. Avevo la sensazione di riposare sul suo petto nudo, di sentire il battito regolare e leggero del suo cuore. Ero fra le nude braccia della vita e ci stavo così sicura e protetta. Pensavo: Com'è strano. C'è la guerra. Ci sono campi di concentramento. Piccole barbarie si accumulano di giorno in giorno. Camminando per le strade, io so che in quella casa c'è un figlio in prigione, in quell'altra un padre preso in ostaggio, o un figlio diciottenne condannato a morte. E questo capita a due passi da casa mia. So quanto la gente è agitata, conosco il grande dolore umano che si accumula e si accumula, la persecuzione e l'oppressione, l'odio impotente e il sadismo: so che tutte queste cose esistono, e continuo a guardare in faccia ogni pezzetto di realtà nemica.
    Eppure, in un momento di abbandono, io mi ritrovo sul petto nudo della vita e le sue braccia mi circondano così dolci e protettive, e il battito del suo cuore non so ancora descriverlo: così lento e regolare e così dolce, quasi smorzato, ma così fedele, come se non dovesse arrestarsi mai, e anche così buono e misericordioso.
    Io sento la vita in questo modo, né credo che una guerra, o altre insensate barbarie umane potranno cambiarvi qualcosa».[2]
    Celebrare l'unzione degli infermi è dischiudere, nel mondo della sofferenza, la possibilità di non farsi disumanizzare da essa e continuare, malgrado «il grande dolore che si accumula e si accumula, la persecuzione e l'oppressione, l'odio impotente e il sadismo..., a riposare sul petto nudo della vita», sentendo «le sue braccia... dolci e protettive» ed ascoltando «il battito regolare e leggero del suo cuore».

    Lottare contro la sofferenza

    Amare la vita «malgrado la sofferenza» non vuol dire, per la Bibbia, chiudere gli occhi su quest'ultima, ignorandola o sublimandola, ma lottare contro di essa, con tutte le proprie forze, e vincerla. Appunto perché la sofferenza - e la malattia - non è iscritta nel disegno creatore, essa può essere eliminata, a differenza delle visioni organiche, dove, venendo legittimata e giustificata, può essere solo subìta.
    È qui che il sacramento dell'unzione degli infermi dischiude un secondo sapere: non rassegnarsi alla malattia ma reagirvi, non subirne la forza negativa ma contrastarla.
    Chi è chiamato a reagirvi? Chi a lottarvi?
    In primo luogo tutti coloro che si trovano accanto al fratello malato, cioè la comunità cristiana che, facendoglisi intorno, gli testimonia la propria solidarietà: «Tu non sei solo», «Accanto a te ci siamo noi», «I tuoi fratelli si fanno carico della tua sofferenza».
    Il sacramento dell'unzione è sacramento della solidarietà che non abbandona a se stesso chi è nella sofferenza ma gli si fa vicino lottando insieme contro di essa. E poiché la comunità cristiana è essa stessa segno, segno del genere umano, il sacramento dell'unzione è, nel mondo della sofferenza, modello e appello perché non manchino mai forme efficaci di solidarietà accanto ai sofferenti. È alla luce di questa solidarietà che va vista e giudicata la stessa potenza dell'intervento medico che, grazie al sapere scientifico e tecnologico, se per un verso ha raggiunto risultati mirabili, per l'altro, a causa dei suoi risvolti ambigui e negativi, può essere essa stessa alienante.
    Ora è proprio dentro l'orizzonte della solidarietà efficace che la medicina, sottratta al gioco del profitto e degli interessi e posta a servizio dei «malati», si «dis-ambigua» e si fa essa stessa «messianica», risanando, come il messia, i «ciechi», gli «zoppi», gli «storpi», ecc.
    Ma oltre a creare solidarietà con chi soffre, il sacramento dell'unzione chiama lo stesso malato a lottare contro la sua malattia. Egli non è solo contro di essa ma vi lotta insieme con gli altri; e la sua lotta, entro la solidarietà comune, lo sottrae alla solitudine e alla disperazione facendogli dono di coraggio, di speranza e di fiducia.
    Ma come il malato può lottare contro la sua malattia, accettandola senza subirla e reagendovi senza esasperarsi?
    Forse l'unica risposta a questa domanda ci viene da questa preghiera composta da un gruppo di persone cooperatrici di Madre Teresa di Calcutta.

    «Signore, quando sono affamato
    donami qualcuno che ha bisogno di cibo.
    Quando ho sete
    donami qualcuno da consolare.
    Quando ho freddo
    mandami qualcuno da riscaldare.
    Quando sono ferito
    donami qualcuno da consolare.
    Quando la mia croce diventa pesante
    donami la croce di un altro da condividere.
    Quando sono povero
    conduci a me qualcuno che è nel bisogno.
    Quando non ho tempo
    donami qualcuno che io possa aiutare
    almeno un istante.
    Quando sono umiliato
    donami qualcuno di cui io possa tessere le lodi.
    Quando sono scoraggiato
    mandami qualcuno da incoraggiare.
    Quando ho bisogno della comprensione degli altri
    donami qualcuno che ha bisogno della mia.
    Quando ho bisogno che ci si prenda cura di me
    mandami qualcuno che abbia bisogno
    delle mie attenzioni.
    E quando non penso che a me,
    volgi i miei pensieri verso qualcuno».[3]

    L'unico modo per lottare con giustizia contro la propria sofferenza è quella di impegnarsi, come ci insegna questa preghiera mirabile, contro quella degli altri.

    Assumere la propria sofferenza

    Ma l'esperienza ci insegna che non ogni malattia può essere vinta e che se di fronte ad essa c'è il momento della «resistenza», c'è anche, prima o dopo, quello della «resa». Se questo discorso vale per ogni sofferenza, vale soprattutto per quella sofferenza ultima e radicale che è la morte la quale, in un mondo di peccato, da parola conclusiva della vita «piena», si è tramutata in esperienza la più oscura e drammatica della vicenda umana.
    Ora è proprio su questa sofferenza, la sofferenza che non è possibile vincere, sia essa proveniente dalla malattia incurabile oppure dalla morte implacabile, che il sacramento dell'unzione pronuncia la sua parola liberatrice dischiudendo la possibilità oggettiva della sua assunzione. La sofferenza, ogni sofferenza, oltre che combattuta va assunta; anzi, più radicalmente, per poter essere combattuta deve essere prima assunta: è questo il significato più profondo del sacramento dell'unzione.
    Ma cosa vuol dire assumere la sofferenza?
    Letteralmente il termine vuol dire «prendere su di sé», «portare sulle spalle» e il suo significato si incunea come terza possibilità - nel senso di essere altra dalle altre - tra l'atteggiamento di chi la rifiuta come ingiusta, essendo estranea alla volontà creatrice e quello di chi la giustifica in quanto voluta da essa. Assumere la sofferenza è collocarsi oltre la ribellione e oltre la legittimazione per dischiudere un nuovo orizzonte che è quello dell'assunzione.
    Questo orizzonte può essere descritto attraverso l'esempio del drogato oppure dell'ubriaco che, ad un certo punto, capendo il male che procura a se stesso e agli altri, decide di smettere. Ma proprio quando decide di smettere iniziano le difficoltà perché il suo corpo, abituato alla droga o all'alcool, li esige e, in loro assenza, grida, geme, si lacera e lamenta in una sofferenza indescrivibile. Eppure per smettere di drogarsi bisogna confrontarsi con questa sofferenza, ma non con la legittimazione - dicendo, per esempio: «Tanto sono fatto o sono stato fatto così e non c'è nulla da fare» - e neppure con la ribellione - facendo il risentito e sentendosi vittima della natura o del fato - bensì con l'assunzione che fa dire: «Mi sta bene, questa sofferenza me la sono procurata io e solo a partire da qui posso cancellarla».
    Gesù, per la Bibbia, vince la sofferenza soprattutto con la logica di questa assunzione o solidarietà passiva. Per questo egli, secondo la testimonianza neo- testamentaria, dopo aver lottato per tutta la vita contro la sofferenza degli altri, guarendo i malati e liberando i peccatori, si fa egli stesso «povero» e «ultimo» morendo sulla croce al posto di tutta l'umanità e portando su di sé il peso del male del mondo. Sulla croce Gesù non lotta più contro il male ma lo assume, se lo porta sulle spalle; e lo assume - si noti bene - non per legittimarlo, non per dire che è bene o che è bello soffrire, ma per vincerlo. La croce è lo svelamento, per il Nuovo Testamento, della solidarietà passiva quale segreto e condizione della stessa solidarietà attiva; quella è il principio di questa e questa senza quella non sarebbe mai stata possibile.

    Solidarietà passiva con i sofferenti

    Il sacramento dell'unzione, oltre che della solidarietà attiva con chi soffre è soprattutto la figura pubblica e sacramentale della solidarietà passiva che della prima, si è detto, è la condizione necessaria. Portarsi attorno al fratello malato è sì lottare contro la sua sofferenza, ma prima ancora portare con lui la sofferenza. Di fronte alle grandi sofferenze del fratello noi non possiamo quasi nulla. Cosa infatti possiamo dire o fare di fronte al bambino di pochi mesi condannato alla morte dall'Aids o di fronte all'amico falciato distrattamente dalla macchina o di fronte alla giovane mamma morta durante il parto?
    Di fronte a casi come questi noi possiamo solo farci compagnia silenziosa o discreta che, a seconda dei casi, sa tacere o parlare, ascoltare o sorridere. R. D. Laing, uno dei grandi maestri della psichiatria moderna, interrogandosi su che cosa si possa fare nei confronti dei malati gravi mentali - i malati portatori della peggiore sofferenza data, da sempre, la sua misteriosa indicibilità - scrive: «Può non essere una perdita di tempo star seduto delle ore accanto a un catatonico che dà tutti i segni di non riconoscere la sua esistenza», perché - commenta U. Galimberti - «questa silenziosa vicinanza» se da un lato «può evitare al catatonico l'insignificanza della sua solitudine», dall'altra «evita allo psichiatra il monologo solitario della sua ragione sulla follia».[4]
    L'unzione degli infermi, in quanto figura ecclesiale, pubblica e ufficiale, propone a tutti, in linguaggio sacramentale, la possibilità di una solidarietà che sappia portarsi nell'estrema sofferenza dell'altro per piantarvi la tenda della propria compagnia, sull'esempio di Paolo che così si presenta alla sua comunità di Corinto:
    «Mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge, sono diventato uno che è sotto la legge... con coloro che non hanno legge, sono diventato come uno che è senza legge... Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9,20-22).
    Questa solidarietà passiva in un mondo diventato villaggio deve superare evidentemente le barriere di chiesa e di gruppo per essere estesa a tutti i dannati della terra. Il mondo in cui viviamo, drammaticamente diviso in pochi paesi ricchi (il primo mondo) e in troppi paesi poveri (il terzo mondo), può essere salvato, oltre che dalla solidarietà attiva, da quella passiva, capace, prima che di dare, di condividere la sorte e la sofferenza dei poveri. Il mondo può essere salvato solo dalla comunità solidale dei sofferenti.

    La sofferenza è la messa in discussione del progetto

    Il segreto della solidarietà attiva è la solidarietà passiva; la modalità efficace che vince la sofferenza è quella di chi, prima di lottare contro di essa, l'assume liberamente: è possibile scavare questa logica paradossale e coglierne la ragione profonda?
    La caratteristica della sofferenza, che invade e lacera il corpo umano rendendolo «in-fermo» e «instabile», è la sua irriducibilità al progetto umano.
    C'è una sofferenza che è voluta dal soggetto come mezzo alla realizzazione di un suo progetto e che, in quanto tale, torna a suo beneficio. Se, ad esempio, uno decide di fare il ballerino e deve sottoporre il corpo ad una rigorosa disciplina, la sofferenza e le privazioni che ne derivano non sono, ultimamente, tali perché finalizzate alla realizzazione del soggetto. Ne consegue che qualsiasi sofferenza voluta dal soggetto in vista di un fine solo genericamente può essere ritenuta tale.
    Altra è invece la sofferenza del «corpo malato»: del corpo che non si muove più perché gli sono state amputate le gambe, che non vede più perché ha perso gli occhi o non carezza più perché non ha più le braccia. Una sofferenza come questa non solo non è progettuale - c'è infatti qualcuno che desidererebbe perdere le gambe, la vista o le braccia? - ma, addirittura, mette in crisi l'uomo proprio in quanto essere progettuale. Infatti un uomo senza braccia vorrebbe muoversi ma non può, come pure uno senza occhi vorrebbe vedere ma non gli è possibile. La sofferenza ci fa così scoprire o riscoprire oltre la nostra progettualità, anzi essa non solo è extra-progettuale, perché le è irriducibile, ma antiprogettuale perché la mette in crisi.

    Dal cuore padronale al cuore obbediente

    A proposito della sofferenza E. Lévinas ha scritto che essa «si identifica con l'impossibilità di staccarsi dalla sofferenza» e che la sua essenza consiste «nella impossibilità di fuggire e di tirarsi indietro».[5]
    E a proposito della morte, la sofferenza ultima e radicale, sempre lo stesso autore ha scritto che «nell'approssimarsi della morte l'importante è che ad un certo momento non possiamo più potere, ed è proprio per questo che il soggetto perde la sua stessa sovranità di soggetto. Questa fine della sovranità indica che noi abbiamo assunto l'esistere in modo tale che può accaderci un evento che non siamo più in grado di assumere, neppure nel modo in cui, sempre sommerso dal mondo empirico, lo assumiamo per mezzo della visione. Un evento ci accade senza che noi possiamo disporre assolutamente di nulla "a priori", senza che ci sia possibile avere il minimo progetto, come si usa dire oggi. La morte è l'impossibilità di avere un progetto...».[6]
    La sofferenza, e la suprema delle sofferenze che è la morte, svela o risvela all'uomo che la sua realtà ultima non è la progettualità.
    Ma non è per la Bibbia l'uomo un essere irriducibile al progettuale, vivendo non in forza del suo io ma in forza dell'amore di Dio? E non consiste per essa il peccato nel costituirsi dell'io da recettivo a padronale sostituendosi a Dio e negando la sua signoria? E la radice nel negativo non risiede, per essa, nel cuore violento, dal quale si genera la violenza, la malattia, la sofferenza e la stessa morte in quanto morte cattiva?
    Ora è proprio qui che la sofferenza, in quanto esperienza irriducibile al progettuale, diventa per l'uomo il kairos, il luogo privilegiato per riscoprire, al di là della sua stessa sofferenza, la sua vocazione originaria di soggetto non progettuale ma obbediente e responsabile.
    Felix culpa: felice colpa, canta uno degli inni più belli della liturgia romana. Felice perché essa, per mezzo della sofferenza avvolta dal perdono di Dio, è il luogo dove il soggetto umano, costituitosi nella storia di peccato cuore violento, può tornare a viversi con cuore di servo.
    Il sacramento dell'unzione degli infermi, annunciando al malato la guarigione, prima che nel corpo lo sana nella profondità del suo io, ricostituendolo come soggetto buono, questo la radice di quello. E proclamandolo al malato lo proclama a tutto il mondo malato: perché ognuno sappia che, per poterlo sanare, cioè disalienare, esso ha bisogno di «cuori» buoni, obbedienti e responsabili.


    NOTE

    [1] Diario 1941-1943, a cura di J. G. Gaarlandt, Adelphi, Milano 1987, p. 233.
    [2] Ivi, pp. 114-15.
    [3] In Servizio della Parola, n. 223/1990, p. 93.
    [4] In Il Sole 24 Ore, 18 marzo 1990, p. 19.
    [5] Il tempo e l'altro, Il Melangolo, Genova 1987, p. 41.
    [6] Ivi, pp. 44-45.


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