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    3. L'Eucaristia


    Carmine Di Sante, CELEBRARE LA VITA. Viaggio nel mondo dei sacramenti, Elledici 

     

    Capitolo terzo
    L 'EUCARISTIA
    Il principio d'alleanza: il mondo buono e riuscito


    «La nuova ed eterna alleanza»

    Riferisce l'apostolo Paolo, insieme con i Sinottici, che, in quella che fu la sua ultima cena, Gesù «prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me"» (1Cor 11,23-25).
    Su questo che fu il suo ultimo gesto, in cui Gesù condensò l'intero significato della sua vita - essere per gli altri, loro «cibo» e «nutrimento» - la Chiesa ha edificato il suo intero universo liturgico, facendone il cuore della sua fede e dei suoi sacramenti. Noto e tramandato con nomi diversi e molteplici, a seconda delle diverse epoche culturali («frazione» cioè «spezzamento», «divina liturgia», «Eucaristia», «Cena del Signore», «memoriale della morte e della risurrezione di Gesù», «messa», ecc.), questo rito, ripetuto prima settimanalmente e, più tardi, quotidianamente, è il sacramento per eccellenza delle Chiese cristiane che tutti gli altri suppongono o esplicitano. Esso anticamente, e nella Chiesa ortodossa ancora oggi, veniva celebrato, la prima volta, insieme con il Battesimo e con la Cresima - il sacramento della iniziazione cristiana - e, preparato da un lungo periodo noto con il nome di «catecumenato», era la «carta d'identità» che dava accesso, a livello pubblico ed istituzionale, alla comunità cristiana. Appunto perché carta d'identità, il sacramento dell'Eucaristia resta ancora oggi una delle vie privilegiate per comprendere l'offerta di senso che la Chiesa, attraverso le sue molteplici oggettivazioni - rituali, catechetiche, dommatiche e teologiche - fa ad ogni generazione.

    Cos'è l'alleanza?

    Da duemila anni in tutte le chiese e sotto ogni cielo risuonano, devotamente tramandate, queste parole antichissime, misteriose e venerabili, le più inesprimibilmente care al cuore e all'intelligenza cristiana: «Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me».
    Per capire in che senso Gesù è la «nuova» e «eterna» alleanza, su cui si regge il mondo e che, per questo, deve essere continuamente «ricordata», cioè attualizzata, è necessario interrogare l'Antico Testamento che, contrariamente all'accezione corrente, non vuol dire «vecchio», nel senso di sorpassato, ma originario, nel senso di intrascendibile e insuperabile. Per questo la Chiesa, insieme al Nuovo Testamento, il canone cristiano, legge anche l'Antico, il canone ebraico: perché esso può essere compreso adeguatamente solo al suo interno, entro quella visione di Dio e del reale che non solo non può essere cancellata ma neppure trascesa.
    Ora è proprio l'Antico Testamento (cioè, l'insieme dei libri canonici nei quali il popolo ebraico ha oggettivato, nel corso di circa duemila anni, la sua fede) che parla dell'alleanza, facendone la categoria o metafora principale per la sua esperienza di Dio e la sua riflessione su di essa. Il libro per eccellenza in cui, più che in ogni altro, questa «metafora», cioè questa chiave di lettura che sta per ogni altra, viene utilizzata e dispiegata con insuperabile potenza narrativa è l'Esodo che, secondo il suo etimo, vuol dire «uscita» perché racconta della liberazione degli Ebrei dal giogo e dall'oppressione del Faraone d'Egitto.
    Ma più che della liberazione, il libro dell'Esodo è interessato al fine della liberazione: perché Dio fa uscire Israele dall'Egitto? per quale motivo lo sottrae, «con mano potente e braccio teso» (Sal 136,12), al potere del Faraone e del suo esercito? La risposta che comunemente si dà a questa domanda - che Dio libera Israele dall'Egitto per farlo entrare nella terra promessa - è vera solo per metà perché, per il testo biblico, al centro della narrazione non sta l'uscita dall'Egitto e neppure l'ingresso nella terra di Canaan ma l'arrivo sul Monte Sinai dove Dio si rivela come Legge o come Comandamento per stringere un'alleanza con Israele.
    Dio che stabilisce un'alleanza con l'uomo: è questo «il cuore» del libro dell'Esodo, e di tutto il racconto biblico, antico e neotestamentario, che intorno ad esso tesse e ritesse instancabilmente le sue note.

    Un'immagine da interpretare

    È chiaro che parlare di Dio che «stringe un'alleanza» con l'uomo è ricorrere ad una immagine - gli esegeti hanno mostrato che, nello scrivere questo testo, Israele si è ispirato ai numerosi trattati hittiti di vassallaggio in uso in quell'epoca (sec. XV-XIII a.C.) tra un sovrano e i suoi sudditi per ricavarne reciproci vantaggi - che, come ogni immagine, per essere colta adeguatamente, richiede di essere decodificata. A livello di esperienza umana il patto è quella specifica modalità di rapporto che, a differenza dell'amore di desiderio, che si gioca sul registro della spontaneità, e a differenza della volontà di dominio, che si impone con la violenza, si costituisce sul libero volere di due o più contraenti, per il raggiungimento di uno scopo o un interesse comune. È questo - lo scopo o interesse comune - l'elemento centrale dal quale si sprigiona quella forza peculiare che crea un ponte tra due estraneità, una relazione che è oltre l'attrazione e oltre il dominio ed è appunto la relazione d' alleanza.
    Forse il termine che più si avvicina al significato originario dell'alleanza biblica è quello di contratto, che dice il convergere di due o più volontà verso un unico obiettivo; ma un convergere non legato al dinamismo della spontaneità (non si può parlare di «contratto» nel tendere dell'amante verso l'amata!) bensì per l'iniziativa di uno che, vincendo una estraneità originaria, crea l'evento di una nuova comunanza basata non sulla spontaneità teleologica ma sulla libertà donata e accolta.
    Dio, per la Bibbia, è questa iniziativa sovranamente libera che, apparendo ad Israele - l'immagine del- l'umano - ne colma l'incommensurabile lontananza e differenza. Per essa Dio è Dio e l'uomo è l'uomo, due universi incommensurabili, che non permettono il passaggio di uno all'altro. Immettere l'esperienza religiosa nell'orizzonte dell'alleanza vuol dire infatti rifiutare, nel rapporto tra l'uomo e Dio, sia il movimento discendente secondo cui il mondo proviene da Dio, in quanto sua effusione o partecipazione, sia quello ascendente, secondo cui l'uomo è nativo desiderio di Dio, e, mantenendo l'irriducibile alterità, dischiudere una modalità di rapporto che si gioca sulla radicale libertà: della proposta da parte divina e della risposta da parte umana.

    Dio ha bisogno dell'uomo

    Ma l'aspetto più paradossale dell'alleanza biblica assunta come metafora del rapporto di Dio con l'uomo e dell'uomo con Dio, oltre che nell'iniziativa gratuita del primo (in ogni patto c'è sempre qualcuno che, per primo, «si butta» facendo una proposta), risiede soprattutto nella richiesta di aiuto che la sottende. Qual è infatti il motivo per cui si fanno le alleanze e si stabiliscono dei patti? Qual è la ragione nascosta che spinge due o più persone a consociarsi in cooperativa? Non è forse perché l'uno ha bisogno dell'altro? Non è perché insieme possono realizzare ciò che, singolarmente, non sarebbe possibile? Fenomenologicamente, cioè osservando quello che di fatto avviene, i patti si fanno sempre per interesse e chi li propone, pur prendendo l'iniziativa, lo fa sempre per trarne un vantaggio.
    Questi due elementi - avere bisogno dell'altro per trarne un comune vantaggio - sono due tratti irrinunciabili della metafora dell'alleanza e proprio essi ci introducono, più che mai, dentro il mistero del Dio biblico: il quale, rivelandosi come Dio dell'alleanza, si rivela anzitutto come Dio che-ha-bisogno dell'uomo.
    Sì, per quanto paradossale e, all'orecchio di molti, blasfemo, per la coscienza biblica Dio ha bisogno dell'uomo, e appunto per questo stringe un patto con lui. La tradizione cristiana, a causa soprattutto delle categorie platonico-ellenistiche entro cui si è pensata, ha avuto e ha difficoltà ad assumere questo dato elementare e costitutivo della fede biblica e, subendo il fascino delle categorie della filosofia, l'ha visto in contraddizione con l'onnipotenza di Dio. Ma per la Bibbia non è l'onnipotenza, così come intesa dal pensiero occidentale, il tratto costitutivo del divino. Questo va ricercato solo nell'amore inteso come libertà e come gratuità di cui l'onnipotenza è «la mano esecutrice» ma mai il fine. L'onnipotenza - «il potere tutto» - in quanto tale, in quanto autofine (fine a se stesso) sganciato dall'amore di libertà, più che di Dio, è il tratto deforme prodotto dall'immaginario umano malato.
    La categoria dell'alleanza, pertanto, ribalta radicalmente i termini del rapporto con Dio, e invece di presentarci un uomo che ha bisogno di Dio, secondo la maggior parte delle oggettivazioni delle altre religioni, ci offre l'immagine di un Dio che è lui ad avere bisogno dell'uomo. Il contenuto della rivelazione biblica, stando alla logica del patto, non è l'uomo che si «allea con Dio», per carpirne la potenza, ma Dio che «si allea con l'uomo» per chiederne la consegna del volere. Addirittura, per la Bibbia, la pretesa dell'uomo di «allearsi con Dio» e averlo dalla sua parte è considerata come l'anti-rivelazione stessa, iscrivendosi nel desiderio della sua volontà di potenza. È questa la ragione per la quale gli scrittori sacri, e soprattutto i profeti, conducono sempre una critica spietata ai cosiddetti culti dei baalim delle popolazioni limitrofe ad Israele, il culto a delle divinità intese come personificazione della natura, della cui «potenza» sentirsi alleati. Niente di tutto questo in Israele, per il quale Dio non si iscrive nell'orizzonte del bisogno umano ma in quello del suo volere di alleanza, non essendo l'uomo che tende a lui ma lui che si rivolge all'uomo.

    Per far vivere l'uomo

    Ma perché Dio ha bisogno dell'uomo? È questa una domanda retorica e paradossale o, al di là della sua paradossalità, essa nasconde un messaggio reale e, ancora oggi, attuale?
    È nella risposta a questa domanda che la metafora dell'alleanza - ché di metafora si tratta, essendo questa l'unica possibilità per parlare di Dio - dispiega tutta la sua potenza ermeneutica. Ora per la Bibbia il motivo per cui Dio ha bisogno dell'uomo è che egli vuol far vivere l'uomo attraverso l'altro uomo, costituendolo suo rappresentante nel mondo, di fronte all'altro.
    Al termine della creazione del mondo, quando Dio decide di collocarvi al vertice l'uomo, secondo l'autore sacro così egli motiva la sua scelta e lo presenta: «Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gn 1,16). Contrariamente all'interpretazione corrente, che legge questa «immagine» e questa «somiglianza» in chiave ontologico-contemplativa, la tradizione ebraica la legge in chiave etico-operativa. L'uomo, per la Bibbia, è «immagine» e «somiglianza» di Dio non perché porta iscritto nel suo dinamismo naturale tracce del divino bensì perché costituito da Dio suo «luogo-tenente» nel mondo, chiamato a farne le veci e facendo quello che lui fa: amare di quell'amore che è l'amore di alterità.
    Dio, pertanto, ha bisogno dell'uomo perché il suo amore può arrivare all'uomo solo attraverso l'altro uomo. È l'uomo, ogni uomo, l'incarnazione primaria di Dio, senza il quale il suo amore non può circolare. Dio ha bisogno dell'uomo come mediazione necessaria del suo amore.
    Ma di quale tipo di mediazione si tratta?
    Nel salmo 104, che canta la bellezza mirabile della creazione, Dio viene celebrato come colui che, con il suo amore, dà il cibo ad ogni vivente:

    «Tutti da te aspettano
    che tu dia loro il cibo in tempo opportuno.
    Tu lo provvedi, essi lo raccolgono,
    tu apri la mano, si saziano di beni»
    (Sal 104,27-28; cf pure Sal 136,25).

    Ma come Dio fa pervenire questo suo amore ai viventi: all'uccellino, alla cicogna, al camoscio, al leoncello, all'irace, come si sofferma a descrivere il salmo? Non certo direttamente ma attraverso la mediazione delle cause naturali, attraverso il concorso delle cause seconde. Per cui Dio provvede al leoncello servendosi della mamma leonessa e così al cicognino attraverso la mamma cicogna, ecc. In questo caso le cause seconde - la mamma leonessa e la mamma cicogna - sono il veicolo della sollecitudine di Dio: ma un veicolo naturale e necessario, che non può non realizzare il suo fine e al quale (questo il dato più rilevante) esso rimane estraneo. La mamma leonessa veicola l'amore di Dio per il leoncello a sua insaputa; essa è lo strumento ignaro di una sollecitudine che l'attraversa ma non la riguarda né la coinvolge direttamente.

    Peculiarità della mediazione umana

    Non è allo stesso modo, per la logica dell'alleanza, che Dio fa vivere l'uomo attraverso l'altro. Per essa l'uomo non è una mediazione naturale della quale Dio si serve ma una libertà alla quale l'amore di Dio si consegna e chiede di essere acconsentito. Ma se l'uomo è libertà nel senso radicale che si è detto, cioè radicale capacità di sì e di no, la mediazione della libertà è altra da quella naturale. Essa infatti, a differenza della mediazione naturale, non è veicolo necessario dell'amore divino ma possibilità di acconsentimento o di negazione. Cioè: l'amore di Dio non passa attraverso la libertà dell'uomo allo stesso modo che attraverso le cause naturali. Qui «passare» vuol dire che egli lo attraversa e giunge a compimento; lì che egli lo sollecita e gli chiede acconsentimento perché solo tramite l'acconsentimento può giungere a compimento. L'amore di Dio nell'uomo non «passa» come passa nelle mediazioni naturali, ma, una volta dentro di lui, si arresta e si fa appello e, con la potenza del suo appello, costituisce l'uomo libertà, consegnandosi ad essa perché sia «essa» e non più la sua potenza a farlo passare. L'amore di Dio nell'uomo non è «passaggio» ma potenza creatrice che trasforma la mediazione naturale in interlocutore personale al quale si consegna dicendo: vuoi tu far passare il mio amore, cioè amare come io amo?
    Ciò di cui Dio ha bisogno, nell'uomo, è questo «sì», di fronte al quale il suo amore si arresta impotente e rinasce attraverso il suo acconsentimento.

    Far vivere l'uomo attraverso l'altro uomo

    Se Dio, per far vivere l'uomo, ha bisogno dell'uomo non come mediazione naturale bensì come libertà responsabile, ciò vuol dire che, per la Bibbia, l'essere umano non è solo il destinatario e il fruitore dell'amore divino - che Dio avrebbe potuto garantirgli «naturalmente», come avviene, ad esempio, nel regno animale - ma, prima ancora, suo corresponsabile. Dio cioè, se da una parte vuole per l'uomo un mondo felice, dove egli viva, dall'altra vuole che di questo mondo felice egli non sia solo destinatario ma anche, contemporaneamente, il con-creatore.
    Se un artista ha un amico e vuole renderlo felice, due sono le figure possibili di questo suo amore.
    La prima consisterebbe nel fargli dono delle sue opere d'arte: facendogli ascoltare la sua musica, se artista; regalandogli i suoi quadri, se pittore o dedicandogli i suoi testi, se poeta, ecc. Gesti come questi sono sì gesti di amore, ma di un amore che si offre solo come fruizione e che raggiunge l'altro solo in quanto destinatario.
    La seconda figura consisterebbe, invece, nel fare anche di lui un artista, abilitandolo a produrre opere d'arte della stessa altezza della sua: un quadro se pittore, un testo musicale se compositore o un testo poetico se scrittore. Qui l'atto di amore, a differenza del precedente, non si offre, in primo luogo, come fruizione ma come forza di trasformazione; esso non dice per prima cosa: «Godimi e sii felice», ma: «Sii anche tu come sono io e fa' quello che faccio io».
    Come è dato osservare, la differenza tra le due figure è sostanziale ed essa risiede nel fatto che, mentre nel primo caso l'atto di amore si offre come oggetto, nel secondo come principio di un nuovo essere, dischiudendo una nuova identità. C'è un dato però che le accomuna, ed è che ambedue vogliono la felicità dell'altro, la sua autorealizzazione; ma diversa è la modalità con la quale esse la realizzano: con la fruizione passiva nel primo caso, con la recettività attiva nel secondo.
    L'amore di Dio per l'uomo appartiene a questa seconda figura, non offrendosi all'uomo come oggetto ma come principio. Appunto perché principio, forza personale di trasformazione e creazione di nuova identità, il suo amore, mentre si offre all'uomo per renderlo felice, lo avvolge e lo rende capace di essere lui stesso soggetto di amore e, quindi, donatore di vita e di felicità, come recita un detto di Gesù secondo il quale c'è più gioia nel «donare» che nel «ricevere» (At 20,35).

    La situazione originaria di fronte a Dio

    Per capire in che senso l'amore di Dio è contemporaneamente, in un intreccio originalissimo e paradossale, oggetto di fruizione e principio di nuova soggettività, è necessario approfondire, per un istante, il reale destinatario al quale il suo amore è rivolto. Si è soliti dire che Dio «ama l'uomo». Ma cosa si intende, esattamente, quando si dice che Dio ama l'uomo? Di quale uomo realmente si parla?
    Secondo una prima interpretazione, l'uomo al quale si farebbe riferimento sarebbe l'uomo individuale, cioè l'uomo nella sua irriducibile singolarità, non in quanto membro della specie umana ma in quanto «nome» e «volto» dai tratti unici e inconfondibili. Dio, stando a questa prima accezione, non ama l'uomo in generale ma quello in carne e ossa, con il suo vissuto e con la sua storia.
    Ma, come ci insegna l'esperienza, non esiste l'uomo bensì gli uomini e, se non si vuole sprofondare nel narcisismo spirituale, rischio dal quale non sempre le religioni riescono a sottrarsi, è giocoforza ammettere che l'amore di Dio non riguarda solo «me» o solo quelli che appartengono al gruppo dei «miei» correligionari ma tutti indistintamente. Per cui, giustamente, c'è una seconda accezione, non più particolarista, la quale tende a sottolineare che l'amore di Dio per l'uomo è da intendere in chiave universale: Dio non solo ama me ma ogni uomo, cioè l'uomo.
    Ambedue le accezioni, come è ovvio, corrispondono a verità essendo indubitabile che Dio ama il singolo e tutti i singoli; ma esse non dicono nulla circa il rapporto di ogni singolo con gli altri, restando ognuno accanto all'altro. Come due alberi bagnati dalla pioggia o illuminati dai raggi del sole: sia l'uno che l'altro fruiscono della stessa possibilità, ma l'uno indipendente dall'altro.
    Per questo la Bibbia, paradossalmente, quando parla dell'uomo non l'intende né in chiave singolare («Dio ama me») e neppure universale («Dio ama ogni uomo») ma in chiave duale: l'uno e l'altro. Dove la congiunzione e non è da intendere in senso giustappositivo (l'uno accanto all'altro) ma relazionale e finale (l'uno è per l'altro); e dove soprattutto i due soggetti non sono paritetici (l'uno uguale all'altro) ma asimmetrici (l'uno diverso dall'altro). E tale diversità consiste in questo: che il primo è soggetto responsabile nei confronti del secondo che è soggetto essere di bisogno.
    È questa la situazione originaria dell'uomo di fronte a Dio: un soggetto povero, inteso come essere di bisogno, di fronte a un soggetto responsabile chiamato a colmarlo. Dove, è ovvio, ciascuno dei due partners è contemporaneamente l'uno e l'altro, cioè sia povero e sia responsabile, ma su un piano di asimmetria e non di reciprocità. In termini diversi ciò vuol dire che, nella situazione duale, se è vero che io sono chiamato a colmare il bisogno dell'altro allo stesso modo che l'altro è tenuto a colmare il mio, tuttavia questo movimento non si iscrive nella logica della reciprocità, essendo l'amore per l'altro un amore di alterità, che va donato anche se l'altro non ricambia. Di fronte all'altro, secondo la logica dell'alleanza, la mia responsabilità è in-condizionata; non conosce condizioni e, quindi, neppure la reciprocità; come pure, a sua volta, anche la responsabilità dell'altro è incondizionata nei miei confronti. Se si vuole c'è anche qui una «reciprocità», ma una reciprocità paradossale che non si chiude in cerchio ed è senza ritorno («Sono responsabile di te anche se tu non lo sei di me») essendo questo - il ritorno - non determinato dal soggetto ma stabilito da Dio.
    È qui che allora capiamo l'intreccio mirabile e indissolubile tra l'amore di Dio come oggetto di fruizione e l'amore di Dio come principio di nuova soggettività. In quanto Dio ama l'uomo, ogni uomo, come essere «povero», essere di bisogno, il suo amore si configura come fruizione; ma in quanto l'uomo che egli ama lo ama attraverso l'altro, il suo amore si configura come principio di responsabilizzazione e, quindi, di nuova soggettività.

    Il soggetto dell'alleanza: obbediente e servo

    Dio è Dio, per la Bibbia, proprio perché capace di suscitare un soggetto responsabile, un soggetto «alleato» con lui che ami l'altro con il suo stesso amore di alterità.
    È qui che la metafora dell'alleanza raggiunge il suo dispiegamento ultimo e radicale. Dio ha bisogno dell'uomo perché vuole che il suo amore giunga all'uomo né direttamente né naturalisticamente ma attraverso l'altro che, nel suo insondabile mistero d'amore, egli associa a sé costituendolo «soggetto alleato» o «dell' alleanza».
    Secondo la Bibbia due sono i tratti peculiari dell'uomo dell'alleanza, cioè dell'uomo che Dio elegge perché il suo amore giunga all'altro.
    In primo luogo egli è soggetto obbediente, nel senso etimologico del termine - dal latino ob-audire - di prestare ascolto ad una voce che viene da fuori e alla quale si acconsente. L'obbedienza, per la Bibbia, non è, quindi, un atto formale ma è l'unico duplice evento con cui si riconosce la voce di Dio che chiama e, riconosciuta, viene assecondata e non rifiutata.
    Per questo, nella Bibbia, il tratto dell'obbedienza è il tratto costitutivo di tutta l'antropologia e, per essa, essere uomini è essere obbedienti, come emerge con tutta evidenza dalle grandi figure sia antico-testamentarie che neo-testamentarie: da Abramo a Mosè, da Samuele ai Profeti, dalla vergine di Nazareth agli apostoli e ai protomartiri della Chiesa. Non si capisce nulla della Bibbia e della sua intenzionalità portante al di fuori di questa prospettiva obbedienziale, la quale sottende l'intero racconto della creazione dell'Adamo originario - l'Adamo chiamato ad essere obbediente (Gn 2) - nel cui rifiuto viene individuata la radice sostanziale dell'alienazione umana (Gn 3) e nella cui ricostituzione ad opera di Gesù viene visto il significato di tutta la cristologia.
    L'altro tratto del soggetto dell'alleanza è il «servizio», la grande categoria, insieme con l'obbedienza, dell'antropologia biblica. Tutti i personaggi biblici, infatti, oltre che obbedienti si qualificano pure come «servi» o «servitori» - si ricordi, anche qui, la vergine di Nazareth che gli evangeli definiscono come l' ancilla, cioè la serva/schiava del Signore - a tal punto che spesso i due termini tra loro tendono a ricoprirsi. Mentre però il termine obbedienza viene collegato soprattutto a Dio in quanto istanza che chiede di essere obbedita, il termine servizio viene collegato soprattutto all'uomo, come contenuto e termine della prima.
    Il soggetto dell'alleanza è obbediente a Dio e servitore dell'altro: due tratti irriducibili ma, proprio nella loro irriducibilità, correlati, essendo il secondo il contenuto del primo e questo il fondamento di quello. Infatti in tanto si obbedisce a Dio in quanto si serve l'altro, amandolo di amore di alterità, colmandone i bisogni e dandogli vita; e viceversa in tanto si serve il fratello, in quanto, invece che al dinamismo della spontaneità, ci si affida al comandamento di Dio.
    Obbediente a Dio e servitore dell'altro: è questo l'unico duplice tratto dell'uomo biblico sul quale fiorisce il mondo felice e ordinato, cioè la vita.

    Gesù ricostituisce il soggetto dell'alleanza

    Se Dio, per amare l'uomo, ha bisogno dell'altro, non come mediazione naturale ma come libertà responsabile - chiamata cioè a decidersi per il sì o per il no - ne consegue una possibilità drammatica: che il soggetto dell'alleanza può rifiutarvisi, che egli, invece di farsi obbediente a Dio prendendosi cura del fratello, gli si può negare ribellandovisi e facendosi produttore di violenza.
    Per la Bibbia la risposta negativa dell'uomo a Dio non solo è una possibilità di principio iscritta nella logica dell'alleanza, ma da possibilità di principio si è fatta scelta di fatto precipitando la storia umana nella sofferenza e nella violenza. Il capitolo della Genesi, noto come il racconto della disobbedienza adamitica, è il grande racconto, con linguaggio simbolico, del no dell'uomo a Dio, del gesto con il quale l'Adamo originario, metafora e rappresentante di ogni uomo, da obbediente si fa ribelle e, facendosi ribelle, si perverte - come mostra l'altrettanto noto capitolo della morte violenta di Abele - da servitore della vita a sua negazione.
    La Bibbia, pertanto, mentre vuole con forza che l'amore - il mondo buono e felice - sia affidato all'uomo obbediente e servo, afferma pure con altrettanta forza che di fatto, storicamente, l'uomo mai è stato tale e che, a causa della sua negazione del Dio dell'alleanza - peccato -, è precipitato in una situazione di alienazione radicale senza possibilità di uscita.
    Gesù, per il Nuovo Testamento, è colui che in un mondo senza più soggetti di alleanza ha reintrodotto nella storia delle coscienze umane la possibilità divina di tornare ad essere uomini e donne obbedienti e servi, obbedienti a Dio e servi dell'altro, riattivando l'amore di alterità dal quale fiorisce la vita divina: il mondo buono ordinato e felice.
    Secondo la testimonianza neotestamentaria Gesù ha ridischiuso questa possibilità - compromessa per sempre dall'alienazione umana fattasi quasi «seconda natura» - non a parole, annunciandolo, ad esempio, verbalmente, ma esistenzialmente, tornando egli per primo a farsi soggetto «obbediente» e «servo» dentro il mondo di peccato. Il testo neotestamentario è il dispiegamento, ora con linguaggio narrativo, come nei sinottici, ora in linguaggio più teologico, come in Paolo e Giovanni, di come egli si sia ricostituito, in un mondo di violenza, soggetto obbediente e servo: attraverso la sua morte ingiusta - lui l'unico giusto - accettata in obbedienza a Dio e per amore ai fratelli. Con questo gesto - l'aver detto di sì dove tutti dicono di no - Gesù vince la «morte», cioè l'incapacità dell'uomo ad amare, e dischiude la «risurrezione», cioè la vita secondo Dio che, nella logica dell'alleanza, passa attraverso l'obbedienza e il servizio.

    «Fate questo in memoria di me»

    Una delle pagine più alte della rivelazione neotestamentaria condensa l'inesprimibile senso della morte e risurrezione di Gesù nel gesto paradossale della lavanda dei piedi ai discepoli, il gesto dello schiavo nei confronti del suo signore (Gv 13,1-11).
    Al termine di questa strana lavanda, Gesù, secondo il racconto giovanneo, riprende di nuovo la parola e conclude: «Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13, 12-15). Quello che Gesù ha fatto - il suo morire in obbedienza a Dio per amore ai fratelli o, con linguaggio narrativo, il suo «lavare i piedi» - non l'ha fatto per sé ma, come proclama il Credo, propter nos homines et propter nostram salutem, per noi e la nostra salvezza: perché anche noi, in forza di lui e come lui, possiamo tornare a «lavare i piedi», cioè ad amare i fratelli di amore di alterità.
    Entro lo scorrere quantitativo del tempo, la Chiesa quotidianamente, nella celebrazione eucaristica, fa il memoriale della morte e della risurrezione di Gesù, di quell'evento che, nel mondo segnato dalla disobbedienza a Dio e dalla violenza all'uomo, ridischiude l'orizzonte dell'alleanza, dove si vive in obbedienza a Dio e per amore al fratello.
    Questo evento è un «esempio» («Vi ho dato l'esempio perché come ho fatto io facciate anche voi»), cioè una possibilità oggettiva che, in ogni istante, ognuno può trasformare in realtà soggettiva.
    Dove questo avviene il mondo torna ad essere buono e in esso torna a circolare l'amore divino, l'amore di alterità che non fiorisce naturalisticamente ma solo dall'evento dell'incontro della libertà buona di, Dio, fondante e costitutiva, e di quella dell'uomo, obbediente e responsabile.


    T e r z a
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