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    2. La Confermazione


    Carmine Di Sante, CELEBRARE LA VITA. Viaggio nel mondo dei sacramenti, Elledici 

     

    Capitolo secondo
    LA CONFERMAZIONE
    Il sì dell'uomo a Dio


    Una storia complessa

    Tra tutti i sacramenti, la Confermazione o Cresima è quello che si presta a una maggiore difficoltà interpretativa.
    Innanzitutto per quanto riguarda la sua collocazione rispetto al Battesimo e alla Eucaristia, essendo, secondo la tradizione, momento costitutivo e conclusivo del primo, mentre secondo la pratica pastorale corrente è stata separata da esso e celebrata dopo la prima comunione.
    In secondo luogo per quanto riguarda le sue modalità celebrative, attestandoci la tradizione, come suo simbolo fondamentale, sia il gesto dell'unzione che quello dell'imposizione delle mani.
    In terzo luogo per quanto riguarda i suoi effetti, non essendo teologicamente chiara la differenza tra il dono dello Spirito del Battesimo e quello della Confermazione.
    Infine per quanto riguarda la sua stessa finalità, essendo stata questa trovata, a seconda delle diverse epoche, ora nella missione al mondo, ora nella testimonianza a Cristo, ora nella lotta contro il male, ecc. Quest'ultima, fino al Vaticano II, era quella più comune, formulata con l'analogia, di derivazione militaresca, che con il sacramento della cresima si diventava «soldati di Cristo».
    A noi non interessa entrare nel merito di questi problemi di carattere storico ma sottolineare e mostrare - «mostrare» non è «dimostrare» ma dispiegare - che la sostanza teologica della Cresima può essere ripensata attraverso la categoria della risposta dell'uomo a Dio. Se infatti il Battesimo è il dispiegarsi rituale, cioè in parole, immagini e gesti, del sì incondizionato di Dio all'uomo, la Confermazione costituisce la risposta dell'uomo, una risposta sempre espressa ritualmente, a quel «sì» originario.
    «Confermazione» viene dal latino con-firmare, la cui radice rimanda a firmus, che indica ciò che è fermo, stabile, solido e, quindi, sicuro, certo e fidato. Confermare una parola, un impegno, un appuntamento vuol dire che essi sono dati come sicuri e, per questo, definitivi: non frutto di una improvvisa decisione ma di una matura ponderazione; non scelta proveniente dalla sfuggente emozionalità ma dalla libera volontà. La «conferma» è l'atto con cui il soggetto «ferma», cioè fissa e definisce, «con» la sua libertà, il «già» dato e il «già» fatto, sottraendoli all'alea dell'ambiguità e rendendoli «certi».
    Il sacramento della Cresima è il sacramento della conferma: del sì di Dio all'uomo ma soprattutto del sì dell'uomo a Dio che, per essere veramente tale, richiede maturità e libertà.
    Quando il Battesimo veniva celebrato, come nei primi secoli dell'era cristiana, con adulti e con un unico rito chiamato rito dell'iniziazione cristiana che comprendeva anche la Confermazione e l'Eucaristia, il sì di Dio e il sì dell'uomo erano necessariamente e coerentemente compresenti nell'unico gesto sacramentale che, per questo, costituiva l'ingresso pubblico ed ufficiale nella comunità cristiana. Ma quando il Battesimo, per motivi vari, è celebrato, come avviene oggi, con neonati o bambini di pochi anni, non essendo questi ancora in grado di dare il loro assenso liberamente, è teologicamente giusto tenere distinti - cosa diversa dal separare - i due momenti facendo del primo l'oggettivazione privilegiata del sì gratuito di Dio, che in quanto gratuito e quindi anteriore a ogni volontà umana non esige alcun assenso da parte umana, e del secondo l'oggettivazione del sì dell'uomo che, in quanto tale, esige invece capacità di scelta e, quindi, libertà.

    Dio non è natura

    La Confermazione o Cresima è la traduzione, in linguaggio simbolico e rituale, dell'autocomprensione dell'uomo come «risposta» radicale, come quell'essere la cui essenza è di dover rispondere e non poter non rispondere ad una istanza che lo trascende irriducibilmente.
    Istanza - dalla radice in-stare, star sopra, incombere - è ciò che l'uomo percepisce al di sopra di sé e, quindi, vive come altro e oltre il suo orizzonte di desiderio e di progetto, come ciò che gli è anteriore e già dato e che, in quanto tale, può essere solo riconosciuto e accettato.
    Questa «istanza», che si erge come misura e che si vuole misurante senza essere misurata, ha conosciuto nella storia umana nomi molteplici e diversi (dèi, demiurghi, eroi, antenati, esseri celesti, ecc.) e può essere ricondotta a due figure essenziali tra loro irriducibili.
    Secondo la prima di queste figure, oggettivatasi soprattutto nelle culture agricole e nel pensiero riflesso della Grecia, l'istanza suprema di fronte alla quale l'uomo si scopre situato e misurato è l'armonia cosmica o naturale alla quale appartiene e della quale partecipa. L'uomo è uomo, veramente se stesso e autenticamente realizzato, quando si riconosce come parte entro questo ordine originario ed onniavvolgente che i Greci chiamano kosmos.
    Questa concezione, secondo la quale l'uomo è parte del cosmo al quale tenersi collegato - per questo il «simbolo», che etimologicamente vuol dire «con- legamento», è la categoria per eccellenza della grecità -, è molto comune, e negli ambienti della scienza e della poesia forse oggi essa sopravvive come la forma più comune di religiosità diffusa. Si pensi, per esempio, al noto testo del film di Zeffirelli su Francesco d'Assisi, che così esprime questa religiosità naturale spontanea e commovente:

    «Dolce sentire
    che non son più solo
    ma parte di un'immensa vita
    che generosa risplende intorno a me».

    Se la figura naturalistica - dove l'istanza trascendente dalla quale ci si sente misurati è il cosmo o la totalità - è la più comune, essa comunque non resta l'unica perché in alcune culture, soprattutto in quella ebraica, ne emerge un'altra, diversa e provocante. Qui il divino non appare come il Tutto di cui si fa parte, ma come Parola di fronte alla quale si è costituiti partner. La grandezza unica e peculiare della tradizione ebraico-cristiana, entro cui l'Occidente è nato e dalla quale ancora oggi noi siamo portati, è in questa intuizione paradossale e dirompente: l'uomo non è definito dalla sua appartenenza ad una totalità - sia naturale, culturale, sociale, politica, ecc. - ma dall'evento di una parola che, come ogni parola, attende di essere udita e interpretata.

    Dio è parola

    Parola dice intenzionalità e volere. Essa proviene da un orizzonte che non è né può essere quello naturale e che per analogia può essere compreso solo a partire dall'esperienza interpersonale, quel tipo di esperienza peculiare che si instaura tra due soggetti umani. Ciò che in profondità caratterizza il rapporto interpersonale, di cui la parola è la mediazione privilegiata, è il fatto che esso, a differenza del mondo naturale, non obbedisce al determinismo causale necessitante e incontrastato ma si iscrive nell'ordine della libertà e, pertanto, della possibilità. Un sasso che precipita e che, nel suo percorso, incontra una pianta non può, con la sua forza di movimento, non travolgerla e spezzarla; ugualmente un chicco di grano seminato nel campo non può, con la sua forza interna, non farsi spiga matura e giungere a compimento. Ma altra è la logica della parola umana la quale, per quanto potente, non opera sempre e necessariamente ma solo attraverso il libero acconsentimento di colui al quale è rivolta. La insopprimibile caratteristica della parola è che la sua «forza», a differenza della forza della pietra e di ogni altro oggetto del mondo naturale, può giungere solo sulla soglia della soggettività umana, per arrestarsi e farsi impotente, essendo nell'interlocutore la sua potenza. Mai questo intreccio mirabile di potenza e impotenza della parola umana emerge così chiaramente come nella situazione drammatica del torturatore/torturato, dove le parole del primo non possono nulla, neppure con la minaccia del supplizio e della morte, nei confronti del secondo.
    Pertanto il tratto irriducibile della parola umana è di essere potenza di comunicazione che si arresta di fronte all'altro.
    Definendo Dio come «parola» e non, secondo la maggior parte delle altre culture, come «natura», la tradizione ebraico-cristiana introduce nella storia umana una nuova concezione del divino inteso non più come «energia cosmica» o «forza vitale» che necessariamente si autoespande attraverso la totalità dell'esistente, ma come realtà «altra» che, in analogia con l'esperienza umana, può solo essere pensata come «libertà». Affermare che Dio è «parola» è infrangere il cerchio del divino come «forza» che opera spontaneamente e teleologicamente per dischiuderne uno dove esso, non più identificato con la totalità dell'esistente - né suo prolungamento né sua emanazione ma semplice creazione - è libertà suscitatrice di altre libertà, alterità creatrice di altre alterità.
    Ma se il divino è parola, o libertà di cui la parola è la mediazione privilegiata, ne deriva una conseguenza paradossale sulla quale non ci si dovrebbe mai stancare di riflettere: la sua dimensione di fragilità e nascondimento, essendo affidato, come ogni parola, alla recezione dell'altro. Se nulla è contemporaneamente potente e impotente come la parola, capace di sconvolgere ma anche di essere tacitata e ignorata, lo stesso vale per il divino che proprio nella parola umana ha trovato, per la Bibbia ebraico-cristiana, la modalità autentica ed efficace per rivelarsi. C'è una impotenza di Dio, prima ancora che sulla croce e nella creazione, che inerisce alla sua stessa parola rivelatrice che, per essere efficace, ha bisogno del libero acconsentimento dell'uomo al quale è rivolta.

    Parola imperativa

    Ma c'è di più. La parola della quale Dio si serve per rivelarsi è una parola che si qualifica come imperativa. Imperativa è quella parola il cui tratto specifico non è di informare, descrivendo ciò che c'è, ma di vincolare l'altro, instaurando con lui una relazione che è adesione o rifiuto. Se dico: «il fiore è composto di petali, stami e pistilli», trasmetto dei dati grazie ai quali l'interlocutore viene a conoscenza - o riviene a conoscenza - di una determinata realtà; ma se dico: «vai a prendermi la penna», non trasmetto all'altro dei dati ma rivendico il mio diritto sul suo volere. Sia nell'uno (linguaggio descrittivo) che nell'altro caso (linguaggio imperativo), la parola veicola un messaggio; ma mentre il primo riguarda l'ordine oggettivo (come sono fatte le cose e come si costituiscono), il secondo riguarda l'ordine intersoggettivo (un volere che vincola al proprio quello dell'altro). Dio, nella Bibbia, non appare come parola descrittiva ma come parola imperativa, come comandamento; egli, cioè, non appare per rivelare dei contenuti riguardanti la sua realtà («sono il creatore del mondo», «sono onnipotente», «mi chiamo il tal dei tali») o quella del mondo oppure dell'uomo, ma per vincolare quest'ultimo al suo volere. La rivelazione biblica trova qui il suo contenuto esigente ed esclusivo. Essa s-vela, cioè toglie il velo e, quindi manifesta, che il volere dell'uomo è vincolato, di un vincolo paradossale che è il vincolo della libertà, al volere divino.
    La pagina alta e fondante di questa rivelazione divina come parola imperativa è la chiamata di Abramo, il padre della fede, con il quale la Bibbia inizia la storia della salvezza (Gn 12) dopo il peccato delle origini (Gn 1-11):

    «Il Signore disse ad Abram:
    Vattene dal tuo paese, dalla tua patria
    e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo
    e ti benedirò,
    renderò grande il tuo nome
    e diventerai una benedizione» (Gn 12,1-2).

    In questa celebre pagina biblica, paradigmatica di tutte le altre, non soltanto si oggettiva l'esperienza di Dio come parola imperativa ma, contemporaneamente, si oggettiva l'esperienza che solo in essa l'uomo sfugge al gioco delle apparenze egocentriche («vattene dal tuo paese, dalla tua patria...») e accede alla sua identità («verso il paese che io ti indicherò») instauratrice di verità («renderò grande il tuo nome») e di fecondità («e diventerai una benedizione»).

    L'uomo è risposta

    Di fronte alla parola imperativa di Dio l'uomo è risposta o, con maggiore rigore, capacità di risposta. Questa non è - per la Bibbia - un tratto antropologico accanto agli altri, ma il tratto antropologico per eccellenza che fonda e giustifica tutti gli altri. Per essa l'uomo esiste ed è stato voluto da Dio, non per contemplare (come vuole il pensiero greco che del logos, cioè della ragione, ha fatto l'asse del sapere), non per dominare (come vuole l'epoca moderna che alla ragione contemplativa ha sostituito quella progettuale) e neppure per fare quello che più gli aggrada (come vuole il post-moderno in cui noi siamo e che alla ragione progettuale sostituisce il policentrismo degli egoismi, dove ognuno è centro a se stesso e, pertanto, inaccessibile all'altro), bensì per rispondere a Dio, per esprimergli un «sì» o un «no» dal quale dipende la sua autenticità o inautenticità.
    Ma più che risposta di fronte alla parola imperativa, l'uomo è risposta suscitata da essa. A comprendere la radicalità di questa intuizione biblica può aiutare l'analogia dei primi mesi di rapporto tra madre e figlio. Quando si vede un bambino che, attraverso il suo sorriso, reagisce a quello della madre, esso - ci insegna la psicologia - prima che una risposta al sorriso della madre è il sorgere in lui della stessa possibilità del sorriso. Questo non fa parte della sua dotazione naturale dalla quale attingere, ma è l'apparire e il costituirsi di quel modo di essere - il sorriso - che è della madre.
    La parola imperativa di Dio è quella parola che suscita l'uomo come risposta, che «lo crea» come radicale «sì» o radicale «no». Quando si parla della creazione dell'uomo non bisogna dimenticare che il suo significato reale va colto a questo livello ultimale. Per la Bibbia Dio crea l'uomo non nel senso che lo costituisce essere biologico o essere razionale - anche questo certamente! - ma perché lo rende essere dialogico, capace di parlare e di rispondere.
    La parola imperativa di Dio attraverso la quale egli si rivela, trova pertanto il suo senso non in se stessa - «comandare per comandare» - ma nell'uomo, per farne il suo interlocutore e il suo partner. Dio è parola imperativa e prende la parola per primo non per esprimersi ma per far esprimere l'uomo. Egli è una parola che, come la parola di un presidente o di un moderatore, ha la funzione di «dare» la parola.

    Risposta libera

    Secondo un gioco molto bello reso possibile dalla lingua tedesca, Dio è quella parola originaria (Wort) che costituisce l'uomo come parola seconda o derivata (Ant-wort), non solo perché questa è possibile solo se suscitata dalla prima ma soprattutto perché anch'essa, come quella divina, non è necessitante bensì libera. La grande intuizione della tradizione ebraico-cristiana è nell'aver sperimentato, come già si è notato, che se il divino è parola, esso non si identifica con la necessità e con la totalità e quindi può essere pensato solo come libertà. Ma se Dio è la parola che suscita, nell'uomo, la parola, ne consegue che anche quest'ultima deve essere, come quella divina, libera.
    Una parola libera, cioè una risposta libera, è quella data non per necessità esterna, perché qualcuno o qualcosa vi costringe, e neppure per necessità interna, perché la spontaneità teleologica vi orienta, ma per scelta personale, con un atto che appartiene soltanto al soggetto nella sua irriducibile singolarità e che in nessun modo può essere ricondotto ad altro, né al passato, con il ricorso ai condizionamenti, né a Dio, con il ricorso alla provvidenza, al fato o alla dialettica. Con ciò la Bibbia non ignora il peso dei diversi determinismi culturali biologici e psichici; ma per essa l'uomo accede alla soglia dell'umano proprio quando egli si scopre, fosse pure una sola volta e per un solo istante, altro e più della somma dei suoi condizionamenti; e, per essa, Dio in tanto è Dio e si rivela come tale in quanto, infrangendo i determinismi che avvolgono il soggetto umano, dischiude a quest'ultimo il nuovo orizzonte che è quello della libertà radicale.
    Radicale è quella libertà che il soggetto esercita non di fronte agli oggetti appetibili che entrano nel suo campo volitivo ed operativo ma di fronte al Bene e al Male che emergono e si ergono a misura e giudizio dei suoi stessi progetti. Se si è deciso di prendere una laurea oppure di mettere su casa, si è certamente liberi nei confronti del tipo di facoltà da scegliere, se Giurisprudenza, Medicina o Matematica, ecc.; o del tipo di mobilio da acquistare, se in mogano, noce o frassino, ecc., ma non di fronte al fine che il soggetto partorisce e intorno al quale organizza, e non può non organizzare, le sue scelte. Si tratta pertanto di una libertà «strumentale» che non riguarda l'ordine del fine e che riguarda e può solo riguardare la realizzazione dell'io e le modalità più adeguate e appaganti per pervenirvi.
    La libertà radicale, invece, non riguarda l'ordine strumentale ma il fine. Essa ci rende capaci non di scegliere tra più oggetti di appagamento ma tra l'appagamento e il suo trascendimento, cioè tra l'io come principio ultimo dell'agire e Dio come parola sovrana - parola imperativa - che gli appare per svegliargli una nuova identità. Per la Bibbia Dio è colui che, attraverso la sua parola imperativa, fa dono all'io di questa nuova libertà radicale, dove si scopre libero non di fronte agli oggetti ma di fronte a se stesso.
    Il sacramento della Confermazione, il sacramento del «sì», è il dispiegamento pubblico e rituale di questa libertà radicale che, secondo il Nuovo Testamento, Gesù ci ha ridonato attraverso la sua morte e la sua risurrezione.

    Libertà come decisione

    La Bibbia, che non è un testo filosofico (se per filosofia si intende la filosofia occidentale) ma religioso, non parla certamente della libertà radicale con questi termini concettuali ma si serve del linguaggio simbolico ricorrendo sia alla narrazione, come quella di Adamo ed Eva di fronte all'albero «della vita» e «della conoscenza del bene e del male», sia all'immagine del bivio come nel noto capitolo 30 del libro del Deuteronomio dove Dio viene presentato come colui che pone l'uomo di fronte alle due strade del bene e del male: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male...» (Dt 30,15).
    Ma il linguaggio simbolico, per non essere equivoco, richiede di essere interpretato e «pensato». Cosa vuol dire, al di là della immagine, che Dio colloca l'uomo di fronte all'albero «della conoscenza del bene e del male» o di fronte al bivio della vita e della morte?
    Il senso primo di questo linguaggio è che la libertà radicale non inerisce al dinamismo interno della natura umana, ma è un evento che si accende solo all'apparire di Dio e della sua parola imperativa.
    Proviamo a pensare, fenomenologicamente, quale tipo di esperienza si instaura tra una persona che fa l'autostop e l'eventuale autista di una macchina che, casualmente, si trova a passare. Questi, se lo scorge, si trova, all'improvviso, posto di fronte al «bivio»: fermarsi o continuare, farlo salire o lasciarlo, compiere un gesto di benevolenza aprendosi o continuare come prima chiuso nel proprio io; si trova cioè di fronte ad una decisione necessaria e «paradossale».
    Innanzitutto necessaria, perché non può non decidere; può fermarsi o continuare ma non può fare a meno di decidersi per l'uno o l'altro; può sottrarsi al «sì» e non fermarsi, o al «no» e fermarsi, ma non alla necessità della decisione che lo segna irreversibilmente per cui egli da quell'istante rimarrà come colui che si è fermato o ha continuato, ha accolto quella richiesta o l'ha rifiutata.
    Ma è soprattutto paradossale: perché questo tipo di decisione non è una decisione accanto alle altre e simile alle altre (come decidere, per esempio, di andare al mare o in montagna) ma è l'apparire di una decisione che rompe con esse, non essendo più dettata, ultimamente, dal bisogno dell'io (decido di andare in montagna perché mi fa bene o piacere) ma dal bisogno dell'altro che, chiedendo un passaggio, si fa appello («Fèrmati») e giudizio («Ti sei fermato», «Non ti sei fermato»). Il gesto indifeso di un dito che chiede aiuto, entrando di sfuggita nella coscienza dell'altro, ha lo strano potere di metterlo in crisi e di ridefinirlo. Dio, per la Bibbia, è come il gesto indifeso dell'autostoppista che, insinuandosi, con la sua parola, nella coscienza umana («la voce della coscienza»), la ridefinisce come altra: non più lo spazio dove l'io cerca e ricerca perdutamente se stesso ma come l'evento dove egli, liberato da sé - decidere è infatti «tagliare» - è di fronte a Dio, capace di dirgli il suo «sì» o il suo «no». E l'uomo è questa necessità di «sì» o di «no» alla quale non può sfuggire e dalla quale - essendo definito - dipende la sua esistenza come autentica o inautentica, abitata dal bene o dal male, dalla vita o dalla morte (cf Dt 30,15-20).
    Da notare, per non equivocare, che il «sì» e il «no» non si collocano sullo stesso piano, essendo il primo solo finale e il secondo solo strumentale. Il motivo cioè per cui Dio costituisce l'uomo libero non è per metterlo alla prova - «vediamo cosa è capace di fare» - ma per avere il suo «sì»; ma perché questo sia veramente tale deve passare, e non può non passare, attraverso la possibilità del suo contrario. Il «no» a Dio non è quindi finale, ma solo strumentale, essendo voluto non per se stesso ma coree condizione per il dispiegarsi del sì. Dio infatti, per la Bibbia, non vuole l'uomo con la forza, come il prepotente, e neppure con la seduzione, come l'amante, ma con una scelta che sia esclusivamente e irriducibilmente sua (dell'uomo) e che, per questo, contempli la possibilità del no, perché, per quanto paradossale, un sì totalmente libero può solo fiorire sulla contropossibilità del no. Dio, per la Bibbia, è Dio proprio perché mistero di libertà costitutrice di altre libertà, l'unico capace di porre in essere un altro così altro da lui da poterglisi negare. Questo gesto di alterità - porre in essere un altro così altro da sé da poterglisi negare - è ignoto all'orizzonte umano, l'orizzonte del desiderio e del bisogno per il quale l'altro esiste solo come oggetto e prolungamento, e costituisce la vera deitas (divinità) di Dio che, per tutta l'eternità, non finiremo mai di contemplare e cantare.

    Libertà per l'amore

    Ma perché Dio vuole la libertà dell'uomo, perché lo costituisce così sovranamente altro, capace di un sì e di un no radicali?
    È soprattutto di fronte a questo interrogativo che la Bibbia ci spiazza e ci appare «paradossale», cioè portatrice di una verità che, se all'apparenza contraddice le opinioni correnti (doxa, che compone il termine para-dosso, in greco vuol dire opinione), in profondità è l'unica autentica.
    Per la Bibbia la libertà nella quale siamo costituiti e, per il dono dello Spirito, ricostituiti, non è una libertà fine a se stessa - liberi per essere liberi - ma una libertà finalizzata all'amore - liberi per amare l'altro -, di quell'amore che non è l'amore di desiderio, che cattura e oggettiva l'altro, ma l'amore di benevolenza, che, come l'amore di Dio, lascia essere l'altro nella sua alterità.
    In una pagina celebre, Sartre, il cantore della libertà moderna intesa come libertà di autocreazione e di autoinvenzione, alla domanda: «Quale beneficio le ha portato il non credere in Dio?», così risponde: «Ha assicurato, purificato la mia libertà; questa libertà non è fatta ora per dare a Dio ciò che mi chiede. È essenziale. E poi i miei rapporti con gli altri sono più diretti. Non passano più attraverso la mediazione dell'Onnipotente, non ho bisogno di Dio per amare il mio prossimo. È un rapporto diretto da uomo a uomo, non ho alcun bisogno di passare attraverso l'Infinito. E inoltre i miei atti hanno costituito la mia vita che sta per finire, che è quasi conclusa e che io giudico senza ingannarmi. Questa vita non deve nulla a Dio; essa è tale e quale io l'ho voluta e, in parte, tale quale la facevo senza volerla. E quando ora io la considero, essa mi soddisfa e non ho, per questo, alcun bisogno di pensare a Dio. Debbo solo passare attraverso l'umano, cioè attraverso gli altri e me».[1]
    Anche per la Bibbia, come per Sartre, la libertà è questo assoluto senza il quale l'uomo nega la sua umanità e quella degli altri. Ma a differenza di Sartre, e qui la distanza è abissale, questo assoluto non contraddice l'assoluto di Dio bensì è da esso stesso costituito come suo dono, e soprattutto, differenza ancora più rilevante, esso non è il piedistallo sul quale l'io inventa se stesso autocreandosi bensì l'unico ponte attraverso il quale accedere all'alterità dell'altro.
    Ma se la libertà umana è, per la Bibbia, libertà per l'amore, ne consegue che l'amore al quale essa è destinata non è, né può essere, l'amore di eros, che ignora la libertà e conosce solo la forza della spontaneità, ma un amore diverso che è quello dell'alterità e che solo l'apparizione di Dio nella coscienza può instaurare. Quando Sartre dice che la libertà «è un rapporto diretto da uomo a uomo», per cui non ha «alcun bisogno di passare attraverso l'Infinito», egli ha ragione fintanto che l'intende come principio di autocostituzione del soggetto umano che, in quanto tale, non può avere bisogno di altro. Ma se la libertà dell'uomo invece che per l'io fosse per l'altro? E se l'uomo oltre che bisogno di autocompimento fosse vin- colazione nei confronti dell'altro? Se così fosse, come ci testimonia il fenomeno etico della coscienza umana che Sartre stesso riconosce di non aver esplorato,[2] in questo caso Dio non è inutile ma necessario, essendo l'unico capace di far accedere all'altro in quanto altro.

    Libertà come responsabilità

    Il termine che, meglio di ogni altro, ridice l'inesauribile ricchezza della libertà biblica di cui fa dono lo Spirito celebrato nel sacramento della Cresima è responsabilità, nel senso etimologico di chi è tenuto a rispondere a qualcuno di qualche cosa, come nel caso in cui una mamma dicesse all'amica: «Guarda mio figlio».
    Una responsabilità come questa è diversa da quella che si instaura nell'arco della propria soggettività - dove si esercita nei confronti delle proprie scelte - e si costituisce intorno ad una duplice obbligazione: nei confronti della madre, alla quale rendere conto del proprio comportamento, e nei confronti del bambino, al quale accudire.
    Esiste pertanto una duplice accezione del termine responsabilità che non può essere ricondotta ad unità. Se uno decide di iscriversi all'università o di compiere un viaggio in Africa, è chiaro che egli ne è responsabile, ma si tratta di una responsabilità che si fonda sull'io ed è finalizzata alla sua promozione, quindi di una responsabilità che si consuma entro le pareti della propria soggettività.
    Ma se uno si trova di fronte ad una voce che gli ordina: «Curati del povero», «Da' da mangiare all'affamato», questa responsabilità è altra rispetto a quella precedente, perché, lungi dal maturare sulla progettualità dell'io, la pone in crisi («Perché dovrei farlo?») e, relativizzandola, la costringe a ride- finirsi.
    La responsabilità biblica di cui fa dono lo Spirito e che si oggettiva nel rito della Confermazione appartiene a questa seconda tipologia perché essa non fiorisce sul terreno dell'io e dei suoi giochi attrattivi, ma sulla parola potente di Dio che ci affida il fratello.

    Chi è l'angelo custode?

    La Cresima (un altro dei termini che sta per la Confermazione e il cui significato, dal greco krisma, rimanda all'unzione con cui re e sacerdoti venivano consacrati e segnati dallo spirito di Dio) è il dispiegamento rituale, in testi, gesti, simboli e canti, di questo «sì» radicale a Dio e, affidandoci Dio il fratello, al fratello.
    Non si tratta di due sì ma, in realtà, di un solo sì, essendo il primo esigitivo del secondo e questo reso possibile da quello. Il contenuto infatti del sì a Dio è uno solo: il sì all'uomo.
    In una delle pagine più drammatiche della storia biblica, dopo la morte violenta di Abele per mano di Caino, una voce potente, della potenza dell'imperativo supremo, squarcia la coscienza di quest'ultimo e chiede «"Dov'è Abele tuo fratello?". Egli rispose: "Non lo so. Sono forse il custode di mio fratello?"» (Gn 4,9).
    Suo malgrado, Caino - il simbolo dell'uomo violento - afferma la vera identità di quest'ultimo: essere il custode dell'altro allo stesso modo di Dio.
    Tutti sappiamo o ricordiamo, forse con una certa nostalgia per la nostra infanzia, una delle più belle preghiere popolari: «Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me che ti fui affidato dalla pietà celeste. Amen».
    Il vero angelo, che Dio pone accanto ad ogni uomo, è l'altro uomo perché se ne prenda cura con quell'amore di bontà che è lo stesso di Dio.
    La «Confermazione» o «Cresima» è la figura pubblica, in linguaggio rituale, di questo amore donato al fratello. Essa, con il mondo dei suoi simboli, «s-vela» l'enigma dell'identità nella responsabilità radicale suscitata dall'apparizione di Dio e dal dono del suo Spirito «riesploso» nell'evento della morte e della risurrezione di Gesù.
    La Confermazione è il «manifesto» della responsabilità incondizionata.
    Che per questo, come vuole un autore caro a Buber, «è il cordone ombelicale che ci lega alla creazione».[3]


    NOTE

    [1] In La cerimonia degli addii, citato in S. Malka, Leggere Lévinas, Queriniana, Brescia 1986, pp. 30-31.
    [2] «Nell'uomo c'è una dimensione di obbligazione che io non ho ancora studiata» (in S. Malka, cit., p. 29).
    [3] Il principio dialogico, Comunità, Milano 1959, p. 151


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