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    1. Il Battesimo


    Carmine Di Sante, CELEBRARE LA VITA. Viaggio nel mondo dei sacramenti, Elledici

     

    Capitolo primo
    IL BATTESIMO
    Il sì di Dio all'uomo


    L'evento della nascita

    Di fronte ad un neonato è spontaneo ed immediato, anche per i più restii nell'esprimere i sentimenti, sorprendersi e commuoversi e, come ci testimonia la maggior parte delle culture, la nascita di un bambino viene sempre celebrata.
    Ma cosa vuol dire celebrare una nascita? Cosa spinge dei genitori e i loro amici a raccogliersi intorno ad un neonato e a far festa sia in chiesa (se viene battezzato) che in casa? Se rispondessimo che è «per esprimere insieme la gioia» e la «solidarietà», si riproporrebbe di nuovo la domanda: ma perché una nascita procura gioia ed invoca solidarietà?
    Le risposte a domande come queste - solo all'apparenza semplici, appartenendo all'ordine dell'esistenziale - possono essere molte e non facilmente riconducibili ad un denominatore comune. Tuttavia ci si avvicina di molto alla realtà se si risponde che, per tutti, la nascita di un bambino rappresenta un evento e che, per questo, va celebrato.
    Evento è ciò che non rientra nell'arco progettuale ed è, per questo, imprevisto e imprevedibile, improgrammato e improgrammabile, come, ad esempio, un innamoramento (evento positivo) o una disgrazia (evento negativo). Lungi dall'essere voluti dal soggetto - ci si può innamorare della persona «sbagliata» e nessuno, normalmente, desidera attirarsi una disgrazia -, esperienze come queste lo «sorprendono», prendono e catturano, dischiudendogli un nuovo orizzonte e cambiandolo nelle sue convinzioni.
    Tra gli eventi che «sorprendono», arrivano e prendono alla sprovvista, la nascita di un bimbo è l'evento per eccellenza, perché rappresenta il nuovo assoluto che vince la morte e ricostituisce la vita. Anche se, a differenza di quando ci si affidava alle leggi naturali, è stato voluto e «programmato», ugualmente egli resta l'inedito e l'imprevisto: sarà un Van Gogh o un uomo qualunque? Un santo oppure un disgraziato? Le sue mani si alzeranno per benedire oppure per premere il grilletto di un fucile? Appunto perché nessuno saprà mai quali di queste - e altre - possibilità si realizzeranno, di fronte ad un neonato si rimane incantati e più che alle parole ci si abbandona alla contemplazione e al sogno.

    Da un mondo «altro»

    Ma più che per il suo futuro che nessuno conosce, ogni bimbo che nasce è un evento perché non riconducibile al passato dal quale proviene. Certo, un bimbo nasce perché voluto da un padre e da una madre, ma questi non sono l'origine della sua vita ma i suoi custodi che gliela trasmettono allo stesso modo che l'hanno ricevuta.
    Gli antichi, soprattutto i Greci, avevano la mirabile capacità di contemplare estasiati i fenomeni naturali (per Aristotele la filosofia è «fisica» cioè stu dio della natura!): il chicco che matura in grano, il seme che si trasfigura in fiore, un uovo e uno spermatozoo che, attratti, si fanno figura mirabile e vivente. In forza di che cosa il chicco si fa grano, il seme fiore e l'uovo e lo spermatozoo figura mirabile e vivente? Chi o che cosa colma l'abisso che separa la fase iniziale da quella finale? Lo sguardo dei primitivi, come pure, a livello di tematizzazione, quello greco, è lo sguardo che contempla questa potenza che è la Natura che genera senza essere generata e che perpetuamente si riproduce senza essere mai afferrata.
    Per questo la nascita, per gli antichi, ripeteva ogni volta il miracolo della Vita; essa non apparteneva alla storia individuale e progettuale di chi la voleva (il soggetto, la famiglia, il gruppo), ma all'Evento indicibile, invisibile e inafferrabile della Natura che è la figura stessa del divino, come canta, ad es., uno degli inni più antichi che la celebra come «dea, madre di tutto, industre genitrice», «ordinatrice degli dèi», «padre di se stessa e senza padre», «regina di tutto», «nutrice generosa», «di tutto padre e madre, nutrice e alimento», «impulso che dà alle cose la forma», «artefice perfetto, plasmatrice feconda», «tonante, la più potente dei re superni».[1]

    L'amore di Dio

    La tradizione cristiana, dalla quale siamo ospitati e in forza della quale possiamo parlare, dà un nome personale a quel mondo «altro» dal quale si affaccia ogni neonato: l'amore di Dio che è come l'amore di un Padre. Ogni bimbo che nasce, prima e oltre che espressione e mediazione di un padre e di una madre, è soprattutto messaggio di un amore più radicale che è quello stesso di Dio. La tradizione biblica e soprattutto cristiana è ricorsa ad un'immagine per esprimere questo legame originario tra Dio e ogni essere umano: l'immagine della figliolanza divina. Secondo questa immagine ogni bimbo, prima che figlio di un uomo e di una donna, è «figlio» stesso di Dio, amato e voluto da lui con un atto di amore indicibile e personale. Il Nuovo Testamento applicherà questa immagine soprattutto a Gesù - il «figlio di Dio» per eccellenza - ma non bisogna dimenticare che quello che il Nuovo Testamento dice di Gesù vale anche, in forza di lui, per ogni bimbo e, quindi, per ognuno che entra nella storia umana. Si è parlato di una immagine; ma forse sarebbe più corretto parlare di simbolo che, a differenza dell'immagine, non risale da una realtà conosciuta (la paternità umana) a quella sconosciuta (la paternità divina) ma è l'oggettivazione prima e immediata di quest'ultima alla cui luce viene riletta la prima.
    Celebrare il Battesimo di un bambino significa cogliere ed esprimere, con il linguaggio di cui ci fa dono la tradizione ebraico-cristiana, l'amore di Dio che lo previene e dal quale proviene; un amore appassionato e gratuito che Israele, nella sua esperienza, sperimenta e canta così teneramente: «Il Signore trovò Israele in una terra deserta, nella steppa piena d'urla selvagge. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore lo guidò da solo, non c'era con lui alcun dio straniero. Lo condusse in una regione di alte colline e lo nutrì con i prodotti della campagna; gli fece succhiare miele dalla rupe e olio dai ciottoli della roccia; gli diede crema di mucca e latte di pecora insieme con grasso di agnelli... fior di farina e sangue di uva...» (Dt 32,10-14).
    Ogni bimbo che nasce riaccende, nel mondo, l'evento di quest'amore divino tenero ed unico.

    Il mondo buono

    L'amore di Dio per l'uomo - che l'occhio profondo attinge nella riapparizione di ogni vita - non è chiuso e reciproco, come quello di due amanti, ma gratuito e peculiare che, nel suo movimento, coinvolge ed esige il mondo. Dio ama l'uomo non di un amore di attrazione ma di un amore di bontà e, appunto perché buono, gli dona il mondo buono. Leggere, dietro la nascita di un bimbo, l'amore personale di Dio, significa riconoscere, in profondità, che il mondo sul quale egli si affaccia e entro cui è chiamato a dispiegarsi non gli è ostile ma amico e che non è un deserto ma una casa, non un luogo inospitale ma un giardino familiare.
    La Bibbia collega a tal punto l'amore di Dio e la bontà del mondo da fare di quest'ultima la pagina prima e fondante dell'esperienza del popolo ebraico e delle sue Scritture nelle quali essa si è oggettivata. Come è noto, per questo la Bibbia si apre con la Genesi, cioè con la creazione - questo è il significato della parola di origine greca -; creazione da intendere però non come la produzione del mondo e il suo passaggio dal nulla all'esserci, ma come la messa in ordine del mondo e la sua costituzione a «giardino» (cf Gn 2,8) e luogo «sette volte buono» (cf Gn 1).
    Il mondo che accoglie ogni vita nascente è, secondo questo testo, non buono ma «sette» volte buono, cioè totalmente buono.
    Buono innanzitutto perché è fatto su misura dell'uomo, capace di colmarne tutti i bisogni e tutti i desideri. Si noti che un'affermazione come questa - che il mondo è buono in quanto spazio adeguato al bisogno umano - è pressoché sconosciuta alle altre religioni e culture e resta una delle più grandi «scoperte» di Israele che ancora oggi conserva tutta la sua provocante attualità. Affermare, infatti, la bontà del mondo in questo senso, vuol dire contrastare tutte quelle visioni pessimistiche che tendono a rendere estraneo l'uomo al mondo, facendo di questo un «carcere» (come voleva Platone) o un'anticamera dell'aldilà (la tradizione ellenistico-cristiana), e di quello un esiliato o un essere spirituale. Sostenendo la bontà del mondo, la Bibbia, mentre contesta tutte le figure di dualismo - dal dualismo delle cosmogonie a quello della gnosi - che minacciano il giusto rapporto dell'uomo con il mondo che l'accoglie, proclama quest'ultimo come sua vera casa ospitale.
    Ma il mondo è «sette volte buono» soprattutto perché proviene da una fonte buona che è l'amore personale di Dio. Si noti che tra queste due bontà: quella del mondo e quella di Dio che lo dona, c'è, nonostante l'identità terminologica, una differenza sostanziale. La bontà di Dio è altra cosa dalla bontà del mondo e, pur producendola, non si identifica con essa. Questa infatti inerisce all'ordine del desiderabile e dell'appetibile, mentre quella all'ordine della volontà e della libertà; per cui mentre un bicchiere d'acqua o un quadro sono «buoni» in quanto oggetti di appetizione, una persona è «buona» non in quanto desiderabile ma in quanto donatrice di cose desiderabili. Si tratta di due bontà che pur esigendosi restano profondamente «altre» contemporaneamente unite e distinte, l'una originata dall'altra ma questa irriducibile a quella.
    Celebrare il Battesimo di un bimbo non è un atto formale ma la testimonianza corale che il mondo che lo accoglie vuole essere per lui un mondo ospitale.

    La condizione umana

    Ma dov'è il mondo «sette volte» buono di cui parla la Bibbia? Piuttosto che buono il mondo non è, come ci insegna l'esperienza personale e la cronaca dei giornali, dominato dall'assurdo della sofferenza e della violenza? E piuttosto che casa familiare non è, come oggi ci mostra la storiografia attenta al vissuto reale dei poveri e dei «dannati» della terra, un luogo deserto e inospitale dove quotidianamente si è costretti a lottare contro la fame, la penuria, la malattia e le epidemie?
    È per dare una risposta a questa domanda che le culture antiche, chiamate comunemente cosmobiologiche o organiche, hanno elaborato la concezione del mondo come indissolubilmente intessuto di caos e di ordine, di bene e di male, l'uno la faccia dell'altro, come il giorno della notte e la primavera dell'inverno. Per lo stesso motivo la Grecia ha avvolto ogni cosa nell'orizzonte del Fato o della implacabile Necessità che è giocoforza accettare coraggiosamente ed è insensato contrastare e sottrarvisi.
    Anche la Bibbia paradossalmente, pur affermando la bontà radicale del mondo, non contraddice il giudizio realistico dell'esperienza comune espressa dalle culture organiche e dalla Grecia; anche per essa infatti il mondo è fondamentalmente dominato dalla sofferenza e dal male, dalla duplice violenza della natura e del soggetto. Ma a differenza delle culture organiche e della Grecia, per la Bibbia questa negatività del mondo è sì radicale ma non originaria; è, cioè, sì una realtà profonda e all'apparenza inestirpabile, però non appartiene al disegno creatore e alla sua volontà. Il male che, in figure molteplici e con potenza inimmaginabile, domina la scena del mondo, non è fatto risalire dalla lettura biblica al volere creatore, un volere sotteso solo dall'amore, ma al volere dell'uomo che si fa negazione del volere divino.
    In una parola: esso non fa parte della natura umana, della sua costituzione prima e intrinseca, ma della «condizione» umana, di quella situazione comunemente diffusa e condivisa - come l'ignoranza, come l'indelicatezza, ecc. - che si diffondono e si radicano impietosamente pur potendo e dovendoci non essere.
    La tradizione ebraico-cristiana ha elaborato una categoria peculiare, per esprimere questa situazione paradossale di un mondo dominato dalla negatività umana nonostante non vi faccia parte costitutivamente: la categoria del peccato originale, entrata a far parte del linguaggio comune e divenuto l' abc della trasmissione di fede. Secondo questa tradizione ogni bambino che nasce, nasce - si afferma - con il peccato originale; la sua «anima», cioè il dinamismo profondo del suo io intorno al quale si costruirà e costituirà la sua personalità e la sua identità, non è «pura» ma «impura», sotto il potere della negatività e del male. Linguaggi come questi non vanno intesi come residui di una mentalità arcaica da superare ma come la traduzione immediata della coscienza biblica di un mondo che non è più il mondo totalmente buono, dove sia i soggetti che le cose sono come «informi», «deformi», «sfigurati».

    È possibile superare l'alienazione umana?

    Ma mentre afferma la realtà del peccato, cioè dell'orizzonte dell'alienazione entro cui si nasce, la tradizione ebraico-cristiana si fa portatrice, contemporaneamente, della certezza che essa può essere cancellata e quindi superata. È a questo livello che il sacramento del Battesimo, cioè l'insieme dei gesti, dei simboli e dei riti con i quali la comunità cristiana accoglie e festeggia l'ingresso di un bambino nella storia umana, rivela il suo significato profondo e fecondo: esso, in quanto atto pubblico, è il riconoscimento che il mondo nel quale ogni bimbo nasce può e deve tornare ad essere, nonostante il suo profondo livello di negatività, «sette volte» buono, secondo la volontà creatrice. Da questo punto di vista il Battesimo, in quanto atto pubblico, è una vera azione utopica che annuncia il superamento del mondo nella sua negatività e la sua ricostituzione nella positività e che, soprattutto, ridischiude all'uomo la sua identità richiamandolo alla sua vocazione originaria.
    Quando, durante il rito battesimale, il sacerdote, a nome della comunità, chiede al bambino di rinunciare al «peccato», di uscire cioè dal suo stato di alienazione e di inautenticità, il senso di questa domanda più che a livello interrogativo che attende una risposta, essendo il bambino in realtà incapace di risposta, va ricercato a livello performativo: nel senso che esso realizza ciò di cui sta parlando. Chiedere ad un neonato, in un mondo alienato, di vivere un'esistenza autentica e disalienata è annunciargli, con la potenza del simbolo, che questa già esiste e che, pertanto, è possibile.
    E annunciandola a lui, l'annuncia ad ognuno.
    Il Battesimo infatti, in quanto segno, oltre a colui che lo riceve, è parola che, come ogni parola, fa dono del suo senso a tutti indistintamente.

    Chi è l'uomo?

    Ma chi è veramente quest'uomo che fa ingresso nella storia dell'avventura umana? Qual è il suo nome e la sua identità alla quale è chiamato e che, se il mondo è alienato, può anche fallire?
    Ad un'osservazione fenomenologicamente attenta, il tratto fondamentale dell'essere umano è il suo essere essere di bisogno. L'uomo è quell'essere che, per essere, ha bisogno di ciò che è altro dal suo essere: di pane e di affetto, di amicizia e di cultura; in una parola: di mondo, inteso come la totalità delle cose, da quelle materiali a quelle più simboliche e spirituali (come il poetico, l'estetico e il teoretico), di cui egli ha bisogno per colmare il suo stato di bisogno.
    Ma, a differenza dell'animale, esso pure essere di bisogno, l'uomo è quell'essere che, tra il suo bisogno e il mondo, è costretto ad interporre tutta una serie di operazioni funzionali. Mentre infatti l'animale incorpora il mondo naturalmente e deterministicamente, l'uomo, per incorporarlo, deve prima oggettivarlo, attraverso la conoscenza e il linguaggio, e poi raggiungerlo attraverso la messa in opera di strumenti adeguati. Così, ad esempio, la pecora e il bue si rapportano immediatamente, cioè senza mediazioni, all'erba del prato di cui nutrirsi, mentre l'uomo, al contrario, deve prima domandarsi di che cosa sfamarsi (vegetale, pane, carne o altro) e come trovarlo. Ciò vuol dire che il rapporto tra l'uomo e il suo bisogno è mediato e attraversato dal suo arco progettuale: dalla intelligenza delle cose adatte al suo bisogno e dalla volontà capace di raggiungerle adeguatamente.
    A livello fenomenologico, pertanto, la caratteristica peculiare dell'uomo è la sua dimensione progettuale, sostitutiva del determinismo del regno animale; cioè la sua capacità di sapere, di un «sapere» pretematico che è «intra-vedere», ciò che è adeguato al suo bisogno e come di fatto raggiungerlo.
    Ma per quanto grande sia la rottura tra il regno animale e quello umano, identico resta il dinamismo di fondo che è quello del bisogno in cerca di soddisfacimento. Da questo punto di vista, dal punto di vista del determinismo del bisogno, l'animale e l'uomo obbediscono alla stessa logica e si muovono nello stesso orizzonte. Per questo, con grande coerenza, Aristotele definiva l'uomo animai rationale, dove la razionalità non è il superamento dell'animalità ma una sua figura di realizzazione: non più attraverso il determinismo del bios (il biologico) ma attraverso la trasparenza del logos (intelligenza) e delle sue capacità inventive e creative. E poco importa, a questo livello, la diversità degli oggetti desiderati, restando la logica desiderativa sempre identica per necessità interna. Desiderare del «pane», una persona o Dio sono, formalmente, tre oggetti incommensurabilmente diversi ma identico nei tre casi resta il movimento che è quello di essere essere di bisogno perdutamente in cerca di soddisfacimento e di autocompimento.
    L'uomo, a livello fenomenologico, è impulso irresistibile all'autorealizzazione, impossibilità di uscita dal suo io, punto di partenza e di ritorno di ogni sua parola e di ogni suo movimento.
    Per questo coerentemente buona parte della cultura contemporanea - da Feuerbach, a Marx e a Freud - prendendo coscienza con disincanto di questa struttura desiderativa dell'essere umano, perviene alla negazione della libertà umana e alla impossibilità, per l'uomo, di spezzare il circolo dell'immanenza che lo avvolge.

    «Nascere dall'alto»

    Narra il quarto evangelista che un uomo molto saggio di nome Nicodemo si recò una volta da Gesù per scambiare con lui quattro chiacchiere sul senso della vita: «Egli andò da Gesù di notte, e gli disse: "Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nes suno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non con lui". Gli rispose Gesù: "In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio". Gli disse Nicodemo: "Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?". Gli rispose Gesù: "In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne, e quel che è nato dallo Spirito, è Spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: dovete rinascere dall'alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito"» (Gv 3,2-10).
    In questo racconto suggestivo, costruito da Giovanni per spiegare alla sua comunità il senso profondo del Battesimo cristiano, Gesù rivela a Nicodemo - che qui rappresenta ciascuno di noi - cosa deve fare «per vedere il regno di Dio».
    Contrariamente all'interpretazione corrente, il senso di questa espressione biblica non riguarda la vita del dopo-morte ma il senso di questa vita terrestre e finita. «Vedere il regno di Dio» significa avere accesso al Senso vero ed oggettivo dell'esistenza umana, alla sua pienezza e alla sua compiutezza; vuol dire introdursi in quell'ottica o in quella prospettiva dove la realtà - la nostra realtà ed ogni realtà - fiorisce nella sua ontologica autenticità e verità.
    Ora la risposta di Gesù a Nicodemo è che, per avere accesso al Senso - «vedere il regno di Dio» - è necessario «nascere dall'alto». È una risposta ovviamente paradossale che ci spiazza e ci piomba nella incredulità, proprio come Nicodemo, anche qui figura rappresentativa della nostra incredulità, nella sua reazione immediata frutto del buon senso: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?».

    L'uomo è «più» del suo desiderio

    In risposta alla reazione di Nicodemo, Gesù precisa il senso di questa «nascita dall'alto» passando dal piano dell'immagine a quello della realtà: nascere dall'alto è nascere dallo Spirito e nascere dallo Spirito è non essere più «carne»: «Quel che è nato dalla carne è carne, quel che è nato dallo Spirito è Spirito» (v. 6).
    Per intendere bene questo versetto è importante intendersi sul termine «carne», che non esprime la corporeità dell'uomo in opposizione alla sua dimensione spirituale (il dualismo corpo ed anima è, per lo più, estraneo al pensiero biblico), ma la totalità del soggetto umano nel suo dinamismo di apertura al mondo in quanto essere di bisogno. La definizione che, più di ogni altra, è in grado di ridarci abbastanza fedelmente il senso della «carne» biblica è quella fenomenologica precedentemente data dell'uomo come essere di bisogno. L'uomo è «carne», cioè è essere di bisogno che, in quanto tale, può sempre e solo ricercare se stesso, murato nelle pareti del suo io, perdutamente prigioniero entro il suo orizzonte. «Quel che è nato dalla carne è carne», dice Gesù; cioè: tutto quello che nasce dall'uomo porta i tratti di questa finitezza che è l'incapacità di uscire da se stesso.
    «Nascere dall'alto» è spezzare l'orizzonte chiuso del bisogno e scoprirsi oltre da esso e altro da esso. Si noti bene: non è cessare di essere soggetto di bisogno - l'uomo infatti per essere ha sempre bisogno del mondo - ma è infrangerlo come principio per dischiuderne uno nuovo che non appartiene all'uomo e al suo dinamismo ma allo Spirito che lo trascende e gli è irriducibile: «Quel che è nato dallo Spirito è Spirito». Anche qui il termine «Spirito» non va inteso nel senso di principio immanente al soggetto umano ma in quello di una forza, quella di Dio, che lo sovrasta e lo misura senza però mai identificarsi con lui.
    La tradizione ebraico-cristiana darà un nome peculiare a questo orizzonte dischiuso dallo Spirito: il termine «vocazione» che definisce l'uomo non più come essere di bisogno ma come essere chiamato da Dio e, pertanto, costituito come radicale possibilità di «sì» o di «no».
    Nascere dall'alto è scoprirsi non più solo essere di bisogno a servizio del proprio io, ma responsabilità radicale, nel senso etimologico del termine - dalla radice latina respondere, rispondere - di dover rispondere e non poter non rispondere.
    Chi non ha avuto, nella vita, almeno alcune volte, esperienze particolari dove ci si è scoperti «misurati» e «vincolati», sottratti al determinismo del bisogno e consegnati liberamente al «dovere», alla «giustizia» e all'agire etico, quell'agire che non soltanto non è motivato dal proprio bisogno ma spesso, come nel caso di chi muore per salvare un altro, va contro di esso?
    Esperienze come queste, che appartengono alla sfera dell'etico, sono l'emergenza e l'apparizione nell'uomo del di «più» dal quale è abitato e che costituisce, per lui, la seconda nascita che è la sua vera nascita. Un «di più» che è dentro la sua coscienza ma non proviene dalla sua coscienza e che per questo è, come il vento, inafferrabile: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (v. 8).
    Lo Spirito dal quale l'uomo è in-abitato è come il «vento» perché esso fiorisce al di fuori dell'arco progettuale e contro di esso che costringe a ridefinirsi.

    La «grazia» del Battesimo

    Il Battesimo è la figura pubblica e istituzionale con cui la tradizione cristiana dà corpo a questo «di più» o evento che riconosce e celebra come grazia.
    Il termine «grazia» resta uno dei più belli e inesauribili della tradizione cristiana e il suo significato biblico va colto a due livelli distinti e correlati.
    «Grazia» dice anzitutto ciò che è gratis, ciò che un soggetto possiede non in forza di se stesso e della sua progettualità ma di un altro che lo precede e lo sorprende; contemporaneamente, però, dice pure «bellezza», «splendore», «delicatezza», «armonia», ecc., come quando si parla di una persona «graziosa» o «aggraziata».
    Riferita all'evento della presenza di Dio alla coscienza umana, il termine conserva queste due accezioni, trattandosi di una presenza per un verso gratuita, cioè data gratis, non potendo essere esigita dalla natura umana, per l'altro principio di rinnovamento del soggetto umano reso, in forza di essa, pieno di «grazia».
    Pieno di «grazia» - della presenza di Dio e della trasformazione che essa opera - perché non solo da essere di bisogno è costituito essere responsabile (i teologi del passato amavano chiamare questa «grazia» col nome di «grazia elevante») ma soprattutto perché da essere peccatore, cioè decaduto, è ricostituito soggetto buono, capace di ritrovare e di ricreare la bontà del mondo al di là del male e dell'alienazione che l'avvolge e lo stravolge.
    La grazia è la sconvolgente scoperta/certezza - di cui il rito battesimale è la traduzione comunitaria e istituzionale - che chi nasce e vive nel mondo, lungi dal rassegnarsi alla sua negatività e alla sua insensatezza, è in grado di ricrearlo e di fruirne autenticamente. La grazia è l'accedere a questa nuova coscienza e la sua potenza trasformatrice del soggetto umano può essere solo paragonabile a quella di chi passa dalla morte alla vita.
    Per questo il Battesimo fa passare dalla «morte» alla «vita». Con questo linguaggio e atto performativo,[2] la comunità cristiana traduce la certezza che il soggetto umano, entro un mondo di sofferenza e di male, un mondo «alienato», può tornare a viversi come soggetto buono capace di ricreare il mondo buono.
    E tutto questo in forza di Gesù morto e risorto alla cui morte, come canta Paolo nel capitolo 6 dei Romani, noi siamo incorporati e della cui risurrezione partecipiamo.

    Il Battesimo: il «sì» incondizionato di Dio

    Il Battesimo, come tutti i sacramenti, appartiene all'ordine semantico e, in quanto parola, come ogni parola, veicola e comunica un messaggio: che il mondo sul quale ogni volta appare un essere umano non è un mondo cattivo, come vorrebbe la gnosi; neppure è un mondo fatto di bene e di male, come vorrebbero le concezioni cosmobiologiche; neppure è un mondo a volte buono e a volte cattivo come vorrebbero le concezioni pragmatiche, bensì è un mondo radicalmente buono.
    Buono di una bontà non fattuale - perché di fatto il mondo più che buono è cattivo - ma assiologica, cioè di una bontà che è e deve essere tale per principio, non iscrivendosi nel desiderio dell'uomo o della sua volontà ma nella volontà creatrice.
    Il Battesimo, con la ricchezza dei suoi simboli e dei suoi testi tratti dalla Bibbia ebraica e dal canone cristiano, s-vela il fondamento positivo del mondo che è il sì indefettibile dell'amore di Dio sul quale, nonostante tutto, si può sempre contare; quel «sì» fedele, indefettibile e perdonante così come si è storicamente manifestato nella morte e risurrezione del profeta e martire di Nazareth, nel cui nome e nel cui spirito il Battesimo cristiano viene celebrato.
    Esso dice e ridice, a chi entra nel mondo, che a monte di questo non sta né il nulla, né il caso, né l'ambiguità, né il male ma la sollecitudine di un Padre di cui fidarsi e con cui continuamente misurarsi: «Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno...» (Mt 6,25-32).


    NOTE

    [1] G. Faggin, Inni Orfici, Fussi, Firenze 1949, n. 9. Guida, Napoli 1981, p. 22.
    [2] Performativo è quel linguaggio o gesto che non descrive una realtà già data - «oggi sta piovendo», «il bambino sta piangendo», ecc. - ma crea la realtà di cui sta parlando: «domani vengo a trovarti», «ti prendo in mia moglie», «ti sono vicino», ecc.


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