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    Introduzione a «Celebrare la vita»


    Carmine Di Sante, CELEBRARE LA VITA. Viaggio nel mondo dei sacramenti, Elledici


    INTRODUZIONE

    Una parabola

    Ci sono alcune lingue, come, ad esempio, l'ebraica e l'araba, che non conoscono le vocali e che per scrivere una parola si servono solo delle consonanti. In queste lingue, pertanto, ci si viene spesso a trovare di fronte a due lettere come m r o ad altre due come v t che spetta al lettore interpretare.
    Ma come farlo? Come integrare le due consonanti? Quali le vocali da usare per completarle? M r infatti potrebbero essere vocalizzate sia con a - e in questo caso darebbero luogo a mare - che con u - e in questo caso darebbero luogo a muro -; allo stesso modo v t vocalizzate con i significherebbero vita, mentre vocalizzate con u significherebbero vuoto.
    Di fronte a queste lettere prive di vocali e, per questo, cariche di ambiguità, molto dipende dal lettore attento, dalla sua intelligenza di «saper leggere tra le righe». A lui, infatti, è affidato il potere, ché di un vero potere si tratta, non solo di far parlare quelle lettere mute ma di farle parlare in un modo (mare) o in un altro (muro), immettendovi un senso positivo (vita) o negativo (vuoto).
    Come lettere senza vocali, il mondo entro cui viviamo e del quale viviamo - dall'aria ai fiori alla cultura agli amici - ci si offre come provocazione e come enigma e attende da ciascuno di essere interpretato. Il suo senso non esiste come dato oggettivo, allo stesso modo con cui esiste un albero o una pietra, ma fiorisce solo entro lo spazio soggettivo, entro lo spazio del coinvolgimento personale.

    La lettura religiosa del mondo

    Nel noto romanzo di J. P. Sartre intitolato La Nausea, uno dei personaggi principali, Roquetin, dopo aver fatto l'esperienza dell'assurdità del reale, ha come un momento di arresto e di sospetto per cui è tentato di metterla in dubbio: «Mi sono alzato, sono uscito [dal giardino]. Arrivato alla cancellata mi sono voltato. Allora il giardino mi ha sorriso. Mi sono appoggiato alla cancellata ed ho guardato a lungo. Il sorriso degli alberi, del gruppo di allori, ciò voleva dire qualcosa; era questo il vero segreto dell'esistenza. Mi sono ricordato che una domenica, non più di tre settimane fa, avevo già sorpreso sulle cose una specie d'aria di complicità. Era diretta a me? Ho sentito con disappunto che non avevo alcun mezzo di comprendere. Nessun mezzo. E tuttavia era là, in attesa, sembrava uno sguardo. Era là sul tronco del castagno... era il castagno. Le cose si sarebbero dette pensieri che si fermassero a metà strada, che s'obliassero, che obliassero ciò che avevano voluto pensare, e che restassero così ondeggianti, con un bizzarro, piccolo significato che le sorpassava... Mi infastidiva questo piccolo significato: non potevo comprenderlo, nemmeno se fossi rimasto centosette anni appoggiato a quella cancellata; avevo appreso sull'esistenza tutto quello che potevo sapere».[1]
    Roquetin, che qui rappresenta la visione sartriana dell'esistenza umana, oltrepassa per un istante la sua percezione del mondo come assurdo e vede le cose che sorprendentemente gli sorridono («allora il giardino mi ha sorriso»); ma di questo sorriso non riesce a comprendere il senso, presentandosi come parola ambigua («era diretta a me?»), incompleta («le cose si sarebbero dette pensieri che si fermassero a metà strada...»), sfuggente e bizzarra.
    Di fronte a questo sorriso ambiguo di cui non comprende il senso, il personaggio sartriano si arrende e invece di tentarne una comprensione, confessa di non averne la possibilità: «Ho sentito con disappunto che non avevo alcun mezzo di comprendere. Nessun mezzo».
    Ma nel dichiarare questa sua impotenza Roquetin, prima che a se stesso e alla sua intelligenza, fa torto soprattutto alla storia dell'umanità che da sempre, fin dalle origini, ha tentato di decifrare quel sorriso sciogliendone l'ambiguità e rivelandone il senso.
    Il «religioso» - l'insieme dei testi e dei riti nei quali si oggettiva la comprensione ultima e radicale del mondo - è quel «mezzo» che l'uomo da sempre ha elaborato e utilizzato e che il personaggio sartriano con disappunto non riesce più a trovare.

    Il religioso e i «simboli»

    Il termine simbolo è uno dei più complessi e difficili da definire, essendo utilizzato in più ambiti e da più specialisti. Stando alla sua etimologia, esso si compone della preposizione sin - che vuol dire con - e dalla radice verbale ballein - che vuol dire mettere, collocare. Sin-ballein vuol dire mettere insieme, e si chiama simbolo tutto ciò che, invece di separare, tende a col-legare, unire, unificare. Non è senza significato che diavolo (in greco diabolos) è l'esatto contrario di simbolo ed è venuto a significare il male, appunto ciò che separa, divide e frantuma.
    Se il mondo è come un pensiero «fermatosi» a metà strada o come due lettere che attendono di esser vocalizzate, di questo pensiero il religioso pretende di essere il compimento e di queste lettere le vocali significanti. Pretende. Ma con tono discreto che non vuole essere imposizione ma offerta di dono.
    Ne consegue che il religioso è sempre e necessariamente simbolico; esso è come la i della parabola precedente che, introducendosi tra le due lettere della v e della t, le connette indissolubilmente - le «simbolizza» - mantenendole unite e svelandone il segreto come vita. I simboli sono le grandi parole, o, per restare nell'ambito dell'analogia, le grandi «vocali» che le tradizioni religiose conservano e tramandano per decifrare l'enigma dell'esistenza umana.
    La tradizione cristiana ha chiamato sacramenti, traduzione latina del greco simboli, queste «grandi» vocali capaci di unificare l'esistenza umana e di rivelarne il senso e le ha raccolte nel numero ideale di sette: i sette sacramenti.
    Nelle pagine che seguono tenteremo di riscoprire queste grandi «vocali» che, per motivi vari, sono state smarrite o giacciono impolverate e inutilizzate nella memoria collettiva: per lasciarci sorprendere dalla lo ro freschezza e provocare dalla loro forza di appello perché anche la nostra vita, lettere in cerca di significato, sciolga il suo enigma e si riempia di senso.

    I sacramenti

    I sacramenti sono comunemente definiti come segni efficaci della grazia.
    Segni: cioè parole che, come ogni parola, contengono un messaggio. Non un messaggio qualunque - che esiste Dio o che esiste l'aldilà - ma un messaggio specifico, cioè salvifico: che la tua vita, qualunque essa sia e in qualunque situazione «precipiti», ha un senso, è bella e vale la pena di viverla. Da questo punto di vista i sacramenti sono le grandi parole dell'utopia umana. Essi, annunciando l'esistenza pienamente felice e realizzata, sono le grandi custodi del sogno che impediscono alla coscienza di rinchiudersi nel piatto e nel banale.
    Efficaci: parole cioè che non solo annunciano che la vita è bella e che il mondo ha un senso ma che, nell'annunciare questa verità, la rendono possibile. Realmente e non illusoriamente. Oggettivamente e non per l'autoconvincimento del soggetto. Per questo parole efficaci. Risiede qui la differenza tra la parola poetica o utopica e la parola sacramentale: che mentre quella prospetta solo il mondo ideale, questa dice che il mondo ideale non è frutto del desiderio e dell'immaginario ma realtà oggettiva a portata di mano.
    Della grazia: infine parole che annunciano «la grazia», ciò che è gratuito, ciò che è gratis. Ciò vuol dire che il messaggio che i sacramenti nascondono e tramandano riguarda sì l'uomo, la sua esistenza dotata di senso, ma non proviene da lui, dalla sua saggezza o dalla sua natura, bensì da extra, da lontano, da un principio buono che la tradizione cristiana chiamerà con il nome di Dio e soprattutto di Padre. I sacramenti sono parole che dischiudono realmente all'uomo il senso della vita perché attingono a questo amore libero e gratuito. Essi non sono il frutto dell'immaginario o il prodotto dell'intelligenza che, come ogni prodotto, portano i segni della fragilità, ma la testimonianza viva dell'amore di Dio. Certo anche i sacramenti, in quanto segni, sono un prodotto culturale; ma essi non trascrivono il desiderio e lo sforzo della ricerca umana, bensì l'evento dell'apparizione di Dio alla coscienza per esserle compagnia e dono di senso.

    Celebrare la vita

    Sono molte le voci che oggi, di fronte alla crisi in atto determinata dai guasti della tecnologia e dalla ragione scientifica - questa in parte responsabile di quella - si rivolgono al «simbolico» come via di salvezza: cioè a tutte quelle produzioni dello spirito umano, dal poetico, all'estetico, al metaforico, al ludico, all'utopico, ecc., che trascendono il razionale e toccano le sfere più profonde dello spirito umano come la creatività, l'immaginazione e il sentimento.
    La definizione data qui del simbolico è altra da questo ed è vicina a quella di mito. «Per far emergere la loro differenza mi servo di una specie di parabola elementare. Un carcerato può sognare (nel sonno o ad occhi aperti) praterie sconfinate, può vedersi librato nell'azzurro o saettante su un circuito di corse: simboli irresistibili di libertà. Ma tutto questo fantasticare non gli guadagna un solo centimetro in più di spazio; diversamente da chi viene ad annunciargli che l'amnistia richiesta gli è stata accordata. Ecco: il simbolo è come il fantasticare del carcerato, mentre il mito [lo stesso che sacramento] corrisponde all'annuncio dell'amnistia. Il mito è parola fondatrice: narra la bontà del mondo e, narrandola, vi rende partecipe l'uomo che l'ascolta»[2]
    I sacramenti sono simboli efficaci, cioè parole fondatrici perché annunciano all'esistenza umana la donazione di un senso oggettivo. Per questo parlare dei sacramenti è parlare della vita. Non della vita come è di fatto, spesso ambigua e banale, e neppure della vita come la sogniamo - spesso i nostri sogni sono la riproduzione e la proiezione dei desideri più scontati - ma della vita come dovrebbe essere e come, da Dio, è chiamata ad essere. I sacramenti, in quanto parole instauratrici di senso, sono celebrazioni della «vera» vita.
    Secondo una probabile origine il termine celebrare rimanda alla radice greca di kalein, chiamare, annunciare, rendere presente. I sacramenti attestano la vita chiamandola per nome, ne rivelano il segreto perché ne annunciano, alla radice, la presenza dell'amore di Dio.
    Ma celebrare vuol dire anche accorrere, recarsi, frequentare. E dove si accorre se non dove si è chiamati e quale luogo si frequenta se non dove c'è «spettacolo», dove «il bello» appare e attrae? Non sorprende allora che i sacramenti, attestando la vita e il senso del mondo, sono sempre e necessariamente evento comunitario, dove non si è soli ma si è tutti «convocati», perché tutti orientati ad attingere alle sue fonti.
    Il sacramento, attestando il senso, convoca intorno ad esso l'umanità di tutti i tempi perché ognuno viva alla sua ombra e si alimenti della sua presenza.
    Le pagine che seguono intendono introdurre, con tono discreto, a queste parole fondanti perché se ne riascolti la voce potente e si accetti di esserne convocati.


    NOTE

    [1] La nausea, Milano 1975, p. 205.
    [2] A. Rizzi, Simbolo, in Dizionario di Pastorale Giovanile, Elle Di Ci, Torino 1989, p. 876. Si sarà comunque notato che qui il termine simbolo, a differenza dell'autore citato, è assunto come sinonimo di mito.

     


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