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    Prospettive (Prima parte di: Trenta storie)


    Riccardo Tonelli, TRENTA STORIE da meditare e raccontare per un progetto di pastorale, Elledici 1999

     

    Prima di tutto va decisa la prospettiva. Sembra strano, soprattutto quando i problemi incombono e le cose da fare sono una infinità: la prima -azione, veramente concreta, non consiste nella fatica di realizzare qualcosa al più presto e neppure nel tentativo di organizzare risorse, ma nel decidere l'orizzonte e l'orientamento ideale. Fa così il fotografo che vuole conquistare uno spaccato di. realtà complessa e racchiuderla in una immagine; fa così chi decide di ordinare una cassa di libri in due scaffali appena acquistati. Propongo la stessa scelta a chi ha intenzione di fare un buon progetto di pastorale, in una stagione di largo e diffuso pluralismo.
    Scegliere la prospettiva vuole dire dichiarare a se stesso e agli altri dove ci si colloca tra le molte possibili opzioni, quali sogni abbiamo sulla realtà, con chi si desidera collaborare, verso quale meta sono orientate tutte le risorse.
    Per dare qualche frammento di risposta a questi interrogativi propongo tre storie:

    Possiamo scrivere nuove «Lettere a Filemone»?
    La lettera di Paolo a Filemone suggerisce di fare progetti facendo dialogare, in modo coraggioso e innovativo, le esigenze della fede con i modelli culturali ricorrenti.

    Grazie, Nicodemo
    Gesù chiede una condizione pregiudiziale (il «cuore nuovo») per diventare persone capaci di riconoscere il significato e l'urgenza della sua causa («la vita di tutti» nel nome del Padre).

    In compagnia al servizio della vita
    Il servizio alla vita e il consolidamento della speranza sono una questione che riguarda veramente tutti. Non possono essere assicurate che in una profonda e sincera compagnia con tutti.


    POSSIAMO SCRIVERE NUOVE «LETTERE A FILEMONE»?

    Filemone aveva una bella casa, grande e accogliente, un gruzzolo di quattrini che gli permetteva di farla funzionare a dovere, e, come ogni signore che si rispetti, i suoi bravi schiavi, che lo servivano e lo riverivano.
    Paolo l'aveva convertito al cristianesimo in uno dei suoi viaggi. Con la conversione non aveva cambiato né casa né abitudini. Si era tenuto i suoi schiavetti e si godeva i suoi soldi, anche perché i primi li aveva comprati a prezzo giusto e i secondi se li era guadagnati onestamente. Al ritmo normale della sua vita aveva solo aggiunto qualche impegno in più... Era diventato ancora più onesto negli affari, faceva tutte le elemosine che poteva, amava le persone che incontrava e trattava non troppo male i suoi schiavi. La sua casa, poi, era ormai la casa di tutti i cristiani del posto e di quelli che passavano da quelle parti. Lì si radunavano a pregare, a mangiare un boccone e a fare un po' di festa. Come usava a quei tempi, nella sua casa veniva anche celebrata l'eucaristia della comunità.
    Riunione, festa e celebrazione eucaristica erano d'obbligo quando da quelle parti passava Paolo. Filemone lo considerava un padre, nel senso pieno della parola. Non c'entrava niente con i suoi genitori, ma Paolo gli aveva fatto scoprire la gioia del Risorto, gli aveva spalancato il cuore alla vita. Veramente, l'aveva generato nello spirito... ed è la cosa che conta di più. Aveva proprio il diritto di chiamarlo suo padre.
    Anche quella sera, per festeggiare il passaggio di Paolo in zona, nella casa di Filemone si era radunata molta gente.
    Avevano mangiato una cena da gran festa. Poi, finito di mangiare, erano partiti i ricordi. Paolo era al centro della conversazione. Parlava della sua esperienza di Gesù, della grande passione che lo portava in giro per il mondo, tra rischi e pericoli d'ogni sorta, per annunciare il Vangelo a tutti. Non poteva tacere la novità degli ultimi tempi: i nemici di Paolo aumentavano, si sentiva minacciato. I suoi antichi compagni di religione non gli perdonavano davvero il cambio di bandiera. Pazienza... rinunciare allo zelo di ogni buon fariseo... ma mettersi a proclamare con foga che la legge non serve più a dare vita e speranza, perché solo in Gesù possiamo essere liberi e salvi... Con idee del genere, una brutta fine non gliela toglieva nessuno: era solo questione di giorni o di opportunità.
    Anche quella sera, come era capitato altre volte, prima dell'ultimo saluto, Paolo consacra il pane e il vino e lo distribuisce ai commensali. Nel pane condiviso il ricordo del Crocefisso risorto diventa evento di salvezza per tutti e impegno di responsabilità nuove. In questo gesto, solenne e speciale, i cristiani sanno di obbedire all'invito di Gesù, ripetendo l'esperienza che Gesù aveva vissuto in quella cena famosa, l'ultima consumata con i suoi discepoli.
    La storia di Filemone assomiglia a quella di tanti altri cristiani: ci svela uno spaccato importante della vita delle prime comunità ecclesiali. Quella sera, però, è successo un imprevisto. Esso offre a Paolo l'occasione di scrivere un biglietto di raccomandazione, tanto importante, da farci venire la voglia di continuare a scrivere anche oggi cose del genere.
    Con un po' di fantasia, non facciamo fatica ad immaginare cosa è capitato quella sera di tanto sconvolgente.
    Filemone aveva molti schiavi. Nessuno gli aveva contestato il diritto di tenerseli: né prima né dopo la conversione.
    Di uno di loro sappiamo anche il nome: Onesimo. È il protagonista dell'avvenimento che ha dato origine alla lettera di Paolo a Filemone.
    Paolo parlava. Gli invitati lo ascoltavano con devota attenzione. Diceva delle cose bellissime. Tutti pendevano dalle sue labbra. Gli schiavi, invece, pensavano al loro lavoro. Avevano solo fretta di arrivare alla conclusione della serata. Dovevano sparecchiare, ripulire e ordinare la casa. Domani mattina doveva essere lucida e splendente, come sempre. Stava facendosi ormai notte fonda e si allontanava il tempo del riposo meritato.
    Ad un certo punto però Onesimo si ferma di colpo. «Che cosa sta dicendo Paolo?». «Dai, Onesimo, sbrigati», lo sollecita un compagno di sventura. «Fammi ascoltare bene. Abbi pazienza... ma non voglio perdere questo passaggio».
    Diceva Paolo: «Gesù, nella sua morte e resurrezione, ha distrutto il muro che teneva separati gli uomini tra loro. Adesso, non ci sono più né greci né giudei, né uomini né donne... non ci sono più né schiavi ne liberi. Siamo tutti fratelli, nell'amore che Dio ci porta».
    Le parole di Paolo risuonano sempre più forti nel cuore di Onesimo. «Non ci sono più né schiavi né uomini liberi... siamo tutti fratelli, tutti figli dello stesso Padre che sta nei cieli».
    Non ne può più. Lui è schiavo. Il ricordo della libertà è lontano, legato ad una terra sperduta ai confini del mare. Non può restare in questa situazione. Se Dio lo ama, ha diritto alla libertà.
    È ormai notte fonda. Tutti dormono. Si alza dal suo giaciglio e scappa. Vuole godere della libertà che Dio gli ha regalato.
    Scappa, di corsa, lontano dalla casa di Filemone... Verso dove? La sua casa, quella piena di libertà, è irraggiungibile. Non sa dove andare.
    Si ricorda di Paolo. Sa che è rimasto in città. Corre da lui. Lo tira giù dal letto. Si presenta: «Sono Onesimo. Ero schiavo nella casa di Filemone. Sulle tue parole ho cercato la libertà. Sono qui».
    Si aspettava di tutto. Ma le parole di. Paolo... quelle proprio no, davvero. Paolo lo rimprovera duramente: «Non si può. Gli schiavi devono obbedire ai loro padroni. Devi ritornare subito da Filemone. Subito».
    «Ma tu hai affermato che non ci sono più né schiavi né uomini liberi. Siamo tutti liberi. Dio ci ha liberati. E allora?».
    La risposta di Paolo lo butta in un mare di amarezza. «È vero... questo è il progetto di Dio. Gesù l'ha realizzato tutto.
    Ma ora sta solo germinando... come un piccolo seme. Devono passare ancora lunghi inverni prima che il seme fiorisca in albero grande. Dobbiamo attendere: con pazienza. Onesimo, devi tornare».
    «Non posso. Filemone mi punirebbe. La legge prevede la morte per lo schiavo che fugge. Non posso».
    Paolo non ha dubbi. «Filemone è un bravo cristiano. Poi... mi vuole bene e ha tanti debiti nei miei confronti. Non ti preoccupare. Ti scrivo un biglietto di raccomandazioni. Torna da Filemone con il mio biglietto e vedrai che tutto si metterà per il meglio. Mi raccomando però: obbedienza e rispetto per il tuo padrone».
    Onesimo si convince a tornare. Non ha altra scelta. Il sogno è durato il baleno di un lampo. Torna la notte, fredda e nera.
    Paolo prende carta e penna e, di suo pugno, stende quattro righe di raccomandazione. Il documento è riportato nel Nuovo Testamento: la lettera a Filemone. Si legge tutta d'un soffio, tanto è bella, concreta, piena di amore e di coraggio.
    «In Cristo ho piena libertà di comandarti ciò che devi fare. Preferisco però pregarti in nome della carità, così qual io sono, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù; ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. Te l'ho rimandato, lui, il mio cuore.
    Avrei voluto trattenerlo presso di me perché mi servisse in vece tua nelle catene che porto per il vangelo. Ma non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo. Forse per questo è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore.
    Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso. E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Lo scrivo di mio pugno, ìo, Paolo: pagherò io stesso. Per non dirti che anche tu mi sei debitore e proprio di te stesso! Sì, fratello! Che io possa ottenere da te questo favore nel Signore; da' questo sollievo al mio cuore in Cristo!».
    La lettera è commovente. A gente come' noi... fa specie però costatare che Paolo non dice a Filemone nulla a proposito di schiavitù. Non lo invita a rimettere in libertà né Onesimo né i suoi amici. Tratta Onesimo persino come una cosa che si desidera, che appartiene a qualcuno, che si può regalare.
    Questi modelli culturali ci fanno paura. Il Vangelo c'è diventato troppo familiare per rassegnarci a ragionare così. Per Paolo, come per la gente del suo tempo, invece, la cosa era pacifica. Faceva parte della cultura del tempo: quella «carne» in cui Dio si è fatto parola e volto, per diventare nostro signore e salvatore.
    C'è una novità, però, grande come l'abisso dell'amore. Senza mettere sotto questione la logica perversa della schiavitù, Paolo parla di sé, di Onesimo e di Filemone con una tenerezza che rende presente quella di Dio per noi.
    Questo è il bello dell'esperienza cristiana. L'incarnazione è sempre salvezza. Assumendo la nostra quotidiana carne, Dio ci fa passare da morte a vita.
    Per questo, l'amore di Dio, piantato nel cuore dei problemi, li scarnifica e ne fa esplodere tutte le contraddizioni. Un po' alla volta, i cristiani l'hanno capito e hanno lottato contro la schiavitù e contro le altre ragioni di discriminazioni culturali e sociali.
    E se provassimo anche noi a scrivere oggi qualche nuova lettera a Filemone... in questa stagione in cui molti dei modelli culturali in voga ci fanno una gran paura e non sappiamo dove sbattere il capo?


    GRAZIE, NICODEMO

    Nicodemo era un uomo colto e onesto. Non ne poteva più di quello che stava capitando e aspettava con ansia qualcuno che portasse un po' di pace, di tranquillità, di fiducia. Aveva sentito parlare molto bene di Gesù. Chissà che non sia proprio lui il profeta tanto atteso? A dir la verità, ci sperava anche un pochino: di Gesù gli avevano riferito gesti e parole che aprivano il cuore alla speranza.
    Nicodemo, però, preferiva muoversi sul sicuro. Era navigato e sapeva troppe cose per lasciarsi sedurre da qualche battuta ad effetto.
    Un giorno, prende il coraggio a quattro mani e decide il confronto. Cerca Gesù. Lo raggiunge. Lo prende da solo, con tutta la calma necessaria. E gli butta lì la domanda che, da giorni, gli bruciava dentro: «Maestro, tu fai delle cose meravigliose. La gente ti segue e si fida di te. Dimmi la verità: chi sei tu? Che cosa cerchi? Cosa sei venuto a fare?».
    Le sue domande erano sincere. Le parole uscivano tremanti dalle labbra, come quelle che scorgano direttamente dal cuore. «Nessuno può fare le cose meravigliose che fai tu, se non è mandato da Dio. Sei tu il profeta promesso da Dio per la salvezza d'Israele? È così... o mi sbaglio?».
    Gesù si accorge subito della sincerità di Nicodemo. Lo sente già dalla sua parte. Gli manca solo l'ultima spinta, quella decisiva, prima di rischiare tutto. Nicodemo la cercava con la trepidazione e la sofferenza interiore che ogni scelta di vita comporta.
    Se Gesù gli avesse detto un bel sì, tondo tondo, Nicodemo sarebbe partito sparato alla sua sequela.
    Gesù vuole scavare ancora. Ha trovato qualcuno, finalmente, con cui parlare dei segreti della sua esistenza. Non risponde direttamente: troppo comodo, anche per un tipo come Nicodemo. Lo provoca, invece, verso orizzonti più grandi.
    Non gli dice né chi è né tanto meno cosa è venuto a fare. Dichiara, brusco, che per capirlo bene bisogna «nascere di nuovo».
    Il povero Nicodemo va in crisi. «Nascere di nuovo... Gesù, stai scherzando. Sono vecchio ormai... spiegami come posso pretendere di entrare di nuovo in mia madre...».
    Realista com'era, Nicodemo sperava nella correzione di rotta. «Dai, Nicodemo, si fa per dire... Non prendermi sul serio. Qualche battuta all'inizio del discorso serve a rompere il ghiaccio e a diventare amici... Adesso parliamo sul serio: cosa vuoi sapere di me?». Se Gesù gli avesse detto cose simili, Nicodemo sarebbe stato pronto a sorridere: «D'accordo... sei un bel tipo. Dimmi, allora, chi sei davvero?».
    Invece, Gesù non ritira nulla. Anzi, insiste e approfondisce la sua posizione. Rilancia l'invito provocante a «rinascere». Ma spiega che la faccenda non è di tipo fisico; riguarda la mentalità. Va cambiata la testa e il cuore. Solo chi è disposto a cambiare modo di pensare può comprendere il progetto di Dio, che Gesù ha intenzione di svelare a Nicodemo. Le cose che sta per dire sono di quelle che lasciano il segno; non si può lesinare sulle condizioni.
    A Gesù va simpatico Nicodemo. Ha capito di che razza è questo bravo israelita, amante di Dio, fedele osservante della Legge, capace di rischiare sulle cose che contano veramente.
    Non cerca neppure di verificare se sia disponibile a cambiare testa e cuore. Ne è sicuro. Nicodemo è venuto per questo. Non ha incontrato Gesù per curiosità intellettuale. Non gli ha fatto la domanda subdola, per metterlo alla prova, come avevano l'abitudine di fare i suoi colleghi. Nicodemo cerca Gesù per un'intensa domanda di vita.
    Gesù non risponde come fa di solito chi vuole assicurarsi dei fans. Per dire chi è lui e cosa è venuto a fare, rivela chi è Dio e qual è il suo progetto su di noi.
    Prima ragiona con lui sul terreno comune: quello della Legge e dei Profeti, in cui Nicodemo era versatissimo.
    Poi, all'improvviso, come una folata di vento che butta all'aria tutto quello che avevamo organizzato in bell'ordine sul nostro tavolo di lavoro, Gesù va al centro della questione. «Vuoi sapere chi sono io? Che cosa sono venuto a fare? Ti accontento subito. L'ho costatato: hai un cuore nuovo e mi puoi capire».
    Ecco la riposta di Gesù, riportata alla lettera dal Vangelo di Giovanni: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio perché chi crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17).
    Aveva ragione di chiedere a Nicodemo un cambio deciso di prospettiva. Con il cuore vecchio, quello radicato nei pregiudizi e pieno di paure, non possiamo capire assolutamente la presentazione che Gesù fa di sé.
    Il mondo che Dio ama siamo noi e sono tutti gli uomini.
    Dio ama la nostra vita, ce la vuole restituire piena e abbondante (Gv 10,10). Per realizzare questo progetto, si è messo lui stesso in cerca dell'uomo. Si è fatto dei nostri, solidale con noi pienamente e totalmente. Questa è la grande, insperata «bella notizia» che Gesù rivela a Nicodemo e, attraverso lui, a tutti noi.
    Nicodemo, i suoi amici e almeno un pochino anche noi siamo abituati a dividere in buoni e cattivi e a condannare, sparati, i cattivi per far risaltare meglio i buoni. Ci dispiace scoprire che l'acqua che piove dal cielo e il sole che riscalda la terra cadono, con la stessa intensità, sui buoni e sui cattivi. Vorremmo un po' più di ordine e di giustizia distributiva. Altrimenti, in una confusione com'è questa, che mette tutto sullo stesso piano, non vale proprio la spesa cercare di essere bravi e buoni...
    E poi... non bisogna tirare fuori la scusa che non è facile distinguere i buoni dai cattivi. Nicodemo e gli ebrei osservanti non avevano nessun dubbio al riguardo. I buoni erano loro... i bravi ebrei osservanti. I cattivi erano tutti gli altri, senza ombra d'incertezza. Dio sa distinguere bene. Persino nella lingua utilizzata per la preghiera e nel taglio dei soldi offerti al tempio in elemosina, Dio sa separare e distinguere.
    Gesù arriva, bel bello, a dire il contrario. La sua parola è dura. Va contro tutto quello che sembrava pacifico...
    Dio vuole la vita di tutti. Volere la vita dei cattivi? Vanno condannati, puniti, emarginati... altro che restituiti alla vita.
    Dio ama tutti e non distingue nel suo amore tra buoni e cattivi. Il suo amore non è però rassegnato. Non gli vanno bene le cose come stanno. Sa che tutti siamo pieni di morte, anche quando facciamo finta di non accorgercene. L'amore di Dio è esigente e liberante. Ama tutti e restituisce a tutti la vita. L'amore è la condizione per far passare da morte a vita. Chi sta tornando alla vita, può essere amato incondizionatamente.
    Dio non chiude un occhio di fronte al peccato, al tradimento, al male. Ama il lebbroso e lo riporta ad una salute insperata. Ama la povera prostituta e le restituisce la dignità di un'esistenza rinnovata. Ama persino Pietro dopo il suo terribile tradimento e gli riconsegna tutta la responsabilità che gli aveva affidato.
    Per questo Dio ama i buoni e i cattivi e vuole la vita piena e abbondante per tutti. Gesù è venuto a realizzare questa impresa, quasi disperata. Solo chi ha il cuore e la testa nuova può scoprirlo, senza gridare allo scandalo.
    Veramente, la storia di Nicodemo è una di quelle da mettere all'inizio di ogni ricerca sulla vita cristiana.
    Grazie, Nicodemo.


    IN COMPAGNIA AL SERVIZIO DELLA VITA

    Questa è la storia di due discepoli che, per nostra fortuna, avevano capito poco dello stile di Gesù. All'inizio, sbagliano tutto e si prendono una sgridata solenne. Alla fine, però, ci consegnano, in modo inequivocabile, il parere di Gesù sullo stile con cui metterci, nel suo nome, al servizio della vita.
    Le cose sono andate... più o meno così.
    Gesù aveva insegnato ai suoi discepoli tutto quello che gli stava a cuore. Se li era portati dietro in un mucchio di situazioni speciali. Aveva commentato solo per loro alcuni dei discorsi più impegnativi. Li aveva trascinati lontano dalle folle che toglievano il respiro, per dare a loro il tempo di pensare e di pregare.
    Adesso li lascia camminare un poco con le loro gambe.
    Li manda in giro, a due a due. L'invito è preciso: «Guardatevi d'attorno e fate qualcosa. C'è un gran bisogno di qualcuno che dia una mano a chi soffre, che restituisca un briciolo di speranza a chi soffoca nella tristezza della disperazione. Annunciate con coraggio che il regno dei cieli è vicino... Guarite gli ammalati e fate del bene a tutti».
    Poi, dopo una pausa: «Coraggio... partite. Ci ritroviamo qui tra qualche giorno. Condivideremo assieme l'esperienza che avete vissuto. L'avventura di uno sarà dono per l'altro. Vi accompagno con la mia benedizione».
    «Tu che fai nel frattempo?», chiede qualcuno. «Mi ritiro un po' a pregare», conclude Gesù.
    Partono verso i villaggi della zona.
    Sentono la responsabilità della solitudine e della decisione. Li conforta la presenza incoraggiante del maestro.
    Il Vangelo racconta indirettamente la storia di due di questi discepoli, perché a loro ne è capitata una di speciale.
    Sono arrivati nella piazza principale di un piccolo paese delle vicinanze. Si guardano d'attorno, con quella curiosità cui li aveva educati Gesù. Notano subito uno strano crocchio di persone. Si avvicinano, mescolandosi alla folla.
    Nel mezzo c'è uno sconosciuto; vicino a lui due o tre malati su poveri giacigli. Lo sconosciuto prega. Poi impone le mani. Gli ammalati balzano in piedi, guariti.
    La gente applaude. I parenti ringraziano calorosamente. Poi, uno dopo l'altro, se ne vanno tutti.
    Restano soli, nella piazza deserta, i due discepoli e lo sconosciuto guaritore.
    Un'occhiata d'intesa e poi si avvicinano. Lo salutano. A bruciapelo gli chiedono: «Tu guarisci la gente? In nome di chi lo fai? Hai sentito qualche volta parlare di Gesù di Nazareth?».
    Assalito da queste domande, lo sconosciuto risponde, con calma: «Io guarisco la gente... punto e basta. Gesù di Nazareth... mai sentito. Chi è? Un concorrente? Non ho bisogno di nessuna raccomandazione speciale. Prego, impongo le mani e la gente guarisce. Mi sembra di fare un favore a chi soffre. E sono contento. Ringrazio Dio di questo dono... Ma a voi... che interessa tutto questo?».
    «La cosa ci riguarda... eccome. Tu non ci conosci. Noi siamo discepoli di quel Gesù che tu dici di non conoscere. Anche lui guarisce. Ne ha il diritto. È inviato da Dio per questo». Insistono, con un tono che sembra conclusivo: «Vedi: puoi scegliere. O diventi anche tu discepolo di Gesù e continui a guarire nel suo nome. O la pianti di guarire la gente. È proibito... chiaro? Non ci piacciono i liberi battitori».
    Ai due discepoli basta aver detto le cose chiaramente. Se ne vanno, soddisfatti. Non si preoccupano di sapere se il tipo li ha presi sul serio o se invece ha continuato per la sua strada. Il loro dovere l'hanno fatto. Hanno messo ordine e chiesto di scegliere.
    Sono contenti. Possono riferire a Gesù qualcosa di riuscito. Gesù sarà felice di loro. Povero Gesù, qualche consolazione se la merita davvero...
    L'avventura finisce così.
    Tornano. Prima dell'incontro con Gesù, scambiano quattro chiacchiere con i colleghi. Li trovano scoraggiati e delusi. Hanno davvero poco da raccontare a Gesù.
    Concludono assieme: «Per fortuna che avete voi qualcosa da dire. Per favore... fateci fare bella figura».
    Finalmente Gesù convoca i discepoli, ritornati dal tirocinio. Qualche battuta, un po' di festa... e poi al dunque. «Allora... come è andata?», chiede Gesù.
    Le prime risposte sono deludenti. «Poco o niente». Tutto di routine.
    «E voi due... che mi dite?».
    «Ah, Gesù... siamo contenti. Ce n'è capitata proprio una di eccezionale. Te la raccontiamo... vedrai che qualche consolazione almeno noi te la diamo».
    E raccontano: «Abbiamo incontrato un tipo che guariva gli ammalati. Era bravissimo... quasi come fai tu, quando la folla ti chiede aiuto. C'era molta gente. Non c'erano imbrogli, te l'assicuriamo».
    Una piccola pausa per prendere il fiato e creare meglio l'attesa.
    «Finito tutto, gli abbiamo chiesto se ti conosceva... se aveva imparato da te... o, almeno, se faceva queste belle cose nel tuo nome». Altra pausa. «Ha risposto di no... e anche con un tono che non ci piaceva per nulla».
    «E voi?»: Gesù ha fretta di arrivare alla conclusione. Ha paura che lo zelo geloso dei suoi discepoli abbia rovinato tutto. «Voi... cosa avete fatto?». «Beh, Gesù, la cosa più evidente. Gli abbiamo ordinato di smettere di guarire la gente. Poteva scegliere di venire con noi e diventare tuo discepolo. Non ha voluto. Allora, gli abbiamo detto: basta guarire la gente. Questo lo facciamo già noi».
    Si aspettano un «bravi»: l'applauso della promozione.
    Gesù la pensa esattamente al contrario. Li rimprovera, con una decisione insolita. «Non avete proprio capito nulla. I vostri schemi mentali sono terribili. La gente non si divide tra chi mi conosce e chi non mi conosce. Fanno così gli altri maestri... ma io non sono così.
    A me sta a cuore la vita di tutti. Questa è la mia causa: la passione che riempie la mia vita e dovrebbe riempire quella dei miei discepoli. Altro che proibire... dovevate congratularvi con lui.
    Insomma... lo vogliamo capire che chi sta dalla parte della vita, sta dalla mia parte, anche se non mi conosce?».
    La causa della vita è tanto impegnativa che cerca compagnia. Sulla vita si sceglie, non sulle etichette o sulle formule. Il confine passa tra chi vuole la vita e chi invece sta dalla parte della morte.
    I discepoli di colui che ha fatto del servizio alla vita la «perla preziosa», per conquistare la quale si dichiarano disposti a perdere tutto il resto, sono persone di grande compagnia.2


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    A cura del MGS


     

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