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    Due parole come guida all'uso (Introduzione a: Trenta storie)


    Riccardo Tonelli, TRENTA STORIE da meditare e raccontare per un progetto di pastorale, Elledici 1999


     

    Da anni m'interesso di temi di pastorale e di pastorale giovanile. Ho scritto anche qualche pagina sui «progetti», indicando esigenze, modelli, interventi. L'ho sempre fatto con quello stile serio, che è in uso tra gli addetti ai lavori. Questa volta, la metodologia scelta per offrire un contributo alla ricerca e allo studio, appare insolita e abbastanza strana: il racconto di qualche storia.
    Fare progetti, anche in ambito di pastorale, è un'impresa che richiede fatica e competenza. Lo sanno bene tutti coloro che ci hanno provato. La via argomentativa sembra, di conseguenza, quella più adatta per dare una mano. Perché un cambio di prospettiva tanto brusco?
    Devo spiegare la ragione della mia scelta e giustificare la logica che la percorre. La chiarificazione è un atto dovuto al lettore cui chiedo disponibilità consapevole e critica. Inoltre, serve a rilanciare la prospettiva che orienta tutta la mia proposta.

    Un progetto... raccontando storie?

    In una stagione di crisi dei riferimenti sicuri, la decisione di fare proposte raccontando storie non vuole rappresentare un ingresso, rassegnato e rinunciatario, nel conflitto delle interpretazioni. Quando c'è di mezzo la vita e la speranza, l'ipotesi mi sembra un pericoloso e ingiustificato abbandono. Al contrario, sono convinto che la via narrativa possa rappresentare un modo corretto di difendere quelle esigenze che vogliamo assicurare. Lo so che non tutti sono d'accordo sull'ipotesi. Senza entrare eccessivamente nel merito della questione [1], spendo su questo tema la prima precisazione.

    Per favorire responsabilità e fantasia

    Per apprendere il funzionamento di un software il metodo più sicuro, l'unico veramente serio, è la lettura attenta del manuale d'uso, per assimilare le logiche di chi l'ha programmato. Infatti, dove tutto è preciso e definito, l'unica strada praticabile è quella che porta a dichiarare, chiaro e tondo, cosa fare e cosa evitare. In gergo, questo modo di fare proposte si chiama «denotativo». La dichiarazione denota, senza incertezze, ciò che è proposto.
    Chi, invece, offre il contributo della sua esperienza e competenza, per chiamare a libertà e a responsabilità, verso un progetto che sta oltre a quello che già possediamo, deve scegliere una via capace di assicurare, nello stesso tempo, l'incontro con tutte le informazioni necessarie, la consapevolezza del loro limite e della loro provvisorietà, la concretezza della propria esistenza e di quella dei tanti che sono in causa. In questo caso, il modello «denotativo» (quello sicuro dei programmatori di computer) non serve davvero. Non è né giustificato né praticabile. Va cercato qualcosa di diverso.
    In questi anni, molti hanno riscoperto nei modelli «narrativi» un modo di fare proposte, capace di fornire tutte le informazioni di cui c'è bisogno per raggiungere un obiettivo preciso, nel rispetto e nel sostegno della responsabilità e creatività d'ogni persona. Anche questo modello comunicativo diffonde informazioni; privilegia però una logica assai differente, quella «evocativa».
    La diversità non è di poco conto. Un esempio può aiutare a mostrarlo con una certa chiarezza.
    Chi cerca un libro in una grande biblioteca, può lavorare sullo schedario o può ottenere l'autorizzazione di entrare nella sala-deposito. Lavorando nello schedario, rintraccia la scheda di collocazione del libro desiderato. Essa comunica informazioni preziose per trovare il libro. Non ha ancora il libro tra le mani. Ma è in grado di arrivare sicuramente ad esso. In questo caso, il rapporto tra la scheda e il libro è molto stretto e ben determinato.
    Chi invece entra nella sala-deposito, si muove con alcune informazioni generali. Conosce la pianta della biblioteca e conosce la logica di sistemazione dei libri. Forse sa anche in quale scaffale è collocato il libro desiderato. Cercandolo, s'imbatte in altri libri. Li consulta frettolosamente. Può arrivare a concludere che ce ne sono di più aggiornati rispetto a quello richiesto o, al contrario, si convince che la scelta fatta era proprio la migliore possibile. L'informazione, in questo caso, conduce al libro senza la precisione della scheda di collocazione, ma rendendo possibile un confronto diretto con altri libri: la via è quella dell'evocazione.
    Nel modello denotativo il libro è raggiunto attraverso la proposta dei riferimenti necessari per individuarlo tra le altre centinaia di migliaia, conservati nella biblioteca. La mediazione della scheda è indispensabile. Essa poi esige informazioni precise, chiare, ben determinate, identiche tutte le volte che ricorre nello schedario. La scheda informa in modo denotativo rispetto al libro. Nel modello evocativo le informazioni (quelle che suggeriscono il percorso per arrivare allo scaffale in cui è collocato il libro, orientando nel labirinto della sala-deposito) sono un sostegno alla libertà e responsabilità personale. Senza di esse, il libro resterebbe introvabile. Esse però non si sostituiscono al lettore. Servono ad organizzare la sua ricerca, ne assicurano l'esito, scatenando creatività, competenza e fantasia.
    Fuori metafora, fare progetti è un modo molto preciso e impegnativo di servire la vita e sostenere la speranza. Chi vuole aiutare a progettare bene, non può, di certo, sostituirsi al lettore. Qualche informazione va però lanciata sul terreno della ricerca: non può essere affidata al caso un'operazione sulla cui realizzazione convergono moltissime attese e risorse. Il modello narrativo, che preferisce una proposta d'informazioni in stile evocativo, rappresenta lo strumento adeguato. Per questo ho scelto la via della narrazione di storie particolari per dare una mano a chi deve fare progetti pastorali.

    Un racconto «terapeutico»

    Queste note aprono verso un secondo rilievo che considero egualmente molto importante per giustificare la scelta di modelli narrativi.
    Spesso, i testi che parlano della narrazione e della sua funzione di promozione della vita e della speranza, citano un racconto che proviene dalla letteratura chassidica.
    Ecco il racconto: «Si pregò un rabbi, il cui nonno era stato alla scuola di Baalschem, di raccontare una storia. Una storia, egli disse, la si deve narrare in modo che possa essere d'aiuto. E raccontò: Mio nonno era paralitico. Un giorno gli si chiese di narrare una storia del suo maestro. Ed allora prese a raccontare come il santo Baalschem, quando pregava, saltellasse e ballasse. Mio nonno si alzò in piedi e raccontò. Ma la storia lo trasportava talmente che doveva anche mostrare come il maestro facesse, cantando e ballando lui pure. E così, dopo un'ora, era guarito. È questo il modo di raccontare storie».[2]
    Il racconto del rabbino ha una capacità terapeutica formidabile. Restituisce al povero paralitico la padronanza piena delle sue gambe, fino a renderlo capace di saltare e ballare. Si tratta di un caso anomalo o, invece, potrebbe rappresentare la funzione normale d'ogni buon racconto? Certamente non è facile rispondere in modo affermativo quando ci si trova di fronte a situazioni di malattia fisica. Può rappresentare invece un modello abbastanza normale, quando le ragioni del disagio sono interiori, legate ad una disfunzione che si annida nei recessi più intimi dell'esistenza personale. Il racconto, infatti, assicura una grande esperienza d'ospitalità... e la percezione di essere accolti incondizionatamente produce spesso trasformazione interiore.
    Chi fa proposte, lanciando informazioni, è tentato facilmente di imporsi al suo interlocutore. Spesso, lo mette in crisi con un lungo elenco d'esigenze da rispettare o con il peso delle espressioni tecniche. La cosa non ci spaventa ormai più di tanto, perché abbiamo imparato a difenderci da queste intrusioni. Non ci facciamo eccessivo caso o le raccogliamo come una delle tante voci, cui lasciamo il diritto di parlare solo se accettano di proporre cose che non contano. Anche in questo caso, però, l'esito è triste, perché restiamo prigionieri della situazione da cui, invece, dovremmo uscire. Possiamo immaginare un modo di fare proposte che sia capace di sollecitare verso una reale trasformazione, facendo, nello stesso tempo, sperimentare un'intensa accoglienza?
    Il racconto invita a confrontarsi con la verità e con le sue esigenze. La sostiene. La difende. La propone. Lo fa con quell'indice alto d'autorevolezza che è richiesto in chi inizia il processo. Si tratta, infatti, di spingere a superare il già acquisito per immettere in modo personale nel mondo dell'inedito. La parola, esigente e inquietante, non è pronunciata però in modo duro, sicuro, autoritario, solo a partire dalla pretesa che le cose dette sono «vere». Chi fa proposte narrando storie, sollecita al cambiamento interiore, facendo sperimentare, nel racconto stesso, la situazione nuova verso cui siamo spinti.
    La narrazione autentica è, infatti, una forma avanzata d'ospitalità. L'ospitalità, suscitata e sperimentata nello stile della comunicazione, «interpreta» i contenuti fatti circolare, li rende espressivi e veri. Essa non è un tentativo di appiattire le differenze o di banalizzare le responsabilità. Produce situazioni positive nuove, restituendo la persona alla coscienza gioiosa della sua dignità.

    Trenta storie

    La seconda precisazione riguarda le «storie»: la loro qualità e, indirettamente, lo strano modo di raggiungere il numero «trenta».
    Chi scorre l'indice e si mette a contare le storie, ne trova solo ventisette. Il titolo del libro ne promette invece trenta. I conti non tornano. Qualche lettore, di palato facile, non si pone eccessivi problemi. Sa che «trenta storie» potrebbe voler dire «un certo numero»: più di dieci e un poco meno di cento. Ma non è così. Nel libro «trenta storie» vuol dire proprio trenta, non una di più né una di meno, ma secondo una somma non del tutto ortodossa. Il numero trenta si raggiunge, infatti, attraverso un conteggio speciale: 30 = 27 + 3.
    Ventisette storie sono raccontate. Le tre che mancano, attraversano le altre come una specie di filigrana. Raccontate nella trama delle altre, sono tanto importanti da dare il significato a tutto il progetto.
    La scelta del «racconto» come modo di fare proposte, e del racconto di «storie» (in altre parole, di pezzi di vissuto), come oggetto del racconto, non solo costringe a mettere la vita al centro dello scambio informativo, ma lo fa in un coinvolgimento originale. Il racconto intreccia, infatti, tre dati: le esigenze della vita, le esperienze del narratore, le attese, le delusioni e le speranze degli interlocutori. Ogni storia, raccontata bene per la vita e la speranza, è, sempre, una specie di sintesi di tre differenti storie.
    Come ho appena ricordato, chi fa proposte per aiutare a vivere e per consolidare la speranza, non può mettere sotto silenzio esigenze che stanno molto oltre le nostre soggettività, anche se tutto questo rimbalza addosso a chi parla come qualcosa d'inquietante e provocante. Il narratore non riesce però a parlare come se lui non c'entrasse e fosse ormai sopra della mischia. La vita è un'avventura di solidarietà profonda e continua: solo accogliendo questo coinvolgimento, inquietante e rassicurante nello stesso tempo, egli riesce a conquistare l'autorevolezza di cui ha bisogno per pronunciare parole esigenti.
    Coloro cui è rivolto il racconto, non sono i destinatari passivi della proposta, spinti a comunicare solo per motivi di convenzione o di costrizione. Sono raccontati nello svolgimento del racconto, proprio perché esso riguarda la vita e le sue esigenze. In fondo, in ogni buon racconto, si parla di loro in prima persona, delle loro attese e dei loro progetti, anche quando è raccontato qualcosa che riguarda uomini e donne sprofondati in tempi lontani.
    Ecco, allora, le tre storie che mancano alla somma finale di trenta: ventisette sono raccontate; tre sono intrecciate in ciascuna di quelle raccontate.
    Nel libro, le storie, che formano la filigrana nascosta delle altre, sono evidenti: la storia di Gesù di Nazareth e della fede che ha suscitato nei suoi discepoli; l'esperienza, le attese, le delusioni, i sogni e le speranze mie e degli amici miei con cui da anni condivido la ricerca di gesti e parole nuove, per far risuonare ancora il Vangelo come bella notizia per la vita e la speranza; il vissuto delle tantissime persone che, con una passione mai spenta, si arrabattano nell'avventura affascinante di servire, nell'unica grande passione della comunità ecclesiale, il cammino della vita nel nome di Gesù.
    Della prima storia (quella di Gesù e dei suoi discepoli) è chiara la presenza: si parla sempre e continuamente di lui. Infatti, le storie sono, quasi tutte, pagine del Vangelo, almeno indirettamente. Non potevo fare in modo diverso, poiché stiamo cercando indicazioni su come continuare oggi la realizzazione del progetto di Gesù.
    Della seconda storia (la mia)... devo scusare una presenza forse eccessivamente invadente. Non potevo però raccontare il Vangelo senza raccontare un pezzo della mia vita.
    Sulla presenza della terza (quella dei lettori) ci spero proprio... altrimenti avrei buttato al vento una fatica non piccola.

    Quale «strumento» per fare progetti?

    L'ultima precisazione riguarda il significato dello strumento offerto. Come possono essere utilizzate le storie «per» fare progetti di pastorale?
    Ogni lettore è sollecitato a dare la sua risposta. Anch'io ho la mia. Prima di suggerirla, sento il dovere di dichiarare una perplessità.
    Spesso, conversando su temi di pastorale e pastorale giovanile, racconto storie come quelle raccolte in questo libro. Lo faccio per le convinzioni che ho appena dichiarato. Varie volte, qualche amico mi ha fatto la gentile proposta di pubblicarle in uno scritto. Per molto tempo ho resistito: sono convinto che le storie sono fatte per essere raccontate a viva voce. Solo nel racconto è possibile restituire all'evento raccontato la vivacità che nasce dalla partecipazione di chi racconta e dal tentativo di coinvolgere anche coloro cui il racconto è offerto. Un testo scritto diventa, per forza di cose, una specie di concentrazione di tutto questo, una volta per sempre. Se i racconti riguardano testi dotati di un'autorevolezza speciale (come sono, per esempio, quelli che fanno da riferimento a queste storie) è davvero inutile sostituirli con qualcosa di molto discutibile e nemmeno ha senso aggiungere particolari inutili e pretestuosi. Ho ceduto alle pressioni, dopo aver constatato il gradimento che aveva suscitato la pubblicazione di alcune di queste storie sulla rivista Note di pastorale giovanile.
    Ho dichiarato questa perplessità perché mi serve per dire il significato e il limite dello strumento offerto e, soprattutto, per rilevare alcune precise condizioni che lo possono rendere un poco funzionale.

    Storie da meditare

    Le storie raccontate in questo libro sono il frutto di una lunga meditazione sui testi scritturistici citati, almeno indirettamente. Lo ricordo perché su questa constatazione si fonda la prima indicazione relativa al significato della proposta.
    Chi medita pagine cui riconosce una funzione normativa per la propria esistenza, non si limita al tentativo (importante e pregiudiziale, del resto) di comprenderne il senso, ma va molto oltre. Rilegge il suo vissuto alla luce dei documenti meditati e considera le esperienze con cui è a quotidiano contatto, per comprendere meglio il documento e la sua stessa esistenza. Anche in questo caso, vale la constatazione di storie costruite nell'intreccio di tre differenti storie. Meditando il Vangelo, il ricordo di chi è impegnato nell'evangelizzazione, corre spontaneo verso i compiti pastorali. Meditando, nascono suggerimenti per nuovi progetti.
    Confesso che spesso, in questo confronto, mi sono un poco rappacificato con la mia esperienza, dopo aver scoperto l'imprevedibile capacità di ospitalità del Vangelo, e, nello stesso tempo, mi sono trovato fortemente inquietato per i facili fraintendimenti (personali e collettivi) con cui, ogni tanto, sono tradite le esigenze evangeliche.
    Così sono nate le storie che questo libro racconta. Con questa intenzione le offro al lettore. L'invito è a meditarle, correndo continuamente dalla storia evangelica che le ha ispirate alla storia personale. La mia e quella degli amici, di cui sono piene le storie raccontate, vogliono solo suggerire una esigenza e aiutarne la realizzazione.

    Storie da raccontare

    Dalla meditazione personale nasce, di sicuro, la voglia di raccontare ad altri quello che è stato sperimentato e scoperto, allungando la catena dei narratori. Certamente, però, le storie non possono essere raccontate, leggendo, quasi alla lettera, i testi offerti da queste pagine. Per raccontare è indispensabile restituire al testo scritto la sua struttura originaria di racconto.
    I metodi sono molti.
    Se il racconto è destinato ad un lettore, se lo può meditare e riscrivere a piacimento, per cogliere quei particolari che gli sono sembrati più interessanti ed integrarli con altri, verso una specie di nuovo racconto personale. Qualcuna di queste storie potrà essere poi raccontata ad altri, arricchita dei contributi personali.
    Quando il racconto è destinato ad un piccolo gruppo, impegnato in momenti formativi, la storia potrà essere prima letta, poi meditata e riattualizzata attraverso il contributo di tutti.
    Le storie raccontate in questo libro dovrebbero, soprattutto, servire a far venire la voglia di continuare a raccontare «per aiutare a vivere».
    Molti di noi hanno imparato a raccontare storie proprio su questo tirocinio. I racconti proposti dal libro possono essere analizzati e smontati a piacimento, per ritrovare alcune esigenze di una corretta narrazione. Alcuni suggerimenti emergono dalle scelte linguistiche perseguite. Moltissimi altri fioriscono sugli abbondantissimi limiti di cui sono carichi i racconti.[3]

    Da un'utilizzazione «responsoriale» ad una «ermeneutica»

    Per indicare la terza condizione ho usato un titolo sibillino. Mi spiego subito.
    Fa un'operazione «responsoriale» chi sceglie da un repertorio prefabbricato ciò che può servire a rispondere a precisi problemi. Si muove in uno stile «ermeneutico» chi cerca di riattualizzare ciò che è proposto, operando un discernimento tra ciò che è ùermanente (una specie di «nocciolo duro» che pone esigenze perenni) e ciò che invece è legato a situazioni culturali particolari. Su questa precisazione, avanzo la mia proposta.
    Nelle storie raccontate al centro, come riferimento normativo, stanno pagine del testo biblico (del Vangelo soprattutto). Queste pagine sono selezionate. Perché queste e non altre e perché un'enfasi su certi particolari e non altri? La risposta nasce immediata da quello che ho dichiarato poco sopra: nella storia raccontata è presente, prepotente, la mia storia personale e la mia sensibilità teologica e pastorale.
    Ma c'è di più. La presenza del narratore non influenza solo la scelta dei particolari. Molte storie contengono un raccordo di brani evangelici che non corrisponde alla cronologia del testo biblico. Ho fatto una specie di «sinossi teologica», collegando episodi, consigli, indicazioni diffuse nel testo secondo una diversa struttura spazio-temporale. Anche questo fa parte della mia storia, la seconda delle tre storie narrate nell'unica storia.[4]
    Con quali criteri ho fatto questa doppia selezione? Lo devo dichiarare, perché voglio raccomandare un uso delle storie che ne continui l'origine.
    La lunga frequentazione di amici impegnati nella quotidiana fatica pastorale mi ha aiutato a cogliere problemi e attese, preoccupazioni e prospettive. Con queste «provocazioni» ho meditato l'esperienza fondante di ogni progetto di evangelizzazione. Ho provato a raccontare momenti di quest'esperienza per mostrare come tutto questo può essere affrontato e risolto anche oggi. Non ho fatto una lettura «responsoriale» del testo evangelico, ma una lettura «ermeneutica»: l'ho pensato e meditato dalla prospettiva di quello che oggi avvertiamo particolarmente urgente.
    Come utilizzare le storie per fare progetti? La risposta è evidente, dopo la premessa: ricostruendo la trama con cui sono state scritte. Si tratta, in altre parole, di leggere tra le righe delle storie, per cogliere problemi e prospettive di oggi, meditare il Vangelo su queste provocazioni e cercare soluzioni che siano fedeli all'oggi in una radicale fedeltà all'evento fondante.
    La via narrativa è preziosa per realizzare tutto questo in modo sapiente e corretto. Il racconto stimola, sollecita, mette in crisi... in modo buono: come due braccia che stringono in un gesto di amore incondizionato e costringono a cambiare stile di vita anche chi non ne ha proprio nessuna voglia. Questo è l'esito che spero anche per le mie storie. Le ho raccontate, infatti, solo per restituire l'esperienza dell'abbraccio accogliente di Dio che Gesù ha fatto toccare con mano a tutti coloro che l'hanno avvicinato e per far nascere, nello stesso tempo, un desiderio inquietante di conversione radicale a tutte le esigenze della vita e della speranza.
    Lo so che la pretesa non è piccola. Proviamoci assieme. Qualche risultato, nella direzione sperata, lo posso persino documentare.

    25 dicembre 1997


    NOTE

    1 Rimando il lettore interessato alle pubblicazioni specifiche: TONELLI R. -GALLO A.L. - PoLLo M., Narrare per aiutare a vivere. Narrazione e pastorale giovanile, LDC, Leumann 1992 (contiene un'ampia bibliografia); POLLO M. - TONELLI R., È possibile educare narrando?, in «Note di pastorale giovanile» 31 (1997) 6 (contiene bibliografia sull'uso educativo della narrazione).
    2 BUBER M., Prefazione a I racconti di Chassidim, Garzanti, Milano 1979, 3-4.
    3 Per aiutare in questa ricerca, ricordo qualche raccomandazione di sintassi narrativa.
    Alcune riguardano la persona del narratore:
    • il narratore è un testimone: racconta storie che l'hanno salvato e che gli sono state donate, lasciandosi coinvolgere intensamente in esse;
    • il narratore è «soltanto servo» della storia che racconta: la racconta anche per sé, la racconta anche se lo inquieta, la racconta preoccupato di porre l'evento raccontato prima della sua persona;
    • risulta costante la ricerca di «verità», anche se il narratore è preoccupato di una verità appassionata e significativa, per questo si prende la libertà di trasgredire una verità solo formale;
    • la narrazione di storie evangeliche è il dono della comunità ecclesiale agli uomini che cercano vita: il narratore vive una reale esperienza di Chiesa e ne accoglie gioiosamente tutte le conseguenze (non ha un suo messaggio da comunicare, cerca la condivisione e la compagnia, riconosce esigenze di contenuto che vengono da lontano, ama e accoglie la verità della fede ecclesiale...).
    Altre raccomandazioni sottolineano più esplicitamente alcune attenzioni importanti per far veramente spazio anche alla storia personale di coloro cui la narrazione è offerta:
    • la narrazione immagina il suo linguaggio, in rapporto ai destinatari concreti e in base al ritmo della narrazione stessa;
    • la forza del racconto sta nella sua capacità simbolica. Essa va ricercata, evitando con cura ciò che toglie al simbolo la sua forza evocativa (eccessivo realismo, incanalazione forzata verso significati precostituiti, conclusioni «chiuse» e pilotate...);
    • la narrazione «educa» coloro cui è offerta: li accoglie e li stimola, si misura con loro e li sollecita a procedere oltre verso un impegnativo processo di maturazione, sollecita e affascina evitando con cura ogni manipolazione;
    • la narrazione vuole restituire ogni persona a quello spazio di solitudine interiore dove risuona la voce dello Spirito e dove le persone prendono le decisioni rilevanti della loro esistenza.
    Una buona narrazione richiede la scelta accurata di cosa narrare:
    • la narrazione stessa è messaggio: sono scelti quei racconti che più facilmente possono diventare messaggio e sono narrati in modo da facilitare la loro interiorizzazione come messaggi;
    • il messaggio deve scaturire «naturalmente» dal racconto. Non ha assolutamente senso terminare il racconto con una sua spiegazione e interpretazione, per tirare la «conclusione»;
    • la narrazione non si riduce mai a spettacolo e soprattutto evita tutto quello che può risultare solo ad effetto;
    • la narrazione vuole evocare: per questo è lasciato aperto lo spazio per la forza dell'immaginazione, anche se essa è costantemente riportata, dalla struttura stessa del racconto, verso l'evento con cui vogliamo confrontarci;
    • va evitato tutto ciò che può risultare «distraente»: le eccessive e inutili ripetizioni, l'incontrollata abbondanza di particolari descrittivi che allontanano dal cuore del racconto...
    4 Non è questo il contesto adatto per difendere il diritto di un'operazione come questa. Mi sta a cuore solo dichiararla esplicitamente per le conseguenze di cui è carica.
    Per un approfondimento si veda: SCHILLEBEECKX E., Intelligenza della fede, Edizioni Paoline, Roma 1975.


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