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    Anche lo sport ha un'anima (cc. 1-12)


    Dalmazio Maggi, ANCHE LO SPORT HA UN'ANIMA. Riflessioni pedagogico-spirituali per operatori sportivi, Elledici 1998

     


    Introduzione

    PER UNA SPIRITUALITÀ DELLO SPORTIVO

    Il momento del gioco e dello sport ha sempre fatto parte della vita dell'uomo di ogni età e condizione sociale, soprattutto di quella dei piccoli, dei ragazzi e dei giovani.
    In epoche passate veniva visto e vissuto come un intervallo che si inseriva tra i momenti lunghi e impegnativi di studio e di lavoro. Si parlava di ricreazione come tempo per scaricare le tensioni accumulate: un tempo, in genere, breve e in funzione del rendimento e del profitto.
    I tempi importanti per la vita erano quindi quelli dedicati ai doveri del proprio stato: allo studio e al lavoro; quelli dedicati al gioco, al divertimento, alla ricreazione non erano molto considerati, se non in termini funzionali ad altri obiettivi.
    Oggi si è più impegnati a far sì che ogni persona, piccola o grande, si sviluppi non solo nelle sue dimensioni intellettuale, affettiva, sociale e spirituale, ma anche nella dimensione psicofisica, perché la corporeità è la mediazione per esprimere e comunicare l'armonia con se stessi con gli altri, con le cose e, quindi, con il Signore della vita.
    Per questo tutti i momenti della vita sono importanti e necessari, anche quelli del gioco e dello sport, e vanno curati come gli altri tempi dedicati allo studio e al lavoro, al dialogo e al confronto.
    Suggestivo è allora il richiamo di McLuhan, che dice: «Vedete come gioca una generazione oggi e forse vi troverete il codice della sua cultura».
    Ci interessa «come» si pensa ai momenti di gioco e di sport, «come» si propongono e «come» si animano, per far sì che siano momenti che esprimano il meglio della propria cultura e dei propri valori.
    Come tutti i fenomeni umani, anche il gioco e lo sport esprimono tendenze di segno positivo: esaltazione della corporeità, come luogo di relazione con se stessi, con l'altro, con il mondo e, quindi, con Dio; il desiderio di vincere e di migliorare il proprio rendimento, il senso della vita insieme, la gioia di vivere e la festa come espressione di partecipazione e di coinvolgimento.
    Ma ci sono anche le contro-tendenze, quelle negative: la strumentalizzazione del corpo, la competitività, l'agonismo e lo sforzo vissuti «contro» l'altro, la pressione del «mercato», che porta alla spersonalizzazione e alla massificazione, al rendimento e al profitto soltanto.
    Queste pagine sono pensate e proposte perché coloro che si interessano di gioco e di sport per sé e per gli altri, soprattutto per i più piccoli, mettano continuamente in discussione il modo di pensare, di parlare e di proporre il gioco e lo sport, e acquisiscano una modalità nuova per animarli. Il che vuol dire «avere un'anima», cioè un ideale da raggiungere; «metterci l'anima», cioè creatività e fantasia da trasmettere; «dare l'anima», cioè una passione che è coraggio di proposta.
    Ci guidano due convinzioni.
    «L'educatore deve avere la chiara percezione del fine, per cui opera, poiché nell'arte educativa i fini esercitano una funzione determinante. Una loro visione incompleta o erronea, oppure la loro dimenticanza, è anche causa di unilateralità e di deviazione, oltre che segno di incompetenza» (Giovanni Paolo II).
    «Anche le prospettive più elevate e i messaggi più nobili restano infatti lettera morta, se non trovano persone che, con adeguata preparazione, nutrita di esperienza e di sapienza, e soprattutto con vero amore, intensa dedizione e autentico spirito di servizio, sappiano tradurli in pratica quotidiana di vita» (Sport e vita cristiana 51).1


    1. IL CORTILE, LUOGO IN CUI FARE UNA ESPERIENZA DI VITA

    Perché ci si interessa del gioco, dello sport, del cortile?

    Da alcuni anni la comunità credente si interessa del gioco e dello sport. La Chiesa in Italia ha voluto esprimersi con una nota pastorale dal titolo «Sport e vita cristiana». Perché?
    La risposta è di per sé molto semplice. «La Chiesa si interessa di sport perché si interessa dell'uomo, perché è profondamente coinvolta nella sua vicenda e impegnata, per vocazione e missione, nella sua salvezza», fino ad affermare con Giovanni Paolo II che l'uomo è la «prima e fondamentale via della Chiesa» (cf Sport e vita cristiana 13).
    «Lo sport - diceva Giovanni XXIII - ha ancora nella vostra vita un valore di primo ordine per l'esercizio delle virtù... Anche nello sport, infatti, possono trovare sviluppo le vere e forti virtù cristiane, che la grazia di Dio rende poi stabili e fruttuose».
    «Così, la disciplina sportiva appare particolarmente idonea a generare e irrobustire alcune virtù umane e cristiane, come l'obbedienza e l'umiltà, intese non certo come rinuncia ripiegata e passiva, ma come alta espressione di quella forza interiore di cui parla l'apostolo Paolo (cf 1 Cor 9,25-27). Il gioco di squadra, a sua volta, insegna i limiti e i rischi della competizione personale, come pure si apre - se ben orientato e condotto - a vere forme di altruismo, all'amore di fraternità, al rispetto reciproco, alla magnanimità, al perdono. Le stesse leggi del rendimento fisico, se non assolutizzate, preparano il terreno favorevole al dominio di se stessi, alla modestia, alla temperanza, alla prudenza e alla fortezza» (idem n. 33).
    Paolo VI, ispirandosi all'antico adagio «mens sana in corpore sano», parla delle virtù cardinali nello sport: «Noi pensiamo con voi alla padronanza del proprio corpo. Che bisogno di perseveranza e di tenacia! La forza d'animo non ha forse un posto importante tra le quattro virtù cardinali? L'ascesi degli sportivi, che san Paolo prende ad esempio nella sua prima lettera ai Corinzi, non ricorda forse la virtù della temperanza? L'obbligo rigoroso di prepararsi ed equipaggiarsi bene per le prove non è forse vicino alla prudenza? L'uguaglianza delle capacità tra i giocatori, l'arbitraggio imparziale dei concorrenti, il fair-play dei vinti, il trionfo contenuto dei vincitori non sono forse degli appelli a praticare la virtù della giustizia? E se queste virtù morali contribuiscono alla piena realizzazione della persona umana, come potrebbero non ripercuotersi sulla società intera?».
    Lo sport appare campo propizio per lo sviluppo di uno stile di collaborazione e di solidarietà, opponendosi efficacemente alla tendenza individualistica, assai presente nella società contemporanea.
    Alcuni santi hanno messo alla base della loro proposta di santità il gioco, e quindi il cortile (il campo da gioco, la palestra) è diventato luogo di spiritualità, luogo di santità.

    L'interesse dei giovani, un ponte per comunicare

    Da una certa percentuale di adolescenti e giovani l'oratorio e il cortile dell'oratorio sono indicati come luogo principale o esclusivo dove incontrare più spesso gli amici e trascorrere il tempo libero.
    L'oratorio rappresenta ancora un ambito privilegiato per l'aggregazione degli adolescenti e giovani, oltre che dei preadolescenti. L'oratorio viene scelto perché si possono realizzare molte attività: da quelle di gioco a quelle formative, da quelle di espressione culturale, teatrale e musicale a quelle di scoperta e difesa dell'ambiente e di impegno sociale, da quelle di riscoperta del Vangelo a quelle di celebrazione della propria fede cristiana.
    Quando i giovani entrano in un oratorio, vogliono passare un po' del loro tempo «libero» e viverlo pienamente. Questa voglia di vivere va colta in concreto e si esprime nei loro interessi, che rispondono a quei dinamismi di crescita che sono i bisogni fondamentali a livello psico-fisico, intellettuale, spirituale e religioso.
    L'interesse espresso (mi piace..., preferisco...) manifesta in modo esplicito e prevalente uno dei bisogni fondamentali. L'interesse prevalente quindi è come un «ponte» gettato tra il giovane e il mondo circostante, che si presenta naturalmente più complesso, più ricco e più completo, rispetto alla visione ristretta di tipo personale. Il giovane comunica un suo interesse, che risponde a un suo bisogno, nel modo più semplice e congeniale. Ma il giovane stesso «dilaga» per così dire nella vita dei gruppi, allargando gli spazi di interesse e di attività.
    Si manifesta per molti la pluralità di appartenenza (un adolescente appartiene in media ad almeno due gruppi) e la molteplicità di interessi (all'interno dello stesso gruppo egli trova l'occasione di sviluppare interessi ed attività che sarebbero più propri di altri tipi di gruppi).
    E qui è richiamato in causa l'ambiente educativo e la figura dell'animatore, che si colloca tra il giovane con i suoi interessi (mi piace!) e i suoi bisogni di crescita (è importante!) e la realtà circostante, che rischia di rispondere spesso agli interessi più immediati, dimenticando i bisogni fondamentali.
    L'interesse, espressione di un bisogno prevalente, è una occasione per far incontrare il giovane con se stesso, con gli altri, le cose e con il Signore. Deve essere accolto, trovare risposta adeguata, competente ed entusiasta, ma deve essere inserito in un ambito educativo, che evidenzia altri interessi, che dà altre risposte ai bisogni di crescita, anche a quelli che non sono avvertiti come importanti dal singolo giovane.

    Il tempo libero dei giovani, tempo da liberare

    Oggi il tempo libero dei giovani, sempre più in aumento quantitativo e prevalentemente occupato nell'attività ricreativa e sportiva, ma anche nelle attività di tipo turistico, sociali e culturali, va studiato attentamente e «liberato» dai vari condizionamenti, perché recuperi il significato e la dimensione della crescita e della progressiva maturazione della persona, e superi la definizione di «tempo perso», «tempo da consumare e per consumare».
    Accettare la sfida di «liberare» il tempo libero dei giovani significa educarli a considerarlo e viverlo come un tempo propizio:
    – per ritrovare se stessi nel proprio corpo che matura e si fa capace di espressione, per incontrare gli altri e insieme competere in un clima di accettazione e amicizia;
    – per uscire dal proprio piccolo mondo, soggettivo e sociale, per viaggiare e incontrare gli altri e per ammirare e contemplare le bellezze della natura e le opere che l'umanità ha creato;
    – per vivere la ricchezza dei segni e dei linguaggi creati dalle culture nello sforzo di umanizzare il mondo e la storia.
    È importante dare dei valori e degli orientamenti, per determinare la qualità del tempo libero che intendiamo far vivere, ben espressi da un preciso intervento del Papa: «Lo spessore umano del tempo deriva dall'uso che l'uomo ne fa. Per molti il tempo ormai libero acquista oggettivamente più importanza che il tempo dedicato al lavoro. Così è necessario essere attenti all'uso del tempo...
    L'oggetto di una pastorale del tempo libero consiste nell'aiutare gli uomini proprio a fare un buon uso di questa libertà. Ci si ricorda del riposo del Creatore, il settimo giorno, al termine dell'opera che era buona. Si deve ritrovare, nel ritmo della vita, la portata di questo riposo, la scoperta gratuita delle meraviglie della creazione, della relazione personale con il Creatore che si rivela a noi e a cui immagine siamo stati creati. Il tempo libero è allo stesso tempo un tempo di salvezza e un tempo da salvare perché sia disponibile alla piena espansione della vita personale e familiare, un tempo libero anche per il servizio alla comunità umana...
    Il tempo libero è tempo di contemplazione gioiosa dell'a pera di Dio, di ringraziamento per i frutti della terra e per quelli del lavoro degli uomini, tempo di comunione e di pace tra fratelli uniti nella loro comune vocazione di figli di Dio, Creatore e Salvatore» (Giovanni Paolo Il).
    Ma allora la vita che conduco giorno dopo giorno, anche i momenti di gioco e di amicizia, c'entrano con il mio progetto di crescita?
    La spiritualità giovanile dà una risposta originale a questi interrogativi, a partire proprio dall'esperienza di don Bosco, che ha incontrato il Signore nei giovani del suo tempo. Don Bosco ha passato la sua vita a fianco dei giovani ed ha insegnato loro, più con i fatti che con le parole, a utilizzare tutti i momenti della loro vita per crescere in modo integrale e completo. Si è messo a fianco dei giovani per costruire il loro futuro, per aiutarli a credere nella vita e a credere che il Signore stava dalla loro parte e «faceva tifo» per la loro riuscita.
    Ora don Bosco fa esperienza del Signore in mezzo ai suoi giovani, nel condividere la loro vita, nel qualificarli nello studio e nella professione, nel giocare e nel divertirsi con loro, nel crescere con loro in amicizia.
    Agli stessi giovani don Bosco ha insegnato a incontrare il Signore nella loro vita di ogni giorno, nelle cose che facevano quotidianamente. Li ha educati a vivere tutta la loro vita «insieme al Signore».

    Un capolavoro di animazione del cortile

    Don Bosco ha scritto una lettera che si può considerare il suo capolavoro come educatore dei giovani.
    La scena è il cortile: «Mi pareva di essere nell'antico oratorio (1870) nell'ora della ricreazione. Era una scena tutta vita, tutta moto, tutta allegria. Chi correva, chi saltava, chi faceva giocare. Si vedeva che tra i giovani e gli educatori regnava la più grande cordialità e confidenza». Nel 1884, quattordici anni dopo, dirà: «Non udivo più grida di gioia e canti, non più vedevo quel moto, quella vita, come nella prima scena».
    Come affrontare la situazione e cambiarla? L'indicazione è chiara ed esigente: «Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati». Si tratta di amarli in quelle cose che piacciono loro, col «partecipare alle loro inclinazioni infantili», cioè stando con loro, giocando con loro.
    Per questo don Bosco non ha esitazione ad affermare decisamente che «il maestro visto solo in cattedra è maestro e nulla più, ma se va in ricreazione coi giovani diventa come fratello», e che «se uno è visto solo predicare dal pulpito si dirà che fa né più né meno che il proprio dovere, ma se dice una parola in ricreazione è la parola di uno che ama». Si tratta di scendere dalla cattedra e dal pulpito e uscire fuori per incontrare i giovani là dove si incontrano e vivono in modo più spontaneo.
    Don Bosco, richiesto da Domenico Savio di una «ricetta» per diventare santi, indica alcuni elementi da tener presenti. Tutti sono ancora di attualità e praticabili anche oggi. Don Bosco voleva per prima cosa che si esprimesse con «una costante e moderata allegria». Poi lo consiglia ad essere perseverante nell'adempimento dei suoi doveri come studente (andare a scuola, fare i compiti...) e dei suoi impegni come cristiano (pregare e partecipare alla eucaristia e alla riconciliazione...). Infine gli raccomanda di partecipare sempre ai momenti di ricreazione, di gioco e di distensione con i suoi compagni.
    È interessante evidenziare che consiglia di pregare e studiare, ma raccomanda di essere parte attiva nel gioco con i compagni.
    Scrivendo il suo Sistema Preventivo, don Bosco afferma: «Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatrino, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina e giovare alla moralità e alla santità».
    La vita del cortile è uno dei fattori base di tutta l'azione educativa di don Bosco e si mette come ponte tra la scuola e la chiesa, tra l'esperienza di formazione e crescita culturale umana e l'esperienza di formazione e crescita religiosa.
    Molte delle battute originali di don Bosco, riportate nelle vite di Domenico Savio, di Michele Magone e Francesco Besucco, hanno sempre una scena, quella del cortile tra il movimento e le grida di tanti ragazzi, ai quali don Bosco si rivolgeva con gesti di attenzione e di amicizia e con battute veloci ma incisive per la vita personale.
    Il cortile è don Bosco tra i giovani: una immagine, un'idea, un progetto, che si impone con la sua vita senza bisogno di tanti commenti. Don Bosco padre e maestro dei giovani, che colpisce con i suoi gesti prima che con le sue parole, esprime un atteggiamento di condivisione e di partecipazione alla vita dei giovani, gioca con loro «fuori della scuola e in vista, ma fuori, della chiesa».
    Viene indicata una posizione interessante tra l'ambiente scuola (fuori della scuola) e l'ambiente chiesa (in vista, ma fuori, della chiesa). È quella della vita spicciola, quotidiana, in cui si fa sintesi tra ciò che appartiene all'uomo e alla società, come comunità degli uomini, e ciò che è proposto e vissuto nella comunità credente. È la modalità originale di affermare che non c'è frattura tra creazione e redenzione secondo una vera teologia di incarnazione.
    In continuità con l'impegno di maturazione e di promozione dei valori più specificamente umani si sviluppa, in un'azione educativa pastorale corretta, la direzione propriamente religiosa e cristiana.
    E la realizzazione della fedeltà a Dio e della fedeltà all'uomo. «Non si tratta di due preoccupazioni diverse, bensì di un unico atteggiamento spirituale, che porta la chiesa a scegliere le vie più adatte, per esercitare la sua mediazione tra Dio e gli uomini. È l'atteggiamento della carità di Cristo, Verbo di Dio fatto carne» (RdC 160).
    «Il vero educatore partecipa alla vita dei giovani, si interessa ai loro problemi, cerca di rendersi conto di come essi vedono le cose, prende parte alle loro attività sportive e culturali, alle loro conversazioni; come amico maturo e responsabile, prospetta itinerari e mete di bene, è pronto a intervenire per chiarire problemi, per indicare criteri, per correggere con prudenza e amorevole fermezza valutazioni e comportamenti biasimevoli. In questo clima di "presenza pedagogica" l'educatore non è considerato un "superiore", ma un "padre, fratello e amico".
    A questo proposito va almeno ricordato l'ampio spazio e dignità dati dal Santo al momento ricreativo, allo sport, alla musica, al teatro o - come egli amava dire - al cortile. È lì, nella spontaneità ed allegria dei rapporti, che l'educatore sagace coglie modi di intervento, tanto lievi nelle espressioni, quanto efficaci per la continuità e il clima di amicizia in cui si realizzano» (cf GIOVANNI PAOLO II nella Juvenum Patris 12).

    Cosa fare in concreto?
    Educare a riscoprire il «cortile»

    Riscopriamo il cortile, come luogo in cui ci si incontra e si vive un momento della propria vita. Per questo è necessario favorire un cambiamento di mentalità e impegnarsi a passare:
    - dal campo di gioco, dove ci si interessa di una sola disciplina e si incontra un solo allenatore-animatore... al cortile dove ci si può esprimere in maniera più creativa e fantasiosa, si partecipa a più attività ricreative e ci si confronta con più animatori;
    - dal campo di gioco, dove si sta soltanto con i propri compagni di squadra e ci si confronta con un'altra squadra di «avversari»... al cortile dove ci si incontra con tanti altri giovani, con i quali si compete per esprimersi al meglio e si cresce come amici;
    - dal campo di gioco, dove si è impegnati in esercizi ripetitivi e in schemi prestabiliti in funzione del risultato... al cortile dove ci si diverte con maggiore libertà e spontaneità e si vive con più allegria.


    2. IL PUNTO DI PARTENZA: L'INCARNAZIONE

    Una gioiosa accoglienza: in Gesù Dio si è fatto «uno di noi»

    «In quanto creato ad immagine e somiglianza di Dio (cf Gn 1,27), l'uomo sta in relazione speciale con il Creatore e possiede una dignità personale incommensurabile, per la quale - scrive sant'Ambrogio - egli "esercita il dominio su tutti gli esseri viventi ed è come il culmine dell'universo e la suprema bellezza di ogni essere creato"... Così nel progetto originario di Dio la persona umana non è creata per il lavoro e la fatica, il conflitto e la morte, ma per la vita e la gioia, l'incontro e il bene. Il mondo, e l'uomo nel mondo, portano l'impronta della bontà divina: "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gn 1,31). Per questo l'azione dell'uomo nel mondo corrisponde al progetto divino quando è rispetto e promozione di tutto ciò che è buono e bello» (Sport e vita cristiana 12).
    Alla base della spiritualità giovanile c'è una gioiosa accoglienza del fatto più misterioso della storia, quello di cui parlano i Vangeli, l'Incarnazione di Dio: «Colui che è la Parola è diventato uomo ed ha vissuto in mezzo a noi uomini» (Gv 1,14).
    In modo molto chiaro la Gaudium et Spes al n. 22 dice: «Gesù ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo». Si potrebbe aggiungere «ha giocato con l'entusiasmo di un uomo».
    Gesù con la sua vita ci ha quindi insegnato che il luogo principale per incontrare Dio, il Signore della vita, è incontrarlo in ciò che è vita, in ciò che è umano, in ciò che pensa, dice, ama e fa l'uomo, nella sua tensione a crescere in armonia con se stesso, con gli altri e con le cose.
    Tutto il grande racconto del giudizio finale (Mt 25) è incentrato su questa misteriosa accoglienza di Dio: «Tutte le volte che avete fatto ciò (cioè dato da mangiare e da bere, fatto per studiare e per giocare...) a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me» (Mt 25,40).
    Ecco il modo «cristiano per eccellenza» di fare esperienza di Dio, perché Dio si è fatto «il Dio con noi» e si è «nascosto» nei piccoli e negli ultimi, cioè in tutti. Chi allora vuol fare esperienza di Dio è chiamato a fare anzitutto esperienza dell'uomo. Essere cristiani è vivere la vita con la massima intensità, impegnandosi a scoprire quel Dio che si è «nascosto» nella vita dell'uomo.

    Una conversione da fare

    È possibile capire la portata di queste affermazioni se si è disponibili a fare un passaggio da una visione della vita fatta di compartimenti-stagno e separazione a una visione della vita animata dallo spirito di unità e di integralità.
    Noi siamo portati a distinguere il «sacro» (un luogo determinato, ben delimitato e caratteristico, delle persone particolari ben riconoscibili anche dal vestito) dal «profano» (tutti i luoghi che sono davanti e intorno al tempio e all'altare, tutte le persone che stanno fuori del recinto sacro).
    Per cui alcune azioni sono ritenute importanti, perché si richiamano esplicitamente a gesti religiosi, altre sono indifferenti, perché sembrano riguardare soltanto uno stile di buona educazione.
    Dobbiamo crescere in una visione dell'uomo e della vita che metta al centro la persona, che non è divisibile in settori «separati» e che vive e opera come una unità psicofisica, psicointellettuale e psico-spirituale sia quando è nel luogo così detto sacro, sia quando è nei luoghi così detti profani.
    Per tanti educatori «santi», come per esempio don Bosco, il quotidiano, l'ordinario, il dovere di tutti i giorni, uno dopo l'altro, sono elementi fondamentali della loro spiritualità, che non è mai evasione nello «straordinario», nell'eccezionale.
    Il tessuto del quotidiano, il divenire quotidiano, gli avvenimenti e le persone, l'esistenza piena di interpellanze e di sorprese sono un momento privilegiato di esperienza e di incontro con Dio, e quindi spiritualità.
    La spiritualità, che si ispira all'evento dell'Incarnazione, si distingue da altre proposte di vita cristiana.
    Si distingue dalla «spiritualità degli intervalli», in cui si vive con simpatia tutto ciò che è umano, ma non si coglie Dio nel profondo degli uomini e delle cose. Perciò l'incontro con Dio viene ridotto solo ai momenti che interrompono il gioco, lo studio, il lavoro, lo stare insieme a parlare. Si crede di incontrare Dio solo negli intervalli in cui si smette di fare le cose di ogni giorno e si dedica qualche momento alla preghiera.
    Si distingue dalla «spiritualità della fuga dalle cose», in cui si guarda con diffidenza e non si gusta ciò che è umano, quasi che Dio ne fosse geloso. Per essere a posto ci si rifugia nella preghiera, nella celebrazione dell'eucaristia, nei luoghi di silenzio e nelle aree di salvezza. Si crede di incontrare Dio allontanandosi dagli uomini e dimenticando quindi che Dio è felice quando l'uomo è veramente felice e vive insieme agli altri.
    La spiritualità dell'incarnazione è allora la spiritualità dell'incontro con Dio dentro tutto ciò che è umano, una spiritualità della «passione per la vita».
    Secondo la spiritualità dell'incarnazione la vita ha un duplice aspetto, uno integrato nell'altro: un aspetto visibile e uno invisibile. L'aspetto visibile della vita quotidiana è il dato verificabile: mangiamo, giochiamo, cantiamo, studiamo, siamo con gli amici...; l'aspetto invisibile è ciò che sta dentro tutto questo, le motivazioni che ci spingono, le mete che vogliamo raggiungere: la voglia di vivere, la voglia di maturare e migliorare, la voglia di incontrarsi e crescere in amicizia. In questo si esprime la forza del Signore che è vicino a noi, che è dentro di noi. Siamo immersi in Lui e decidiamo di vivere la vita con Lui.

    Perforare il quotidiano per trovarvi Dio

    Poiché Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo, tutto ciò che è umano, tutto ciò che è vita, è luogo di esperienza e di incontro con il Signore della vita, è «santo».
    In conclusione c'è un aspetto invisibile che coinvolge il nostro mangiare e camminare, il nostro incontrarsi e giocare, il nostro studio e lavoro, il fare politica e il riposarsi, il vivere in famiglia e il fare gruppo: Dio è sempre vicino a noi e possiamo incontrarlo in ciò che facciamo.
    Lo incontriamo, è importante ricordarlo, non perché lo desideriamo noi, ma perché lo ha deciso lui, e non perché ogni tanto ci ricordiamo di Lui con una giaculatoria o con un segno di croce, quando mangiamo o giochiamo o andiamo in tram, ma perché ha deciso che le situazioni umane per suo dono fossero luogo di incontro con lui.
    Incontra Dio ogni uomo che accoglie la..rita come dono e si appassiona alla vita perché ci sia vita per tutti, anche e soprattutto per i più piccoli e più deboli.
    E il cristiano?
    Chi sceglie e segue Cristo (il cristiano) è colui che è consapevole di questa realtà che sconvolge la vita di ognuno. Egli è chiamato a compiere una operazione originale di «perforazione del quotidiano», per smascherare e contrastare quelle forze che appaiono contrarie allo Spirito del Vangelo, per cogliere e favorire quelle forze che sono segni dello Spirito di Gesù, per comunicare a tutti la presenza misteriosa del Signore della vita.
    Perforare la realtà per trovarvi Dio, come Creatore (è impegno comune a tanti credenti), ma anche per incontrare Dio come Padre, è la meta originale del cristiano. Per cogliere con diligenza tutto quanto è voglia di vivere, per accoglierlo come ricchezza e dono, senza pregiudizi e senza presunzioni, è necessario vivere e operare in base ai dinamismi che ci sono donati fin dall'inizio della vita, sia dal punto di vista umano che cristiano.
    In questo processo di perforazione si deve prestare attenzione soprattutto a tre fondamentali dinamismi.
    Il dinamismo della fede come visione globale che interpreta la realtà in cui siamo immersi e che permette di vedere «oltre ciò che si può toccare», porta alla fiducia e all'ottimismo. Il dinamismo della speranza, che lancia nella progettazione delle nostre attività, che impegnano nella salvezza nostra e degli altri, che permette di progettare «oltre» le possibilità dei singoli, porta coraggio e fantasia. Il dinamismo della carità, che fa crescere nell'atteggiamento di amore verso le persone, in quanto ogni per-sona o è Dio stesso o è sua immagine, che permette di amare «oltre» la simpatia immediata, porta gioia ed entusiasmo.
    Alla base di questa visione della realtà e della vita c'è la chiara coscienza del primato della persona. È evidente che non c'è vita se non nella persona: è il mio e il tuo spirito che possono contemplare, progettare e amare; è la coscienza di ognuno che può perforare la realtà; è la persona che costruisce la comunità credente e la comunità degli uomini.
    La vita cristiana, espressione di fede, speranza e carità, è il più grande esercizio di vera personalizzazione. Ed è precisamente questo processo di personalizzazione che ci abilita a costruire vere comunità.

    Originalità della spiritualità di don Bosco

    La risposta di fede, di speranza e di carità con cui don Bosco si è aperto a Dio, con cui ha scelto un modo speciale di seguire Gesù di Nazaret, con cui ha delineato una fisionomia alla sua vita nello Spirito Santo è personale e originale.
    La sintesi di questa spiritualità può essere considerata una frase che esprime la convinzione di don Bosco: «in ogni giovane, anche il più disgraziato, vi è un punto accessibile al bene», e l'impegno che ne consegue: «dovere primo dell'educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile e trarne profitto».
    I giovani con don Bosco sono coscienti che per essere contenti e soddisfatti della propria vita non devono aspettare le grandi prove, i risultati strepitosi, le manifestazioni pubbliche, ma sanno apprezzare e valorizzare ogni momento della giornata. Vivono con fiducia in se stessi e negli altri, sapendo conoscere in se stessi e negli altri tutte le capacità e potenzialità, al di là di quello che si vede immediatamente. Ciò che vale nelle persone è molto più ampio di quello che si può costatare stando all'esterno. Anche nella mela marcia, come diceva don Bosco, i semi sono portatori di vita nuova e possono far crescere altre piante sane. Di qui l'ottimismo.
    I giovani con don Bosco vivono con fantasia e creatività, sapendo contare su ogni piccola possibilità di bene, al di là di quanto è già stato sperimentato ed è possibile ai singoli. Ciò su cui si può contare per collaborare con gli altri è molto più ricco di quanto è conosciuto e considerato possibile. Ci sono piccoli frammenti di risorse che messi insieme e collegati tra di loro non si sommano soltanto ma si moltiplicano e formano una forza di progetto e di azione.
    La vita infine è una esperienza di una carità «educativa e pastorale», che sa riconoscere in se stessi e negli altri l'impronta e l'immagine di Dio. Nel volto degli altri si riconosce e si ama il volto dell'Altro: il Signore della vita.
    La vita cristiana trova la sua forza nella «grazia di unità». Unità tra che cosa? Unità tra lo sguardo su Dio, fatto di ascolto, di contemplazione e di preghiera, e l'impegno di educazione e di evangelizzazione che lancia tra i giovani, «in modo però che questo impegno non sia una distrazione da quello sguardo, e che lo sguardo non sia una evasione dall'impegno, ma l'uno alimenti l'altro; l'uno sia il supporto, il momento di riferimento e di ricarica per l'altro» (Egidio Viganò).
    Con don Bosco siamo convinti che noi non preghiamo per santificare il lavoro, come se la santità stesse solo nella preghiera e non nel lavoro di educazione e di evangelizzazione; noi preghiamo e lavoriamo, siamo immersi nell'azione educativo-pastorale e contempliamo il Signore perché ci muove dal di dentro una stessa carità educativo-pastorale che è l'anima della preghiera e dell'azione apostolica.
    Spesso ci si domanda: quale delle due è la più importante per noi: l'azione o la contemplazione? La contemplazione, l'incontro esplicito con il Signore ha certamente un suo primato. Però non esiste né l'azione né la contemplazione per se stessa: chi esiste è la persona! È la persona che agisce; è la persona che contempla. E la persona si caratterizza per il suo amore!
    La spiritualità del giovane sportivo ha una traccia precisa da seguire: appassionarsi alla vita e «far tifo» per la vita, fino a riconoscere e proclamare che Gesù è il Signore della vita.
    È attenta a tutti i fatti della vita, ma coglie, anche e soprattutto nel mondo giovanile, un forte desiderio di vita, una ricerca faticosa di una nuova qualità di vita. Anche se è appena in germoglio, la spiritualità del giovane sportivo vede nel desiderio di vita la presenza dello Spirito di Dio oggi. Per questo si propone da una parte di educare i giovani ad una rinnovata passione per la vita, e dall'altra di renderli consapevoli che il luogo in cui Dio ha fissato l'appuntamento è la loro vita, la vita degli altri, il futuro della società. Realtà tutte in cui «giocare» concretamente se stessi come Gesù di Nazaret, che ha dato tutto se stesso per la vita, per la pienezza della vita.
    Lo slogan della spiritualità del giovane sportivo potrebbe essere quello di Ireneo di Lione, che nel secondo secolo scriveva: «Dio è felice quando l'uomo è felice; ma l'uomo è felice quando vede Dio». E dove vedere Dio se non dentro questa nostra vita così misteriosa e bella da essere in grado di rendere felice Dio? E come non appassionarci a questa vita per salvare la quale Dio si è fatto in Gesù uno di noi?

    Cosa fare in concreto?
    Educare a vivere il quotidiano

    Riscopriamo quello che c'è «al di là» di ciò che si vede, di quello che si progetta, di quanto si ama. Per questo è necessario favorire un cambiamento di mentalità e impegnarsi a passare:
    - dal fermarsi a considerare ciò che è visibile, che possiamo toccare, manipolare e verificare (mangiamo, giochiamo, cantiamo...)... al considerare anche l'aspetto invisibile: le motivazioni che ci spingono, le mete che vogliamo raggiungere, per aumentare la fiducia e l'ottimismo;
    - dal fermarsi a considerare le capacità che si esprimono e che si possono valutare per i risultati raggiunti... al considerare anche le potenzialità nascoste, come piccoli germi, che non hanno avuto occasioni e possibilità di esprimersi, per apportare alla vita coraggio e fantasia;
    - dal fermarsi a considerare la voglia di incontrare e conoscere gli altri per valorizzarsi... al considerare anche la voglia di vivere, maturare e migliorarsi degli altri, la voglia di incontrarsi e crescere in amicizia, per esprimere nella vita più gioia ed entusiasmo.


    3. LA RISCOPERTA DELLA CORPOREITÀ

    Alcune pagine di vangelo come ispirazione

    Di Gesù si dice, dopo la presentazione al tempio e ritornato al suo villaggio di Nazaret: «Intanto il bambino cresceva e diventava sempre più robusto. Era pieno di sapienza e la benedizione di Dio era su di lui» (Lc 2,40). A dodici anni, dopo l'avventura a Gerusalemme si ripete: «Gesù intanto cresceva, progrediva in sapienza e godeva il favore di Dio e degli uomini» (Lc 2,52). Sono indicate in maniera chiara le dimensioni di un progetto educativo, che si impegna a far crescere nella corporeità, nella intelligenza e socialità, e nella spiritualità.
    Anche S. Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi (1 Ts 5,23), fa un augurio e impegna i credenti in una crescita integrale. Afferma: «Dio, che dona la pace, vi faccia essere completamente degni di lui e custodisca tutta la vostra persona: spirito, anima e corpo, senza macchia, fino al giorno in cui verrà il Signore nostro Gesù Cristo».
    Non abbiamo nessun cenno preciso sull'aspetto fisico di Gesù. Era certamente robusto e forte. Il ritmo e lo stile della sua vita avrebbero messo in crisi un atleta: dormiva dove gli capitava, spesso all'aperto; era sempre in viaggio; affrontava giornate di lavoro faticosissime: spesso la folla non gli lasciava nemmeno il tempo di mangiare; trascorreva molte ore della notte in preghiera. C'è poi la testimonianza della sua passione: pochi al suo posto sarebbero arrivati vivi sul monte Calvario.
    Quello che è certo è che Gesù aveva un fascino straordinario. Le folle, per seguirlo, si dimenticavano anche di portarsi da mangiare, facevano ressa attorno alla casa in cui era ospitato tanto che, chi proprio voleva arrivargli vicino, doveva passare dal tetto. Quando, per respirare un po', andava al di là del lago di Genesaret con la barca, la gente compiva a piedi il giro del lago per raggiungerlo dall'altra parte.
    «Le donne, che sono sempre molto attente all'aspetto fisico, interrompevano i suoi discorsi per gridare: "Beato il grembo che ti ha portato in seno e che ti ha nutrito!". Questo è il primo elogio di Gesù di Nazaret; ed è fatto in termini molto concreti e corporei» (T. Lasconi).
    Ci sono vari modi per accostarsi all'esistenza di una persona che vive un grande ideale: ascoltarne le parole più impegnative e insistenti, coglierne i gesti più significativi, ma anche analizzarne il messaggio tipico e totalizzante che è il suo comportamento abituale.
    È bene ispirarsi a una giornata di vita di Gesù, come descritta dall'evangelista Marco (Mc 1,21-39).
    Dal mattino alla sera, da solo e tra la gente, Gesù vive come un uomo appassionato ad una causa, impegnato a costruire nelle piccole e grandi cose il Regno di Dio, che è offerta di vita in pienezza per tutti, soprattutto per i piccoli, i deboli, i poveri. Gesù ha un progetto di vita e lo realizza giorno per giorno con la forza che gli viene dall'essere in relazione continua con Dio Creatore e Padre.
    Immaginiamo di percorrere una giornata qualunque della nostra vita in compagnia di Gesù, comportandoci come Lui. Per prendere coscienza della sua ricchezza la ritmiamo con alcuni verbi, che rivelano in tutta la loro concretezza ciò che noi facciamo: al mattino (svegliarsi, alzarsi, andare...), durante la giornata (incontrare, studiare, giocare...), alla sera (ripensare, confrontarsi, verificare, ringraziare...). Ogni momento di vita viene vissuto nella concretezza con l'atteggiamento di colui che tocca con le proprie mani, ci riflette con l'occhio dell'uomo, scoprendovi tutti gli aspetti squisitamente umani, e di colui che contempla con l'occhio del credente, intravedendo l'opera dello Spirito del Signore della vita, che è più imprevedibile di quanto noi possiamo immaginare.

    Il corpo, luogo della relazione con se stessi e con gli altri

    Le pagine evangeliche, da quelle dell'infanzia e adolescenza a quelle dell'età adulta di Gesù, presentano una visione positiva del corpo umano, della sua crescita armonica, ponendo le basi per una sua piena valorizzazione. L'esempio di un santo, vicino a noi, che si esprime al meglio della sua forma fisica, ci spingono a riflettere e operare in coerenza.
    Presentando lo sport in dialogo con la Chiesa, Paolo VI diceva: «La Chiesa considera il corpo umano come il capolavoro della creazione nell'ordine materiale. Ma al di là dell'esame fisico e delle meraviglie che si nascondono in esso, ritorna il corpo alla sua origine e si volge a Colui che l'animò di un "soffio di vita", come dicono le Scritture, e ne fece la dimora e lo strumento di un'anima immortale. A questa prima dignità che il corpo trae dalla sua origine, si aggiunge agli occhi del credente quella che gli conferisce l'essere redento da Cristo e che consente a San Paolo di esclamare: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?... O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartiene a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!" (1 Cor 5,15)...».
    Nella corporeità si riflette e si manifesta la sapienza creatrice di Dio. L'attenzione alla corporeità manifesta in modo concreto il grande rispetto che si deve per il valore della vita. La sua crescita armonica esalta l'immagine originaria del Creatore e Padre. Il corpo è quindi il luogo della relazione con se stessi, con l'altro e con il mondo e quindi con Dio stesso. Può anche costituire una occasione privilegiata di riscatto e promozione dell'uomo, fino a iscriversi in quel «culto spirituale» di cui parla l'apostolo Paolo: «Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1) (cf Sport e vita cristiana 19).

    Il linguaggio del corpo, come volto visibile della persona

    Siamo abituati a pensare alla persona come un composto di corpo e anima, e il più delle volte la riflessione porta a contrapporre questi due elementi: tutto il bene sta nell'anima e tutto il male sta nel corpo. È più evangelico pensare alla persona a tre dimensioni «corpo, anima e spirito» (cf 1 Ts 5,23) per essere degna immagine del creatore e vivere in armonia. Spirito, anima e corpo sono congiunti strettamente in quella sinergia di forze che è la persona umana. Quando Dio-Padre ha voluto esprimere se stesso si è «in-carnato» in Gesù di Nazaret, che si è comunicato a noi con il suo volto, il suo corpo, la sua intelligenza e la sua lingua, i suoi gesti di comprensione e di affetto. Chi vuol parlare all'anima, all'intelligenza, allo spirito, deve necessariamente parlare al corpo e con il corpo. Questa esigenza pone all'educatore due problemi: saper «ascoltare» e sapersi «esprimere» con tutto il proprio corpo.
    Tutto il corpo è capace di comunicare e conseguentemente lancia in continuazione messaggi, anche quando non si vuole. Educato convenientemente, il corpo può migliorare la propria capacità espressiva. Per cui appare in tutta la sua urgenza la necessità di riprendere possesso e riconciliarsi con il proprio corpo: quello con il quale ci esprimiamo ed entriamo in contatto con gli altri. Così se ne rende più facile l'utilizzazione in funzione espressiva.
    Per non rinunciare di fronte alle prime difficoltà bisogna ricordare che mentre il linguaggio verbale è insegnato nel normale curriculum scolastico, il linguaggio gestuale non è curato, anzi spesso è trascurato come non importante e superfluo.
    Il linguaggio di tipo motorio si manifesta soprattutto nel gioco, nel mimo, nella danza.
    Il gioco è una attività libera e gioiosa, quasi sempre ricca di movimento, tipicamente giovanile, che si presenta soprattutto con la caratteristica della spontaneità.
    Si narra di un principe del Ponto che, disdegnando offerte assai consistenti, chiedesse a Nerone di concedergli il pantomimo, visto all'opera, perché, tornato in patria, se ne sarebbe potuto servire come interprete per comunicare con i popoli vicini. Mimare è un gioco abbastanza utilizzato anche tra i grandi. Rappresentare una azione drammatica con i soli gesti costituisce una esibizione assai curiosa e divertente. Il mimo arricchisce la mente nella ginnastica necessaria a creare una connessione tra l'inventiva gestuale e i significati reali.
    La danza è una forma di espressione che nasce da una profonda e intima relazione con il proprio corpo. Danzare, cioè «fare movimenti della persona secondo il ritmo del suono e del canto» è una predisposizione dell'uomo fin dalla più tenera età. Tutte le scuole danno importanza alla educazione ritmica.
    Anche oggi si afferma la necessità dell'educazione ritmica, basata sul principio che un movimento ordinato di tutte le parti del corpo possa indurre il giovane alla ricerca della sua vera personalità. Con la danza è facile dare corpo agli atteggiamenti tipici della preghiera: la lode, la richiesta di aiuto, la richiesta di perdono, il ringraziamento. Con la danza è egualmente molto facile dare corpo ai sentimenti fondamentali della esperienza religiosa: la meraviglia, il desiderio di affetto e di sicurezza, il bisogno di sentirsi popolo, lo sconcerto di fronte alla sofferenza e alla morte.
    Il momento del gioco, del mimo e della danza è un tempo propizio per ritrovare se stessi nel proprio corpo che matura e si fa capace di espressione, di conquista e di autocontrollo; per incontrare gli altri e insieme competere, in un clima di accettazione, di amicizia sincera e di sforzo comune per valorizzare tutte le potenzialità della propria corporeità; per incontrarsi, ragazzi e ragazze, in una serena e rispettosa ricerca di mutua conoscenza, convivenza e stima; per conquistare la capacità di contemplare il corpo umano, affascinati dalla bellezza donatagli dal Creatore, e così, affinati spiritualmente da un autentico godimento estetico, riconfermarsi nella volontà di rispettare sempre e in modo assoluto la vita.
    Si tratta di evidenziare il valore dello sport come «manifestazione» della capacità umana di godimento e di contemplazione estetica del corpo come meraviglia della creazione di Dio; della capacità umana di dominio e finalizzazione delle proprie energie e potenzialità corporee; della capacità di vivere il corpo come «luogo» di socialità nel momento della scoperta, della crescita, della competizione, dell'incontro e della comunione; della capacità umana di vivere il corpo come «luogo» di incontro interpersonale che abilita al rispetto, all'accettazione e alla composizione armonica della reciprocità dei sessi e delle persone.

    Le avventure «sportive» di Giovanni Bosco

    Anche di don Bosco ci sono delle pagine autobiografiche che ci presentano la sua figura fisica.
    Era piccolo di statura, ma aveva una forza e un coraggio che mettevano timore anche ai più grandi.
    Dava spettacolo eseguendo alcuni giochi che aveva imparato nelle fiere dai saltimbanchi. Sono immaginabili le cadute, i ruzzoloni, i capitomboli che dovette rischiare. Eppure a undici anni faceva il salto mortale, camminava sulle mani, saltava e danzava sulla corda come un saltimbanco professionista.
    Dimostrò la sua prestanza atletica in una gara con un saltimbanco in più discipline.
    Nella corsa: al via il saltimbanco prese alcuni metri di vantaggio, ma presto Giovanni riguadagnò il terreno perduto, e lo staccò in modo clamoroso.
    Nel salto. Bisognava balzare al di là di un fosso, contro un parapetto che si ergeva vicino a un piccolo ponte. Per vincere studiò un espediente. Fece un salto identico a quello del saltimbanco, ma appoggiando le mani sul parapetto, prolungò il salto al di là del muro.
    Infine all'arrampicata. Avrebbe vinto chi fosse riuscito a mettere i piedi più vicini alla punta di un albero.
    Il saltimbanco salì per primo, e portò i piedi tanto in alto che, se fosse salito una spanna di più, l'albero si sarebbe piegato e lui sarebbe precipitato. Tutti dicevano che salire più in su era impossibile. Toccò a Giovanni. Salì fin dove era possibile senza far piegare la pianta. Allora, tenendosi con le mani all'albero, alzò il corpo in verticale, e pose i piedi circa un metro oltre l'altezza raggiunta dal suo rivale. Giù in basso scoppiarono applausi.

    Cosa fare in concreto?
    Educare alla corporeità

    Riscopriamo la corporeità come volto della persona e luogo di comunicazione e di dialogo. Per questo è necessario favorire un cambiamento di mentalità e impegnarsi a passare:
    - dalla cura eccessiva del fisico e dalla medicalizzazione sospetta e inquinata... all'accettazione del corpo come capolavoro di Dio e alla sua cura con equilibrio e rispetto in senso igienico e anche estetico;
    - dalla corporeità, sganciata dall'unità propria dell'uomo e ridotta a cosa o strumento... alla considerazione della sua inestimabile dignità, che le è propria in quanto essa è costitutiva della persona umana;
    - dalla deformazione e asservimento alla schiavitù del risultato... alla competizione sportiva, come campo di espressione dei talenti di ciascuno e di lode di colui che li ha donati;
    - dalla forma ambigua e decadente di narcisismo, che rimuove il senso del limite e insegue il mito dell'eterna giovinezza... all'espressione e apprezzamento della propria bellezza e prestanza, che cambia a seconda dell'eta, ma che è sempre immagine di persona equilibrata e serena;
    - dallo sport fatto di alienazione e di schiavitù della persona... allo sport occasione privilegiata di riscatto e promozione dell'uomo, corpo, anima e spirito, fino ad esprimersi in quel ,,culto spirituale» che dà gloria al Dio vivente.


    4. IL GIOCO NELLA VITA DEI GIOVANI

    Il gioco nella Sacra Scrittura

    La Sacra Scrittura usa il gioco come paradigma per svelare le verità più sublimi. La sapienza divina non solo prepara una grande festa (cf Prv 9,1-6), ma si presenta pure in un gioco meraviglioso. «Quando egli stabiliva al mare i suoi limiti, sicché le acque non ne oltrepassassero la spiaggia; quando disponeva le fondamenta della terra, allora io ero con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno, mi rallegravo davanti a lui in ogni istante; mi ricreavo sul globo terrestre, ponevo le mie delizie tra i figli dell'uomo» (Prv 8,29-31).
    Il gioco è particolarmente gratificante quando coinvolge più persone e diventa espressione di amicizia e di gioia compartecipata. Tutte le opere di Dio seguono questo paradigma del gioco fra più persone. La creazione, l'incarnazione e l'intera storia della salvezza sono manifestazione e rivelazione di Dio, e del fatto che egli gioca con noi e che il suo gioco è santo e liberante, è la suprema espressione del suo amore. Questa è la verità più profonda della persona che gioca, la sorgente della sua allegria, della sua serenità e della sua serietà. «Non si può negare che l'origine del gioco e il giocare stesso ci indirizzano a un mistero sacro che non è a nostra disposizione» (H.E. Bahr). Questo mistero fa parte della nostra vita, perché Dio stesso ci invita a giocare con lui. Se partecipiamo ai giochi e ne rispettiamo le regole, svolgendo il nostro ruolo con nobiltà, attenzione e generosità, essi rivelano una dimensione della verità trascendente. Il nostro gioco diventa un simbolo nel quale è già presente il gioco di Dio.
    «Il più grande gioco è il gioco di Dio con noi e per il mondo, con e per il genere umano, un gioco che egli stesso ha iniziato e per il quale non ha fissato altro che le regole. Il mondo sostenuto da Dio giocherà il proprio gioco, senza tuttavia azzardare di fare una partita contro Dio. E l'uomo non è un giocattolo nelle mani di Dio, ma è invitato ad essere il suo libero partner» (H. Küng).
    Il modo in cui Dio gioca con l'uomo e per l'uomo costituisce sempre una meravigliosa sorpresa. La più grande sorpresa è la venuta del suo Figlio unigenito come redentore, è la Pasqua che segue il Venerdì santo. Quando onoriamo le sorprendenti iniziative di Dio, scopriamo nuove prospettive, nuove opportunità, e ci sentiamo onorati di essere suoi partner. E anche noi giocheremo con il Signore per la libertà e la gioia del prossimo. Allora avremo pure noi una riserva sempre fresca di bellissime sorprese.
    L'arte del gioco e della danza spesso rivela la verità smascherando pericolosi errori. Chi ha assistito a danze belle e dignitose – pensiamo alle danze sacre come quella di Davide davanti all'arca del Signore – è difeso dalla tendenza manichea verso un dualismo che disprezza il corpo. La danza e il gioco sono dei poemi fatti con la realtà corporale. Danza e gioco ci dicono che è giusta la visione biblica secondo la quale il corpo è la persona umana che manifesta la propria gioia di essere opera del grande Artista. Con i suoi movimenti aggraziati il corpo parla la lingua dell'artista. La danza sacra e il gioco sacro possono mediare l'esperienza religiosa. Spesso gli storici hanno messo in luce la connessione fra religione e gioco. Come il gioco trova in sé il proprio significato, così, ma in grado superiore, la religione ha il suo significato .e valore in se stessa e pertanto arricchisce tutta la vita.
    Anche il linguaggio umano è uno splendido gioco o, meglio, un gioco comunitario. Parlandoci a vicenda con fantasia e immaginazione, scoprendo le grandi possibilità del nostro linguaggio, noi diventiamo compagni di gioco che si aiutano l'un l'altro a scoprire dimensioni essenziali della verità. Il fatto che con le parole uno possa fare anche un gioco fatuo, non contraddice questa verità, ma semplicemente smaschera colui che non rispetta le regole del gioco. Il gioco del linguaggio e delle parole, quando è genuino, è fonte di gioia. È l'esperienza che la mia verità è bella solo se diventa anche la tua e che non troverò la mia verità se non sono aperto alla tua.
    Il paradigma del gioco ci aiuta a comprendere meglio che cosa significhi l'affermazione di Ireneo, che la nostra vita è per la gloria di Dio, ma anche che la gloria di Dio consiste nel far vivere felici gli uomini, dando a tutti la possibilità di giocare. «La gioia è il significato della vita umana, gioia nel rendere grazie e rendere grazie nella gioia... Allora ci chiediamo: a che cosa servo io? E la risposta non si trova negli scopi dimostrabili che stabiliscono la mia utilità, ma nell'accettazione della mia esistenza in quanto tale» (J. Moltmann).
    Come si rileva dalla storia, gioco e danza appartengono alla sfera religiosa quasi come la festa. «Il buon umore e la genuina serenità dell'uomo che gioca, per il quale serietà e allegria vanno sempre di pari passo, sono un fenomeno religioso; sono un qualcosa che risente dell'uomo terrestre e dell'uomo celeste» (H. Rahner).
    «Chi è capace di giocare e di danzare sa prendere le cose sul serio. E "preso" da ciò che sta facendo, ma la sua serietà è serenità, gioia, libertà traboccante. Nel gioco noi impariamo un tipo di serietà che è del tutto umano, assai distante dalla serietà di coloro che vedono la vita solo come un peso e non come un dono. La persona che gioca sa che il gioco è soltanto gioco e che essa deve adempiere seriamente il suo compito nel mondo, ma lo sa in una maniera che conferisce uno spirito di libertà alla serietà con cui adempie ai suoi doveri» (H.G. Gadamer).

    Importanza del gioco nella vita dei giovani

    Quella del gioco e dello sport è una attività che occupa una larga fetta del tempo libero dei giovani. Dai video-giochi ai campi sportivi, dai giochi da tavolo a quelli di società, dai giochi di ruolo ai giochi di azzardo, non mancano e anzi sono sempre più crescenti e variegate le occasioni di evasione e divertimento attraverso il gioco.
    L'unico elemento che può accomunare i tipi diversi di giochi è il desiderio di vivere una esperienza divertente dove tro- vare la propria identità e vedere riconosciuto un ruolo da protagonista che spesso la realtà quotidiana gli nega; oppure il desiderio di avere delle occasioni dove socializzare, competere, distrarsi, quindi soddisfare appieno quelle esigenze di protagonismo, di divertimento, di affermazione, di ricerca di stima e affermazione, fortemente ricercate nell'età adolescenziale.
    Ma che cosa è questo gioco? Tutti abbiamo ben presente che cosa sia un gioco, ma provare a definirlo fa sentire subito che qualcosa ci sfugge. Noi comunque vogliamo provare a ri- fletterci sopra e cominciamo a parlare di gioco come di una esperienza sicuramente piacevole e divertente, di manipolazione della realtà concreta secondo l'applicazione di alcune rego- le prefissate e che coinvolge la persona nella sua globalità in modi e quantità sempre diverse.
    Ad ogni età, e in particolare nelle fasi di crescita, dove si acquisiscono nuovi ruoli e responsabilità, dove cambiano le figu- re di riferimento sia a livello fisico che mentale, il gioco assume una funzione importante nello sviluppo della personalità, pro- ponendosi come «palestra di vita» dove ci si può consentire di provare, verificare, armonizzare e scoprire la propria identità.
    Si può allora «giocare di testa»: si utilizza il gioco perché stimoli le capacità di astrazione, di indagine e di fantasia della propria mente. Si può «giocare di corpo»: si impara a muoversi, a sgranchire e armonizzare, riequilibrare il proprio corpo che talvolta sfugge al proprio controllo e tal altra proprio non piace. Si può infine «giocare con gli altri»: il gioco può costringere ad aprirsi a nuove relazioni, a dover imparare a lavorare per o contro l'altro. Un collaborare, un interagire che diventa un indiretto guardarsi allo specchio e scoprire chi realmente siamo, come reagiamo alle situazioni, quali sentimenti più propriamente ci delineano.
    Giocare e lavorare con la testa, con il corpo e con gli altri è la base e la strada per poter crescere in modo armonico e completo. E il gioco, se pure in maniera talvolta inconsapevole, aiuta proprio a realizzare tutto questo, perché è: il luogo della espressione di sé, libera e incondizionata; il luogo della scoperta di sé, come individuo in formazione dotato di un corpo e un'anima in cerca di senso; il luogo dell'esercizio della propria progettualità, dove far esplodere la fantasia; il luogo della scoperta dell'altro e del sistema di relazioni che mi legano a lui; il luogo della conoscenza della realtà come sistema definito e strutturato da regole e da valori, dove imparare ad inserirmi e a operare.
    Il gioco è davvero una palestra di vita. Se, fin da piccoli, i ragazzi e i giovani riescono ad imparare a giocare in modo amichevole, in un clima di festa e di gioia per tutti, sono aiutati e facilitati a crescere in un atteggiamento critico di fronte a quel tipo di gioco che porta alla distruzione e alla morte.

    L'arte del gioco

    Il gioco può essere letteralmente ri-creazione, perché esso possiede un potere risanatore. L'arte del gioco e della celebrazione ci insegna anche l'arte di vivere in modo bello ed entusiasmante. Per verificarlo occorre solo confrontare un gioco bello con un gioco scorretto. Bisogna mettere in evidenza la differenza fra il gioco bello e comunitario entro rapporti sani, da una parte, e il gioco disturbato a causa di repressioni e disordini racchiusi nel subconscio, dall'altra. Queste prospettive aprono una via alla terapia per mezzo del gioco.
    In passato ci sono stati educatori e santi che giudicavano molto duramente il teatro, gli spettacoli e le gare competitive dei loro tempi. Era una valutazione storicamente condizionata e probabilmente necessaria per la loro epoca a causa di situazioni pericolose sia per l'incolumità fisica che per la condotta morale. Ma in questi ultimi secoli con Filippo Neri, don Bosco e tanti educatori c'è stata una rivalutazione del gioco, del teatro e dello spettacolo, come luoghi di educazione e di crescita nella santità.
    Anche oggi assistiamo a giochi e spettacoli che strumentalizzano e distruggono la dignità della persona, che viene valutata non per quello che è ma per quello che rende e fa vendere. Però ci sono tante esperienze di gioco, di sport e di spettacoli, in cui viene esaltata la dignità della persona e viene riaffermata l'importanza e la necessità che tutti, anche i meno dotati, possano partecipare e giocare, non per i primati da conseguire ma per la gioia di esprimersi con tutto se stessi.
    E necessario entrare e stare nel mondo del gioco e dello sport con atteggiamento di attenzione, di comprensione e di collaborazione.
    Si può contribuire alla promozione della cultura e della mentalità sportiva solo con un apprezzamento positivo e una chiara intelligenza del significato del gioco buono. Coloro che si sforzano di inserire questa componente vitale del gioco nelle grandi dimensioni dell'educazione e dell'evangelizzazione, vanno incoraggiati e lodati. Dopo di che possiamo dire una parola anche contro gli abusi, come ad esempio la crudeltà del pugilato che giunge fino al knock out, l'insensato e isterico culto dei divi, i balli indegni, i giochi osceni e cose simili.
    Nella gioia del gioco, nella cultura e nell'ammirazione del bello è necessario educarci ad essere coinvolti con simpatia e ottimismo nel fenomeno sportivo, ma anche a saper prendere le distanze con intelligenza e libertà. La persona nella quale è sviluppata in maniera armonica la dimensione del gioco, della festa e del bello sa mantenere quella distanza dal mondo e dalle cose che è necessaria per non essere strumentalizzata e per vivere in pienezza e trasmettere ad altri la voglia di vivere gioiosamente.
    Qualcuno ha provato ad immaginare un tipo di uomo e di comunità umana nei quali mancasse del tutto la dimensione dell'allegria. Ne risulta una comunità dove ogni movimento deve servire ad uno scopo concreto e tutto è mezzo e strumento per qualcos'altro; vi è una dipendenza completa che non lascia spazio alla libertà creativa.
    Qualche altro ci invita invece ad immaginare e a operare per realizzare un mondo plasmato da uomini il cui spirito e la cui esperienza portino l'impronta dell'allegria, della fantasia, della creatività e dell'espressione artistica. In tale contesto è minore la tentazione di operare in modo sleale nella gara, è minore la spinta alla violenza e maggiore la disponibilità all'incontro e alla collaborazione.
    Soprattutto nell'età giovanile il tempo del gioco è della massima importanza, e si danneggerebbero in modo irrepara-
    34bile i protagonisti di questa fase della vita se lo si restringesse o accorciasse indebitamente.
    Se i genitori sanno giocare con i figli, ciò va a beneficio degli uni e degli altri. Il culto del bello, della festa e del gioco apre al futuro, stimola la fantasia e la creatività, forma uomini capaci di affrontare molti problemi con la tranquillità della persona che gioca, e aiuta a scoprire la bellezza e la gioia del bene.

    Il gioco nell'esperienza di don Bosco

    Il gioco è considerato un punto del programma della formazione del giovane. Il gioco libera la gioia. Per questo è retto dalla spontaneità. È manifestazione di un equilibrio spirituale e mezzo per rafforzarlo. Don Bosco dice: «Ciascuno scelga, tra molti, il gioco in cui si sente più libero». Comporta però una disciplina propria e di vita, accettata, capita e personalizzata. Ci sono tempi, forme e regole per il gioco. Al gioco si attribuisce la capacità di far riposare la mente e al tempo stesso di mettere in esercizio e sviluppare forze corporali. E c'è una preferenza per i giochi di movimento su quelli sedentari.
    Accanto a questi valori, che sono interni al gioco, ci sono i valori dell'incontro con gli altri: la buona educazione, la capacità di collaborazione, l'amicizia, la generosità.
    Infine si apprezza l'influsso del momento ludico su tutto il processo educativo. Interessante ricordare l'episodio di quel giornalista che visitò l'Oratorio di Don Bosco e, vedendo la disciplina naturale, calma e allegra che vi regnava, chiese come la ottenesse. Don Bosco diede letteralmente questa risposta: «Noi invece di castighi, abbiamo l'assistenza e il gioco». Cioè essere presenti, condividere e impegnare la vitalità dei giovani nei giochi.
    Perciò dice anche: «Si dia ampia libertà di saltare, di correre, di schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina».
    Per tutto questo il cortile aveva un valore particolare per la conoscenza del giovane. In esso il ragazzo, decondizionato, mostrava spontaneamente le sue tendenze, la sua vitalità, le sue capacità.
    Il cortile era il luogo adatto a far cadere una parola. Lui dice di se stesso: «Io mi servivo di quella smodata ricreazione per insinuare nei miei allievi pensieri di religione. Agli uni con una parola nell'orecchio raccomandavo maggior ubbidienza e maggior puntualità nei doveri del proprio stato»

    Cosa fare in concreto?
    Educare alla gratuità

    La dimensione ludica dell'uomo si rivela nella sua identità di gratuità: questa, verificabile dall'esperienza umana, appartiene all'essenza stessa dell'uomo, in quanto creato a immagine di Dio, somma e perfetta gratuità. Ma il dato naturale va accolto, educato, arricchito di valore. Così anche nello sport la dimensione ludica si accompagna, in profondità, alla gratuità.
    Per crescere nella gratuità è necessario operare un passaggio:
    - dallo sport dove tutto è commerciale, tutto va pagato, tutto va comperato... al gioco che mette in evidenza il valcire della gratuità;
    - dallo sport dove tutto è competizione, tutto è prestazione, tutto è tornaconto... al gioco che mette in evidenza il valore del divertimento;
    - dallo sport che porta all'estremizzazione e alla violenza, all'efficientismo, alla strumentalizzazione, al tecnicismo, alla ripetitività... al gioco che mette in evidenza il valore della simbolicità, l'esperienza di gioia, di creatività, di fantasia.


    5. L'AGONISMO, COME COMPETIZIONE, NELLA VITA DEI GIOVANI

    L'agonismo-competizione nella Scrittura

    Lo sport, diceva Paolo VI, «è un simbolo d'una realtà spirituale che costituisce la trama nascosta, ma essenziale, della nostra vita; la vita è uno sforzo, la vita è una gara, la vita è un rischio, la vita è una corsa, la vita è una speranza verso un traguardo, che trascende la scena dell'esperienza comune, e che l'anima intravede e la religione ci presenta». Questa affermazione fa eco all'apostolo Paolo, che ricorre all'immagine della corsa e della gara sportiva per indicare alcuni tratti caratteristici della vita cristiana (1 Cor 9,24-27): «Sapete che nelle gare allo stadio corrono in molti, ma uno solo ottiene il premio. Dunque, correte anche voi in modo da ottenerlo! Sapete pure che tutti gli atleti, durante i loro allenamenti, si sottopongono a un rigida disciplina. Essi l'accettano per avere in premio una corona che presto appassisce; noi invece lo facciamo per avere una corona che durerà per sempre. Perciò, io mi comporto come uno che corre per raggiungere il traguardo e come un pugile che non tira colpi a vuoto. Mi sottopongo a dura disciplina, e cerco di dominarmi per non essere squalificato».
    Anche un autore del secondo secolo, in una sua omelia, si rivolgeva ai cristiani così: «Facciamo ogni sforzo sapendoci impegnati in una nobile gara, mentre vediamo che molti volgono l'animo a varie competizioni. Ma non saranno coronati se non quelli che avranno lavorato seriamente e gareggiato con onore. Sforziamoci perché tutti possiamo ottenere la corona. Corriamo nella via giusta, lottiamo secondo le regole, navighiamo in molti vincendo gli ostacoli, per essere coronati; e anche se non tutti riporteremo il primo premio, almeno avviciniamoci ad esso più che sia possibile. Chi nella gara si comporta in maniera sleale viene squalificato. E non dovrà essere condannato chi non osserva le giuste regole nella gara per la vita eterna?» (cf Sport e vita cristiana 34).
    Nella vita per ottenere qualcosa è necessario dare tutto il meglio di se stessi. Non si tratta di vincere sugli altri, ma è necessario prima di tutto vincere su se stessi.
    Viene riconosciuta in qualche modo una obiettiva predisposizione della pratica sportiva all'educazione cristiana, una felice congenialità dell'esperienza sportiva con quella religiosa. Emerge anzitutto l'aspetto di impegno, di applicazione e di sforzo, di disciplina e di rispetto delle regole di vita (non solo di gioco) particolarmente severe: una specie di patrimonio «ascetico», capace di costruire personalità robuste. Lo stesso desiderio di andare oltre, di raggiungere nuovi traguardi prestigiosi, può diventare, se ben orientato, stimolo all'impegno spirituale, a superare se stessi, alla formazione permanente (cf Sport e vita cristiana 34).

    L'agonismo-competizione nella vita dei giovani

    Prima di tentare di comprendere il ragazzo e il giovane come uno che gioca e si mette in confronto con gli altri, è bene chiedersi quale tipo di gioco e sport scelgono i ragazzi e i giovani d'oggi. Molti purtroppo si interessano del gioco e dello sport piuttosto come spettatori e tifosi di quelli che giocano che come giocatori.
    Per il gioco «spettacolo», il gioco «visto», il primo posto è occupato dalla televisione, che permette di assistere alle partite che interessano standosene comodamente seduti in poltrona e in casa. Per gli affezionati e i tifosi c'è anche lo stadio o il palazzetto dello sport. Tra gli sport più seguiti e più trasmessi ci sono quelli spettacolari del calcio, del volley, del basket, delle corse automobilistiche, del pugilato... Dipende per lo più dagli interessi e dai soldi che fanno girare e fanno guadagnare. Tutto ciò è in qualche modo specchio della vita dei nostri giorni, basata sullo spettacolo, sull'immagine e sul profitto.
    Riflettiamo su uno stadio pieno di giovani che seguono la propria squadra e spesso si identificano con gli undici giocatori. La partecipazione alla partita della propria squadra sconvolge la giornata: fin dal mattino ci si organizza insieme agli amici tifosi, si viaggia insieme con sciarpe e bandiere che esprimono la propria «fede sportiva», si entra nello stadio e incomincia una grande festa all'insegna dell'entusiasmo, che fa dimenticare ogni altro problema e preoccupazione. Può essere una specie di simbolo del culto della competizione e della celebrazione del campione, che si desidera diventare, almeno nei sogni.
    Dal mattino alla sera una voglia di scaricare tensioni accumulate, difficoltà non superate. Non c'è spazio né tempo per la riflessione, per l'incontro con gli altri, tanto meno per la preghiera e per l'incontro con il Signore.
    Per i giocatori in genere il campo di gioco è il luogo della competizione, risulta il campo di lavoro, al quale ci si prepara e nel quale si tenta di vincere, anche per questione di compensi.
    Da qualche comportamento e in qualche momento della gara, per i motivi più vari (un fallo subito, una punizione inflitta...) può diventare anche per loro un luogo di scontro anche fisico, un campo di battaglia: l'altra squadra è formata non da giocatori con i quali si compete e ci si guadagna da vivere, ma da avversari da neutralizzare e sconfiggere. Nel caso soprattutto del calcio, dove il contatto tra i giocatori è continuo e diretto, lo scontro fisico avviene già in campo.
    Ciò che capita in campo può suscitare reazioni a catena negli spettatori e nei tifosi delle gradinate. E allora anche le gradinate dello stadio diventano un campo di battaglia, il più delle volte con slogan e invettive, qualche volta con lo scontro fisico diretto. Anche il tifoso dell'altra squadra è un avversario da neutralizzare e far fuori. Essere in molti e organizzati quindi è garanzia di non essere sopraffatti e distrutti e di poter sconfiggere gli altri.
    Al termine della partita l'entusiasmo per la vittoria o la rabbia per la sconfitta della propria squadra esplode in manifestazioni e in intemperanze che hanno, purtroppo, lo stesso esito: violenza e distruzione.
    Alla fine di una manifestazione sportiva, soprattutto calcistica, il bilancio è di strutture distrutte, di giovani all'ospedale, di altri in questura per violenza verso altri tifosi, o resistenza alle forze dell'ordine.
    Pensiamo anche alle corse automobilistiche, che attirano decine di migliaia di spettatori tra i giovani. Esse sono una specie di simbolo del culto della velocità che diventa droga: di quella fretta che non ha mai tempo per la riflessione, per la preghiera e per la contemplazione, che soffoca sul nascere i sentimenti o i pensieri profondi e che qualche volta miete anche vite umane sia tra i piloti sia tra gli spettatori.
    Nemmeno la morte riesce a fermare manifestazioni che sono organizzate all'insegna della velocità e della potenza. Dobbiamo dire che anche in questo lo sport è uno specchio fedele della nostra società e cultura che rischia di poggiare tutto sull'efficienza, sul prestigio e sull'utile.
    Risulta dunque chiaramente che l'agonismo è una componente della vita sociale e culturale e, in modo più visibile, della pratica sportiva. Il desiderio di affermarsi e di ottenere un risultato soddisfacente appartiene come elemento fondamentale alla vita stessa e anche alla pratica sportiva. È un fattore di stimolo, di miglioramento e di emulazione.
    Il giovane è portato, anche nel mondo dell'educazione, a mettersi a confronto con gli altri e a competere; ma rischia, qualche volta, di mettersi «contro» gli altri e non insieme agli altri. Si tratta di trasformare la rivalità in confronto aperto, e anche in apprezzamento delle capacità degli altri. Bisogna sempre ricordare che se l'agonismo come competizione è positivo, l'aggressività è nefasta; se l'emulazione è traente, la rivalità è deleteria; se lo sforzo è costruttivo, la violenza è distruttiva (cf Giovanni Paolo II).
    L'incontro e il confronto con l'altro deve spingere a dare il meglio di se stessi. È emblematico a questo proposito la gara ciclistica (velocità su pista) in cui si cerca, facendo surplace, non di partire per primo, ma di far partire il concorrente, che diventa con la sua azione spinta a dare il meglio e superarlo.

    L'arte dell'agonismo, come arte del competere

    Siamo convinti che la parola agonismo evoca atteggiamenti di contrasto e porta a comportamenti di aggressività, di rivalità e di violenza. È meglio parlare di competizione, che esprime meglio il desiderio di raggiungere e superare un traguardo insieme agli altri e non contro gli altri con lealtà e serenità. Anche i termini che usiamo nei riguardi degli altri che incontriamo e con cui gareggiamo è altrettanto emblematico. Fino a quando lo chiameremo avversario, contro cui ci si pone, è facile ridurlo a nemico da eliminare. Il caso del calcio è fra i più emblematici. La stessa disposizione delle squadre in campo ricorda lo schieramento militare prima della battaglia, con ali, mezzali, difesa, attacco, ecc.; oppure quando il linguaggio dei telecronisti e dei giornalisti sportivi riecheggia continuamente la cronaca di uno scontro armato («Del Piero si destreggia tra le fila avversarie»; «Vieri fa partire una bordata che s'infila in rete»; «Baggio entra in area e porta scompiglio nella difesa avversaria»). In queste condizioni, a poco a poco la «battaglia» esce dall'ambito delle metafore e delle simulazioni per trasferirsi su un piano fattuale di scontro fisico qual è quello tra bande di tifosi ultras. I tifosi varcano il confine del simbolo ed è difficile farli retrocedere.
    È necessario quindi riflettere sul nesso tra sport fortemente competitivo e manifestazioni di violenza. Si tratta di abolire il concetto di agonismo come competizione sfrenata e cioè scontro contro gli altri, dove necessariamente c'è un vinto e un vincitore, dove il campo di «battaglia» presenta sempre qualche vittima.
    La competizione come prova con se stessi, per esempio nei confronti di un agente esterno (il tempo), è quanto mai stimolante e positiva per la crescita personale. La sfida come capacità di mettersi alla prova è decisamente esaltante, ma non c'è nessun motivo di coltivare questa innata vocazione umana a scapito degli altri.
    Ci troviamo così al cuore delle nostre aspirazioni: riuscire a concepire e a realizzare un modo di collaborazione e di stare assieme che sappia conservare l'originalità di ogni persona, la sua differenza, la sua ricchezza, la sua creatività.
    Bisogna educare i ragazzi e i giovani fin da piccoli a giocare e vivere la gara sportiva non come lotta e scontro contro qualcuno, ma come incontro e confronto con altri, a competere con gli atleti di un'altra società e non con degli avversari da sconfiggere.
    Una prima esigenza di tipo educativo è cambiare il vocabolario, passare dall'uso di termini tipici dell'ambiente «militare» (avversari, lotta, combattimento, vittoria, sconfitta) all'uso di termini dell'ambiente «civile» (atleta, gara, competizione, risultati personali e di squadra). Partecipare alla gara, conseguire dei risultati personali e di squadra, saper riconoscere e apprezzare quelli degli altri, raggiunti anche con il proprio apporto, educa a un tipo di gioco che non porta alla violenza e allo scontro ma al rispetto e alla sana competizione.
    Coloro che sanno gioire insieme e celebrare insieme la vita, imparando così il linguaggio del gioco, non sono disarmati di fronte all'aggressività di tanti programmi televisivi e tante situazioni di violenza.

    Lo spirito di competizione, come superamento di se stesso, in Giovannino Bosco

    Nei giorni di festa i ragazzi delle case vicine e anche di borgate lontane venivano a cercare Giovannino Bosco, che dava spettacolo eseguendo alcuni giochi che aveva imparato.
    Nei giorni di mercato e di fiera andava a vedere i saltimbanchi, osservava attentamente i giochi di prestigio, gli esercizi di destrezza. Tornato a casa, provava e riprovava finché riusciva a realizzarli anche lui. Bisogna immaginare le cadute, i ruzzoloni, i capitomboli che dovette rischiare. Eppure, anche se è difficile crederlo, a undici anni faceva i giochi di prestigio, il salto mortale, camminava sulle mani, saltava e danzava sulla corda, come un saltimbanco professionista.
    Ogni pomeriggio festivo offriva un saggio delle sue capacità atletiche.
    Ai Becchi c'era un prato in cui crescevano diverse piante. Una di esse era un pero autunnale molto robusto. A quell'albero Giovannino legava una fune, che tirava fino ad annodarla a un'altra pianta. Accanto collocava un tavolino con la borsa del prestigiatore. In terra stendeva un tappeto per gli esercizi a corpo libero.
    Eseguiva salti mortali, camminava sulle mani, faceva evoluzioni ardite. Poi attaccava i giochi di prestigio. Mangiava monete e andava a ripescarle sulla punta del naso degli spettatori. Moltiplicava le palline colorate, le uova, cambiava l'acqua in vino, uccideva e faceva a pezzi un galletto per farlo subito dopo risuscitare e cantare con allegria. Finalmente balzava sulla corda e vi camminava sicuro come sopra un sentiero: saltava, danzava, si appoggiava con le mani gettando i piedi per aria, o volava a testa in giù tenendosi appeso per i piedi.
    Dopo alcune ore era stanchissimo e chiudeva lo spettacolo, recitando una breve preghiera e ognuno se ne tornava a casa.

    Cosa fare in concreto?
    Educare all'agonismo-competizione

    L'istanza agonistica e competitiva è connessa all'esperienza umana: già nella prima fanciullezza si manifesta in forma pienamente riconoscibile. Quanto di essa appartenga alla natura dell'uomo e quanto sia segno dell'influsso del peccato delle origini è quasi impossibile dirlo. A noi basta qui rilevare che la realtà agonistica e competitiva è sempre costituita dall'intreccio di queste due radici, la natura e la condizione storica, che impongono una precisa attenzione educativa.
    Per vivere l'agonismo come competizione è necessario operare il passaggio:
    - dallo scontro diretto, in cui vige il mito della vittoria, del superamento e della eliminazione dell'altro... alla competizione, nella quale l'emulazione tende al risultato senza farne il valore principale e decisivo;
    - dalla prospettiva esclusivamente agonistica... alla possibilità di esprimere al massimo grado le potenzialità dell'opera creatrice di Dio;
    - dall'aggressività, dalla rivalità, dalla violenza... allo sforzo, alla emulazione, al rispetto del concorrente, al riconoscimento del suo valore, al desiderio di ottenere un risultato e vincere;
    - dalla legge del più forte... al rispetto delle regole del gioco, alla lealtà, alla capacità di autocontrollo, alla disponibilità alla collaborazione;
    - dal protagonismo individuale, in cui a prevalere è il singolo e la personalità dell'altro viene schiacciata o misconosciuta, dal gregarismo avvilente... al gioco di squadra, in cui ognuno ricopre un ruolo ugualmente importante per il risultato, alla vittoria corale.


    6. L'ACCETTAZIONE DEL LIMITE E DELLA SCONFITTA

    Il limite nella Sacra Scrittura

    In Gn 1,27 si afferma che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio e nel Salmo 8 viene presentato quasi sospeso tra l'insignificanza della sua piccolezza e lo stupore della sua grandezza: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi». Si ritrovano espressi nella Sacra Scrittura i due tratti fondamentali dell'uomo, che all'apparenza sembrano contraddirsi: da una parte la sua fragilità disarmante che contrasta con lo splendore dei cieli, dall'altra la sua sovrumana grandezza, che uguaglia quasi quella degli angeli. Per la Sacra Scrittura l'uomo non è di natura immateriale, ma, come ogni altra realtà vivente che appare sulla terra, è sottoposto alla legge della vita umana: del nascere, del crescere, del deperire e del morire. È quindi un essere fragile e debole. L'uomo nella Sacra Scrittura è limitato, non vive in forza di se stesso, ma in forza di un Altro. Con molta acutezza è stato scritto: «Nessun uomo ha deciso di venire al mondo!».
    Nella parabola dei talenti (cf Mt 25,14-30) Gesù ci annuncia che ogni persona ha un insieme di doni, che vanno scoperti e valorizzati, per far sì che ognuno sia un capolavoro originale. Nella lettera ai Romani (14,4-8) infine l'apostolo Paolo ci ricorda che ogni persona è diversa dalle altre e vive in funzione e con gli altri. In sintesi quattro sono i concetti fondamentali: ogni persona è una creatura «limitata», ma è una ricchezza e un insieme di doni ricevuti, è un segno visibile della diversità e dell'originalità voluta dal Creatore, ha bisogno degli altri e si realizza con e per gli altri.

    Importanza dell'accettazione del limite

    Ogni giorno facciamo l'esperienza dei nostri limiti. Vorremmo essere diversi, capaci di affrontare e superare ogni ostacolo di natura fisica, intellettuale, affettiva, sociale, e ci ritroviamo spesso deboli e stanchi nel fisico, non sempre capiti in quel che pensiamo ed esprimiamo, qualche volta fraintesi per qualche gesto di simpatia, e male interpretati per impegni di servizio verso gli altri.
    Il nostro «io» porta dei germi di positività in sé; occorre anzitutto recuperare questo senso potenzialmente positivo di se stessi. Si tratta di recuperare, e non conquistare, perché dentro di noi esiste già questa positività radicale, almeno a livello potenziale. Si tratta di riscoprire, di far emergere pienamente questa realtà di sé.
    È necessario cercarla non al di fuori di sé, nella stima degli altri ad ogni costo o nelle situazioni di gratificazione e di successo. Va cercata all'interno del proprio sé, in ciò che più essenzialmente fa parte della nostra identità profonda. E una realtà della persona presente in germe fin dall'inizio della vita, in attesa di potersi sviluppare in base alle proprie energie interiori e alle condizioni favorevoli, interne alla persona e socio-ambientali.
    Questo essere personale profondo è costituito dall'insieme delle ricchezze e dei limiti che lo costituiscono così come è. Esso è essenzialmente positivo, anche se limitato. È fatto da tutte le tendenze buone, dalle qualità, dai doni naturali, dai talenti, dalle aspirazioni profonde, dai dinamismi di vita.
    Questo essere personale profondo non è solo ricchezze. È anche limiti. Ci sono cose che non possiamo fare. Non possiamo fare tutto e ci sono delle azioni nelle quali non ci lanceremo mai. La nostra intelligenza ha i suoi limiti e non possiamo capire tutto. Le nostre qualità di fondo fisiche, psichiche, morali e spirituali sono anch'esse limitate.
    In genere facciamo fatica a prendere coscienza dei nostri limiti, poiché, spinti dal desiderio di essere di più, tendiamo facilmente a minimizzarli e ad andare al di là delle nostre effettive capacità. Prendere coscienza dei propri limiti è altrettanto importante che prendere coscienza delle proprie ricchezze e capacità. Solo allora si può trovare la propria vera identità, il proprio posto. Ne risulteranno equilibrio dinamico e armonia della persona.
    L'arte del riconoscere e accettare se stesso come limitato
    La realtà interiore di ciascuno è simile a quella della parabola evangelica del buon grano e della zizzania. Bisogna non pretendere che ci sia subito e solo il buon grano. Chi pretende subito e solo buon grano, senza alcuna traccia di zizzania, si condanna alla sterilità e all'immobilismo interiore, poiché essi per legge naturale si trovano a coesistere assieme, a condizionarsi reciprocamente. Per il risultato finale sarà decisiva la coltivazione diretta del buon grano. Bisogna perciò incrementare il buon grano, tenere sotto controllo la zizzania e attendere la mietitura.
    Ecco alcuni passi in questa direzione.

    Accettare il proprio passato

    Non ha senso e non serve stare a rodersi oppure illudersi di mettere una pietra sul passato, come se fosse morto. La realtà, tutta la realtà, va riconosciuta, assunta e accettata in tutte le sue dimensioni.
    L'accettazione positiva del proprio passato riesce possibile a queste condizioni:
    – che ci si abitui a «comunicare con se stessi», con tutto se stessi, compreso il proprio mondo fatto di paure irrazionali, di fantasie infantili, di timori ingiustificati, di rifiuti immotivati;
    – che si sdrammatizzino e ridimensionino le esperienze negative infantili e adolescenziali. Esse vanno riportate alle loro giuste dimensioni alla luce del senso della realtà degli adulti, liberandole dalla loro carica di colpevolezza e di inferiorità. Di solito queste esperienze si rifanno a situazioni di vita reali o immaginarie, vissute come inferiorizzazione di sé, come menomazione del proprio essere nel rapporto con gli altri, nel confronto con alcune persone significative.
    L'accettazione vera del proprio passato ha come effetto quello di dissigillare le energie che spesso giacciono prigioniere nel fondo del proprio essere. Sotto il peso di paure, di sensi di colpa, di inferiorità, di inadeguatezza, accumulati fin dall'infanzia, ci sono spesso in ogni persona possibilità inaspettate, come miniere di metallo prezioso il cui ingresso è stato ostruito da una frana. Nessuna particolare situazione di vita o incontro con persone ha avuto modo di rimuovere il blocco. Per molte persone l'accettazione del proprio passato, fuori da schemi moralistici e perfezionistici, ha comportato ritrovare una gioia di vivere mai sperimentata precedentemente.

    Riconoscere e accettare i propri limiti

    Ciò esigerà che non si resti prigionieri di un senso di frustrazione, che si superino i propri «desideri infantili di onnipotenza» spesso risorgenti in nuove edizioni, che si ridimensioni l'io illusorio, nutrito di sogni e di evasioni.
    È partendo dall'accettazione e riconoscimento della realtà, dei propri limiti e delle proprie potenzialità che ci si inserisce nel reale personale e ambientale per modificarlo da dentro secondo un dato progetto di vita. Il rifiuto del reale e dei propri limiti, anche se mascherato da velleità rivoluzionarie, non consente una vera azione di cambio duratura. La crescita autentica parte sempre da dentro, nella misura in cui si impara a fare i conti con la realtà, senza tuttavia restarne prigionieri.
    Le esperienze del limite, le inevitabili frustrazioni segnano l'incontro con la realtà. Questa realtà si fa cogliere subito non solo come lo spazio di soddisfazione dei propri desideri, ma come un cammino che già impegna al rispetto dell'altro, al riconoscimento delle sue esigenze.

    Fare una positiva esperienza di sé

    Essa prende avvio e si nutre della scoperta diretta delle proprie doti e talenti nel vissuto quotidiano e della sottolineatura degli aspetti positivi presenti in ogni persona e situazione umana. È necessario, per una sana igiene psichica, abituarsi a godere dei propri successi in modo equilibrato mediante un «esame di coscienza psicologico», che tende a sottolineare gli aspetti positivi, le piccole riuscite. Questo è un bene psichico irrinunciabile che sta anche a fondamento della vera umiltà, che è prima di tutto verità.
    L'equilibrio tra aspirazioni e vita concreta dovrà pure derivare da un pizzico di umorismo indispensabile nei propri confronti e nei confronti degli altri.
    Con molta acutezza san Tommaso Moro pregava: «Dammi, o Signore, la salute del corpo col buon umore necessario per mantenerla. Dammi un'anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che io mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo invadente che si chiama "io"».
    Ciò porterà, a poco a poco, a liberarsi sostanzialmente dal senso di colpa e dal sentimento di inferiorità, dal perfezionismo e dall'idealismo.
    La «positiva esperienza di sé» si concretizza nelle forme più svariate. Potrà essere di volta in volta la valorizzazione della persona nell'esercizio di una responsabilità adeguata. Altre volte sarà l'impiego attivo in un clima di reciproca accettazione e amicizia. Normalmente l'apertura verso gli altri, opportunamente realizzata, fa scaturire dal fondo del proprio essere energie insospettate. Il contatto frequente con una guida competente mediante una azione fatta di sostegno affettivo e normativo e di chiarificazione faciliterà l'acquisizione graduale del vero senso di sé e della realtà. Bisogna in questo settore prendere l'iniziativa.
    Giovannino Bosco tra limiti e ostacoli ricomincia da capo
    Ecco una pagina interessante per il realismo e lo spirito di iniziativa che la pervade. «Siccome gli studi fatti fin'allora erano un po' di tutto, cioè un po' di niente, fui consigliato a iscrivermi alla sesta classe (una specie di prima media). Dell'insegnante, il teologo Pugnetti, ho un ottimo ricordo. Mi trattò con molta gentilezza. Vedendo la mia età e la mia buona volontà, mi aiutava a scuola, mi invitava a casa sua, non risparmiava fatica per farmi riguadagnare il tempo perduto.
    Per la mia età (16 anni compiuti) e la mia statura, tra gli alunni piccolini sembravo un pilastro. Era una situazione che mi avviliva. Dopo appena due mesi, avendo ottenuto una splendida pagella, fui ammesso all'esame per passare in quinta (l'ordine delle classi era decrescente: dalla quinta si passava alla quarta, alla terza, ecc.).
    Entrai volentieri nella nuova classe, perché gli alunni erano un po' più grandi, e il professore era il mio caro amico don Valimberti.
    Passati altri due mesi, ottenni nuovamente splendidi voti. In via eccezionale fui ammesso a un altro esame e promosso alla quarta. In questa classe era professore Vincenzo Cima, uomo severo, che teneva in classe la massima disciplina. Al vedersi comparire in scuola, a metà anno, un alunno grande e grosso come lui, disse, scherzando: "Costui o è una grossa talpa o un grande ingegno". Un po' spaventato da quell'uomo severo dissi: "Qualcosa di mezzo. Sono un povero giovane che ha buona volontà di fare il suo dovere e di progredire negli studi". Quelle parole gli piacquero, con insolita amabilità soggiunse: "Se hai buona volontà, sei in buone mani. Non ti lascerò a perdere il tempo. Fatti coraggio. Quando incontri qualche difficoltà, dimmelo immediatamente, e ti aiuterò". Lo ringraziai di cuore».
    Giovanni Bosco, con realismo, prende coscienza della sua situazione e dei suoi limiti, con coraggio punta tutto sulle sue potenzialità ancora inespresse e con fiducia si avvale della collaborazione degli altri.

    Cosa fare in concreto?
    Educare alla sconfitta

    Imparare a perdere senza considerarsi perdenti è un traguardo ambìto da ogni progetto educativo: ne dipendono in larga misura l'equilibrio emotivo e la tenuta dí personalità del giovane atleta. Una qualità che non si improvvisa: ciascuna persona conosce la frustrazione della sconfitta e la gelosia verso il vincitore. Essa richiede, piuttosto, una sensibilità basata sull'assimilazione di valori fondamentali, coltivata attraverso un vero tirocinio educativo, mediante dinamica di gruppo, revisione di vita, ecc., inserita in una atmosfera favorevole, in cui si indagano le cause dell'insuccesso, invece dí perseguire il «colpevole» e lasciare che l'aggressività si scateni sul capro espiatorio.
    Per educarsi alla sconfitta è necessario operare il passaggio:
    – dal considerarsi superiore agli altri, quasi onnipotente... a scoprire la propria corporeità e riconoscere i limiti e le cadute di forma, senza farne una tragedia, accogliendoli come segni di quella precarietà e imponderabilità da cui è segnata l'esistenza umana;
    – dalla presunzione, che rovescia sugli altri la responsabilità della sconfitta, dall'introversione che cade nella prospettiva di ineluttabilità e tende a sfociare nello sconforto... al confronto, alla riflessione comune e all'approccio sereno con la realtà dell'essere tutti difettosi;
    – dalla cura eccessiva e medicalizzazione inquinata... all'accettazione del corpo, come capolavoro di Dio, anche se non perfetto;
    – dalla strumentalizzazione e dall'efficientismo... alla capacità di meraviglia;
    – dalla schiavitù del risultato tecnico... al rispetto della persona integrale;
    – dal considerare soltanto i propri errori e cercare il capro espiatorio... al riconoscere i meriti degli altri, che hanno giocato meglio.


    7. LA VITTORIA COME AFFERMAZIONE DI SÉ CON GLI ALTRI

    La vittoria come segno di riuscita nella Sacra Scrittura

    Gesù con molta decisione ci presenta un progetto di vita in cui ciascuno di noi è chiamato ad essere «perfetto, così come è perfetto il Padre che è in cielo» (cf Mt 5,48). Ci chiama ad essere liberi, vittoriosi su noi stessi e persone che stanno in piedi come «risorti». Siamo creati per vivere, crescere, affermarci e vincere: vincere, prima di tutto, noi stessi e, poi, con e per gli altri.
    Paolo, scrivendo ai Filippesi (cf Fil 3,1244), li impegna a gareggiare nella vita, che diventa un traguardo da conquistare con impegno e sacrificio, perché dia gioia e soddisfazione. «Io non sono ancora arrivato al traguardo, non sono ancora perfetto! Continuo però la corsa per tentare di afferrare il premio, perché anch'io sono stato afferrato da Cristo. Fratelli miei, io non penso davvero di avere già conquistato il premio. Faccio una cosa sola: dimentico ciò che sta alle mie spalle, e mi slancio verso ciò che mi sta davanti. Continuo la mia corsa verso il traguardo per ricevere il premio della vita, alla quale Dio ci chiama per mezzo di Cristo Gesù».
    Ricordiamo ancora una volta lo slogan di Ireneo di Lione, che afferma che la gloria di Dio, cioè ciò che fa felice il Signore, è l'uomo «vivente», cioè l'uomo che dice di sì alla vita e vive in pienezza.
    Il sì alla vita non può che partire dall'accettazione della sua fragilità. Dire sì alla vita è, anzi, accogliere con rispetto questa debolezza dell'uomo, non per adagiarsi, deprimersi e vivere nella debolezza.
    L'uomo è chiamato a diventare forte nella sua debolezza, nei suoi limiti, utilizzandoli con intelligenza nel costruire se stesso.
    Nella sua debolezza e nei suoi limiti, in effetti, l'uomo scopre che, a differenza degli animali, la sua realizzazione non è scontata. A differenza degli animali, l'uomo se non si costruisce, se non si impegna nella riuscita nella vita, non è uomo.
    Per costruirsi l'uomo deve prendere atto che la sua qualità più grande è la possibilità di «progettarsi», cioè di riconoscere quali sono i limiti, qui-ora della sua vita, e «buttarsi» oltre, saltando oltre i limiti del presente.
    Nel progettarsi e realizzare il suo progetto, l'uomo sperimenta la fatica e la sofferenza. Ma al termine di quella fatica e sofferenza tocca con mano la vittoria e la felicità. L'uomo, in effetti, sperimenta la vittoria e la felicità vera, non quando consuma cose o opprime persone, ma quando riesce a spostare, almeno di un poco, i limiti concreti della sua forma fisica e della sua esistenza. La felicità è figlia del sapersi limitati, del coraggio di progettarsi, dell'affrontare l'impegno e la sofferenza in vista del battere, prima di tutto, i propri record. Amare la vita è scommettere che, nel concreto delle situazioni e dei limiti, si può elaborare una progetto realistico, la cui realizzazione dà la felicità.

    La vittoria nella vita dei giovani

    Il sogno di ogni giovane è affermarsi, vincere e riuscire, e rappresenta un bisogno costitutivo di ogni persona. Molte scelte sono dettate, direttamente o meno, da questa necessità. La scuola, la pubblicità, certi gruppi, ecc. propongono per riuscire strade diverse tra loro, talora opposte.
    Alcuni investono le loro energie prevalentemente in vista dell'avere, del possedere il più possibile beni di consumo. Ritengono che quanto più denaro, case, oggetti di valore commerciale riescono ad accumulare, tanto più sentono di valere.
    Alcuni nella scuola o nella vita quotidiana familiare sono centrati prevalentemente sull'affermazione di sé ad ogni costo.
    Ritengono di essere persone riuscite nella misura in cui riescono ad imporsi agli altri, a farsi ammirare nell'ambiente in cui vivono e in quello più vasto della risonanza dei mass media. Le doti personali, la capacità di esprimersi, la furbizia, ecc. servono soprattutto per questo.
    Altri inseguono una riuscita di sé irraggiungibile in partenza, resa impossibile di fatto da date condizioni di vita. Si ritengono esclusi, pur perseguendo un sogno di realizzazione di sé che agisce nella loro vita ad un tempo come miraggio e come smentita.
    Altri ancora sono prevalentemente centrati sulla soddisfazione dei loro bisogni a livello di voglie, di desideri immediati, di sensazioni. Si ritengono tanto più riusciti quanto più riescono a carpire soddisfazioni e livello di divertimento.
    Altri, pur sentendo l'attrattiva di tutti questi poli magnetici, l'avere e il possedere, l'affermazione di sé ad ogni costo, spesso solo nel rimpianto, la sete di gratificazioni sensibili, hanno trovato dentro di sé «qualcosa che tiene e permane», capace di vera durata.
    La gioia di vivere che ne deriva, la luce che dà senso alle varie vicende, il filo conduttore che le unifica e le rende significative, la forza che sostiene l'impegno di sé nel servizio, la coerenza di vita che ne deriva, pur con le varie debolezze umane, il realismo e l'autoaccettazione, sono segni inconfondibili di questo centro unificatore e realizzatore.

    L'arte di vincere nella vita

    Paolo VI ha scritto: «Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita, è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare: il loro pieno svolgimento, frutto a un tempo dell'educazione ricevuta dall'ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno di orientarsi verso il destino propostogli dal suo Creatore. Dotato d'intelligenza e di libertà, egli è responsabile della sua crescita, così come della sua salvezza. Aiutato, e talvolta impedito, da coloro che lo educano e lo circondano, ciascuno rimane, qualunque siano le influenze che si esercitano su di lui, l'artefice della sua riuscita o del suo fallimento: col solo sforzo della sua intelligenza e della sua volontà, ogni uomo può crescere in umanità, valere di più, essere di più» (cf Populorum Progressio n. 15).
    Ogni essere umano nasce come qualcosa di nuovo, qualcosa di mai esistito prima. Ognuno di noi nasce con la capacità di «vincere» nella vita. Ognuno ha un suo modo originale di vedere, ascoltare, toccare, gustare e pensare. E dunque ognuno ha un suo proprio irripetibile potenziale di possibilità e di limiti. Può essere espressivo, consapevole, creativo.
    Ogni giovane ha diverse potenzialità di vittoria. Questa però non sta nel successo ma nell'autenticità. Una persona autentica vive la propria realtà conoscendo se stesso, essendo se stesso, diventando sempre più credibile e sensibile.
    Le persone autentiche realizzano la propria irripetibile individualità personale e apprezzano quella degli altri.
    Le persone autentiche non dedicano la loro vita a fabbricarsi una propria immagine ideale di stessi. Semplicemente sono se stessi; e appunto per questo non sprecano energie né a recitare una parte né a simulare né a manipolare gli altri. Le persone autentiche sono in grado di farsi conoscere per quello che sono anziché proiettare immagini che piacciano, provochino o seducano. Sanno che amare è diverso dall'agire come se si amasse, e che vi è differenza fra essere stupidi e agire da stupidi, fra essere intelligenti e mostrarsi intelligenti. Non sentono il bisogno di nascondersi dietro una maschera e si liberano da ogni immagine non realistica di sé, così di inferiorità come di superiorità.
    Le persone autentiche non hanno paura di pensare a modo loro e di usare le proprie cognizioni; sono in grado di separare i fatti dalle opinioni e non pretendono di avere pronte tutte le soluzioni. Ascoltano gli altri e, pur tenendo nel giusto conto ciò che costoro dicono, ne traggono proprie conclusioni. Anche se sanno ammirare e rispettare gli altri, non si lasciano limitare, demolire, costringere o impaurire.
    La persona autentica non recita la parte dell'incapace né gioca «al ribasso»; si assume invece la responsabilità della propria vita e non concede a nessuno una falsa autorità su di lui. Sa di dipendere solo da se stesso. La persona autentica fa un giusto uso del tempo, reagisce in ogni situazione in modo appropriato. Il tempo è prezioso e dunque non si spreca, ma lo si vive nel «qui e ora».
    Le persone autentiche imparano a conoscere i propri limiti e i propri sentimenti e a non averne paura. Sono perlopiù persone spontanee. Non si sentono cioè costretti a reagire in modi predeterminati e rigidi, ma sanno quando è necessario modificare i loro piani. Hanno il gusto della vita, amano il gioco, lo studio, gli essere umani, il mondo della natura. Senza sensi di colpa si godono i propri successi; e senza invidia partecipano al successo degli altri. Le persone autentiche possono divertirsi liberamente, ma possono anche rimandare il momento del piacere. Sanno disciplinarsi nel momento presente per godere di più nel futuro. Le persone autentiche non hanno paura di inseguire quello che vogliono ma lo fanno nel modo adatto; non ottengono la sicurezza di sé prevaricando sugli altri, ma neppure si propongono di perdere.

    Un sogno: vincere se stessi, per vincere con e per gli altri

    Giovannino Bosco a nove anni fa un sogno che traccia una strada e un metodo in cui affermarsi.
    Gli pareva di essere vicino a casa sua, in un cortile molto vasto, dove si divertiva una grande quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, Giovannino si slancia in mezzo a loro e cerca di farli tacere, usando pugni e parole.
    Un uomo maestoso, vestito nobilmente, lo chiama per nome e gli ordina di mettersi a capo di quei ragazzi, aggiungendo che doveva farseli amici con bontà e carità, non picchiandoli.
    Di fronte alla sua confusione viene in aiuto una donna maestosa, vestita di un manto che risplendeva da tutte le parti, come se in ogni punto ci fosse una stella luminosissima. La donna lo invita a starle vicino, lo prende per mano, gli indica il campo di azione e gli dà un programma di vita: «Cresci umile, forte e robusto, e ciò che adesso vedrai succedere a questi animali, tu lo dovrai fare per i miei figli».
    C'è un impegno a cambiare se stesso, controllando e vincendo il proprio temperamento, e ad aiutare altri ad essere vittoriosi e felici nella vita, in un rapporto sereno con se stessi e con gli altri.

    Cosa fare in concreto?
    Educare alla vittoria

    La pratica sportiva attiva è coefficiente di sicura efficacia nel processo di affermazione di sé. Non si dà crescita equilibrata senza stima di sé, senza una sufficiente esperienza di successi.
    L'incentivo e la sana emulazione vanno promossi e orientati. Al romantico e irrealistico «l'importante non è vincere, ma partecipare», la sapienza educativa cristiana contrappone l'impegno di conversione di mentalità e di prassi, per cui «l'importante è l'affermazione di sé insieme agli altri».
    «Educare alla vittoria è forse più difficile, ma non meno necessario che educare alla sconfitta, a causa della minore disponibilità psicologica a considerare le situazioni positive come problematiche e in qualche modo bisognose anch'esse di purificazione e di riscatto. Al di là dell'euforia del momento, la vittoria genera carichi di responsabilità che troppo spesso si risolvono in esaltazione illusoria o in rischioso logoramento interiore. La ponderazione, il senso del limite e della precarietà, la relativizzazione del successo sono atteggiamenti che non si improvvisano; anzi, essi possono emergere con buona capacità di tenuta solo se sono stati preparati da una formazione distesa nel tempo e consolidata in profondità» (Sport e vita cristiana 39).
    Per celebrare la vittoria e far festa è necessario operare un passaggio:
    – dal sopravvento di un leader, che pretende di egemonizzare meriti e risonanze del risultato... al riconoscere che tutti hanno collaborato alla vittoria;
    - dal pensare soltanto al proprio gioco e risultato in campo... al riconoscere che la vittoria è frutto della collaborazione di tante persone, anche in panchina;
    - dalla rivalità e gelosia... al dialogo, alla partecipazione, al coinvolgimento;
    - dal campanilismo, che tende a limitare la visuale del gioco... all'apertura agli altri, all'amicizia.
    Umano è vincere, umano è perdere, ma la sfida sta nel saper vivere con nobiltà e dignità di intenzione e di comportamento l'uno e l'altro momento della vita: in realtà, sono entrambi relativi e sono degni di memoria solo se riferiti al cammino di crescita e di perfezione della persona.


    8. L' ALLEGRIA, ESPRESSIONE VISIBILE DELLA GIOIA DEL CUORE E DI UNA VITA EQUILIBRATA

    L'allegria e la gioia nella Scrittura

    La fonte della gioia di vivere e dell'ottimismo è il Signore della vita, che non cerca altro che la felicità dei suoi figli. Ha donato loro il creato, la vita, l'esistenza delle cose su cui esercitare il dominio e la creatività, la possibilità di amare e di dare la vita.
    Gesù è pieno di gioia e ringrazia il Padre, perché ha rivelato ai piccoli che è bello vivere (cf Lc 10,21-23). Maria esprime la sua gioia di essere guardata con amore dal Signore (cf Lc 1,46-56)
    La gioia e l'ottimismo sono più cristiani della tristezza; la fiducia nella vita e l'amore sono propri al cristiano più che l'angoscia e il pessimismo perché la vita «è pace e gioia nello Spirito Santo» (cf Rm 1,4-17), «gioia nella fede» (cf Fil 1,25), «gioia nella speranza» (cf Rm 12,12), ma soprattutto «gioia nell'amore e con l'amore» (cf Gal 5,22).
    San Paolo invita ad esprimere la propria gioia e a condividerla con altri (cf Fil 4,4-9).
    «Siate sempre lieti. Lo ripeto, siate sempre lieti! Vedano tutti la vostra bontà»; e ai Tessalonicesi dice: «Siate sempre contenti» (cf 1 Ts 5,16).
    San Giovanni invita i cristiani a parlare di ciò che hanno visto e udito, per essere uniti tutti nella comunione con il Signore, e perché la gioia di uno sia perfetta, perché condivisa con altri (cf 1 Gv 1,2-4).
    La gioia cristiana non è una droga, un palliativo o un'evasione: nasce dalla certezza che il Signore è amore e che l'amore più puro nasce da un movimento «pasquale» di morte per la vita, di dolore per la gioia, di penitenza per la conversione.
    I due aspetti: senso della vita e senso della gioia sono inseparabili e formano uno dei segni tipici con cui valutare la maturità di una persona.

    L'allegria nella vita dei giovani

    Per i giovani l'ambito dello spazio personale in cui manifestare in maniera spontanea anche gli aspetti scanzonati e allegri della propria personalità è spesso l'ambiente extrafamiliare, costituito dai luoghi dove si possono incontrare con amici e amiche: in strada, ai giardini, sul muretto, sotto casa propria o di amici, dove poter giocare insieme, ma soprattutto chiacchierare, gironzolare e scherzare.
    In questi gruppetti di amici, ogni componente ha una propria fisionomia ed emerge quindi una mappa di tipi nei riguardi dell'allegria e dell'umorismo dei singoli. Alcuni si mettono in luce per le doti relative al fatto di saper raccontare barzellette, di evidenziare battute caratteristiche o con doppio senso sfuggite mentre si parla, di imitare con simpatia una cadenza o un gesto originale di un componente del gruppo o di una persona incontrata per caso. È motivo di allegria anche chi con pochi tratti di penna sa mettere in evidenza una caratteristica della persona fisica, facendone una caricature. È interessante avere qualcuno del gruppo, che, anche in pubblico, riesce a coinvolgere talmente i singoli membri del gruppo, da far fare delle mosse o dei gesti in sincronia, tanto da far sorridere non solo chi li esegue, ma anche le persone che si incontrano, che vengono coinvolte a loro volta.
    Nell'ambito del gruppo degli amici è più facile accettare con serenità di essere anche oggetto di attenzioni ed è segno di un carattere che sa non solo fare ma anche accettare gli scherzi, senza prendersela troppo.
    In questi gruppetti la risata rumorosa, che segue un bisbiglio sommesso di uno che racconta e attira l'attenzione, è un segno dell'amicizia e dell'armonia che regna tra i componenti.
    Esprimono se stessi in una modalità nuova, ancora vicina al proprio stile infantile e adolescenziale, ma raccordata anche con il proprio stile futuro. Il confronto con i coetanei in questi gruppetti informali e di tempo libero è dunque un canale in cui il giovane può prendere coscienza dei suoi processi di crescita. In questo confronto con gli altri egli accosta sentimenti ed emozioni nuove, che sperimenta fuori del mondo familiare; inizia con tentativi di essere diverso, prova nuovi comportamenti, sfiora con intenzioni fantastiche un sé nuovo, che esige sperimentazioni e fa scoprire nuove possibilità di comunicazione con gli altri.

    Per rendere il mondo più allegro

    Una parte della vita è dedicata all'attività creatrice. In essa si esperimenta un massimo di gioia, un senso di realizzazione piena, di festa interiore, che si esprime anche nel comportamento lieto. La persona sente che le sue aspettative sono colmate dalle realizzazioni e gode in tutto il suo essere. È la parte creatrice e «festiva» della sua attività, della sua esistenza.
    Una seconda parte di attività è meno gioiosa, banale quasi, perché racchiude tutto ciò che fa parte della «quotidianità», delle cose umili e necessarie da fare ogni giorno, imposte dal dovere e inserite nella normale routine.
    L'uomo matura e cresce con tutto ciò che fa ed è, con tutte le espressioni «festive» e «feriali», che si susseguono nella sua esistenza. È certo però che i momenti di gioia e di creatività danno senso anche a quelli meno intensi.
    La fascia «festiva» e creativa della vita poggia sull'essere, sulle ricchezze personali, sul positivo dell'io, sui valori scelti che scaturiscono dall'intuizione, da una concezione spirituale della vita e allargano il raggio dell'esistere individuale a un esistere universale.

    La gioia è sorgente di vita

    C'è però gioia e gioia. Vi è un riso sfrenato e irresistibile, un sorriso profondo e delicato; c'è l'allegria superficiale, grossolana, scomposta e l'atteggiamento lieto, aperto; c'è l'euforia senza controllo e disciplina, e il senso di una gioiosità pienamente consapevole che accompagna una vita dominata dall'impegno.
    Anche la risata piena, rumorosa, esplosiva è rivelazione di semplicità e sanità, per cui bisogna indulgere a essa senza troppe precauzioni. Se «il riso abbonda sulla bocca degli stolti», è meglio la stoltezza di chi si abbandona a esso che non quella di chi si chiude in sé.
    Il sorriso alimenta la comunicazione, perché espressione di tenerezza, di partecipazione, di sintonia, di vicinanza. La sintonia instaurata dal rapporto in tono lieto è testimonianza sicura dell'apertura al bene. Si può diffidare del viso chiuso, ma ci si accosta subito con fiducia a chi ci viene incontro scherzando e sorridendo con sincerità e autenticità.
    Il riso è bontà ed è vittoria sul male, sul dolore per sé e per gli altri. Sorridere, far sorridere significa sollevarsi e sollevare, spandere intorno a sé la gioia.
    Bisogna educarsi ed educare all'allegria, alla serenità, all'umorismo.
    Il senso dell'umorismo aiuta a ridere di se stessi, a saper accettare il contrasto che c'è tra ciò che si pretende di avere e il risultato effettivo, senza traumi e con serenità interiore. L'umorismo è un'arma nella lotta per l'esistenza; è in grado di creare un distacco da una situazione difficile per porre l'uomo al di sopra di essa, ammaestrarlo nell'arte difficile del vivere.
    Umorismo è immergersi nella storia dominandola in una visione più ampia e più lunga della sapienza umana; è spendersi senza disperazione perché gli sforzi personali sono ripresi più oltre, da un Altro che li completa e li riaggiusta.
    Umorismo è simpatia dominata, momento di distensione, dono di battute (barzellette, «colmi», «differenze», paradossi...), incoraggiamento, aiuto offerto senza farlo pesare, gioia nel costatare che qualcosa funziona nel mondo; è una stretta di mano calorosa e forte, piena di amicizia e solidarietà; è dire quel che si deve dire ma senza la voce ruvida, senza ironia e sarcasmo.
    Umorismo è riconciliarsi con se stessi dopo un insuccesso, impegnarsi di nuovo pur sapendo che il mondo non si riassetta d'un colpo e tanto meno con le sole proprie forze.
    Umorismo è pace interiore, fiducia in Dio, superamento dell'agitazione. Fa pensare e mette in crisi la preghiera dell'umorismo, che Tommaso Moro scrive preparandosi alla morte violenta:
    «Dammi, o Signore, una buona digestione e anche qualcosa da digerire.
    Dammi la salute del corpo col buon umore necessario per mantenerla.
    Dammi, o Signore, un'anima santa che faccia tesoro di quello che è buono e puro, affinché non si spaventi del peccato, ma trovi alla tua presenza la via per mettere di nuovo le cose a posto.
    Dammi un'anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che io mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo evidente che si chiama "io".
    Dammi, o Signore, il senso del ridicolo. Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo, affinché conosca nella vita un po' di gioia e possa farne parte anche agli altri. Amen».
    Umorismo è sentire le proprie responsabilità ma senza avere per tutto il senso del dramma e della tragedia, senza dover mettere davanti a tutti le proprie crisi e difficoltà. Al mondo infatti c'è ben altro e c'è di più del proprio dolore.

    L'allegria nella vita di don Bosco

    L'allegria è elemento costitutivo del sistema educativo di don Bosco. E caratteristica essenziale della famiglia. È l'espressione dell'amorevolezza ed è il risultato di un clima basato sulla gioia. Bisogna ricordare che l'allegria per don Bosco, prima di essere un artificio metodologico, un mezzo, un espediente per far accettare ciò che è sostanziale in educazione, è il risultato di una istintiva valutazione psicologica del giovane e dello spirito di famiglia. Don Bosco sa e comprende che il giovane è giovane, e permette e vuole che lo sia; sa che la forma di vita del giovane è la gioia, la libertà, il gioco, la «società dell'allegria».
    L'idea è radicata in don Bosco quanto è radicata la preoccupazione del fine educativo. Lo rivela lui stesso ai suoi giovani: «Io sono contento che vi divertiate, che giochiate, che siate allegri».
    Quando Domenico Savio gli esprime che ha capito che si può diventare santi, stando allegri, don Bosco lo loda per la sua decisione, ma lo esorta a non perdere la calma, perché quando non si è nella serenità non si può conoscere ciò che il Signore vuole da noi. Anzi gli raccomanda per prima cosa di conservare un'allegria serena e costante.
    Domenico dimostra di aver capito la lezione quando, alla domanda di Camillo Gavio su cosa dovesse fare per farsi santo, risponde: «Te lo dico in poche parole: devi sapere che noi qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri!».
    Don Caviglia, uno studioso che ha conosciuto don Bosco, scrive: «Don Bosco seppe vedere la funzione della gioia nella formazione e nella vita della santità, e volle diffusa tra i suoi la gioia e il buon umore. "Servite Domino in laetitia" poteva dirsi in casa di don Bosco l'undicesimo comandamento».
    La novità e l'originalità di don Bosco, che ha «santificato la gioia di vivere», sta nel valore della ricreazione, nel valore dato alla gioia, allegria e serenità dell'educazione. Una allegria aperta e vivace, anche rumorosa, condivisa dall'educatore, che vi partecipa come un compagno. Senza riflessioni teoriche, ma con l'intuizione del genio e del cuore, con l'esperienza che si è formata in lui fin dalla fanciullezza, don Bosco ha veduto e ha messo l'allegria tra i fattori primi del suo «prodotto» pedagogico.

    Cosa fare in concreto?
    Educare ad esprimere la gioia del cuore

    Il dovere principale di un educatore, specie se ha ruoli di coordinamento e di animazione, non è soltanto quello di far funzionare tutto secondo le regole stabilite, ma soprattutto quello di instaurare un clima in cui domini la gioia, il sorriso franco, la parola scherzosa, perché in tale atmosfera anche il dovere e il dolore diventano più umani e utili alla vita.
    L'esperienza e la riflessione sulla realtà giovanile suggeriscono alcune attenzioni educative per dare un senso alla vita e viverla con gioia.

    Vivere il tempo
    Si tratta di passare:
    - dall'essere travolti dal tempo, dal succedersi degli avvenimenti, dall'onda delle informazioni e delle proposte culturali, delle mode... all'avere momenti in cui si abbia la possibilità di capire e gli strumenti per analizzare;
    - dal considerare il tempo un oggetto da conquistare... a viverlo come «dono» da riconoscere, accettare e valorizzare;
    - dal vivere passivamente il tempo che ci viene offerto... al riscoprire il valore delle «pause», del godere delle piccole cose della vita.

    Vivere con gioia
    Si tratta di passare:
    - dal vivere il quotidiano come dovere e monotonia... a rompere il ritmo delle attività e dare spazio alla spontaneità e allo scherzo;
    - dal vedere se stessi soltanto nei limiti e degli errori... al contemplarsi nel profondo di se stessi: il luogo del positivo, del meglio di sé delle proprie qualità e potenzialità;
    - dall'incontrare gli altri e vederli alla superficie... al creare occasioni di conoscenza e spazi di accoglienza del meglio di loro e di scambio del meglio di noi.


    9. LA FESTA, COME LUOGO DI GIOIA DA CONDIVIDERE

    La festa come segno di gioia e di ringraziamento

    La Genesi vede nel Sabbath un dono che Dio ha fatto all'uomo affinché l'uomo riposi davanti al suo Signore e gioisca con lui, e così diventi e rimanga sempre immagine e somiglianza, ma nell'ordinare tutto ciò che Dio gli ha affidato.
    In Israele e nel cristianesimo la festa viene sperimentata come un invito di Dio a gioire con lui e a trovare coraggio e forza nel tributargli lode.
    Fonte e culmine di ogni celebrazione cristiana è l'eucaristia. Noi celebriamo l'eucaristia come memoriale della passione, della morte e della resurrezione di Cristo e lo facciamo in unione del Signore risorto.
    Se siamo convinti che l'eucaristia è il punto centrale, la sorgente e la regola della nostra vita, ogni festa e celebrazione e la nostra vita stessa diventano espressioni di gratitudine, che a loro volta ci aprono alla ricchezza della storia della salvezza e alle opportunità presenti.
    Gli Israeliti celebravano il settimo giorno, il sabbath, come il giorno del compimento dell'opera di Dio, lo celebravano per confessare la trascendenza di Dio sulla creazione e nello stesso tempo la sua vicinanza ad esso, e specialmente per celebrare la gioia di Dio a riguardo di tutto ciò che aveva fatto. «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona... Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto» (cf Gn 1,31; 2,3). Questo è il significato di culto del sabbath: il riposo dell'uomo davanti a Dio.
    In seguito si approfittò sempre più del giorno di sabato per radunare il popolo ad ascoltare la lettura dei libri sacri.
    La prima generazione di cristiani continuò a osservare il sabato come giorno di riposo, di contemplazione e specialmente di ascolto della parola di Dio in preparazione alla celebrazione dell'eucaristia, che come regola fu fissata alla domenica (cf At 20,2; 1 Cor 16,2).
    Presso le prime generazioni cristiane la domenica non era concepita come giorno di riposo obbligatorio, bensì come giorno della celebrazione del memoriale della morte e risurrezione del Signore. L'uomo redento doveva capire che tutta la sua vita è una festa. Sant'Agostino dice: «Nella casa di Dio è sempre festa!».
    La libertà sperimentata nei giorni di festa e alla domenica dovrebbe essere il lievito per la gioia quotidiana, dovrebbe dare un significato nuovo alla sofferenza e alla fatica.
    La tecnocrazia ha privato l'uomo della sua personalità. Essa tende a ridurre la persona a strumento. E se l'essere umano accetta il ruolo di strumento a un livello importante dell'esistenza, non può esprimersi come persona a un altro livello.
    Noi non possiamo celebrare le nostre feste se non siamo impegnati nell'azione liberatrice a ogni livello, specialmente per quanto riguarda le attività quotidiane e tutta l'organizzazione del mondo del lavoro.
    Per far questo abbiamo bisogno di sperimentare la gioia e la libertà.
    Gesù nel vangelo per annunciare il Regno utilizza spesso l'immagine del banchetto preparato per una festa: per aver ritrovato la pecora smarrita e la moneta d'argento e per il ritorno del figlio, tornato a vivere (cf Lc 15,6.9.23).

    La festa nella vita dei giovani

    La festa è una delle esperienze più radicate e profonde nella vita dell'uomo. La festa è rottura degli schemi ordinari, della routine. Dice voglia di qualcosa d'altro, nostalgia del diverso; contiene sempre qualche riferimento al trascendente, è vestita di qualcosa di religioso.
    L'esperienza della festa offre ai giovani una serie di opportunità rispetto al processo di costruzione dell'identità. Essa permette di allargare gli orizzonti della vita a dimensioni assai più ampie.
    La festa infatti consente di sperimentare aspetti di sé, degli altri e della vita che durante il tempo feriale rimangono sullo sfondo e rischiano di essere dimenticati.
    Il tempo della festa rappresenta innanzitutto un momento di rottura rispetto alla linearità del tempo quotidiano. La festa è un «momento forte».
    I giovani vogliono mettersi in comunicazione e la festa è un momento privilegiato per loro.
    Siamo in un tempo che viene indicato come «era della comunicazione». Comunicare significa «mettere in comune» e offrire ad un altro qualcosa di nostro. Per comunicare si ha bisogno di un ponte che collega gli interlocutori, e questo ponte si chiama linguaggio. Molti credono ancora che la parola e la scrittura siano le uniche e più importanti forme di comunicazione. Da questa convinzione deriva l'impegno a far conoscere le parole e a farne un uso adeguato. In realtà si comunica con i gesti molto più di quello che si crede. La simpatia, l'amicizia, l'amore, la paura, l'odio, la difesa del proprio gruppo... prima di trovare delle parole adatte, si esprimono con dei gesti e delle azioni che coinvolgono tutta la persona, soprattutto il volto.
    «È il linguaggio dello star vicini, gomito a gomito, pelle a pelle, del vibrare insieme, del sentirsi un tutt'uno, in un grande abbraccio, in un unico coro.
    È il linguaggio dei grandi stadi di calcio, dove la messa in comune (comunicazione) tra i tifosi della stessa squadra avviene per mezzo dei gesti, dei canti, degli slogan, delle sciarpe colorate, dei vestiti.
    È il linguaggio delle discoteche, dei grandi concerti rock, dove migliaia di giovani si sentono in sintonia con l'idolo e tra di loro senza capire una parola delle canzoni e si riconoscono "stesso popolo" con i vicini, senza mai averli visti prima di quella notte.
    È il linguaggio dei cortei di protesta che danno il brivido di sentirsi forti e coraggiosi contro chi può schiacciarci o ferirci come i mafiosi o gli stupratori; è il linguaggio delle grandi adunate di popolo intorno a un leader, a un campione, a un idolo che calamitano su di loro i sogni, le speranze e i desideri della gente» (T. Lasconi).
    Sono occasioni in cui si cercano, si rafforzano e si manifestano i valori in cui si crede: il valore della vita vissuta insieme, dell'essere in molti, del sentirsi un «noi».
    Il mondo della canzone è un pianeta ideale dove i giovani si ritrovano, si conoscono, si divertono. Lasciando l'aspetto di evasione espresso da un certo tipo di canzone e di musica, emerge quello molto interessante dei contenuti, dei ritmi, delle melodie, per la fruibilità e l'immediatezza della comunicazione circa i modi di essere, le opinioni, le valutazioni della vita. Siamo di fronte a un linguaggio che comunica, che fa passare proposte, che orienta scelte e comportamenti, suscita interventi e iniziative.
    Basta pensare alla forza motivazionale contenuta in alcune canzoni «impegnate»: la parola-messaggio viene «accolta» e «realizzata».
    Ricordiamo che il canto fa parte della vita: chi è allegro canta, chi è triste canta e anche chi soffre tende inevitabilmente a far diventare il suo lamento un canto.

    La festa nel mondo dello sport

    «Lo sport - diceva Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo Internazionale degli sportivi - è gioia di vivere, gioco, festa, e come tale va valorizzato e forse riscattato, oggi, dagli eccessi del tecnicismo e del professionismo mediante il recupero della sua gratuità, della sua capacità di stringere vincoli di amicizia, di favorire il dialogo e l'apertura degli uni verso gli altri, come espressione della ricchezza dell'essere ben più valida e apprezzabile dell'avere, e quindi ben al di sopra delle dure leggi della produzione e del consumo, e di ogni altra considerazione puramente utilitaristica ed edonistica della vita».
    Fin dall'antichità, la pratica del gioco e dello sport è stata abbinata alla festa: lo sport produce atmosfera festosa e la festa trova nello sport un'espressione gioiosa di partecipazione e di coinvolgimento. Il divertimento, la celebrazione di un evento di interesse collettivo, il ritrovarsi insieme, il partecipare o il parteggiare in modo corretto e amichevole favoriscono le relazioni sociali e aiutano a superare le barriere campanilistiche, locali, nazionali e razziali. Il risultato si è conquistato in campo con impegno, intelligenza, sudore e fatica. La festa si snoda in momenti distinti, tutti da curare con molta creatività.
    Si esce dal campo di gioco sfiniti fisicamente, ma contenti di aver dato il meglio, con le lacrime agli occhi ma entusiasti per la vittoria o per aver migliorato un record. Tutti gli amici sono contenti ed esprimono la loro soddisfazione con canti e balli, con sventolio di bandiere e cortei rumorosi e allegri
    C'è il momento della proclamazione, ufficiale e pubblica, per la vittoria. Tra inni e bandiere si è premiati, si ha il riconoscimento del proprio impegno. Compaiono soltanto i giocatori che si sono visti in campo. Sempre avviene un movimento spontaneo della squadra vincitrice nei riguardi del proprio allenatore. Anche se l'allenatore non sale sul podio e non riceve medaglie e coppe, è il primo che viene coinvolto nella gioia della vittoria.
    Ma ci sono altre persone che hanno collaborato al risultato: non solo gli atleti in campo, che corrono continuamente e realizzano i punti, non solo l'allenatore, i dirigenti e le riserve ai bordi del campo, che seguono con attenzione, apportano con intelligenza cambiamenti di gioco e sostituzioni di atleti; ma anche gli accompagnatori e i tifosi sulle gradinate dello stadio, che sostengono con il loro entusiasmo.
    È giusto esprimere tutti insieme la propria soddisfazione e la propria gioia. E allora è necessario un altro momento della festa, quando, tra musica, balli e canti, brindisi e congratulazioni, si riceve l'apprezzamento dai propri parenti, amici, sostenitori.
    È la celebrazione della vittoria, che si è conquistata in campo. È la festa che coinvolge il numero più grande di persone.
    Anche quando non si è avuto il primo premio, si fa festa per l'impresa fatta, per il risultato ottenuto, quasi un nuovo record personale e di squadra, che va sempre evidenziato e apprezzato.
    In questo contesto di festa si può inserire armonicamente anche la celebrazione dell'eucaristia, che permette di rivivere l'esperienza fatta: dalla preparazione negli allenamenti, all'incontro e alla competizione con gli altri, all'impegno nella gara, alla gioia del risultato. Intorno all'altare, aiutati dai simboli che richiamano lo sport praticato, mettendo in vista i segni della vittoria, esprimendo con il canto la nostra gioia, si fa memoria di un tratto della nostra storia, inserendola nella grande storia di Gesù Cristo.

    La festa nella vita di don Bosco

    La spiritualità giovanile è chiaramente una spiritualità della festa. Ai giovani emarginati del suo tempo don Bosco ha presentato la vita come festa e ha fatto sperimentare la fede come felicità. La felicità, la gioia, l'allegria, la festa sono elementi tipici della spiritualità giovanile. La musica, il teatro, le gite, il gioco, lo sport, la quotidiana letizia di un cortile o di un campo di gioco sono stati sempre al centro delle preoccupazioni educative di don Bosco.
    L'originalità di don Bosco è duplice: da una parte egli ha intuito il grande valore educativo della festa e ha voluto che l'allegria e il canto, come l'amicizia e lo scherzo, non mancassero mai nella sua casa; dall'altra egli ha intuito che la festa è un fatto spirituale, cioè un luogo in cui si afferma che la vita intera è nelle mani di Dio.
    La naturale tendenza alla festa dei giovani don Bosco l'ha maturata alla luce della fede nella risurrezione. Fare festa, nella spiritualità dell'amore alla vita, è una confessione solenne che il mondo intero è nelle mani di Dio, che davvero Cristo è risorto e la vita può diventare una festa.
    La festa è un momento privilegiato di crescita educativa perché impegna su tutti i piani: si intensificano i rapporti interpersonali, aumenta la collaborazione e corresponsabilità, in quanto tutti si sentono protagonisti; si esprimono potenzialità inespresse, capacità inedite, ci si rivela nel profondo di se stessi con le proprie risorse di creatività e autenticità; ci si arricchisce sul piano religioso perché ogni festa dei giovani e con i giovani ha come momento centrale l'incontro con Dio nella preghiera e nell'eucaristia gioiosa.
    Nella spiritualità giovanile non c'è tuttavia una scissione tra «festa del cortile» e «festa della chiesa»: il gioco, il divertimento, l'allegria hanno già ín sé un valore spirituale costruttivo.

    Cosa fare in concreto?
    Per allargare il girotondo della festa

    Dove e come concretamente vivere la festa?
    Festa è sentirsi parte viva di una «grande speranza» Che non è soltanto speranza nel mondo e nell'uomo, ma in quei «cieli nuovi e terra nuova» che attendono ogni uomo di buona volontà e che sono dono di Dio. La festa può diventare una esperienza assai arricchente nel loro processo di diventare persone.
    Bisogna impegnarsi a passare:
    - dal modello di chi trova la festa nell'accumulare oggetti ed esperienze, nel lasciarsi mangiare dalle cose e dalle attività... al sostituire la qualità dell'esperienza e la essenzialità delle cose da utilizzare;
    - dal modello di colui che crede di potersi costruire la felicità tutta con le sue mani, con il suo impegno... al condividere ciò che siamo e ciò che abbiamo nel coinvolgere gli altri;
    - dal modello di chi dice: «goditi quel poco che la vita ti passa, che altro non esiste»; oppure: «vivi la felicità nell'attimo perché quando è finito non c'è più nulla, e quel che deve venire non lo sai e in ogni modo sarà un altro attimo»... al curare la capacità di attesa, il senso dell'aspettativa, della speranza e del sogno, la capacità di prolungare l'esperienza fatta, illuminando la propria quotidianità.


    10. LA VITA: ACCOGLIENZA E ANIMAZIONE

    Un metodo educativo sulla via di Emmaus

    A chi gli domandava: «Chi è il più grande nel regno di Dio?» Gesù ha risposto chiamando un bambino, mettendolo al centro dei suoi interlocutori e aggiungendo: «Chi si fa piccolo come questo bambino, questi è il più grande nel regno di Dio. E chi, per amor mio, accoglie un bambino come questo, accoglie me» (Mt 18,1-5).
    Gesù si identifica con il più piccolo, il più debole. La sua accoglienza è riconoscimento della presenza di Dio nella storia di ogni ragazzo e concretizzazione della fede nel Padre.
    Matteo, volendo evidenziare lo stile di approccio che Gesù aveva con la gente, afferma che era la realizzazione di quanto detto dal profeta Isaia: «Se una canna è incrinata, non la spezzerà, se una lampada è debole, non la spegnerà» (Mt 12,20- 21) .
    Il mettersi accanto alle persone bisognose di aiuto e sostenerle nelle situazioni di difficoltà diventa espressione di vero amore: un esercizio pratico di carità.
    Due discepoli tornano a casa, tristi per l'esito negativo dell'esperienza vissuta con entusiasmo con Gesù. Sulla via di Emmaus, percorsa dai due senza più speranza, Gesù stesso ci indica un metodo educativo, che impegna a non attendere, ma a fare il primo passo e ad andare loro incontro, e diventa per noi di esempio e di stimolo (cf Lc 24,13-36).
    Tutto ciò viene fatto sull'esempio del Signore e seguendo il metodo della sua carità di buon Pastore sulla via di Emmaus.
    Ripetiamo i suoi atteggiamenti: prendiamo l'iniziativa dell'incontro e ci mettiamo accanto ai giovani; con loro percorriamo la strada ascoltando, condividendo le loro ansie e aspirazioni; a loro spieghiamo con pazienza il messaggio esigente del Vangelo; e con loro ci fermiamo, per ripetere il gesto di spezzare il pane e suscitare in essi l'ardore della fede, che li trasforma in testimoni e annunciatori credibili.

    Accoglienza e fiducia

    Quando si dice accoglienza nel mondo degli educatori che si ispirano a don Bosco si pensa subito all'oratorio, dove c'è continuamente gente che entra e che esce, giovani e adulti che chiacchierano e scherzano, incrociarsi veloce e cordiale di educatori e giovani...
    Di che cosa è espressione questa accoglienza? L'accoglienza non è un ritrovato strategico per entrare nella città dei giovani; non è neppure un ritrovato pedagogico per far breccia nel loro cuore. L'accoglienza invece è un fatto di spiritualità: è riconoscimento della presenza operosa di Dio nella storia personale e comunitaria: la fiducia nel giovane è concretizzazione della fede in Dio.
    L'educatore non dà dignità alle esperienze dei giovani per assicurarsi la loro simpatia e accondiscendenza. Riconosce invece una dignità che preesiste, anche se spesso è minacciata, e nasce da Dio che ama «quei» giovani. L'educatore è consapevole di questo e vive un suo originale incontro con Dio, attraverso il «sacramento dei giovani».
    Questa convinzione religiosa illumina il quadro educativo. Tutte le esperienze umane dei giovani sono cariche di dignità, perché in tutte è all'opera lo Spirito Santo, per autenticare, consolidare, purificare, convertire: in una parola per salvare.
    Tutte le esperienze hanno però bisogno di questo processo purificatore. L'educatore si mette allora a fianco dei giovani per attivare questo processo. In questo sa di essere collaboratore di Dio. Il processo educativo si svolge quindi in un clima di fiducia nei giovani, che non è esente da momenti di incomprensione e di tensione, ma, a lungo andare, crea un rapporto di altrettanta accoglienza e fiducia dei giovani negli educatori.
    Quello che si è detto della presenza di Dio nella storia per-sonale di ciascuno, il giovane è sollecitato a viverlo nel suo rapporto con gli educatori.
    Vivere la spiritualità giovanile è riconoscere la presenza di Dio negli educatori: nonostante tutte le carenze sono «sacramento» di incontro con Dio per i giovani, sono quindi un fatto di spiritualità. Come l'adulto ha fiducia profonda e radicata in Dio e riconosce che, come diceva don Bosco, «in ogni giovane, anche il più disgraziato vi è alcunché di buono» da cui iniziare un cammino di accoglienza e di educazione, così il giovane considera l'adulto il luogo della memoria storica culturale e religiosa, da cui ha molto da apprendere.
    L'accoglienza non è mai un'affermazione di principio, ma un modo di vivere con i giovani: è calarsi concretamente nella condizione dei giovani, nei loro problemi, nelle loro istanze, nelle loro ansie, nelle loro aspirazioni, nelle loro esperienze reali, nei loro luoghi di aggregazione, nei loro linguaggi espressivi.
    E una accoglienza attiva e dinamica; non si accontenta di aspettare che i giovani vengano, ma li va a cercare. È una accoglienza che si fa presenza amica e continua che tutto condivide con i giovani: è stare con loro, dialogare con loro, «perdere tempo» con loro.
    Il «cortile» è una figura classica di questa disponibilità quotidiana e feriale ad accogliere i giovani. E l'assistenza è questa continuità di presenza amica, simpatica, dialogante, amichevole e solidale, animatrice e attivante. Questo comporta curare il contatto con i singoli giovani per destare in ciascuno di essi il bisogno e la ricerca dei valori; suscitare la cooperazione comunitaria dei giovani ai momenti più strettamente religiosi dei loro incontri; metter ogni cura per far nascere all'interno del gruppo espressioni di fede vissuta.

    Dall'accoglienza all'animazione

    La presenza dell'educatore non è solo l'accoglienza ma anche l'animazione che caratterizza l'intero cammino educativo. L'animazione, nella spiritualità giovanile, è lo stile che caratterizza il fare scuola come il giocare, la presenza nel sociale come la cura della persona e della vita di gruppo, il collegamento con la memoria storica come l'attenzione alle domande dei giovani, entro cui riformulare l'esperienza del passato. È una «qualità» che deve dare sapore a tutto il cammino di educazione, socializzazione, acquisizione della cultura.
    Cosa qualifica l'animazione? Si educa, anzi, più in generale, si vive facendo animazione quando si vuole consentire ai giovani di partecipare attivamente alla gestione dei processi educativi in cui sono immersi, affinché possano sviluppare le loro specifiche caratteristiche, la loro personalità e nello stesso tempo assorbire, in modo creativo e critico, l'esperienza accumulata nella società e nella comunità ecclesiale.
    Una scelta di animazione comporta allora un delicato lavoro di convincimento delle libertà perché le scelte siano interiormente motivate, una cura delle molteplici interrelazioni del dialogo (reciprocità, capacità di ascolto, comunicazione), il ricorso allo spirito di famiglia nelle sue svariate espressioni di bontà e di servizio.
    Animazione è non imporre itinerari e tappe di sviluppo, ma fare in modo che il giovane scopra germi nuovi e nascano in lui scelte autonome, spinte creative in un accresciuto senso di responsabilità personale e di corresponsabilità nei confronti della comunità dei giovani. È coinvolgere ciascuno e tutta la comunità con la valorizzazione dei ruoli e dei doni personali.
    L'animazione non è solo un fatto di competenza educativa, ma anche di fede: credere nella vita dei giovani e credere, più in generale, che è possibile un modo diverso di vivere, che è possibile una nuova qualità di vita. Non può fare l'animatore chi non ha un'anima, chi non vive di una grande speranza, di un ideale, di fede in Cristo risorto e nel suo Spirito. L'animazione che affonda le radici in Dio, crede nella vocazione di ogni uomo alla espressione delle sue potenzialità, e crede nella vocazione di ogni uomo a fare esperienza, almeno in modo implicito, di Dio come fonte di felicità.
    Fare animazione è allora credere personalmente nell'obiettivo della spiritualità giovanile: riscoprire con i giovani la passione per la vita fino a confessare che Gesù è il Signore della vita.

    Una lettera di don Bosco

    Don Bosco, affermando che «l'educazione è cosa di cuore», parla di amorevolezza, che è quell'elemento umano senza il quale non si dà educazione.
    «Amorevolezza - scrive lo storico P. Stella - è un termine caduto oggi quasi in disuso. Per questo abbiamo la fortuna di assumerlo cristallizzato per indicare in don Bosco un complesso codice di simboli, segni, comportamenti. Amorevolezza, come tutti sanno, vuol dire amore dimostrato, il tratto mediante il quale si manifesta la propria simpatia, il proprio affetto, la comprensione e la compassione, la compartecipazione alla vita altrui».
    Lo scritto di don Bosco che meglio descrive questo supremo principio pedagogico con nuclei significativi è la celebre lettera da Roma del 10 maggio 1884, inviata ai giovani e ai suoi salesiani di Torino. È il suo testamento educativo, la «magna charta» della sua pedagogia, il «poema dell'amore educativo».
    Vi si possono ritrovare le seguenti idee-guida:
    - Non basta che gli educatori si dedichino al dovere richiesto dai loro impegni e compiti, sia pure eseguendoli con intelligenza, puntualità e sacrificio. «I superiori sono considerati come superiori e non più come padri, fratelli, amici... Il maestro visto solo in cattedra è maestro e non più, ma se va in ricreazione coi giovani diventa come fratello. Se uno è visto solo predicare dal pulpito si dirà che fa né più né meno che il proprio dovere, ma se dice una parola in ricreazione è la parola di uno che ama».
    - A un comportamento che spinge il rapporto educativo verso il distacco e la severità «manca il meglio: che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati».
    - È solo l'amore che consente di stabilire un valido rapporto educativo. «Senza familiarità non si dimostra affetto e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza... La confidenza mette una corrente elettrica tra i giovani e i superiori. I cuori si aprono e fanno conoscere i loro bisogni e palesano i loro difetti».
    - L'amore educa perché costruisce l'ambiente favorevole all'accettazione e all'assimilazione dei valori. «I superiori amino ciò che piace ai giovani, col partecipare alle loro inclinazioni infantili, perché essi imparino a vedere l'amore in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco: quali sono la disciplina, lo studio e la mortificazione di se stessi; e queste cose imparino a fare con slancio e amore».
    - L'amore manifestato e recepito diventa un valido aiuto per l'educatore stesso. «Se ci sarà vero amore, non si cercherà altro che la gloria di Dio e la salvezza dei giovani... L'amore fa sopportare le fatiche, le noie, le ingratitudini, i disturbi, le mancanze, le negligenze dei giovani».
    - L'educatore deve «stare» in mezzo ai giovani in modo concreto e visibile per creare un clima di famiglia. «Il superiore sia tutto a tutti, pronto ad ascoltare sempre ogni dubbio o lamentanza dei giovani, tutto occhi per sorvegliare paternamente la loro condotta, tutto cuore per cercare il bene spirituale e temporale di coloro che la Provvidenza gli ha affidati».

    Cosa fare in concreto?
    Per avere un cuore oratoriano: accoglienza e fiducia

    È bene esplicitare ancora meglio l'essenza dell'amore pedagogico che scaturisce dalla prassi di don Bosco e da quanto ha scritto sull'amorevolezza.
    Si tratta di passare:
    - dal rispetto del giovane, perché sensibili alla sua dignità e impegnati a prenderlo sul serio... a farlo sentire amato e considerato e ad avere un concetto fondamentalmente positivo di sé;
    - dalla attenzione e comprensione delle necessità concrete di «questo» ragazzo... alla fiducia, fondata sulla ragione, non solo quella degli educatori, ma anche quella dei ragazzi;
    - dall'amore, che stimola la libera collaborazione del ragazzo, del quale si riconoscono capacità e attitudini, doti di intelligenza e di volontà.., all'amore impegnato a fare assimilare i valori che sono la base dell'«onesto cittadino e buon cristiano»;
    - dall'essere capaci di entrare in contatto con i ragazzi, mettersi al loro servizio e far conoscere i doni ricevuti... al rendere i ragazzi capaci e disponibili a mettere le loro doti a servizio dei loro coetanei.

     

    11. LA VITA: AZIONE E CONTEMPLAZIONE

    Abbà, Padre

    La preghiera rivela sempre con molta chiarezza la concezione che un uomo ha di se stesso, della vita, delle sue relazioni con gli altri uomini, del mondo, soprattutto del suo rapporto con Dio. Il rapporto fra Gesù e il Padre è il nucleo più profondo dell'identità di Gesù. E la preghiera è senza dubbio uno dei luoghi privilegiati che manifestano il rapporto di Gesù con il Padre.
    La preghiera di Gesù ci riguarda, perché è lo specchio della nostra preghiera, e il rapporto con Dio che essa manifesta è lo specchio del nostro. Ma se ora parliamo della preghiera di Gesù è perché vogliamo conoscere la sua identità.
    I Vangeli ricordano che, nel ritmo incalzante della sua giornata piena di lavoro, Gesù trova posto per la preghiera: prega al mattino presto o alla sera tardi, dopo aver congedato la folla (Mc 1,35). E prega in tutti i momenti più importanti e decisivi della sua missione: così accade al battesimo (Lc 3,21) e alla trasfigurazione (Lc 9,28-29), nel Getsèmani (Lc 22,39-46) e sulla croce (Mt 27,46; Lc 23,34.46).
    Un primo tratto, confermato da tutte le testimonianze, è che Gesù si rivolge sempre a Dio con il nome di Padre. La preghiera di Gesù è una preghiera filiale. Egli chiama Dio: «Abbà, Padre!» (Mc 14,36). Gesù svela così tutta la sua confidenza di Figlio di fronte a Dio. La preghiera di Gesù scaturisce dalla sua coscienza di essere Figlio e si traduce in colloquio.
    I Vangeli ricordano un secondo tratto: Gesù si ritira a pregare da solo (Mc 1,35; Lc 6,12). A lui non basta parlare con le folle o con i discepoli, né gli basta servire i fratelli. Avverte una solitudine che solo il Padre può colmare, una ricchezza che solo il Padre può capire e condividere. La preghiera di Gesù esprime la nostalgia del Padre.
    Gesù, nel colloquio con il Padre, cerca la direzione del proprio cammino e la chiarezza delle proprie scelte. Egli si sottrae alla folla, che lo cerca per trattenerlo, mentre la sua missione gli impone di andare altrove (Lc 4,42-44).
    Specialmente l'evangelista Luca mostra che la preghiera non è un atteggiamento tra gli altri nella vita di Gesù, ma una dimensione costante ed essenziale di tutta la sua esistenza. Vivere davanti al Padre è la condizione per avere una giusta visione di sé, del mondo e degli uomini.
    Di sé, non più come centro a cui tutto deve servire, ma come un dono che si apre all'obbedienza e alla gioia del Padre e al servizio nei confronti degli uomini. Del mondo, come una realtà di cui godere, ma anche da rispettare, perché non appartiene del tutto all'uomo; il suo proprietario infatti è Dio. Degli altri, non più visti come stranieri, o peggio come concorrenti, ma come fratelli della stessa famiglia, degni di essere sempre rispettati, aiutati e perdonati (Lc 11,5-13).

    La vita: azione e riflessione

    La vita quotidiana, gli avvenimenti che si vivono, e le persone concrete che si incontrano, sono i momenti privilegiati per vivere e far vivere in pienezza.
    La vita di ogni giorno ha un duplice aspetto, uno integrato nell'altro: un aspetto visibile e uno invisibile. L'aspetto visibile della vita quotidiana è il dato verificabile: mangiamo, giochiamo, studiamo, siamo con gli amici; l'aspetto invisibile è ciò che sta dentro tutto questo: la condivisione, l'amicizia, la solidarietà.., che per un credente sono espressioni concrete dello Spirito del Signore.
    Come fare per passare dall'uno all'altro e non vivere a compartimenti stagno, per non frantumare la vita in tanti frammenti, ma per unificarla e viverla in pienezza?
    Tutti i momenti e le dimensioni della vita e tutte le motivazioni che li animano, fanno la vita.
    Ci vuole quindi una guida, che fa la scelta di educare nello stile dell'animazione, che vuol dire una persona che ha dentro di sé un'anima, che si esprime nei motivi di tipo ideale che ci spingono ad agire, una persona che dà un'anima di fantasia e creatività a tutto ciò che pensa e fa, una persona che ci mette l'anima, che significa vivere e operare con coerenza e coraggio.
    Anche l'educatore deve diventare sempre più esperto nel saper vedere dentro le cose che si fanno, imparando a percorrere un tragitto che esige varie tappe progressive e graduali.
    Il punto di partenza è sempre il fatto che «si vive»: un allenamento, una partita, una trasferta, un campionato... con tutte le sue dinamiche, incertezze e sorprese. Quali gli atteggiamenti che devono maturare in termini di capacità?
    L'educatore è una persona che sa meditare sulle cose e le persone. Con meditazione si intende una esperienza che comporta il fermarsi per un po' di tempo, sospendendo il succedersi delle attività, come il lavoro, lo studio, il gioco, per andare nel profondo delle cose e incontrarsi con il Signore delle cose e delle persone.
    Nelle azioni della vita, anche in quelle sportive, si dà il meglio delle proprie possibilità fisiche e psichiche per affermare se stessi e per conseguire la vittoria. Alla fine si è stanchi e poco disposti a riflettere e prendere coscienza di quello che è stato vissuto. Si tratta di fare non una meditazione «a occhi chiusi», tipica di.coloro che vogliono estraniarsi da se stessi e dagli altri, ma una meditazione «a occhi aperti», perché si vuol vedere dentro ciò che è capitato.
    C'è bisogno di un momento di raccoglimento e concentrazione, per incanalare le energie fisiche, psichiche e affettive in una precisa direzione: cogliere con intelligenza quanto di positivo o di negativo si è vissuto e riconoscere con simpatia il meglio per il futuro. Raccogliersi vuol dire decidere di staccarsi dal lavoro, dallo studio o dal gioco e dalle altre attività, per scavare dentro il fatto. Questa decisione non va data per scontata, oggi soprattutto che la vita rende affannati e nella mente si susseguono immagini e pensieri, che spesso sono anche in contraddizione tra di loro.
    La concentrazione implica la decisione di scendere nel profondo delle cose e dell'esistenza. Questa decisione di scendere «in profondità» viene di solito espressa dal mettersi in una posizione rilassata anche dal punto di vista fisico.
    Dopo il raccoglimento inizia la riflessione. Non basta giocare, ci si interroga su come si sta giocando, si fa un'analisi critica di tutti i momenti del fatto sportivo che ci ha coinvolti, ci ha fatto agire e reagire. Riflettere è una operazione molto ricca. Al suo interno si possono distinguere vari momenti.
    Per prima cosa si deve passare dal superficiale di quello che è capitato, al profondo per cogliere le motivazioni, gli interrogativi che hanno accompagnato i fatti e per comprenderli in uno sguardo di sintesi.
    Un secondo momento è il coinvolgere se stessi nei fatti accaduti. Non si può rimanere indifferenti come spettatori passivi. Si deve partecipare esprimendo atteggiamenti di scontentezza o di soddisfazione, di dolore o di festa, di fiducia o rabbia, di incertezza o sicurezza.
    Un terzo momento è il coinvolgere il Signore Gesù nella riflessione. Si cerca di mettersi alla presenza di Gesù di Nazaret, di fronte al suo modo di pensare, di parlare e di agire, che diventa criterio di verifica per quanto è accaduto. Porre Gesù di Nazaret come maestro e modello di comportamento aiuta a intuire come i fatti, su cui si riflette, entrano a far parte di un progetto di salvezza, che va al di là di quello che pensiamo e operiamo singolarmente. Non è dunque una presenza slegata dai fatti.
    La riflessione può essere aiutata da un brano della parola di Dio, da un testo poetico, da un breve commento sui fatti accaduti, dalle parole di qualcuno che, avendo partecipato personalmente, presenta i fatti e ne coglie gli interrogativi.
    Un momento importante della meditazione è concludere con l'assunzione di responsabilità.
    Quando la meditazione volge al termine, si intuisce di comprendere in modo nuovo ciò che è capitato e di poter e dover assumere nuovi impegni nei confronti della vita, che può riguardare se stessi, la squadra, il gruppo, la società... In effetti la meditazione fa scoprire le energie nascoste, mette in moto la fantasia per sognare un modo diverso di pensare, di parlare e di agire, spinge ad uscire dall'apatia e dallo sconforto e impegna a opporsi a coloro che banalizzano la vita quotidiana.
    Chi medita sente che l'ultimo atto della sua meditazione è assumersi le proprie responsabilità, individuando precisi impegni. La responsabilizzazione si rende visibile e si manifesta come «credo» e come invocazione. Si crede in un mondo migliore e lo si dichiara. E si invoca l'aiuto di Dio perché non ci si chiuda in una visione individualistica, che può portare all'egoismo, ma si passi dai pensieri e dalle parole ai fatti concreti e verificabili.

    La vita... in contemplazione

    L'educatore è anche uno che sa contemplare. La contemplazione prima che attività cristiana è una attività dell'uomo. Essa implica un separarsi da qualcosa, per vederla da una distanza sufficiente per averne una visione globale e completa. La contemplazione dà, già a prima vista, l'idea di uno sguardo profondo che afferra la realtà nelle sue motivazioni, l'idea di un soffermarsi sulla realtà per vederla completamente, con uno sguardo ampio.
    È l'opposto della dispersione, della frantumazione, della confusione, del vivere a compartimenti stagno tanto che spesso sembra che non ci sia un nesso tra le diverse attività di una giornata o i diversi gesti di un avvenimento.
    Il contemplativo è così appassionato alla vita di ogni giorno che continuamente la unifica con uno sguardo di insieme, a cui partecipa l'intelligenza e il cuore, la volontà e il sentimento, per coglierne il senso più profondo.
    Il contemplativo vive nella consapevolezza e nella gioia che la vita di ogni persona è il luogo in cui il Signore costruisce il suo Regno, anche al di là dei limiti e dei peccati. Il contemplativo in azione, mentre mangia o studia o gioca o fa altro è consapevole, anche se immediatamente non ci pensa, di essere nelle mani del «Signore della vita». Questo genera in lui gioia, ottimismo, fiducia e pace.
    Il contemplare non è un intervallo nelle attività, ma è aggiungere loro una qualità. Lavorare, studiare, giocare, sono attività in cui l'uomo «agisce», «riflette» e «contempla».
    Quando agisce l'uomo vive da «operatore», collabora cioè alla costruzione di una vita e di una società a misura di uomo. Quando riflette sui fatti della vita, vive «da scienziato». Quando ricerca il loro senso più profondo vive «da contemplativo». Quando vive da scienziato vede ancora le cose «dal di fuori». Quando vive da contemplativo non disprezza le informazioni dello scienziato ma va oltre, verso il senso più profondo: vede le cose «dal di dentro». La contemplazione quindi è una dimensione di ogni attività, dal mangiare al giocare, dallo studiare al lavorare.
    Ti propongo un esercizio per meditare e contemplare attraverso il proprio corpo.
    Ti corichi supino sul pavimento. Respiri. Senti in te una forza, che ti impone ritmicamente l'inspirazione e l'espirazione, più lenta o più veloce. Respira per un po' di tempo intensamente.
    Adesso sospendi la respirazione, come se fossi sott'acqua. Il tempo in cui puoi resistere è breve, perché senza respirare non si vive.
    Ora scopri quanto avviene dentro di te, ascolta il battito del tuo cuore. Di nuovo percepisci un ritmo ininterrotto: un battito dopo l'altro e fra questi sempre una pausa. Il cuore batte, è un motore, una pompa, una fonte di energia. Ma non puoi sospendere il battito del tuo cuore, che è segno sicuro della tua vitalità.
    Pensa: puoi trattenere, anche se per breve tempo, il respiro, ma non puoi fermare il tuo cuore. Anche se lo volessi, non ti sarebbe possibile. Il cuore continua a battere instancabile.
    Chi mette in movimento questa forza, chi ci dà questa energia?
    Riflettendo sul respiro e sul battito del tuo cuore diventi veramente cosciente di te stesso e scopri almeno due ragioni per essere riconoscente della vita che ti è stata donata e che ti ricollega immediatamente ai tuoi genitori e a Qualcuno che è «al di là».
    Con questo sguardo profondo alle cose e alle persone si intuisce sempre di più che il regno di Dio si sta costruendo qui-ora, oppure che il regno di Dio in tale situazione, per responsabilità varie, non si sta realizzando. Nel primo caso si gioisce, nel secondo si soffre. Soffrire e gioire sono frutto della contemplazione. Si esprime in atteggiamenti come la passione per la vita, la fiducia, la gratuità, ma anche con la consapevolezza non solo dei propri limiti, ma con la coscienza delle potenzialità che attendono di essere convogliate nel servizio ai più poveri e deboli.

    Don Bosco: un modello di sintesi di vita

    Il Papa Giovanni Paolo II, intervenendo a un incontro mondiale dei salesiani, ha voluto mettere in rilievo alcuni valori fondamentali, che considera di particolare attualità per coloro che interpretano la missione educativa della Chiesa verso i giovani.
    «Mi piace sottolineare anzitutto, come elemento fondamentale, la forza di sintesi unitiva che sgorga dalla carità pastorale. Essa è frutto della potenza dello Spirito Santo che assicura l'inseparabilità vitale tra unione con Dio e dedizione al prossimo, tra interiorità evangelica e azione apostolica, tra cuore orante e mani operanti».
    La vita interiore di don Bosco esprime l'originalità della spiritualità giovanile. È un esercizio di fede, che comporta ottimismo: il guardare globalmente la realtà senza scoraggiarsi per il male, ma privilegiando la considerazione di quanto c'è di bene; saper percepire anche nella mela marcia, come diceva don Bosco, i semi che sono portatori di vita nuova e possono far crescere altre piante sane.
    L'esercizio della fede in don Bosco lo portava ad atteggiamenti di gratitudine per il bene e a progettazioni pastorali e pedagogiche per la cura dei semi, la loro seminagione e la loro crescita.
    È esercizio di speranza attiva, che conta sulle energie della risurrezione, sulla presenza di Cristo e di Maria, sulla potenza dello Spirito Santo. Spinge a mettersi in fretta al lavoro, collegando tutte le risorse in campo, per risolvere i problemi dei giovani. È sottolineato l'esercizio di una speranza attiva, che lancia don Bosco a tanti impegni di servizio ai giovani, come partecipazione a un progetto di amore per l'uomo.
    E l'esercizio di una carità pastorale, che viene caratterizzata dalla «grazia di unità». Unità fra che cosa? «Unità tra lo sguardo su Dio – adorazione, ascolto, preghiera – e l'impegno di salvezza che lancia tra i giovani, in modo però che questo impegno non sia una distrazione da quello sguardo, e che lo sguardo non sia una evasione dall'impegno, ma l'uno alimenti l'altro; l'uno sia il supporto, il momento di riferimento e di ricarica per l'altro» (Egidio Viganò).
    «Io mi immagino come la fantasia di don Bosco orante doveva essere ripiena di Dio, ma proprio per questo anche dei suoi ragazzi, delle persone, dei problemi che aveva. E c'è anche da affermare la controparte: ossia che il lavoro, i dialoghi, le discussioni, i giochi, le passeggiate, la scuola, lo stare con i giovani, lo scrivere, l'impegnarsi in tante imprese, l'affaticarsi di don Bosco fosse come un'estasi della sua contemplazione, del suo amore».
    «Dobbiamo avere questa convinzione: noi non preghiamo per santificare il lavoro, come se la santità stesse solo nella preghiera e non nel lavoro apostolico; noi preghiamo e lavoriamo, siamo immersi nell'azione e contempliamo Dio perché ci muove dal di dentro una stessa carità pastorale che è l'anima della preghiera e dell'azione apostolica. La nostra santità non si identifica con la preghiera; ogni santità si identifica con l'amore. E l'amore della nostra santità è quello della carità pastorale» (Egidio Viganò).

    Cosa fare in concreto?
    Per diventare uomo «di fede»

    Spesso si mette in contrapposizione azione e contemplazione. Quale delle due è la più importante, l'azione o la contemplazione? La contemplazione ha certamente un suo primato. Però non esiste né l'azione né la contemplazione per se stessa: chi esiste è la persona! La persona che agisce, la persona che contempla: e la persona si caratterizza per il suo amore. Il dualismo si supera nella unità della persona che deve essere accompagnata e crescere gradualmente.
    Si tratta di passare:
    - dall'azione, dove il punto di partenza e la vita di ogni giorno è il fatto che si vive... al raccoglimento e concentrazione, per cogliere con intelligenza quanto dí positivo o di negativo sí è vissuto;
    - dal riconoscere con simpatia il meglio... alla riflessione, che cerca di fare l'analisi critica della realtà: non basta mangiare, giocare; ci si interroga su come si sta vivendo, su quali valori si fonda il nostro impegno; si cerca di fare una analisi scientifica della realtà;
    - dalla scoperta delle motivazioni che hanno accompagnato i fatti... alla assunzione di responsabilità, individuando precisi impegni;
    - dal meditare sul perché umano delle cose... alla contemplazione, che è vederle «dal di dentro» in una visione globale e completa, che è quindi consapevolezza di stare davanti a Dio, che risponde agli interrogativi più personali e profondi: perché la vita? perché la morte? e dopo?


    12. LA VITA: UNA CELEBRAZIONE CON LE COSE

    Gesù e le cose, «segni» della bontà del Padre

    Al primo posto, nell'esperienza di Gesù c'è la preghiera di benedizione, di lode e di contemplazione. Sui cinque pani e i due pesci, che poi vengono moltiplicati e distribuiti, Gesù pronuncia la benedizione (Mc 6,41) e così fa anche nell'istituzione dell'Eucaristia (Mc 14,22).
    La benedizione, nell'ebraismo del tempo di Gesù, è la preghiera per eccellenza. In essa sta il senso e il contesto di ogni altra preghiera. Qui si manifesta la concezione che l'ebreo credente ha del mondo e degli uomini.
    La benedizione è una preghiera che esprime riconoscimento, ringraziamento e ammirazione. Scaturisce da un sentimento acuto del dono di Dio e si conclude nella fraternità. Pronunciando la benedizione, l'ebreo rinuncia a considerarsi proprietario dei beni che lo circondano e rinuncia a farsene un possesso esclusivo. Il vero proprietario è Dio che ne fa dono a tutti i suoi figli.
    Così la benedizione è, allo stesso tempo, riconoscimento di Dio, visione del mondo, accolto è goduto nella gioia in quanto dono dell'amore del Padre, e impegno di fraternità.
    Gesù guarda e utilizza le cose nel significato che avevano fin dal loro apparire ad opera del Creatore. Per lunghi anni, nel nascondimento del suo paese, a Nazaret, egli esercita il lavoro di carpentiere. Prende su di sé la dura fatica quotidiana che spetta a ciascuno, e mostra che in essa l'uomo è chiamato a diventare adulto e a realizzarsi in conformità al disegno della creazione.
    Il suo sguardo sulla realtà creata è così limpido e profondo, da portare alla luce l'amore provvidente di Dio che è in essa. Gli uccelli del cielo e i gigli del campo sono un invito a riconoscere la paterna bontà Dio, che tutto ha creato e sostiene per farne dono alla vita dell'uomo. Le cose del mondo diventano così un appello a fidarsi totalmente di Dio, che per primo si mostra preoccupato dell'esistenza umana (Mt 6,25-34). Accogliere il mondo come un dono divino, trasformarlo con fatica per la maturazione nostra e degli altri: ecco il progetto che Gesù riconsegna al nostro cuore e alle nostre mani.
    Il messaggio di Gesù era assolutamente nuovo. Certe cose ormai non ci fanno più impressione, perché le pensano tutti. Che tutti gli uomini sono uguali, che non ci devono essere schiavi e padroni, che i poveri e i malati non vanno emarginati, oggi, sembrano cose scontate. Ma allora non erano state dette e sentite. Per i greci, per i romani, per tutti i popoli antichi, compresi gli ebrei, contavano soltanto i forti, i sani, i ricchi, i liberi.
    Gesù ha cercato di comunicare il suo messaggio in maniera comprensibile alla maggioranza delle persone, anche le più semplici e senza cultura. Partiva sempre dagli interessi della gente e dalla loro esperienza. Stabiliva subito un ponte tra sé e gli ascoltatori, sottolineando quello che essi già conoscevano: il seminatore che semina anche in luoghi sassosi, il pastore che si dispera dietro alla pecora dispettosa, la donna che partorisce o che impasta la farina per fare il pane, il contadino che pota le viti, che toglie le erbacce dal campo, che travasa il vino appena fermentato, il muratore che scava le fondamenta della casa sulla roccia, l'invitato a pranzo che cerca di occupare i posti più importanti, il pescatore che separa i pesci buoni da quelli non commestibili, il tipo che non ha fatto bene i conti e che deve lasciare la costruzione della casa a metà, un poveraccio assalito dai briganti lungo una strada che tutti sapevano pericolosa, la donna che, dopo aver frugato dappertutto, ritrovato il gioiello che aveva perso, esce da casa urlando: «L'ho ritrovato!».
    Nel sentirlo iniziare un discorso, tutti dicevano dentro di sé: «Questa la so! È vero, è proprio come dice lui!». A questo punto il ponte era stato gettato e l'attenzione era ottenuta. Subito però Gesù li sorprendeva, perché il lievito diventava il «regno di Dio», il seme cattivo era «l'opera del maligno», il seme buono era la «sua parola», le pecore erano «quelli che credevano in lui», la vite era la «sua vita», i tralci erano «coloro che vivevano uniti a lui».
    L'acqua versata sulle persone diventa il «segno» dell'amore di Dio Padre, che toglie il peccato dell'uomo. Nell'ultima cena il pane e il vino diventano il «segno» del suo corpo offerto per la vita dell'uomo.
    L'acqua, il pane, il vino non sono soltanto «cose» offerte per la nostra vita umana, ma attraverso le parole del Signore sono «grazie», doni in totale gratuità, che producono una vita che ci unisce a Dio Padre e ci fa suoi familiari.

    Una scena che deve far riflettere

    Riflettiamo un momento su come i giovani sportivi partecipano di solito alle celebrazioni religiose, soprattutto l'eucaristia, proposte nel loro ambiente educativo: l'oratorio o la parrocchia.
    La descrizione è volutamente provocatoria; parte da ciò che capita «in campo» e lo stile che si assume, e poi sottolinea ciò che capita «in chiesa» e il modo di parteciparvi.
    All'entrata in campo non solo c'è la squadra compatta, ma qualche volta si vedono tanti giocatori toccare il campo e farsi chiaramente un bel segno di croce. Poi si schierano decisamente al centro del campo perché tutti possano vederli.
    Quando i nostri giovani atleti si presentano in chiesa vanno in ordine sparso, molti fanno un segno che non richiama certamente un segno di croce e poi li vedi collocarsi in fondo alla chiesa come degli sconosciuti che non vogliono farsi notare da nessuno.
    Mentre, schierati al centro del campo, ascoltano (qualcuno canta) l'inno nazionale, si vedono dei giovani ben poggiati sulle due gambe, attenti e concentrati. Se poi si invitano i giocata ri e gli spettatori a un minuto di silenzio per ricordare una persona defunta l'atteggiamento è di persone raccolte e in preghiera davanti a tutti.
    Quando gli stessi giovani ascoltano il Vangelo, la posizione di molti continua ad essere la solita: appoggiati alla parete di fondo o ad una colonna, con un volto annoiato e distratto. Anche al momento della consacrazione la posizione non cambia e si nota poco raccoglimento.
    In molte manifestazioni sportive ci si scambia qualche dono come segno distintivo della propria società. Qualunque cosa si offra, soprattutto quando si tratta del gagliardetto della propria società, lo si fa con stile e guardando in volto le persone alle quali lo si consegna. Anche nel momento della premiazione ci si presenta a ricevere medaglie e coppe con speditezza ed entusiasmo, sempre impegnati a esprimere un comportamento dignitoso.
    Quando si invitano degli sportivi a presentarsi e a portare all'altare qualche oggetto di uso sportivo al momento dell'offertorio, si vedono dei giovani impacciati nel camminare, che guardano a terra timorosi di incrociare gli sguardi dei loro compagni di squadra.
    Negli allenamenti e nelle partite sono spesso esigite flessioni, inchini e piegamenti di ginocchia.
    Durante le celebrazioni è assai raro vedere degli atleti fare un inchino o una genuflessione, che dimostri che si tratta di un vero atleta.
    Dalle situazioni descritte si ha l'impressione, anzi la convinzione, che tutto quello che imparano in palestra o sul campo sportivo, tutto quello che praticano all'inizio, durante e alla fine di una gara sportiva, non incida minimamente nei movimenti del corpo e nei comportamenti esigiti da altri contesti, soprattutto di tipo celebrativo e religioso.
    Occorre allora educarci ed educare ad esprimersi con i movimenti del corpo da veri atleti, che comprendono il senso di ogni gesto del corpo e lo fanno con coscienza e stile.
    Sono però necessarie alcune precisazioni sulla celebrazione in comunità.
    Ci vogliono degli educatori, che sappiano far celebrare il gioco e la vittoria con le stesse persone e le stesse cose con cui si gioca.
    Per comprendere cosa è una celebrazione, si pensi ad una festa per una vittoria sportiva. Il risultato, la vittoria si è conquistata in campo, con impegno, intelligenza, sudore e fatica. La festa per la vittoria si vive in momenti distinti che sono vissuti in maniera diversa.
    Si esce dal campo di gioco sfiniti fisicamente, ma contenti di aver dato il meglio, con le lacrime agli occhi, ma entusiasti per la vittoria o per aver migliorato un proprio record. Tutti gli amici sono contenti ed esprimono la loro soddisfazione con battimano, canti e balli, con lo sventolio di bandiere e con cortei rumorosi e allegri.
    C'è il momento della proclamazione della vittoria in maniera ufficiale e pubblica. Tra inni e bandiere si è premiati, si ha il riconoscimento del proprio impegno. In genere alla premiazione compaiono i giocatori che si sono visti in campo e quelli che hanno partecipato, ma in panchina.
    Sempre avviene un gesto spontaneo della squadra vincitrice nei riguardi del proprio allenatore. Anche se l'allenatore non sale sul podio e non riceve medaglie e coppe, è il primo che viene coinvolto nella gioia della vittoria. In questo momento di gioia sono coinvolti anche dirigenti, accompagnatori, massaggiatori... e i tifosi che dalle gradinate dello stadio hanno sostenuto la squadra con il loro entusiasmo.
    Ma ci sono altri, parenti e amici, ed è giusto esprimere tutti insieme la propria soddisfazione e la propria gioia. E allora è necessario un altro momento della festa, quando tra musica, balli e canti, brindisi e congratulazioni, si ricorda la partita con tutti i particolari che l'hanno preceduta, accompagnata e seguita.
    È la celebrazione più sentita da tutti per la vittoria, conquistata in campo. È la festa che coinvolge il numero più grande di persone: qualche volta una intera città.
    Anche quando non si è avuto il primo premio, si fa festa per l'impresa fatta, per il risultato ottenuto, quasi un nuovo record personale o di squadra, che va sempre evidenziato e apprezzato.

    La celebrazione umana: stare insieme

    Ogni celebrazione presenta alcune caratteristiche particolari. La celebrazione è una azione comunitaria. Da soli non si può celebrare; al massimo si possono fare dei gesti carichi di significato particolare, ma solo per il singolo che li compie.
    Che significato ha per un giocatore farsi il segno di croce prima della partita, entrando in campo? Che significato ha invece un minuto di silenzio richiesto a tutti, giocatori e spettatori, all'inizio di una partita? Il primo è di tipo personale, il secondo è fatto insieme con un gesto e una posizione del corpo di tante persone, che sono coinvolte in un ricordo, che può diventare, ed è per molti, una invocazione, muta ma estremamente significativa.
    Le celebrazioni si fanno assieme. È sempre un gruppo di persone che compie una celebrazione. E questo è un elemento importante: perché aiuta a rinsaldare il vincolo di appartenenza al gruppo, consente di sentirsi e di manifestarci come comunità.
    La celebrazione comporta una parentesi nella vita ordinaria. Significa rottura con lo svolgimento abituale dell'esistenza. La «parentesi» nella quotidianità è espressa dal luogo della celebrazione, dagli orari, dai vestiti, dagli oggetti, dai gesti e dalle parole che si usano, da quel clima particolare che sa di gratuità.
    La celebrazione porta a vivere qualcosa che tocca le zone profonde della vita umana. La celebrazione è sempre provocata da qualcosa che incide nella vita di una persona o nella storia di un gruppo o di una associazione. Non si celebra una banalità, ma una esperienza basata su un valore, che ci costruisce come persone e ci aiuta a costruire una società più umana.
    Quando si celebra una vittoria sportiva, lo si fa per esprimere il valore che assume l'essere una squadra, il valore della competizione, della gara, della solidarietà e dell'amicizia.
    La celebrazione è una azione espressa in gesti rituali. Celebrare non è solo riflettere, ma agire. E tale agire avviene tramite gesti particolari: canto, acclamazione, applauso, movimenti previsti o del tutto spontanei.
    Si tratta di gesti «rituali», che si ripetono ogniqualvolta si compie «quella» celebrazione; gesti che rappresentano quasi una parola d'ordine per il gruppo, creando un linguaggio caratteristico che consente a tutti di ritrovarsi entro un quadro di riferimento ben preciso.
    Basti pensare allo stile controllato e compassato che hanno assunto le premiazioni delle gare olimpiche; molto diverso è il clima che si crea e si vive alla premiazione dopo una partita di discipline più vicine alla gente. Ci sono canti, giri di campo dei campioni, invasione di campo dei tifosi.
    La celebrazione produce un cambiamento nella propria esistenza. Se la celebrazione è vissuta con sincerità e partecipazione, si assisterà a una trasformazione nel modo di vivere dei partecipanti. Essi ritorneranno alla quotidianità della loro vita rinfrancati e ricaricati di nuove energie, come gente che ha riscoperto un motivo in più per vivere.

    La celebrazione cristiana: stare insieme con Cristo

    Avendo evidenziato gli elementi della celebrazione umana, si riesce a comprendere meglio lo specifico della celebrazione cristiana. Anche per questo un gruppo di persone si riunisce per celebrare. Canti, parole, preghiere, acclamazioni... I presenti stanno in piedi, in ginocchio, seduti, inchinati, camminano in processione. Si usano libri, fiori, immagini, ceri, vasi, oggetti vari... Tutto ciò serve per comunicare.
    Per comunicare l'uomo ha bisogno di segni. Ogni persona vuole comunicare con gli altri: è una necessità naturale. Non si può vivere isolati in noi stessi. Per comunicare l'idea che abbiamo, per manifestare un affetto che ci guida, ci si deve servire di un mezzo sensibile, cioè visibile o udibile. È necessario «rivestire» l'idea da comunicare o il sentimento da manifestare di un elemento percepibile dai nostri sensi con un segno che può essere una parola, un gesto, un oggetto, altrimenti l'idea rimane in sé e non raggiunge l'interlocutore, il sentimento d'amore resta chiuso nel proprio cuore e non ci apre all'altro.
    L'uomo ha un corpo ed è attraverso il corpo che egli comunica. Dunque per comunicare l'uomo ha bisogno di segni: parole, gesti, cose.
    Ad esempio, per fare le congratulazioni in occasione di una gara vittoriosa si può usare il segno-parola e dire: «Congratulazioni!»; il segno-gesto e abbracciare e baciare la persona; il segno-cosa e fare un regalo, offrire un mazzo di fiori.
    A volte il gesto che compiamo può assumere tanti significati. È necessario allora la parola che, unita al gesto, espliciti il significato che si vuole dare al gesto che compiamo. Fra i tanti significati che il gesto può indicare, la parola isola e indica quello da noi scelto.
    Anche Dio, per comunicare con l'uomo, ha rispettato l'esigenza umana di servirsi di elementi sensibili e si serve di segni. Dio, per primo, si è fatto conoscere, ha parlato all'uomo usando le parole dell'uomo. «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi, molte volte e in diversi modi, ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Dio colma l'abisso che c'è tra lui, infinito, e l'uomo e lo fa adattandosi al modo di comunicare umano.
    Il segno per eccellenza è stata la persona di Gesù di Nazaret; e con la sua incarnazione di conseguenza tutte le persone sono segni con i quali il Signore ci comunica il suo progetto di vita.
    L'uomo, per rispondere a Dio e comunicare con lui, non poteva che usare i segni e i mezzi della comunicazione umana: parole, gesti, oggetti...
    Come persone singole si può rispondere a Dio con la preghiera personale, per lo più silenziosa. Comunitariamente ci si deve servire di segni sensibili per realizzare l'azione celebrativa, in cui un gruppo di persone esprime la sua gioia e ringrazia il Signore. I segni sono il linguaggio necessario della celebrazione. Tali segni assumono una forza particolare. Possono diventare gesti simbolici, e allora introducono in una esperienza ricchissima che costituisce il modo ideale per comunicare con Dio.

    Gesto e celebrazione

    L'uomo esprime se stesso attraverso il corpo. Il vedere, l'udire, il parlare o fare silenzio, le posizioni e i gesti del corpo, la vicinanza o il distacco: tutto ciò entra nella celebrazione e influisce grandemente su di essa. Quanto l'uomo fa e compie diviene espressione, gesto prodotto dalla sua corporeità. Si avrà così una gestualità legata alla parola e una gestualità legata all'atteggiamento della persona.
    Ci sono i gesti verbali. L'ascoltare, che non è il semplice udire, ma attenzione a chi parla e disponibilità a capire di che cosa parla. Il parlare, che è un modo per esprimere risposta a ciò che si è ascoltato. Il cantare, che trasforma la parola in un'espressione più ricca, carica di affettività. Cantare con altri equivale ad accettare una modalità unica e comune (stessa melodia e stesso ritmo), significa entrare in un coro e in un gioco di più persone. Anche fare silenzio non è mancanza di parole, ma atteggiamento di raccoglimento, che favorisce la concentrazione e la contemplazione. In alcuni casi è il modo più vivo e sentito di comunicare.
    Ci sono anche i gesti non verbali. Sono più imprecisi e a volte ambigui: ad esempio, camminare può significare avvicinarsi o allontanarsi, lo stare seduti può voler dire stanchezza, riposo o concentrazione, ecc. Per questo hanno bisogno di un contesto (insieme della celebrazione) o di un testo (una parola o una frase) che dia loro un determinato significato. Sono gesti che hanno il pregio di impegnare la persona in modo più globale e unificante fino a diventare simbolici.
    Lo sguardo è inteso nel senso umano più ricco. Non è solo vedere, ma guardare. Con lo sguardo si cerca, si osserva, si ammira, si contempla. Si lasciano trasparire i sentimenti e si comunica ciò che, verbalmente, richiederebbe molte parole.
    Il chiudere gli occhi è, al contrario, analogo al silenzio e può diventare esperienza ricchissima di comunicazione.
    Le posizioni: stare in piedi, seduti, in ginocchio, prostrati, inchinati... se inserite in un'azione simbolica come la celebrazione, diventano espressive e comunicative. Anche la vicinanza o la lontananza reciproca, il contatto o il distacco fra le persone, possono avere un significato. Generalmente la vicinanza favorisce l'azione comune, la lontananza la concentrazione e la riflessione.
    La distanza o la prossimità di chi ha un ruolo da svolgere: leggere, presiedere, animare, inducono sentimenti diversi, che possono esprimere distacco o fraternità o rispetto. Da ciò ci si accorge dell'importanza degli arredi presenti nella sala: possono ostacolare o favorire la comunicazione reciproca.
    Il movimento di tutto il corpo (come camminare, correre...), o il movimento degli arti (braccia alzate, protese in avanti, abbracciare, dare la mano, battere le mani...), oppure il movimento per indicare qualcosa, offrire un oggetto... indicano altrettanti messaggi che vengono comunicati dal diverso atteggiamento del corpo.
    Riconquistare il senso della corporeità, come fondamento della vita umana, vivere nel corpo e con il corpo, è una esigenza che si impone per ricomporre in unità la persona umana. Testimonia la riscoperta di accogliere tutta la persona nella sua in tegralità.
    Per celebrare con verità, tutto l'uomo deve entrare nella celebrazione: intelligenza, volontà, affettività e corporeità, poiché è tutto l'uomo che viene visitato dallo Spirito del Cristo risorto, e tutto l'uomo è invitato a dare una risposta al Signore della vita.

    Don Bosco e la celebrazione della vita

    Una modalità di preghiera giovanile è la celebrazione comunitaria. È chiaro che cosa sia una celebrazione: un grande «segno» sacramentale in cui si dice la ricerca che l'uomo fa di Dio e la risposta che viene da Dio in Gesù Cristo.
    Le due grandi celebrazioni che ritmano la vita del cristiano sono l'eucaristia e la penitenza, che don Bosco considerava due grandi pilastri del suo progetto educativo e pastorale.
    Una intuizione di don Bosco è stata l'aver facilitato in tutti i modi la partecipazione dei giovani all'eucaristia. Alcuni tratti costituiscono lo stile giovanile dell'eucaristia.
    Innanzitutto l'attenzione al «dono» di Dio che si fa vicino a noi, e suscita l'entusiasmo e il ringraziamento. In secondo luogo si hanno a cuore le attese e le intuizioni del mondo giovanile e si è attenti a cogliere il dono che sono i giovani per l'umanità e per la chiesa. Infine è giovanile una eucaristia comunitaria. Ognuno è convocato non per vivere la «sua» messa, ma per inserirsi in un'unica esperienza. Nel sentirsi comunità fraterna, nel canto, nella stretta di mano, nel guardarsi negli occhi ci si sente amati da Dio attraverso i fratelli e si è felici perché lo si incontra in loro.
    Non si capisce la sollecitazione di don Bosco per l'eucaristia, se insieme non si ricorda la sua insistenza perché i giovani facciano esperienza del perdono di Dio nella riconciliazione. La spiritualità giovanile educa alla conversione continua da realizzare a piccoli passi, nel quotidiano della propria crescita educativa. Nella presenza dei fratelli e del sacerdote che ci accoglie, Dio ci accoglie. Nel perdono reciproco e nell'abbraccio fraterno, sappiamo che è lo Spirito di Dio che anima dal di dentro i nostri gesti. Quando il sacerdote ci impone le mani e ci perdona siamo finalmente, come il figlio prodigo della parabola di Gesù, nella «casa del padre» e possiamo far festa.
    In don Bosco il sacramento della riconciliazione non è solo celebrazione della salvezza che il giovane vive già, ma è anche un'occasione pedagogica per una «verifica ascetica». In un dialogo franco con se stessi, alla luce della parola di Dio e con l'aiuto del sacerdote e della comunità, si fa il punto sulla qualità del proprio impegno, sulla coerenza negli impegni assunti, sul cammino d'insieme che negli anni si sta percorrendo.

    Cosa fare in concreto?
    Una dinamica: dalla vita... alla vita

    Ogni momento della vita, perché possa diventare anche «celebrazione» della vita, deve essere vissuto in maniera dinamica e, per così dire, articolato in tre momenti: si parte dalla vita, si va all'incontro e al confronto con il Signore Gesù, si ritorna alla vita. Ogni momento della giornata, anche se limitato nel tempo (per esempio una lezione, una riflessione, un allenamento, un incontro di preghiera...) viene vissuto e animato con la dinamica utilizzata dall'evangelista nell'incontro di Emmaus. Ci sono due giovani tristi che soffrono il fallimento di una loro esperienza; Gesù si mette accanto a loro, si interessa ai loro problemi, spiega ciò che capita a loro personalmente a partire dalla storia sacra, dalla storia di tutti, condivide con loro ciò che è e ciò che ha; i due giovani capiscono e, rincuorati, tornano dai loro amici per condividere la gioia dell'incontro avuto e il coraggio di riprendere il cammino.

    Dalla vita
    Si parte sempre tenendo presente ciò che «già» si pensa e si esprime, si sa sperimentare e proporre, ciò che è «già» patrimonio di coloro che partecipano. Cioè si parte sempre dalla vita quotidiana, che si manifesta anche ín incontri semplici, non sempre compresi da tutti, e che è fatta di gesti e cose ordinarie nella vita di tutti.
    Si presenta una situazione di vita, se ne evidenziano le problematiche connesse, le domande espresse, le attese nascoste dei protagonisti, le soluzioni proposte sia positive che negative.

    All'incontro con il Signore Gesù
    Si tratta di confrontarsi con la vita e la parola di Gesù, che si presenta come modello, al quale ci rifacciamo come uomini e come credenti.
    Punto fondamentale su cui poggia questo confronto è la persona del testimone, che ha il compito:
    • di inserire il giovane e il gruppo in una storia, che viene da molto lontano e di cui è narratore entusiasta;
    • di immettere nuovi stimoli in ciascun partecipante, che è aiutato a scoprire in sé energie non ancora completamente conosciute e riconosciute e che sono doni da valorizzare;
    • di far sperimentare nel piccolo, ma con intensità, nuovi esercizi e gesti significativi per la propria vita e per la vita degli altri.
    Si tratta di rispondere alla proposta del Signore:
    • nella invocazione umile e realista di chi desidera cambiare il mondo in meglio ed esprime la propria disponibilità con tutto se stesso (parole, gesti, canti...),
    • nel ricevere nuova energia nei segni sacramentali offerti dal Signore, sorgente di vita, che esigono piena comunione e un rapporto armonico con se stessi, con gli altri, con le cose e quindi con il Signore creatore e Padre.
    Se eucaristia significa «rendimento di grazie», questo momento lo vogliamo realizzare in un clima «eucaristico».
    È evidente che se la celebrazione è sganciata dalla vita dei giovani e utilizza parole, ritmi e simboli lontani dalla loro esperienza quotidiana, può diventare o una «devozione», che è lasciata all'iniziativa personale dei più volenterosi, o una «cerimonia», in cui si ripetono gesti e parole, che non dicono più nulla, e che risulta perciò noiosa e pesante per la maggioranza dei giovani.
    Deve diventare sempre più un momento di festa quotidiana:
    • in cui si ascoltano le meraviglie, che il Signore ha «già» operato e sta «ancora» operando;
    • in cui si parla di ciò che sta veramente a cuore di qualcuno, di ciò che ciascuno di noi sta facendo, testimoniandolo in modo esplicito;
    • in cui si cerca di mettere in evidenza ciò che di nuovo sta capitando nella vita di ciascuno.

    Alla vita
    Infine si ritorna ad altri momenti della giornata, in cui la dinamica si ripropone, ma con più convinzioni e motivazioni, con una carica in più, che favorisce ulteriori incontri, riflessioni ed esperienze da viver con più coscienza e partecipazione. Ognuno ha la possibilità di portare con sé, al termine di ogni incontro, almeno una risorsa in più:
    • di conoscenza più approfondita della situazione e del contesto in cui si vive e si opera;
    • di confronto e approfondimento del pensiero e della vita di Gesù come modello di comportamento;
    • di condivisione e di solidarietà con tanti uomini di buona volontà, di cui si è conosciuta la testimonianza di vita;
    • di riconciliazione e di comunione con se stessi, con glì altri, con le cose e quindi con il Padre per la mediazione diretta sacramentale del Signore Gesù, che diventa sorgente di vita nuova.


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
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    I sogni dei giovani x
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    PG: apprendistato
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    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

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