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    La vita e il tempo (Quarta parte di: La vita del credente)


    Carlo Molari, LA VITA DEL CREDENTE. Meditazioni spirituali per l'uomo d'oggi, Elledici 1996




    IL TEMPO E IL RISCATTO DEL QUOTIDIANO

    Ogni inizio di anno ci scambiamo gli auguri e formuliamo desideri per il futuro. Non è solo una gioiosa consuetudine, ma è anche il necessario richiamo alla nostra condizione di creature. Il tempo, infatti, ci costituisce viventi, perché solo in una successione di eventi siamo in grado di accogliere le offerte vitali che ci vengono fatte. Come creature perciò noi siamo tempo e le sue scadenze sono le tappe della nostra identificazione.
    L'uomo è in divenire e la sua identità sta nel futuro, poiché egli nasce come possibilità da realizzare e come struttura da svolgere. Attraverso le scelte, i gesti quotidiani, le speranze, l'uomo accoglie e sviluppa progressivamente la sua identità personale fissandola nella forma che la morte consegnerà alla storia e all'eternità. Tutti, perciò, per crescere, abbiamo bisogno di essere inseriti in strutture comunitarie, che richiamandosi ad una tradizione e attraverso intrecci di rapporti ci offrano doni vitali, aprendoci ad un futuro inedito.
    Alla triplice dimensione temporale dell'esistenza corrispondono la memoria, l'attesa e l'amore. La memoria come riverbero del passato continuamente ricuperato, l'attesa come invocazione del futuro che lentamente si affaccia, e l'amore come sintonia alla vita che si offre al presente. In termini cristiani parliamo di fede, come accoglienza della tradizione che viene dal passato, di speranza, come attesa di Dio che irrompe dal futuro, e di carità, come accoglienza puntuale dell'azione creatrice di Dio, che in noi diventa amore, dono per i fratelli.
    Questa trama di atteggiamenti interiori costituisce la vita teologale, che fin dai primordi della storia cristiana è stata presentata come componente essenziale della sequela di Gesù. San Paolo ad esempio, nella sua prima lettera ai Tessalonicesi, scritta appena 20 anni dopo la morte di Gesù, ringrazia Dio per la loro fede viva, per la loro carità operosa e per la loro costante speranza (1 Ts 1,3). Lo stesso modello è utilizzato molte volte per descrivere l'esperienza cristiana, di cui «queste sono le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità» (1 Cor 13,13).
    Queste tre virtù teologali sono, di fatto, l'esercizio di un unico atteggiamento, che è l'abbandono fiducioso in Dio, secondo le tre dimensioni temporali dell'esistenza umana. La fede è l'accoglienza della Parola di Dio come risuona nella storia salvifica. Vivere la fede implica, perciò, riferirsi agli eventi del passato attraverso i quali Dio si è rivelato agli uomini e accoglierne i significati emergenti dalla storia. La speranza è l'attesa dell'azione divina nelle sue forme inedite.Vivere la speranza, perciò, significa attendere Dio ogni giorno e accogliere il dono che irrompe dal futuro. La carità è l'apertura all'azione di Dio nelle situazioni del presente. Vivere la carità quindi vuol dire rendere ogni istante spazio dell'amore di Dio. Poiché il passato e il futuro confluiscono nel presente, l'unica dimensione sempre in atto, la carità, che è l'atteggiamento teologale esercitato al presente, è il compimento o la perfezione della vita teologale. Per questo san Paolo conclude che fra le tre virtù teologali «più grande di tutte è la carità» (1 Cor 13,13).
    Se le cose stanno così, è chiaro che per l'uomo il senso degli eventi sta solo dal fatto che gli offrano o gli consentano di diventare se stesso. Non è perciò il presente a dare senso al futuro, ma al contrario è il futuro che può dar senso al presente. Questo spiega perché ciò che l'uomo è non gli basti, e perché egli tenda sempre oltre se stesso verso traguardi nuovi. La ragione adeguata di tutto ciò che egli fa non sta nel presente, ma nel futuro. Il che significa che il senso adeguato della vita l'uomo non lo può trovare nelle sue capacità operative, nelle sue imprese e nei beni che possiede, ma solo in ciò che egli può diventare. Il senso della vita quindi dipende da come l'uomo vive il presente in rapporto al suo divenire, e si esprime nell'atteggiamento che egli ha nei confronti del suo futuro.
    Questo spiega perché oggi l'uomo spesso è assalito dall'angoscia del non-senso della vita. Gli eroi, infatti, del nostro tempo sono i cosiddetti rampanti. Gli investimenti redditizi, il lavoro ben remunerato, il posto preminente, il successo mondano, le conquiste amorose, sono considerate situazioni ideali di vita, traguardi da raggiungere ad ogni costo. La salvezza dell'uomo è annunciata e perseguita sulle vie del potere economico e politico, del piacere sessuale a buon mercato, delle soddisfazioni derivanti dal possesso sempre più esteso. Sono gli ideali, riconducibili ai tre «P» delle idolatrie consumiste: possesso, piacere, potere. Si crede che la salvezza venga dalla produzione di beni sempre più numerosi, dalla acquisizione di potere sempre maggiore, dalle soddisfazioni degli istinti sempre assecondati.
    Questa situazione induce meccanismi sociali molto diffusi e conduce ad esperienze vitali sconvolgenti, tipici della società dei consumi. La ragione della ricerca affannosa dell'uomo sta nel fatto che egli è realmente chiamato alla felicità, al benessere, alla signoria. Questa chiamata ha riflessi necessari nelle dinamiche istintive, che sono protese alla ricerca continua della massima gioia nella vita.
    La ragione della insoddisfazione, invece, sta in un errore di bersaglio e in una confusione di orizzonti. Le cose, le situazioni, le persone sono spazi di offerta di beni diversi, interiori, che costituiscono l'identità definitiva della persona, e che quindi suscitano spinte e desideri assoluti. Questi, perciò, non terminano alle cose, ma sono orientati altrove. Finché non si scopre il termine reale di ogni tensione vitale, non si è in grado di capire la condizione temporale di creature e di godere pienamente la vita.
    Non sono quindi le cose, i rapporti o gli eventi che hanno senso in sé, ma è ciò che l'uomo vi introduce a dare loro senso. Di fronte a fatti incomprensibili o assurdi, la domanda vera da formulare non è: «perché ciò accade?», ma: «Quale atteggiamento assumere perché tutto acquisti senso in futuro?». La trascendenza dell'uomo sta appunto nella capacità di introdurre senso nuovo in ciò che egli vive: egli può modificare il valore delle situazioni e può introdurre significati nuovi negli stessi eventi del passato e della creazione. La ragione di questa possibilità sta nel fatto che il Bene, la Verità, la Bellezza, la Giustizia, la Vita sono e si offrono all'uomo in modo inedito così da condurlo alla sua identità definitiva. La condizione perché ciò accada è che esistano persone accoglienti e fedeli alla vita.
    L'augurio che ci scambiamo all'inizio di ogni anno riguarda appunto il bene supremo della nostra identità, per cui acquistiamo un nome «scritto nei cieli» (cf Le 10,20b) e diventiamo viventi per sempre.

    QUARESIMA E CONVERSIONE

    «Convertitevi e credete al Vangelo»: l'invito della liturgia, che riprende l'inizio della predicazione di Gesù (Mc 1,15), ha contenuti e significati diversi secondo le fasi di crescita personale e secondo gli sviluppi della storia. Anche per Gesù l'invito era l'espressione di una esigenza che Egli aveva colto e che proponeva con urgenza ai suoi contemporanei per assecondare il cammino della storia: «II tempo è compiuto, il regno è vicino».

    Ambiguità

    Alcuni equivoci accompagnano l'uso della parola «conversione», molto frequente nel dizionario cristiano. Spesso, infatti, quando si parla della conversione, si pensa ad un problema che riguarda i peccatori, o ad un invito rivolto esclusivamente ai singoli. In realtà la conversione è una sollecitazione che la vita ripropone continuamente ad ogni uomo, soprattutto se giusto, e che la storia sollecita da ogni gruppo sociale, anche a beneficio di altri. Anzi ci sono situazioni nelle quali solo chi è libero dal male può cambiare in modo tale da accogliere le novità offerte dalla vita e da aiutare tutti coloro che ne sono schiavi. Anche la comunità, i popoli e i gruppi sociali, quindi, devono convertirsi, e spesso sono i cambiamenti delle loro leggi e delle loro strutture a rendere possibile il rinnovamento dei singoli. Spesso infatti un persona è in grado di cambiare, solo se la comunità in cui essa cresce le offre stimoli efficaci di rinnovamento.
    Più la storia procede, più i soggetti operativi sono complessi e i cambiamenti sempre più comunitari. Si pensi ad esempio alle esigenze attuali della pace, della giustizia, della condivisione. I rapporti tra i popoli che oggi vengono sollecitati dai veloci mezzi di trasporto e dagli strumenti di comunicazione richiedono atteggiamenti nuovi e strutture diverse di vita. Gorbaciov, in una sua visita in Italia, a proposito dei mali dell'umanità, osservò: «La via d'uscita è nella spiritualizzazione della vita, nella revisione dell'atteggiamento dell'uomo verso la natura, verso gli altri uomini, verso se stesso. Ci vuole una rivoluzione nella coscienza. Solo su questa base si formerà la nuova cultura e la nuova politica, che saranno adeguate alla sfida dei tempi». La formula «rivoluzione nella coscienza» è una traduzione moderna del termine biblico di conversione.
    Una recente inchiesta pubblicata dalla rivista Newsweek ha messo in luce le forti richieste di esperienze spirituali da parte dei quarantenni statunitensi. Vi è sempre molta ambiguità in tali movimenti, ma è innegabile che essi esprimano una reale esigenza di rinnovamento spirituale e culturale dell'umanità.

    Dinamiche di conversione

    Carne-spirito. A livello individuale, tutti noi nasciamo carne e veniamo sollecitati a diventare spirito; a livello sociale, da forme iniziali legate alle realtà materiali necessarie per la sopravvivenza l'umanità è sollecitata a raggiungere forme sempre più ricche di cultura e di spiritualità. Questi sviluppi, sia personali che sociali, non avvengono in modo automatico, ma attraverso scelte consapevoli e libere che costituiscono appunto i processi di conversione. La via di tali cambiamenti è lo sviluppo dell'interiorità e il traguardo, cui pervenire, è l'attitudine contemplativa.
    Io-tu. La persona e i gruppi sociali ampliano gli ambiti dell'interiorità solo attraverso l'incontro e l'ascolto degli altri. Il dialogo è appunto il luogo in cui la Parola di vita ci perviene, risuonando nelle diverse creature e negli eventi della storia. Tutti i rapporti debbono essere vissuti in modo da attuare dinamiche di interiorizzazione degli altri, senza oppressione o strumentalizzazioni interessate. La forma compiuta dell'esistenza personale si realizza attraverso l'interiorizzazione di tutte le componenti umane incontrate negli altri. Una comunità, quindi, fa crescere persone autentiche secondo il clima di ascolto e di dialogo che riesce a creare al suo interno.
    Persona-comunità. La vita non si esaurisce nella persona, ma esige che il dono ricevuto e sviluppato venga offerto ad altri. Ci sono ambiti di esistenza che possono emergere solo attraverso una fitta rete di relazioni personali, attraverso le quali la vita fluisce e si espande. Per questo il soggetto primo e adeguato di conversioni sono la comunità e non i singoli. Ciò suppone però che i gruppi sociali, attraverso relazioni profonde e dinamiche oblative, sappiano costituirsi come soggetto unico di azione.

    Momenti opportuni

    La vita sollecita ogni uomo a rinnovarsi costantemente. Ma ci sono fasi della vita personale e ci sono svolte nella storia umana nelle quali il rinnovamento è più urgente ed esige una maggiore radicalità: sono i momenti della necessaria riparazione del male passato e della accoglienza del nuovo che urge, l'occasione di un salto qualitativo nel livello di esistenza. In queste situazioni è necessario che persone singole e gruppi sociali sappiano rispondere fedelmente alle sollecitazioni della vita, perché essa possa continuare e le forme nuove di umanità sappiano aprirsi varchi sufficienti e possano diffondersi senza trovare resistenze. Questo periodo storico è riconosciuto da tutti come tempo di crisi o di passaggio di civiltà. Costituisce perciò un momento decisivo, una opportunità salvifica, una occasione per fare un passo avanti in umanità.
    Chi vive la fede in Dio è certo che la conversione è possibile, perché si sa che la Parola creatrice, che alimenta lo sviluppo della Vita, quando trova persone accoglienti e ambienti fedeli è in grado di indurre o di comunicare ciò che ancora non ha mai potuto esprimere nella storia umana. Una comunità ecclesiale che vive teologalmente e mette Dio al centro non ha difficoltà a compiere una lettura dei segni dei tempi e quindi un discernimento attento per una conversione. Le carenze derivano abitualmente dagli ideali che ispirano la trama dei rapporti e le tensioni dei desideri. Fa difetto, cioè, la vita teologale. Di qui dovrebbe cominciare ogni autentica conversione.

    LA RISURREZIONE DI CRISTO E LA NOSTRA VITA

    Ogni liturgia è memoria dell'ultima Pasqua di Gesù, il ricordo della sua fedeltà, culminata nella risurrezione. La liturgia ci fa rivivere passo a passo questa tappa dell'esistenza storica di Cristo ed ha nel giorno della Pasqua la sua espressione più gioiosa. Ma, come spesso avviene quando si utilizzano simboli, rischiamo di fermarci alla superficie e di non cogliere il senso profondo di ciò che ci rievoca. Non si tratta, infatti, di una pura rievocazione, ma di una celebrazione; non è semplice esercizio di memoria, ma coinvolgimento in una avventura che continua ancora oggi e che sollecita risposte. Occorre quindi precisare che cosa significhi la risurrezione per Gesù e che cosa implichi per noi celebrarla.

    Gesù risorge

    Spesso siamo tentati di oggettivare la risurrezione di Gesù e di considerarla un evento rappresentabile. Le raffigurazioni, che nei secoli più recenti numerosi artisti hanno creato, possono favorire questa presunzione e facilitare quindi questo errore. In realtà, applicato a Gesù, il termine risurrezione è un semplice modello, con cui si indica un evento indescrivibile e una situazione di vita irrapresentabile. Ci mancano infatti gli elementi necessari per capire che cosa sia avvenuto e per pensare la condizione a cui Gesù è pervenuto. La difficoltà è accresciuta anche dal fatto che il termine nell'uso corrente ha un significato proprio ed uno metaforico diversi da quello applicato a Cristo. In senso proprio il termine risurrezione si riferisce ad un morto cui, in un modo o in un altro, viene restituita la vita terrena. In senso metaforico invece si parla di un ammalato grave che riprende salute o di casi analoghi. Quando invece il termine viene applicato a Cristo e alle conseguenze che ha per la nostra vita spirituale la fede nel risorto, il senso del termine è diverso.
    Riferito a Gesù, infatti, il termine risurrezione descrive, prima di tutto, la conseguenza di una sua attitudine nei confronti del Padre. Vuole dire che egli ha vissuto la morte ignominiosa con una tale fiducia nella forza dell'amore di Dio da farla esplodere come nuovo inizio, nel momento della sua sconfitta storica. Gesù cioè ha affrontato la violenza e l'odio che l'hanno condotto alla croce con un amore, una dedizione e una misericordia tali da consentire alla Parola creatrice di esprimersi in lui in maniera inedita. Nella passione e nella croce l'azione di Dio si è tradotta nell'amore e nella misericordia di Gesù, al punto che esse sono divenute il luogo di un'irruzione straordinaria della forza creatrice. Per questo è possibile dire allo stesso tempo che Dio ha risuscitato Gesù dai morti, ma anche che Gesù è risorto dai morti. L'azione di Dio infatti diventa sempre azione di creature quando si esprime nella storia umana.
    In rapporto a Gesù risurrezione significa che egli ha vissuto con una tale fedeltà a Dio da realizzare un'esplosione di vita negli spazi della morte.
    L'insegnamento perciò che riassume l'evento della risurrezione non riguarda tanto la trasformazione subita da Gesù o il suo stato glorioso, che ci sono completamente ignoti, quanto il fatto che l'amore è la ragione fontale e suprema di ogni forma di vita e che il destino di morte, intrinseco alla condizione attuale della creatura umana, non acquista senso che all'interno di un'esistenza pervasa da un amore incondizionato agli uomini e da una dedizione a Dio senza riserve.

    Celebrare la risurrezione

    Per i credenti in Cristo celebrare la risurrezione significa ritenere e sperimentare che la fede offre una reale possibilità di una vita nuova e piena di amore. In questo senso la risurrezione è un evento salvifico: fa rivivere l'esperienza dell'azione di Dio come amore creatore, stimola la vita in modo inedito e fa scoprire che la nostra esistenza è attraversata da una energia creatrice e rinnovatrice.
    L'insegnamento della fede nella risurrezione, in rapporto ai credenti, quindi, non si riferisce tanto alla vita dopo la morte, cui non possiamo dare alcun contenuto mentale, quanto invece alla possibilità di vivere in modo positivo ogni situazione storica, anche la più negativa, e la certezza che l'amore incondizionato di una creatura, quando è fedele a Dio, è in grado di introdurre modalità nuove di esistenza e di salvare i peccatori dal male. Emblematico è il fatto che la prima espressione del dono della fede in Cristo risorto sia stata la pace, riflesso del perdono dei peccati (cf Gv 20, 19-23). Come la morte, anche il peccato diventa positivo quando è avvolto dalla misericordia, che è la forza dell'amore nella sua dimensione gratuita e creatrice. Fare memoria della risurrezione di Cristo, quindi, è evocare la croce come possibile luogo di vita, e il perdono dei peccati come recupero radicale del passato, reso possibile dall'amore.

    La gioia dello Spirito

    I primi cristiani hanno descritto questa esperienza come irruzione dello Spirito Santo. Le formule trinitarie con cui i cristiani hanno espresso la loro fede nell'unico Dio derivano appunto dalla narrazione di questa esperienza di fede in Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, costituendolo Figlio suo e nostro Signore, e che ha inondato di forza nuova (lo Spirito) coloro che ne accoglievano la presenza. L'annuncio fondamentale della Pasqua è che lo Spirito di Dio risuscita i figli dalla morte e la sua chiamata alla vita non ha ripensamenti. Questo annuncio può essere ripetuto nel mondo solamente da coloro che ne vivono il significato e ne diventano testimoni. La validità e l'efficacia del messaggio cristiano si verificano dalla capacità di diffondere vita, di alimentarla anche nelle situazioni negative e nei processi di morte.
    Il segreto della gioia non consiste nel successo delle nostre imprese o nella riuscita dei nostri progetti, ma nell'accoglienza di quel dono di vita che in ogni situazione ci è offerto. Non esiste circostanza in cui ci sia impedito di crescere come figli di Dio, in cui cioè ci sia impossibile diffondere dinamiche di giustizia o ci possa essere impedito di esprimere la misericordia divina. Questa garanzia assoluta costituisce un solido ancoraggio alla Vita ed è per tutti, sempre, ragione di gioia.

    MARIA, LA MADRE

    La maternità di Maria è il tratto fondamentale della sua persona e quindi deve essere riferimento fondamentale di ogni spiritualità mariana. Vi sono ambiti diversi della maternità di Maria, che è opportuno distinguere. Quando diciamo che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia» (Lc 2,7), ci riferiamo alla maternità biologica o fisica, ma anche alla funzione creatrice della sua fede. Quando invece diciamo che Maria è madre di Dio e madre della chiesa, ci poniamo in un piano diverso, usiamo il termine non in senso proprio ma traslato, senso che ci obbliga a puntare gli occhi altrove. E precisamente verso due direzioni: verso Gesù glorificato, costituito Figlio di Dio in pienezza, per opera dello Spirito nella risurrezione dai morti (Rm 1,4) e verso la comunità cristiana, che ha scoperto l'efficacia dell'azione salvifica di Dio nella storia di Maria e il valore della sua fedeltà.

    Madre di Gesù Cristo

    Il primo dato su cui riflettere riguarda la funzione di Maria nella crescita umana di Gesù e la scoperta che ne ha fatto la comunità dei fedeli nella sua esperienza dopo la Pentecoste. La crescita personale di Gesù, che Luca (Lc 2,52) riassume in una formula molto concisa ed efficace, è stata concretamente possibile in virtù dell'amore che lo accompagnava e dell'energia vitale che gli comunicava chi gli stava accanto nella sua avventura umana. Essere madre significa far crescere un figlio offrendogli ogni giorno forza di vita, ed esige che gli si insegni ad amare, a stabilire rapporti positivi con gli altri, a vincere le paure e ad affrontare le difficoltà della vita. Per Maria, a differenza di molte altre madri, questo compito materno si prolungò fino alla morte di Gesù, consegnandolo al suo destino di Unto del Signore e insegnandogli quindi a morire. Comprendiamo, perciò, perché Giovanni abbia posto Maria sotto la croce, come ultimo atto della sua maternità.
    Ma non sarebbe sufficiente dire che Maria ha dato alla luce Gesù e lo ha fatto crescere come figlio fino alla morte, avvolgendolo d'amore e insegnandogli a morire, se non si coglie la dimensione teologale della sua missione. La fede di Maria, cioè l'atteggiamento nei confronti di Dio, che caratterizzava la sua esistenza, faceva della sua azione materna un'espressione concreta della presenza di Dio nella storia umana. Per il suo ascolto silenzioso ed attento in Maria la Parola di Dio assumeva espressione nuova. In Lei giungeva a compimento il processo della rivelazione. Maria, come Madre, ha insegnato a Gesù la fede nel Padre, gli ha indotto l'atteggiamento teologale, che caratterizza tutta la sua spiritualità, e lo ha reso rivelazione del Padre o icona di Dio. Gesù, infatti, ha rivelato Dio perché nella sua realtà umana è stato così perfetto da essere traduzione del progetto che Dio ha per l'uomo, così trasparente alla presenza di Dio da consentirne la piena manifestazione nella carne. Gesù non è un semidio o un essere metastorico; nella sua realtà umana non ha alcuna maggiorazione che lo faccia diverso da noi: è perfettamente ed esclusivamente uomo. Appunto per questo Gesù nella sua esistenza storica ha svelato i tratti essenziali dell'azione e della parola di Dio che salvano, ed è stato costituito Messia e Signore (cf At 2,36). Giovanni esprime questa realtà con le espressioni che pone sulla bocca di Gesù: «Le parole che io vi dico non le dico da me stesso; il Padre, che dimora in me, fa le sue opere» (Gv 14,10) e «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). La ragione di queste affermazioni sorprendenti stava nel fatto che le opere di Gesù erano trasparenza perfetta dell'azione divina e che le sue parole esprimevano senza residui la verità di Dio (cf Gv 2,49-50; 14,10). Il compimento della rivelazione di Dio si è realizzato sulla croce, che ha avuto come risvolto divino la risurrezione, dove Gesù è stato costituito Figlio di Dio in pienezza per opera dello Spirito. Sulla croce, infatti, Gesù è nato, come Messia e come Figlio di Dio, da Maria e dallo Spirito.
    La funzione di Maria perciò non può essere espressa solamente con formule relative alla maternità fisica, perché essa è stata possibile e si è sviluppata per una fedeltà di risposte senza ripensamenti e nell'abbandono senza riserve all'azione salvifica di Dio. La fede in Dio e il fiducioso compimento della sua volontà la rende madre, capace cioè di indurre fede nel figlio, di fargli percepire la realtà di Dio e di renderlo icona del suo amore.

    Maria madre della Chiesa

    La funzione di Maria, attraverso un nuovo rapporto con i discepoli di Gesù, si è prolungata oltre la morte del figlio: «Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio". Poi disse al discepolo: "Ecco tua madre". E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» (Gv 19,26-27). Quando la maternità di Maria viene estesa alla Chiesa, si esprime da una parte l'esperienza della maternità salvifica compiuta dalla comunità cristiana in riferimento ai nuovi figli di Dio, e dall'altra l'interpretazione che ne offriva il cammino storico di Maria, reso concreto nella sua presenza. In altre parole, parlando della maternità di Maria nei confronti della Chiesa, noi abbiamo come referente immediato l'esperienza di far crescere figli di Dio, che la comunità dei credenti fin dall'inizio ha compiuto e compie ancora nella storia, esperienza compresa alla luce della fede di Maria nel compiere la volontà di Dio, del suo amore nell'accompagnare Gesù come madre e del significato che la sua maternità ha avuto nella riflessione della comunità credente.
    D'altra parte, Maria stessa era espressione di una comunità di credenti, il piccolo resto di Israele, il gruppo dei poveri che ponevano in Dio la loro speranza. Il Magnificat, con cui la prima comunità cristiana riassume i tratti di questa spiritualità (Lc 1,46-55), come appaiono nella vita di Maria, traduce in modo esemplare l'esperienza dei primi cristiani, nella cui comunità Dio «operava grandi cose».
    La pietà mariana utilizza prevalentemente formule traslate, che hanno una referenza sdoppiata: l'azione salvifica di Dio nella vita di Maria, tradotta nella sua funzione di Madre nei confronti di Gesù, e continuata attraverso la comunità ecclesiale lungo i secoli. L'uso delle formule mariologiche che non tenga conto di questo fatto corre il rischio di mitologia (interpretazione in senso proprio di formule traslate) ed è la ragione dello sviluppo abnorme di una certa mariologia cattolica degli ultimi due secoli.
    Il referente delle formule relative alla funzione salvifica di Maria e quindi al rapporto Maria-Chiesa è l'esperienza salvifica della comunità credente. Se questa è carente, anche le espressioni della pietà mariana ne risentono. Esse infatti esprimono qualità o attuali azioni di Maria solo in quanto mediate dalla fede e dalla esperienza ecclesiale. La Chiesa infatti continua ora la funzione materna di Maria di far crescere i figli di Dio fino alla statura indicata dal Figlio di Maria, costituito per noi Messia e Signore (At 2,39), «iniziatore e consumatore della nostra fede» (Eb 12,2).

    PENTECOSTE

    Pentecoste segna l'ultima tappa nel cammino di fede degli Apostoli, quando furono in grado di essere testimoni e di realizzare una forma nuova di comunione.
    Fu il compimento della Pasqua. Il dono ricevuto quel giorno era così grande da non poter essere accolto in un'unica esperienza. I cinquanta giorni successivi furono un processo di trasformazione, alimentata dalla forza che irrompeva nel loro spirito quando esercitavano la fede nel Dio che aveva risuscitato Gesù dai morti. L'esperienza religiosa di quei giorni li rese capaci di accogliere due doni fondamentali: la possibilità di rimettere i peccati e di vivere una comunione nuova.
    La Pentecoste è il paradigma di esperienze che maturano ogni giorno all'interno della storia, per la forza creatrice di Dio secondo la legge della incarnazione. Le novità dello Spirito, infatti, non sono finite, ma continuano: le esigenze diventano sempre più impegnative. L'attesa e l'accoglienza dello Spirito, perciò, devono essere continuamente rinnovate.
    Attendere forme nuove di giustizia nel mondo non significa pensare che Dio debba fare qualcosa in sostituzione di ciò che fanno gli uomini o che debba aggiustare le loro imprese imperfette, ma significa aprirsi alla forza dello Spirito e vivere una fedeltà tale da consentire l'irruzione di forme nuove di umanità nel mondo.

    Perdono dei peccati

    La prima novità di vita che gli apostoli sperimentano dopo la Pasqua è il perdono dei peccati e la possibilità di rimettere i peccati: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Gv 20,23). Per questo la prima testimonianza della risurrezione di Cristo data dagli Apostoli terminò con l'invito alla conversione e l'offerta della remissione dei peccati (At 2,38).
    La forza della misericordia di Dio in chi l'accoglie diventa perdono. Se accogli misericordia da Dio, diventi misericordioso. Se perdoni, la misericordia di Dio perviene agli altri. Chi è nel male, chi ha sbagliato o è stato violento, non può venir fuori dalla sua condizione se non attraverso l'azione di altri che, amando, comunicano forza nuova di vita. Più scopri il male attorno a te, più devi immettere nel mondo energie nuove. Ma ciò che doni è più grande di quello che tu sei, perché è l'azione di Dio che in te si esprime, è la forza dello Spirito.

    Comunione di vita

    Il secondo aspetto della novità di vita sperimentata dagli apostoli ed espressa in modo molto chiaro nel racconto degli Atti è la comunione nuova. Scoprire la possibilità di intendersi, pur appartenendo a culture e parlando lingue diverse, è stato certo sconvolgente. A questa esperienza fece poi seguito l'ammissione dei pagani nella Chiesa. Si cominciò a costituire una comunità universale (cattolica), non con processi di uniformità o appiattimento, ma per reciproca accoglienza delle diversità, per l'esercizio della misericordia.
    Pentecoste realizza finalmente la benedizione divina espressa a Noè per la dispersione dei popoli e tradita a Babele. Lo scarno resoconto del capitolo 10 della Genesi con l'indicazione dei popoli discendenti da Noè non è solo un arido elenco di nomi, ma è anche una profonda teologia delle nazioni. Vi sono elencate 70 etnie diverse discendenti dai tre figli di Noè: 14 discendenti da Jafet, 30 da Cham, 26 da Sem. L'umanità viene presentata come unica famiglia. Il ritornello, che conclude le tre parti della tavola dei popoli, sottolinea che la dispersione avviene secondo quattro parametri: l'etnia, la lingua, il territorio, la struttura politica (cf Gn 10,5; 10,31). Ma il riferimento per tutti resta la comune origine e l'alleanza a cui tutti sono vincolati. Il racconto termina concisamente: «Queste sono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro generazioni, nelle loro genti. E da queste si dispersero le nazioni sulla terra dopo il diluvio» (Gn 10,32). Questa dispersione (diaspora, secondo il verbo greco utilizzato dai LXX per tradurre il verbo disperdersi) è realizzazione dell'alleanza di Dio con Noè accompagnata dalla sua benedizione. La diversità di popoli è espressione della benedizione divina.
    Il racconto della costruzione della Torre di Babele (Gn 11) presenta l'incomprensione tra i popoli come un castigo per la colpevole volontà di resistere alla dispersione: «facciamoci un nome per non disperderci sulla faccia della terra» (Gn 11,4). La spinta che muove gli abitanti della pianura di Sichar è la paura di disperdersi, la volontà di restare tutti uguali, di resistere alla diversità della crescita. L'unità progettata dagli uomini è nel segno dell'uniformità (avevano un solo labbro e uniche parole: Gn 11,1) e per questo contraddice il progetto di Dio. L'errore di quella decisione sta nella presunzione di possedere già tutti gli elementi per costituire una umanità perfetta. Quando la diversità viene forzosamente impedita e l'unità è progettata nella presunzione di autosufficienza, l'unità diventa una maledizione perché è rifiuto del nuovo e della diversità, che è benedizione di Dio. L'azione creatrice, infatti, unifica man mano che si sviluppa nella storia dell'universo. Come osservava Teilhard de Chardin: «In qualunque campo, si tratti delle cellule di un corpo o dei membri di una società o degli elementi di una sintesi spirituale, l'unione differenzia. In ogni insieme organizzato, le parti si perfezionano e si compiono. Proprio per aver trascurato questa regola universale, molti panteismi ci hanno fatto smarrire la via nel culto di un Gran Tutto in cui gli individui erano ritenuti immersi, perdendosi come una goccia d'acqua, o dissolvendosi come un granello di sale, nel mare. Applicata al caso della sommazione delle coscienze, la legge dell'unione ci libera da questa pericolosa e sempre rinascente illusione» (Teilhard de Chardin, Le phénomène humain, Oeuvres 1, Seuil, Paris 1955, p. 291). Quando dunque l'unità si realizza secondo dinamiche di uniformità e non diversifica i soggetti, è sotto il segno della maledizione di Babele, contraddice le leggi fondamentali dei processi creativi e produce involuzione.
    Queste esperienze si sono ripetute lungo i secoli in forme sempre inedite anche nella Chiesa nei confronti dei popoli che si affacciavano alla ribalta della storia. Spesso tuttavia anche la Chiesa è caduta nella presunzione dell'uniformità, e in nome di un'unica lingua e di una sola cultura ha impedito la benedizione della pluralità. Molte volte si è creduto che il diverso, solo perché tale, fosse dalla parte del torto e si dovesse evitare ogni contatto con lui.
    Oggi sta avvenendo una svolta nella civiltà umana, un profondo rimescolamento di culture e religioni. Tutti i popoli sono chiamati a compiere esperienze di incontro inedito con persone diverse. Ma tutte le svolte storiche avvengono «nello spirito», coinvolgono cioè anche l'interiorità dell'uomo. Se si prendono decisioni pubbliche e si redigono decreti, ma non cambiano gli atteggiamenti spirituali dell'uomo, non succede nulla; anzi accade di peggio, perché le esigenze vengono avvertite e proclamate mentre resistono atteggiamenti di egoismo e di chiusura. Alla resistenza si aggiunge la consapevolezza di tradire un compito storico, e l'errore diventa colpa e peccato.
    Celebrare la Pentecoste oggi significa accogliere la benedizione dell'alleanza di Dio con Noè per annullare la maledizione di Babele e rendere possibile l'esperienza di una comunione oltre la diversità delle lingue e delle culture.

    TEMPO PER ANNUM: IL FERIALE

    Per imparare a vivere occorre scoprire il segreto della vita. Fino a che non lo si scopre, non si è in grado di vivere intensamente. Il segreto della vita sta nella presenza di Dio al centro della nostra esistenza. Il rito è l'esercizio per apprendere a vivere alla sua presenza e la festa ne è la gioiosa celebrazione. Ma l'ambito della presenza e quindi dell'incontro con Dio è la vita di ogni giorno: lo spazio feriale. I cristiani, fin dall'inizio, hanno espresso questa convinzione con il termine biblico della gloria e con il modello della incarnazione. Essi sono convinti che l'azione di Dio si fa gloria nella creazione e nella storia, e che la sua Parola può diventare carne umana: pensiero, decisione e gesto negli uomini fedeli. Gesù ha espresso in modo concreto questa legge vivendola senza resistenze nelle sue esigenze più sublimi.

    Gesù icona di Dio

    Gesù è stato costituito Messia e Signore ed è stato glorificato da Dio come Figlio perché ha vissuto e rivelato la gloria di Dio. Per la fede cristiana Gesù non è un semidio o un mostro umano, e non rivela Dio perché nella sua realtà umana sia divino, ma perché è compiutamente umano. Solo attraverso la sua umanità Egli svela che Dio è amore gratuito e misericordia creatrice. Gesù non ci ha salvato perché ha offerto qualcosa a Dio da parte degli uomini, ma perché, assumendo la condizione di servo, ha svelato i tratti essenziali della realtà divina e in tal modo ha introdotto nella storia lo Spirito di Dio, cioè la sua forza di vita, in modo nuovo e definitivo. Egli poteva dire: «Le parole che io vi dico non le dico da me stesso; il Padre che dimora in me fa le sue opere» (Gv 14,10); e ancora: «Ti ho glorificato sopra la terra... ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini» (Gv 17,4.6).
    La legge che regola l'incarnazione o la rivelazione della gloria di Dio, come è apparsa in Gesù, può essere espressa in questo modo: l'Amore di Dio è efficace sulla terra quando diventa gesto di amore umano, la sua Misericordia si esprime nella storia quando è perdono di uomini, la Giustizia divina entra nel mondo quando diventa progetto di condivisione e di fraternità, la Vita diventa dono per gli uomini quando si fa carne umana. In questa prospettiva l'incarnazione non è solamente un evento fondamentale della storia umana, ma un paradigma dell'azione salvifica di Dio e quindi una legge essenziale della salvezza. Esprime le dinamiche divine che si intrecciano nella storia umana come solidarietà salvifica.

    L'uomo gloria di Dio

    La rivelazione di Dio non si è esaurita in Gesù. Egli è stato costituito Messia e Signore perché altri, riferendosi a Lui, possano continuare la sua missione. Per questo Egli ha assicurato i suoi: «In verità, in verità vi dico: chi crede in me, anch'egli farà le opere che io faccio e ne farà anche di più grandi» (Gv 14,12). Le opere che possono consentire il proseguimento della rivelazione di Dio, come si è realizzata in Cristo, sono le opere della solidarietà verso gli ultimi e della compassione verso i sofferenti. Altre forme religiose hanno altri carismi; il carisma del cristiano è definito dalla croce. Essa è diventata nel mondo il simbolo di una solidarietà che non teme la condivisione della morte, di una compassione che sa portare il male altrui fino all'estremo della sofferenza. Questa strada, segnata dal cammino storico di Gesù, è stata percorsa da numerose schiere di eroi che hanno introdotto nella storia umana correnti nuove di umanità e hanno consentito uno sviluppo inedito delle diverse società. Le sfide attuali della storia attendono altre forme di rivelazione, invenzioni nuove di solidarietà che introducano a inediti livelli di umanità.
    Per capire il rigore della legge dell'incarnazione, occorre tenere presente il carattere trascendente dell'azione divina, dato che Dio è sempre creatore. Teilhard de Chardin (1881-1955, Transformation créatrice [1917], in Comment je crois, Seuil, Paris 1969, p. 31) scriveva: «La creazione... non è una intrusione periodica della Causa prima: è un atto coestensivo a tutta la durata dell'universo». L'azione di Dio è tale che «là dove Dio opera, a noi è sempre possibile (restando a un certo livello) cogliere solo l'opera della natura... La causa prima non si mescola agli effetti: egli opera sulle nature individuali e sul movimento d'insieme. Dio propriamente parlando non fa le cose, ma fa che le cose si facciano» (Note sur les modes de l'action divine dans l'univers [1920] , in Comment je crois, cit., p. 38). Nello stesso senso, K. Rahner scriveva: «Sembra che dovunque si riscontra nel mondo un effetto, se ne debba postulare la causa nel mondo stesso e la si possa e debba cercare, appunto perché Dio, rettamente concepito, opera tutto mediante le cause seconde... (altrimenti)... l'agire divino viene a collocarsi nel mondo accanto a quello delle creature, invece di essere il fondamento trascendente di tutto l'agire delle creature». Dio, perciò, conclude Rahner, «non opera qualcosa non operata dalla creatura, né si affianca all'agire della creatura: rende solo possibile alla creatura superare e trascendere il proprio agire» (Il problema dell'ominizzazione, Morcelliana, Brescia 1969, pp. 96-99). «Le vicende e gli eventi di un ente finito stanno continuamente sotto la pressione (se così possiamo dire) dell'essere divino. Tale pressione non rientra nei costitutivi essenziali di un esistente finito, però può farne sempre qualcosa di più di quanto essa sia in sé e farlo propriamente diventare quello che è» (Id., Scienze naturali e fede razionale, in Scienza e fede cristiana, Paoline, Roma 1984, p. 58).
    Corrispondentemente si deve affermare che ovunque Dio opera, una creatura deve rendere presente, in modo umano, la sua azione. L'agire dell'uomo, perciò, non è solamente una risposta alle richieste della storia, ma anche epifania della perfezione di Dio, emergenza della sua azione creante, espressione del suo amore. La storia appare come il luogo in cui l'uomo è chiamato a rendere efficace l'offerta continua della vita. Il dono è troppo grande per essere accolto ed offerto in un solo istante. L'uomo può farlo suo solo a frammenti, nella progressione del tempo, attraverso eventi storici successivi. Ogni giorno l'offerta creatrice di Dio è necessaria ed essa può essere accolta in modo sempre più perfetto. Ma proprio per questo ogni giorno è necessario che uomini e comunità diventino espressione efficace dell'azione creatrice di Dio, del suo amore misericordioso. Questo è il servizio che ogni uomo, ogni coppia, ogni comunità è chiamata a rendere. Tutti gli atti di amore, tutti i gesti feriali possono acquistare questa funzione rivelatrice dell'azione divina. È sufficiente che abbiano le caratteristiche di gratuità e di oblatività che consentono all'agire divino di diventare carne umana.
    In questo senso appare con chiarezza il doppio versante della formula di Ireneo: «La gloria di Dio è l'uomo vivente»: l'azione divina rende l'uomo vivo, l'uomo che vive rivela Dio. Il primo versante sta dalla parte di Dio e indica la condizione della vita umana: l'uomo diventa vivente solo in quanto si apre all'azione divina e ne incarna tutte le ricchezze. Il secondo sta dalla parte della creatura e indica la condizione della storia salvifica: l'uomo che vive rivela l'azione di Dio, lo rende presente nella storia. Il luogo di questo scambio salvifico non è la chiesa o la festa, ma è l'ambito dell'esistenza quotidiana: il lavoro, l'amore, la sofferenza, la solidarietà, la fatica di ogni giorno. Il rito serve per imparare a vivere alla presenza di Dio, a ristabilire l'orizzonte della sua azione quando l'illusione delle cose lo ha sconvolto o quando la delusione delle sconfitte lo ha cancellato. Ma l'ambito della gloria di Dio, e quindi lo spazio del suo dono, è l'esistenza di ogni giorno, il tempo feriale. Riservare a Dio solo il giorno di festa significa annullarne la presenza nella storia umana e relegarlo nei cieli fittizi delle nostre chiese.

    I SANTI E I MORTI

    Noi viviamo in quanto conserviamo memorie. Quando l'esercizio della memoria viene meno, la nostra identità sia a livello personale che sociale si sfalda. Non mi riferisco esclusivamente alla memoria intellettiva, ma principalmente alla memoria vitale, che conserva le numerose informazioni necessarie alla vita trasmesse dagli altri. In ogni istante, ogni persona e ogni gruppo sociale è solo ciò che conserva dei numerosi doni vitali e culturali ricevuti dai predecessori.
    Quando poi la memoria è esercitata nell'orizzonte della fede in Dio, allora i doni vitali sono considerati l'espressione di una azione più ricca e più perfetta, l'emergenza di una Parola creatrice, frutto di un Amore immenso. Fare memoria nell'orizzonte della fede quindi vuol dire consegnarsi, abbandonarsi con fiducia alla Parola, che alimenta la vita, all'Amore, che la attraversa, alla Verità, che la illumina. Non sappiamo dove essa ci conduca, ma siamo certi che è forza positiva e che là dove ci guida, ci attende vita.
    La nostra piccola esistenza è un tratto infinitesimale di una lunga storia, che non conosciamo se non nel piccolo spazio che ci è dato abitare o ricordare. Ricordare i morti significa inserirsi consapevolmente in questa storia per farla procedere. I morti, infatti, sono coloro che ci hanno consegnato la vita, e che, vivendo accanto a noi, sono entrati a far parte della nostra esistenza e hanno lasciato una traccia ancora viva nella storia. Ricordare i santi significa in particolare fare memoria dello sviluppo avuto e in particolare dell'atteggiamento teologale di Gesù e dell'influsso esercitato nei secoli dalla sua avventura salvifica.

    Raccogliere l'eredità di vita

    Facciamo quindi memoria dei santi e dei morti per raccogliere una eredità. Oggi la nostra generazione è l'unico ambito dove si concentra tutta la ricchezza accumulata dall'umanità nei millenni della sua storia precedente. Ricordare i predecessori vuol dire esercitarsi a raccogliere l'immenso tesoro che è stato accumulato da uomini fedeli alla vita: possiamo perderlo o farlo fruttificare per il cammino che ancora ci resta da fare. Ma possiamo anche distruggere completamente la ricchezza umana e così bloccare la storia. Oggi questa è una reale possibilità dell'attuale umanità. Quando trascuriamo, perdiamo o distruggiamo le ricchezze vitali e culturali, anche solo accontentandoci di vivere in economia e di condurre avanti stancamente la vita, rendiamo insignificanti gli sforzi e le fatiche, le gioie e le sofferenze, gli amori e le lotte delle generazioni che ci hanno preceduto. Ma più ancora rendiamo vane le attese e le speranze suscitate in loro dalla vita lungo i millenni.
    Oggi poi che siamo passati da una concezione statica della realtà ad una visione dinamica ed evolutiva, siamo in grado di leggere la nostra fedeltà non più semplicemente come semplice fedeltà al passato, ma più ancora come il consenso perché la vita possa esprimersi secondo modalità inedite. L'infedeltà costituisce un ostacolo al loro irrompere così come la fedeltà le rende possibili e ne consente la realizzazione. Noi possiamo impedire che fiorisca ciò che è già stato seminato, ma possiamo pure impedire che sia sparso il seme di ciò che ancora non è stato pensato. Ricordare i morti non è semplicemente fare memoria di ciò che un giorno è stato, ma è rendere possibile ciò che ancora non è stato mai vissuto; è far fiorire ciò che è in embrione, ma anche consentire all'inedito assoluto di irrompere. La santità, in questa luce, non è la semplice esecuzione di comandamenti divini, ma è l'adesione al processo della vita, alla grande storia dell'universo, per renderne possibili gli sviluppi ulteriori. Fare memoria dei santi quindi significa inserirsi sulla loro scia per proseguire oltre ma nella stessa direzione.
    L'umanità in molti ambiti è ancora allo stadio neolitico. Molte espressioni contenute nella parola creatrice non hanno potuto trovare ancora alcuna realizzazione. Ci sono forme di umanità che non sono apparse, ci sono conoscenze, realizzazioni di giustizia che non sono state neppure pensate, ma che sono possibili, e che oggi sono affidate alle nostre mani. Non perché noi possiamo realizzarle subito o completamente, ma perché la loro realizzazione passa anche attraverso la nostra generazione. La fedeltà dei santi è lo spazio della loro irruzione.
    Perdere memoria del nostro passato, quindi, è essere infedeli alla vita, non solo nel senso che tradiamo le attese da altri lungamente coltivate, ma anche perché vanifichiamo e quindi rendiamo insignificante l'azione di Dio nella storia degli uomini.

    Memoria dei propri morti

    Quando la memoria riguarda persone care, c'è un altro aspetto da considerare, perché esse fanno parte della nostra persona.
    Fare memoria dei nostri cari è ripercorrere i numerosi sentieri della esistenza passata, non solo per rievocare, ma per riassumere e far fiorire in forme nuove di fraternità, di servizio, di amore, cioè di vita, tutto l'amore che ci ha alimentato. C'è qualcosa dei genitori, degli amici, dei figli, dei coniugi, degli avi, che sono scomparsi, presente ancora dentro di noi e nella storia. Fare memoria dei nostri cari non è solo rivivere un passato, ma è far risuonare alcune fibre della nostra interiorità e della nostra storia. O, per portare un'altra metafora, è il farlo sbocciare perché produca fiori nuovi di vita.
    Se la loro presenza non è insignificante per la nostra vita, la loro dimenticanza tradisce il senso della loro offerta e, per quanto sta in noi, toglie valore alla loro esistenza. Il dono che essi ci hanno fatto, deve esprimersi come fiore nuovo e diventare dono per gli altri. Questa, infatti, è la ragione intima della vita: offrirsi, espandersi, svolgersi in forme nuove. Se noi non portiamo a compimento ciò che abbiamo ricevuto, rendiamo vano l'amore che l'ha alimentato; se invece lo facciamo rifiorire, diamo un senso nuovo all'esistenza di chi ce l'ha offerto.

    Testimoni di Cristo

    Ricordiamo, in modo particolare, i santi che continuano perciò la missione di Gesù riassunta nelle beatitudini.
    Quello di Gesù non era solo un proclama verbale: Egli incontrava la donna che piangeva e le restituiva il figlio morto; incontrava persone affamate e moltiplicava i pani; incontrava dei peccatori e con misericordia diceva: «Va' in pace»; entrava nella casa di Zaccheo e con la sua presenza ne sollecitava la conversione. L'annuncio non riguarda semplicemente la proclamazione di un futuro che deve accadere, ma riguarda un impegno da realizzare, un'azione da compiere. Se oggi noi ricordiamo la fedeltà dei santi, è per assumere questa stessa eredità e continuarla nel tempo.
    La preghiera per i morti e per i santi, perciò, è sì esercizio di memoria, ma anche impegno di fedeltà. Altrimenti tutto si esaurisce nella nostalgia e non diventa profezia, come deve essere ogni preghiera.

    AVVENTO: DIO VIENE

    Avvento, dal latino adventus, significa venuta e indica l'azione con cui una persona si accosta ad un'altra. Nella liturgia, in cui ora la parola viene prevalentemente usata, avvento indica il periodo che precede il Natale, non solo come memoria di una stagione storica di straordinaria importanza, quale furono i secoli precedenti la nascita di Cristo, ma anche come celebrazione di una legge fondamentale della salvezza: Dio viene nella storia umana, e quando Dio viene la vita fiorisce e si rinnova.
    Avvento, quindi, per i cristiani, è la metafora che descrive gli eventi di salvezza secondo il modello della venuta di Dio, o della discesa della sua Parola, o della irruzione del suo Spirito, secondo le varie formule bibliche. Anche nel prologo del Vangelo di Giovanni tutta la storia della salvezza viene descritta come l'azione della Parola eterna di Dio che alla fine si esprime compiutamente nella umanità di Gesù. Gesù quindi viene presentato come rivelazione o epifania di Dio, perché nella sua morte e risurrezione è stato costituito «icona del Dio invisibile» (Col 1,15) , «irradiazione della sua gloria, impronta della sua sostanza» (Eb 1,3). Attendere la sua venuta significa rinnovare la sua speranza di Dio. I cristiani, quindi, utilizzano il modello dell'avvento per vivere e interpretare tutti gli eventi salvifici, come venute storiche di Dio, espressione della sua presenza attiva.
    L'avvento di Dio nella storia umana, tuttavia, avviene sempre per mezzo di creature ed è necessariamente sempre limitato, frammentario e quindi progressivo. Il dono della vita, infatti, è troppo ricco e grande per poter essere accolto dalle creature in un solo istante. L'umanità può raggiungere nuovi traguardi solo passo dopo passo e, analogamente, ogni persona può interiorizzare le acquisizioni vitali solo a frammenti, attraverso eventi successivi. Alla creatura, che a fatica emerge dal vuoto originario, la vita può offrirsi solo in modo limitato; il Bene può presentarsi solo nella successione; il Vero può concretizzarsi solo in progetti provvisori. Ogni giorno l'offerta creatrice di Dio, cioè le pressioni del Bene, del Vero, del Giusto sono necessarie perché l'uomo cresca e raggiunga la sua identità.
    Celebrare l'avvento di Dio, perciò, non è solo ricordare un evento passato, ma è annunciare una legge, che vale per tutta la storia della salvezza: l'evoluzione procede solo per la continua azione di Dio, la creatura esiste solo in virtù della forza divina, che la attraversa e la costituisce. Concretamente, le parole che ci stimolano alla ricerca traggono la loro luce da una Verità eterna; i beni che ci attraggono hanno radice in un Amore sommo; l'armonia che ci affascina nelle cose riflette una Bellezza suprema; l'onestà che esprime coerenza e condivisione deriva da una Giustizia rigorosa; la misericordia, che offre perdono, si alimenta ad una Tenerezza senza limiti. Tutto questo nel mondo è Dio che viene.
    La storia, secondo questa prospettiva, appare come il luogo della offerta continua di cui l'umanità ha bisogno per svilupparsi e di cui ogni persona necessita per diventare se stessa. Le sfide attuali della società esigono altre rivelazioni, impongono invenzioni nuove di solidarietà, inediti livelli di umanità. Le novità della storia sono le emergenze del Vero, del Bello, del Buono, del Giusto, del Vivente. L'avvento di Dio, perciò, deve continuamente rinnovarsi nel tempo e sempre attraverso creature, cioè attraverso testimoni della sua presenza. L'avvento è l'infinita via del cammino di Dio in mezzo a noi.

    Stagione della speranza

    Ciò significa che l'uomo sviluppandosi nel tempo può pervenire alla sua pienezza solo a condizione che si apra continuamente a un dono nuovo. Le offerte vitali, cioè, potranno essere accolte in modo sempre più perfetto a condizione che la persona assuma un adeguato atteggiamento di attesa. La necessità di fronte alla quale l'uomo si trova come creatura, che può accogliere il bene solo in modo provvisorio e frammentario, è appunto scoprire che il Bene è prima dei suoi amori, che la Vita è prima della sua piccola esistenza, che la Verità è prima delle sue ricerche.
    Ogni dono che riceviamo, perciò, rimanda ad una offerta ulteriore. Ogni tensione che noi avvertiamo, verso il bene, la verità, la gioia e la vita, riceve sempre risposte provvisorie e mai definitive. Ogni esercizio di speranza quindi ha un orizzonte infinito, ma riceve risposte contingenti e deve essere, perciò, costantemente rinnovato. Per questo motivo l'avvento è stagione dell'attesa di Dio, è il periodo di allenamento alla speranza teologale, componente strutturale di una autentica spiritualità umana.
    La speranza teologale è appunto l'attesa e l'accoglienza del dono che ci costituisce figli, ci consente di diventare ciò che ancora non siamo, di acquisire quella identità, indicata, come diceva Gesù, da «un nome scritto nei cieli» (Lc 10,20). Tale acquisizione si realizza nel tempo per le potenzialità che, pian piano, sono state costruite dentro di noi dalla forza creatrice, pervenutaci, a frammenti, attraverso l'amore degli altri. Questa è appunto la scoperta di Dio che consente alle attese vitali di svolgersi in speranza teologale. Ma questa scoperta richiede spazi di silenzio, momenti, cioè in cui viene consentito al nuovo di irrompere. Altrimenti riempiamo le nostre giornate sempre e solo del nostro passato, e anche i nostri desideri e le nostre attese, pur riguardando il futuro, in realtà sono proiezioni del passato. Non è il futuro che irrompe, ma è il passato, declinato secondo le modalità del futuro: sono le esperienze dell'infanzia, i desideri indotti dagli altri, la pubblicità che risuona dentro a presentarsi come avvenire. Non è il futuro che irrompe, non è avvento di Dio. Per la speranza autentica, invece, è necessario che sia la vita a svelarsi in modo inedito, che sia il non detto a formularsi in parole mai pronunciate. Ora, perché questo avvenga nella nostra vita, è necessario che ci siano spazi di silenzio, momenti nei quali ci liberiamo da ogni nostro pensiero, da ogni nostra attesa, e consentiamo alla vita di pronunciare le sue nuove parole, di formulare le sue promesse, di aprire i suoi nuovi sentieri attraverso i quali l'avvento possa ancora realizzarsi.
    L'avvento perciò è tempo di attesa che, in silenziosi passi, Dio si accosti alla sua creatura, per rinnovarle il dono della sua presenza.

    NATALE: SPIRITUALITÀ DELL'INCARNAZIONE

    Il contenuto essenziale della fede in Cristo può essere espresso in modo conciso dicendo: «Gesù salva». La salvezza indica pienezza di vita (cf «Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza o pienezza»: Gv 10,10). Le componenti essenziali della salvezza, come appare in tutta la Bibbia e come è offerta in Gesù, sono due: essa è da Dio ed è nella storia. Ritenere questo significa affermare che «la ricerca del Vero è stimolata in noi da una Parola molto più ricca della nostra verità; il nostro amore è suscitato da un Bene molto più grande di noi; possiamo realizzare la giustizia, perché Essa stessa si offre e spinge per entrare nella società degli uomini; esistiamo perché la Vita in noi si esprime e ci alimenta». Parola, Bene, Giustizia e Vita esistono già e possono entrare nella storia umana. Noi li chiamiamo Dio. E il Natale proclama questa scoperta.
    L'interpretazione del mistero di Gesù, quindi, celebrato nel Natale, parte dal presupposto che Gesù salva perché Dio in Lui si fa presente e opera; che Egli, cioè, è stato costituito Messia e Signore (cf At 2,36) perché ha svelato, nella sua esistenza, i tratti essenziali dell'azione e della parola divine che salvano. La efficacia salvifica dei suoi gesti di perdono, di compassione, di misericordia è la medesima efficacia dell'Amore creatore di Dio. Per questo Gesù è stato chiamato «icona (eikòn) di Dio» (2 Cor 4,4), «l'immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), «irradiazione della sua gloria, impronta della sua sostanza» (Eb1,3). Ogni azione di Gesù, in questa prospettiva, ha senso e struttura simbolica ed egli poteva dire: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Egli viveva in tale comunione con Dio da renderlo presente attraverso la sua azione. Gesù realizza ed esprime quindi il mistero della presenza salvifica di Dio fra gli uomini. Il Natale ne è la celebrazione simbolica: Dio si fa carne nella storia umana.
    Nella tradizione cristiana questa presenza dell'azione di Dio in Gesù viene tradotta con l'espressione incarnazione. Il termine, raro nei primi tempi e divenuto poi corrente, significa diventare carne o farsi uomo. Questa espressione nel Prologo del quarto Vangelo è usata in riferimento al Verbo di Dio: «Il Logos si è fatto carne» (Gv 1,14). Il termine Logos o Verbo per riferirsi a Gesù è utilizzato anche nel prologo della lettera di Giovanni (1,1: «Ciò che abbiamo toccato del Verbo della vita») e nella Apocalisse («il suo nome è Verbo di Dio»: Ap 19,13: parola che giudica, cf Ap 20,11-12).
    Il termine incarnazione si può prestare ad equivoci e di fatto nei secoli è stato utilizzato anche per esprimere le fantasie degli gnostici relative alla discesa di un essere celeste in terra (un eone divino, come essi dicevano). In realtà, nel prologo del quarto Vangelo divenire carne significa rivelare la perfezione divina in forme umane, far risuonare la sua Parola in modulazioni create. Ed è presentata come l'effetto dell'azione dello Spirito di Dio, e l'opera formatrice di Gesù nei confronti degli Apostoli si compie con l'effusione dello Spirito. Giovanni dice che tale effusione è stata resa possibile dalla spiritualizzazione di Gesù nella risurrezione. Riferendo le solenni parole di Gesù nel tempio: «Chi ha sete venga a me e beva», egli infatti commenta: «Questo disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in Lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato glorificato» (Gv 7,39). Gesù rappresenta una vetta eccelsa dell'azione dello Spirito nella storia umana: un testimone che suscita ancora fede nella azione salvifica di Dio e che effonde ancora Spirito in chi accoglie la sua parola.
    L'incarnazione, come azione dello spirito di Dio, non è un evento istantaneo, bensì un processo che per Gesù culmina nella Pasqua, quando è stato costituito «principio di salvezza eterna per tutti quelli che gli obbediscono» (cf Eb 5,9), «Figlio di Dio in pienezza per opera dello Spirito nella risurrezione dai morti» (cf Rm 1,4). Lì Gesù ha raggiunto l'identità di figlio e realizzato la rivelazione suprema dell'amore divino.
    Per il cristiano quindi celebrare il Natale è ricordare il momento di inizio del cammino di fedeltà che consentirà a Gesù di realizzare in modo paradigmatico l'epifania di Dio in mezzo agli uomini.

    L'avventura continua

    Ma la storia salvifica non è finita. La rivelazione di Dio, infatti, non si è esaurita in Gesù. Essa continua e sempre secondo la legge dell'incarnazione. Gesù è stato costituito Messia e Signore appunto perché altri, riferendosi a Lui, possano perpetuare la sua missione. La sua rassicurazione: «in verità, in verità vi dico: chi crede in me, anch'egli farà le opere che io faccio e ne farà anche di più grandi» (Gv 14,12) è la promessa della continuità. La fede in lui si è sviluppata nella convinzione che i suoi seguaci, «riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore», vengono «trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18).
    In questa prospettiva l'incarnazione non è solamente un evento, ma un paradigma costante dell'azione di Dio e quindi anche una legge essenziale dell'esistenza redenta: la componente strutturale di una autentica spiritualità cristiana. La specificità della vita cristiana è la fedeltà a questa legge rivelata in Gesù.
    Ricordare il Natale di Gesù, quindi, è celebrare la legge della incarnazione, è proclamare che la Parola divina diventa udibile sulla terra solo quando lo Spiri- to la rende parola di uomini; è ripetere che l'amore di Dio diventa efficace solo quando lo Spirito di Cristo lo traduce in gesti di amore umano; è testimoniare che la misericordia del Padre si esprime nella storia solo quando nello Spirito di Cristo si fa perdono di creature; è mostrare che la Vita diventa dono per gli uomini quando lo Spirito di Dio rende carne la sua Parola.
    Le sfide attuali della storia attendono altre forme di rivelazione, invenzioni nuove di solidarietà, inediti livelli di umanità. Più la storia procede, maggiori forme di amore, di solidarietà, di misericordia, di perdono sono necessarie alla vita umana. Celebrare il Natale, quindi, non è solo rievocare un passato, né solo proclamare la legge fondamentale della salvezza, ma è anche crea- re quell'ambiente vitale, che consenta forme inedite di rivelazione divina e quindi una nuova umanità.
    Mentre per la nascita e la crescita di Gesù è stato sufficiente un semplice ambiente familiare, per lo sviluppo della presenza di Dio nella storia umana non bastano singoli individui e ambienti ristretti. Sono necessarie comunità sempre più ampie, che vivendo in fedeltà il Vangelo, creino climi vitali intensi e consentano l'irruzione dello Spirito di Dio in forme nuove. Celebrare il Natale è appunto esercitarsi per questa missione di vita.

     


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
    "buona" politica


    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


    NOVITÀ ON LINE


    Di felicità, d'amore,
    di morte e altro
    (Dio compreso)
    Chiara e don Massimo


    Vent'anni di vantaggio
    Universitari in ricerca
    rubrica studio


    Storie di volontari
    A cura del SxS


    Voci dal
    mondo interiore
    A cura dei giovani MGS

    MGS-interiore


    Quello in cui crediamo
    Giovani e ricerca

    Rivista "Testimonianze"


    Universitari in ricerca
    Riflessioni e testimonianze FUCI


    Un "canone" letterario
    per i giovani oggi


    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

    invetrina2

    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

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