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    Le nuove modalità del senso (Terza parte di: La vita del credente)


    Carlo Molari, LA VITA DEL CREDENTE. Meditazioni spirituali per l'uomo d'oggi, Elledici 1996



    PERDONO

    Capita spesso in questi anni di discutere sulla grazia da concedere ad alcuni responsabili di delitti, come si è parlato molto della memoria dei martiri, del perdono per i pentiti e della misericordia per i violenti. Forse è utile riprendere i termini del problema per precisare bene in che cosa consista il perdono, cosa significhi ricordare il male del passato e che valore abbia l'esercizio della misericordia. Se si considera il perdono semplicemente come atto giuridico di clemenza o come atto morale di misericordia, non si coglie il suo valore sociale né il suo significato storico. Perdonare non è dimenticare un delitto, né semplicemente offrire nuove possibilità di riscatto a chi ne è responsabile, ma prima di tutto significa essere in grado di mettere in moto spinte vitali e sociali opposte a quelle della violenza in modo da annullarne le conseguenze nella società. In questo senso il perdono non può essere un atto degli organi dello stato o del governo, ma deve coinvolgere l'intera società, e non può essere una semplice decisione giuridica, ma deve riflettere un reale processo spirituale.
    Le brigate rosse intendevano realizzare un nuovo ordine sociale con le dinamiche dell'odio e volevano imporlo con la violenza secondo criteri ideologici già applicati altrove. Alcuni di loro hanno riconosciuto l'errore compiuto; altri, invece, per quella coerenza che caratterizza l'adesione ad ideali assoluti e rende spesso ciechi, continuano a difendere le scelte del passato.
    Ora, perdonare i brigatisti da parte degli italiani significa esercitare amore gratuito nei loro confronti proprio per annullare il male da essi compiuto. Perdonare, quindi, non implica la negazione degli errori compiuti dai brigatisti, ma l'offerta della possibilità di contribuire alla realizzazione di una società più giusta attraverso atteggiamenti spirituali che la maggioranza degli italiani riconoscono oggi più validi ed efficaci. Compiere un atto di clemenza vorrebbe significare che la società italiana è pervenuta ad un grado di coesione tale da poter annullare le spinte disgregatrici dell'odio e della violenza, e quindi da poter inserire nuovamente nella vita attiva cittadini da cui fino ad ora ha dovuto difendersi. Il problema fondamentale da dibattere quindi non è giuridico e neppure morale, ma sociale e civile: quale grado di coesione interna ha raggiunto la società italiana? e quale grado di amore e di solidarietà è capace di esercitare? Non è quindi semplice questione di leggi, né si tratta di dimenticare efferati delitti, e neppure di chiudere un occhio verso chi ha sbagliato. Occorre invece chiedersi quale livello di vita sociale il popolo italiano ha raggiunto e quale energia vitale è in grado di sprigionare per contrastare le spinte disgregatrici della violenza e dell'odio.
    Ma se le energie spirituali per compiere questo gesto non hanno raggiunto il livello sufficiente, se gli odi ancora prevalgono e gli egoismi dominano, allora l'atto di perdono sarebbe falso e risulterebbe pericoloso. Come un atleta che vuole affrontare una prova più impegnativa delle proprie capacità fisiche rischia di danneggiare il proprio fisico anche in modo irreparabile, così una società che si imponga scelte più grandi della maturità spirituale raggiunta rischia di dissolversi. La coesione sociale della attuale società italiana, le forze di riconciliazione e di condivisione espresse in numerose forme di volontariato sono tali che probabilmente le consentirebbero di fare un passo avanti nell'esercizio della misericordia e nell'organizzazione nuova della giustizia. Ma questo richiede decisioni consapevoli e impegno condiviso da ambiti molto estesi.
    Alcuni interpretano il perdono come se fosse desiderio di dimenticare il passato o disprezzo dei martiri. In realtà il perdono non intende annullare il vissuto né rinnegare la sua memoria, ma anzi lo assume e lo porta con la consapevolezza che la forza civile, le energie di coesione sociale sono tali da non temere l'esercizio della memoria ed anzi da saperla utilizzare come forza unificatrice della società. La memoria diventa ragione di atti nuovi di solidarietà che modificano la struttura sociale. Per la stessa ragione il perdono diventa un modo per dare valore al sacrificio delle vittime del terrorismo. Nella memoria dei martiri viene compiuto un passo avanti nella solidarietà, nella condivisione e nell'amore. Il sacrificio dei martiri non è stato vano se il loro ricordo oggi consente gesti inediti di misericordia e di solidarietà, e avvia forme superiori di convivenza civile. Restare fermi nella recriminazione del passato e continuare ad esercitare gli stessi meccanismi di reazione significherebbe invece bloccare la storia, non portarla a compimento, e quindi renderebbe inutile e sterile la morte dei martiri. Se la società italiana non fosse in grado di fare un passo avanti nella solidarietà, nell'amore reciproco, nella misericordia, significherebbe che la memoria di chi è morto per questi ideali non è ancora sufficientemente efficace. Viceversa, se il loro ricordo oggi potesse risolversi in forme nuove di giustizia e di misericordia, vorrebbe dire che la loro morte acquista un valore inedito. Il problema da esaminare, quindi, per decidere gesti di clemenza nei confronti dei terroristi è se la società italiana abbia raggiunto quel grado di umanità che consenta di dare significato nuovo alla morte dei suoi martiri o ancora si stia dibattendo nei meccanismi di violenza e di contrapposizione che le ha causate.

    LA GIUSTIZIA E LE CONVERSIONI NECESSARIE

    La giustizia è una bandiera che tutti innalzano, è un ideale che tutti propongono, è un traguardo che tutti considerano imprescindibile per la pace dell'umanità. Ma ciascuno intende la giustizia a modo suo ed ha riferimenti diversi secondo gli eventi storici ai quali si richiama. La ragione di questa diversità sta nel fatto che la giustizia non ha sempre e ovunque le medesime esigenze. Man mano che la storia procede, la giustizia pone nuovi problemi, le sue richieste aumentano e le sue dinamiche si approfondiscono. Il problema della giustizia sta appunto nel determinare che cosa essa implichi nelle condizioni storiche del nostro tempo. Per realizzare la giustizia, quindi, è necessario individuare le possibilità racchiuse nelle situazioni attuali, progettare le forme nuove di uguaglianza ad esse corrispondenti e programmare i cambiamenti che la loro realizzazione impone agli uomini. Le conversioni urgenti richieste non sono tutte di ordine sociale. Alcune riguardano gli atteggiamenti interiori dell'uomo, il suo modo di pensare e di atteggiarsi nei confronti delle cose e degli eventi.
    La prima conversione riguarda la mentalità consumistica e il modo di considerare il progresso umano.
    I beni che l'uomo ha a disposizione sono limitati. Di qui la crisi dell'attuale modello di sviluppo e la contraddizione del concetto di progresso che vi soggiaceva. L'enciclica Sollicitudo rei socialis richiamandosi alla Populorum progressio nota che «lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere umano debba camminare spedito verso una specie di perfezione indefinita. Simile concezione, legata a una nozione di "progresso" dalle connotazioni filosofiche di tipo illuministico, piuttosto che a quella di "sviluppo"..., sembra posta ora seriamente in dubbio» (n. 27). Questa concezione aveva portato alla moltiplicazione di iniziative economiche tese ad aumentare a dismisura i beni a disposizione dell'uomo. Egli deve, invece, imparare a fissare volontariamente dei limiti alla produzione dei beni in modo da non imporre cambiali in bianco alle generazioni future. Per fare questo deve assolutamente liberarsi dalla mentalità consumistica, che consiste nel considerare il possesso dei beni quale ragione della felicità umana indipendentemente dall'atteggiamento interiore e nella volontà di possedere sempre di più in virtù delle proprie capacità di acquisizione e non secondo le reali necessità o l'utilità. L'ingordigia conduce ad accumulare beni al di là della stessa possibilità di utilizzazione: compriamo libri più di quanto possiamo leggerne, costruiamo case più di quanto possiamo abitarne, acquistiamo abiti o scarpe più di quanto la loro consunzione esiga, compriamo giocattoli più di quanto tempo abbiamo a disposizione per giocare, produciamo cibi e ne consumiamo più di quanto ci è necessario e così via. La conseguenza è che la maggior parte dei beni prodotti diventa inutile e viene distrutta o va in rovina senza possibilità di ricupero delle materie prime che sono servite per la loro produzione e con immensa dispersione di energie. E ciò mentre molti soffrono per la miseria e muoiono per la fame. Per questo diventa sempre più comune la convinzione «che il consumo attuale di materie prime e di energie deve essere risolutamente ridotto. Ciò esige da tutti noi uno stile di vita semplice, radicalmente trasformato».[1] Anche la commissione Brundland ha terminato i suoi lavori suggerendo urgenti cambiamenti nello stile di vita dei popoli ricchi della terra: «Unanime è la nostra convinzione che la sicurezza, il benessere e la sopravvivenza stessa del pianeta dipendano dall'immediata introduzione di tali cambiamenti».[2]
    La seconda conversione riguarda l'orizzonte universale delle prospettive. Un fatto inedito si impone a tutti: l'orizzonte della storia si sta unificando. Da un'unica terra si sta velocemente passando a un unico mondo, per usare l'espressione di un capitolo del rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo.[3] L'unificazione dei processi storici, di cui l'umanità è soggetto, conduce all'interdipendenza sempre più accentuata di tutti i complessi fenomeni sociali. Fino ad ora ogni famiglia, ogni regione, ogni nazione quando operava giudiziosamente cercava di impostare le proprie economie, cercando di evitare sprechi al proprio interno o di custodire il proprio ambiente, ma gravando sugli altri per realizzare i propri interessi. Questo atteggiamento ora non è più possibile. Tutti i problemi stanno diventando universali. È da miopi esportare inquinamento illudendosi di esserne liberi, o immettere anidride carbonica nell'atmosfera, pensando che essa sarà dispersa altrove. E da egoisti, ma anche da insensati, calcolare i profitti propri sui prezzi ridotti delle materie prime imposti ai paesi del terzo mondo, o sui salari da fame dei loro operai. I mali che ci sovrastano, sia ecologici che economici, riguardano tutti i popoli. La terra sta diventando un unico mondo. Occorre che tutti comincino a pensare con parametri universali. Questo condurrà progressivamente a individuare le ingiustizie che attraversano i confini fissati dagli uomini e valutare in modo diverso l'urgenza di giustizia, di equità e di equilibrio nel mondo.
    La terza conversione concerne la considerazione dei poveri. Nella fase attuale dello sviluppo umano la presenza dei poveri non è più una fatalità, dipendente dalla carenza dei mezzi di sussistenza. Oramai la presenza dei poveri diventa una ingiustizia. L'umanità ha i mezzi per realizzare un benessere medio sufficiente per tutti. La condizione è che tutti insieme i popoli decidano di ridistribuire i beni della creazione che sono a disposizione di tutti gli uomini. La Commissione Brundland «è del parere che la diffusa povertà non sia più inevitabile. La povertà non è soltanto un male in sé, ma lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore... Il soddisfacimento dei bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri, ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita».[4] La solidarietà che deve guidare a queste decisioni non può avere il corto respiro della difesa di interessi nazionali o settoriali.
    Chi crede in Dio ha ragioni concrete per assumere questi atteggiamenti. Egli sa che l'amore di Dio non ha confini o limitazioni geografiche, ma sa pure che l'amore di Dio non è efficace sulla terra se non diventa amore umano. Alle decisioni degli uomini spetta rendere visibile ed efficace l'amore di Dio che è la matrice originaria della vita umana.

    MISERICORDIA

    Misericordia significa amore per i miseri. La misericordia è l'espressione più chiara della forma adulta dell'amore, cioè della gratuità. Spesso, tuttavia, si pensa che la misericordia, proprio perché gratuita, non sia mai richiesta per giustizia. In realtà anche l'amore gratuito può essere dovuto. Gratuito infatti non significa solo arbitrario e immotivato, ma anche non interessato, perché chi agisce non attende ricompense o gratificazioni. Misericordia, perciò, indica un atteggiamento spirituale con cui sono compiuti alcuni atti d'amore, dovuti o facoltativi, nei confronti dei deboli, dei poveri e dei piccoli. Genitori, ad esempio, che non fossero pieni di misericordia nei confronti dei figli necessariamente difettosi e immaturi, verrebbero meno a un loro compito fondamentale che è appunto quello di offrire vita dove c'è insufficienza e vuoto. Allo stesso modo l'aiuto ai poveri o l'accoglienza degli immigrati è un atto di misericordia in molti casi dovuto per giustizia. Ciò non significa che la misericordia possa essere regolata per legge. Perché anche quando richiede atti esteriori, la legge non può imporre atteggiamenti spirituali, ed inoltre essa resta spesso indietro rispetto alle esigenze della vita. Un tempo la schiavitù, ad esempio, o la pena di morte erano legali. La maturazione della coscienza sociale le ha dichiarate successivamente contrarie al diritto di natura. Può succedere quindi che, quando la storia esige nuove decisioni, noi, seguendo la legge degli uomini, tradiamo le esigenze della vita e operiamo contro la giustizia. È necessario perciò che sappiamo individuare quali sono le situazioni attuali che consentono un passo avanti e che richiedono decisioni corrispondenti alla giustizia, ma ancora non imposte da una legge. Ci possono essere situazioni in cui, ad esempio, le prescrizioni fiscali sono insufficienti ad una giusta ridistribuzione dei beni. La misericordia, in questi casi, diventa un esercizio di giustizia.
    Oggi questa esigenza appare con chiarezza per quanto riguarda i rapporti tra il Nord e il Sud del mondo. Anche se noi seguiamo fedelmente le leggi del nostro ordinamento giuridico, possiamo essere ingiusti, se non esercitiamo misericordia verso quei gruppi sociali che sono emarginati, o verso quei popoli che muoiono a causa della mancanza di cibo e di medicine. Sollecitandoci perciò ad una ridistribuzione dei beni, la misericordia non chiede solo generosità, ma atti di giustizia, non ancora imposti dalle leggi. La soluzione non sta quindi nell'affidarci al diritto positivo e lasciare il resto alla misericordia, ma nel considerare la misericordia quale atteggiamento fondamentale per una giusta e umana convivenza sociale.
    In questa prospettiva non c'è contrapposizione tra misericordia e giustizia. La distinzione corrisponde alla dialettica esistente tra l'ideale percepito e la sua progressiva realizzazione. Se ci fissiamo nella situazione del passato, blocchiamo il cammino della storia; ma se in nome di un ideale percepito costringiamo gli altri ad agire secondo misericordia, diventiamo terroristi della virtù. Ogni giorno dobbiamo guardarci attorno per cogliere gli ambiti in cui l'esercizio della misericordia apre le vie della giustizia e per darne testimonianza gratuita in modo che le vie aperte vengano percorse da persone o gruppi sempre più numerosi.
    Gli atteggiamenti di misericordia non si improvvisano e, per di più, facilmente si deteriorano. Sono necessari perciò gruppi, famiglie o comunità, che in modo continuo e consapevole esercitino la misericordia per indurla nella società, soprattutto in rapporto a situazioni inedite. Chi è capace di cogliere i segni delle esigenze nuove deve proporle a tutti nella loro radicalità vivendo la misericordia in modo esemplare. Chi è invece più attento alle condizioni storiche del presente deve indicare i passi ora possibili perché un giorno l'ideale possa essere realizzato nella sua compiutezza. In questo processo, particolare rilevanza possono avere le persone e le comunità che vivono la fede in Dio e che hanno sperimentato quindi la sua misericordia. Esse sanno che l'amore di Dio di fronte al male e al peccato si esprime sempre come misericordia e, che l'unica condizione è l'accoglienza fiduciosa da parte dell'uomo. Esse perciò sanno che nessuna situazione può essere talmente negativa da impedire loro di esercitare misericordia, di rivelare cioè la forza dell'amore di Dio.

    LA CARITÀ E LE OPERE DI MISERICORDIA

    Spesso, quando parliamo di carità, indichiamo le opere di misericordia. Ma in realtà non sono le opere a costituire l'oggetto dell'impegno evangelico della misericordia, bensì il messaggio di amore che attraverso di esse viene trasmesso. Quando chiedono il pane gli uomini domandano amore e quando chiedono amore essi, anche senza saperlo, sollecitano un dono da Dio. Per questo è necessario riflettere sul significato della carità come atteggiamento che rende possibile agli uomini rivelare l'amore di Dio nelle proprie opere. Ma per capire il significato della carità è necessario rendersi conto del posto che ha l'amore nella crescita della persona.
    Vi sono due dimensioni fondamentali nel processo di crescita personale: l'accoglienza della vita e la sua offerta agli altri. La accoglienza della vita non si realizza solo nel primo momento dell'esistenza, ma si sviluppa lungo tutto il suo corso. Cambiano tuttavia le sue modalità e soprattutto il suo riferimento. Nella prima fase noi accogliamo la vita dai nostri genitori e nei loro confronti viviamo un necessario rapporto di dipendenza. Poi, man mano che la vita procede, si allargano gli ambiti dell'accoglienza e insieme si approfondisce il riferimento ultimo del nostro rapporto, finché scopriamo che non sono gli altri a donarci la vita, essendo loro stessi bisognosi di offerte vitali, ma che esiste una fonte originaria che chiamiamo Dio. Allora possiamo iniziare a vivere un rapporto consapevole di amore con Dio.
    In rapporto a Dio, questa è l'unica dimensione dell'amore che sviluppiamo: ci lasciamo investire dalla forza della vita e ci lasciamo penetrare dalla Parola che crea. Questo atteggiamento ci consente di vivere la nostra condizione di creature in modo pieno e gioioso. Noi come creature siamo costituite fondamentalmente da questo atteggiamento, siamo un nulla attraversato da una forza creatrice, un vuoto che risuona di una Parola originaria. Amare Dio in questa prospettiva vuol dire lasciarci investire dall'amore e lasciarci riempire dalla forza della vita. Occorre ricordare però che l'azione creatrice di Dio ci perviene sempre e solo attraverso gli altri, le situazioni, le cose. Non c'è un canale speciale di rapporto con Dio fuori della nostra piccola storia, sicché la forza che ci fa crescere come figli ci perviene centellinata dalle piccole situazioni della nostra esistenza. Anche quando diventa religioso, l'atteggiamento nei confronti della vita mantiene le medesime dinamiche di accoglienza che l'infante vive nei confronti dei suoi genitori. Questo è l'unico modo con cui un infante può amare i suoi genitori, e questo è l'unico modo che noi abbiamo di amare Dio: lasciarci investire dalla forza creatrice. Per questo Gesù diceva che bisogna avere l'atteggiamento dei piccoli per entrare nel regno: perché è l'atteggiamento necessario per crescere come figli. Amare Dio, quindi, non significa volere il bene di Dio, donare qualcosa a Dio o sacrificarsi per Lui. Dio infatti non è una creatura tra le altre creature, con le quali noi possiamo stabilire rapporti per offrire loro il bene, ma è la fonte increata di ogni bene possibile, cui possiamo aprirci in modo molto più intimo e profondo che in ogni altro rapporto. L'uomo si scopre avvolto da un amore che continuamente lo alimenta e si apre alla sua forza creatrice. Questo rapporto con Dio si fonda nella certezza di un Bene così grande che ogni giorno può diventare forma nuova di vita; di una Verità così ricca che può diventare idea sconosciuta, di una Bellezza così luminosa che può assumere forme inedite, di una Giustizia così rigorosa che può diventare progetto innovativo di uguaglianza, di fraternità, di pace tra i popoli. Ogni nuovo mattino, con gioia allora l'uomo si chiede: quali forme di vita oggi sarò in grado di accogliere, quale tenerezza nuova oggi potrò sperimentare, quale forma nuova di verità oggi potrà risplendere in me? La preghiera in questa prospettiva è l'allenamento per accogliere questa forza, per aprirci alla energia vitale in modo da esserne sempre pieni; la preghiera diventa l'esercizio per aprirsi ogni giorno alle forme nuove di esistenza. Lo sviluppo della nostra vita religiosa è essenzialmente lo sviluppo di questo atteggiamento di accoglienza. Il piccolo accoglie cose minime della vita: non capisce le parole, non sa penetrare l'interiorità sua e degli altri. Più procediamo nella vita, più siamo in grado di accogliere doni vitali. Ma spesso, pur crescendo, non diventiamo capaci di amore, cioè di accogliere il dono nuovo che ci viene fatto, perché non sviluppiamo l'altra dimensione dell'amore che è la capacità di offerta.

    La capacità di offerta

    La seconda dimensione che accompagna la crescita personale comincia a svilupparsi quando si diventa strumenti della vita per gli altri, quando si è accoglienti in modo tale da consentire che la vita passi e diventi dono per gli altri. È per questo che Gesù collega il comandamento dell'amore di Dio, che è aprirsi alla Sua azione, al comandamento dell'amore per gli altri, che è donare la Sua azione. Non sono due comandamenti diversi ma due momenti, due aspetti dello stesso processo vitale. In questo senso il riferimento a Gesù è per noi straordinariamente efficace, perché attraverso Gesù abbiamo scoperto a che cosa conduce la fedeltà al progetto di Dio: Gesù per questo è stato costituito Messia e Signore, per la fedeltà con cui ha amato anche quando intorno c'era l'odio e la violenza lo uccideva. Egli soprattutto ci ha rivelato nella incarnazione la legge fondamentale dell'amore che salva: per rendersi salvatore Dio deve farsi carne. Il dono di Dio, infatti, non può emergere nella storia se non attraverso l'azione amorosa degli uomini. Dio non può operare salvezza che attraverso gesti storici di uomini amanti. Dio non ha la possibilità di mostrare il suo amore agli uomini se non esistono persone che lo rendano visibile. L'uomo infatti non è in grado di accogliere l'azione salvifica di Dio se non gli perviene attraverso strumenti umani. Per questo la rivelazione di Dio non suscita solo credenze, ma soprattutto amore. Essa infatti non è manifestazione di idee, ma serie di eventi che interpellano l'uomo e lo sollecitano alla decisione, di vita. La sua finalità è il regno: la fraternità universale nel riconoscimento di Dio.
    Ogni egoismo in questa luce acquista una dimensione di male sociale: esso provoca il deterioramento del clima vitale, la distruzione delle energie necessarie alla crescita di tutti. Gli emarginati, gli oppressi, i poveri sono l'espressione del peccato delle comunità umane: dell'egoismo, della pigrizia, della indifferenza. Finché i poveri non vengono sollevati dalla loro condizione di emarginazione e di oppressione le comunità che li hanno provocati non potranno accogliere salvezza piena. L'umanità intera soffrirà del peccato di coloro che esercitano violenza ed operano discriminazione.
    In questa prospettiva le differenze fra gli individui e tra i popoli possono diventare ricchezza per tutti. La condizione è che esse vengano offerte ed accolte come doni reciproci. Questa impostazione non è ammessa da tutti e trova ostacoli culturali oltre che pratici. Il cristiano non nega le differenze, ma le considera come frammenti del dono di Dio nella storia per la realizzazione di un progetto unitario di salvezza. Le diversità sociali perciò non costituiscono per lui una fatalità da subire, ma una partenza per un cammino di comunione. La condivisione non è un semplice dovere morale, ma un'esigenza per la crescita armonica dell'umanità.
    Nel documento pastorale della CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, questa non è presentata come una semplice virtù individuale, ma come la forma di ogni impegno ecclesiale, in quanto rivelazione dell'amore creatore del Padre. Vi è scritto, tra l'altro: «E importante realizzare un genuino rapporto fra carità e giustizia nell'impegno sociale del cristiano, superando pigrizie e preconcetti che, anche da opposte sponde, introducono fra queste una fallace alternativa... In realtà, la carità autentica contiene in sé l'esigenza della giustizia: si traduce pertanto in un'appassionata difesa dei diritti di ciascuno. Ma non si limita a questo, perché è chiamata a vivificare la giustizia, immettendo un'impronta di gratuità e di rapporto interpersonale nelle varie relazioni tutelate dal diritto... Di più la carità sa individuare e dare risposta ai bisogni sempre nuovi che la rapida evoluzione della società fa emergere» (n. 38).
    La Chiesa è costituita dall'amore. La carità è stata sempre considerata essenziale alla vita ecclesiale; il Nuovo Testamento proclama il precetto dell'amore come assoluto ed universale. Ma spesso si è considerata la carità come il supremo dovere morale, come la condizione per la perfezione della vita cristiana, come l'impegno qualificante di ogni comunità ecclesiale, e non come la struttura costitutiva della Chiesa, il suo principio fontale e identificante. Le risposte che nella storia la carità è chiamata a dare non sono sempre le stesse. Le situazioni storiche richiedono invenzioni continue. Al grido degli emarginati non si può rispondere sempre allo stesso modo, dato che le insufficienze del mondo presentano volti inediti o mali cronici diventano improvvisamente superabili.
    L'umanità è in divenire e la sua identità sta nel futuro. La vita si offre in forme sempre nuove nella storia. La dinamica di questa offerta è l'amore. Gli ambienti vitali man mano che l'umanità cresce devono essere sempre più ricchi. La caratteristica fondamentale degli ambienti vitali è l'oblatività, la capacità cioè di offerta senza ricatti e senza condizioni. L'amore non è quindi semplice esecuzione di un dovere, o puro risultato di una necessità istintiva; è urgenza vitale per la crescita personale e per il cammino dell'umanità nella storia. Chi ha scoperto Dio conosce la ragione fondamentale di questa esigenza, perché sa che l'amore creatore ha ancora innumerevoli riserve di vita da comunicare. Ha solo bisogno di ambiti accoglienti. Chi prende consapevolezza del male e della sofferenza degli uomini si Inette in cammino per fare della sua vita una rivelazione dell'amore di Dio. L'amore che si rivolge al peccatore, al malato, al povero è la misericordia.

    AMORE E GIUSTIZIA: SOLIDARIETÀ E DOVERE

    Spesso siamo portati a pensare che essere solidali, condividere i propri beni, aiutare i poveri, accogliere gli immigrati, costruire la pace, siano semplicemente un dovere, l'esecuzione di una legge. E possibile certamente formulare leggi al riguardo, ma esse resterebbero sempre indietro rispetto alla storia e allo sviluppo della società. La divergenza tra legalità e giustizia sorge per questa distanza tra le decisioni degli uomini e le esigenze della vita. Se per legalità intendiamo la fedeltà a ciò che è stabilito dalla legge, di fronte alle sollecitazioni della storia facilmente ci sentiamo la coscienza tranquilla e diciamo: «Ho osservato la legge; sono nella giustizia perché osservo la legge. Il resto è un sovrappiù per i più generosi». In realtà esistono anche leggi della vita, che gli uomini ancora non hanno formulato, ma che in un certo periodo storico diventano urgenti e debbono essere applicate. Per molti secoli, presso molti popoli, ad esempio, la schiavitù, la pena di morte erano legali, poi la maturazione della coscienza sociale le ha scoperte incompatibili con il cammino della storia ed esse sono state dichiarate contrarie al diritto di natura. Si può seguire la legge ed essere ingiusti quando la storia è già andata oltre e richiede nuove scelte. Allora può succedere che, seguendo la legge, tradiamo le leggi della vita.
    Non dobbiamo perciò pensare che la carità, la misericordia o la condivisione siano un sovrappiù rispetto alle esigenze della vita, solo perché non sono ancora imposte per legge positiva. È necessario che sappiamo individuare quali sono le situazioni che consentono un passo avanti nella fedeltà alla vita e richiedono quindi nuove decisioni corrispondenti a quella giustizia che non è stata ancora formulata da una legge. Molte volte per esempio ragioniamo così: «Quello che ho guadagnato è mio, quindi ne faccio ciò che voglio; pagate le tasse, sono a posto in coscienza». In questo modo ragioniamo secondo la legge fissata dagli uomini, ma non secondo la legge della vita. Ci possono essere, infatti, situazioni storiche in cui le prescrizioni fiscali sono diventate insufficienti rispetto alla ridistribuzione dei beni richiesta dalla storia. Oggi è molto chiara questa esigenza nel rapporto Nord-Sud del mondo. Anche se noi seguissimo fedelmente le leggi fissate dal nostro parlamento per una giustizia fiscale, potremmo essere ugualmente nella ingiustizia se ci sono gruppi sociali trascurati perché incapaci di rivendicare i propri diritti, o se ci sono altri popoli che muoiono a causa del modo con cui noi ci procuriamo la nostra ricchezza o semplicemente perché non hanno cibo sufficiente. Quando queste situazioni appaiono chiaramente alla coscienza, allora dobbiamo renderci conto che le nostre cose non ci appartengono. Sollecitandoci perciò ad una ridistribuzione dei beni, la vita non sollecita un atto di generosità, ma esige un atto di giustizia, anche se non ancora formulato dagli uomini. Dobbiamo ricordare sempre lo scarto continuo tra la situazione reale e la situazione legale, fissata dalla legge umana, perché la realtà va sempre oltre, la vita umana si sviluppa senza sosta.
    Prendiamo un esempio molto concreto: quello della pace. E giunto il momento in cui è emersa come possibile una pacificazione universale, la realizzazione di una convivenza tra i popoli in cui non è più necessaria la violenza. Quando un ideale appare all'orizzonte della storia umana, in un determinato ambito, oppure su tutta la terra, c'è sempre qualcuno tentato di realizzarlo immediatamente a qualsiasi costo: uccidendo chi resiste, imponendo con la forza la sua accettazione. Si sviluppa quel «terrorismo della virtù», o «terrorismo della giustizia» che ha lasciato molti segni nei secoli. Tutte le forme di assolutismo, anche se orientato al bene, producono morti ingiuste. Il terrorismo della virtù si sviluppa perché non si tiene conto della storia, cioè del cammino necessario per giungere a realizzare un progetto ideale, per accogliere pienamente una forma nuova di umanità. C'è un cammino da compiere, perché l'uomo non cambia solo perché sa e vede ciò che è necessario. Se due genitori si accorgono di un comportamento imperfetto del figlio e lo mettono in guardia, sbaglierebbero se pensassero che una volta detto, già tutto è fatto e che il giorno dopo il figlio è già in grado di attuare il programma presentatogli. Se volessero imporne l'attuazione da un momento all'altro, diventerebbero terroristi della virtù, oppressivi, e non farebbero crescere il figlio come persona. D'altra parte lo sviluppo umano non procede automaticamente, le virtù non si acquisiscono solo perché il tempo passa. Non è inutile perciò educare e impegnarsi nell'orientamento dell'attività, perché i processi di perfezionamento, di giustizia, di pace si attuano solo se diventano consapevoli e liberi. Questo è il cammino faticoso della storia. L'ideale emerge, ma non può essere subito attuato. In ogni comunità ci vogliono coloro che proclamano continuamente e vivono nella sua radicalità l'ideale intravisto, e ci vogliono coloro che, tenendo conto della storia, fanno i piccoli passi necessari perché tutti possano giungervi. Spesso invece succede che chi coglie l'ideale nella sua completezza pretende che tutti lo accolgano radicalmente: non tiene conto della storia e diventa assolutista; le ideologie come le forme di fondamentalismo religioso sorgono in questo modo e diventano facilmente oppressive. D'altra parte, coloro che hanno senso della storia, che vivono la concretezza, non tengono conto dell'ideale e pensano che il presente debba essere gestito così come è; e quindi cercano di trarre il massimo frutto personale dalla situazione presente, senza interessarsi del cammino che la storia deve compiere. Molte volte avviene che i politici vivano secondo questo criterio e che al contrario gli idealisti vivano in una contrapposizione non costruttiva, per cui né gli uni né gli altri fanno procedere la storia. Qual è allora la soluzione? Non sta nell'affidarci alle leggi e lasciare il resto alla carità. La soluzione è fare della carità la legge progressiva della convivenza umana: quello che in una situazione è chiesto come necessario dalla carità, farlo diventare legge della comunità. Per realizzare il progetto della vita è necessario che ciascuno viva secondo il proprio carisma ma tenendo sempre presente il carisma, complementare. Chi è capace di cogliere i segni emergenti delle esigenze nuove deve proclamarle a tutti nella loro radicalità. Chi è più attento alle condizioni storiche deve indicare i passi ora possibili perché un giorno tutto l'ideale sia compiuto. Se una comunità valorizza queste diverse funzioni, riuscirà a vedere e a realizzare ogni giorno il passo possibile. In questa prospettiva non esiste contrapposizione tra giustizia e carità. La distinzione, pure legittima, corrisponde alla dialettica esistente tra l'ideale percepito e il passo reso possibile. In questo modo si è in grado di superare la pura gestione del presente ispirata da interessi particolari, e si può evitare il terrorismo della virtù, tenendo conto contemporaneamente della opacità della storia e delle esigenze della vita.
    Ogni giorno quindi dobbiamo chiederci: oggi quale forma nuova di condivisione è necessaria perché gli uomini procedano nel cammino della pace e della giustizia? Quale forma nuova di condivisione oggi dobbiamo inventare perché il regno di Dio venga in mezzo a noi? Ogni volta che ci incontriamo dobbiamo chiederci: quale forma nuova di umanità oggi ci è chiesta? Convinti che se restiamo nella forma di ieri, blocchiamo il cammino della storia; e che se in nome di un ideale ancora irrealizzabile costringiamo gli altri ad agire, diventiamo terroristi della virtù e ostacoliamo ugualmente il cammino della storia. Solo quando diventiamo ogni giorno accoglienti del nuovo che entra, del passo inedito che ci è chiesto, facciamo procedere il regno di Dio.

    AMORE E SESSUALITÀ

    L'amore è una delle dinamiche fondamentali della vita, è la reazione all'attrattiva esercitata sull'uomo dal Bene e dal Bello, mentre la sessualità è la sua base biologica, è la forza vitale che spinge a stabilire rapporti e a sviluppare perciò la capacità di amare secondo le esigenze della persona in crescita.
    Per capire questi nessi occorre ricordare alcune cose fondamentali: che l'uomo è in divenire; che la vita gli viene offerta progressivamente attraverso i rapporti; che lo stimolo a stabilire rapporti viene dalle dinamiche sessuali; che la dinamica fondamentale di ogni offerta vitale attraverso i rapporti è l'amore; che la forma più ricca di amore è costituita dalla oblatività; e che quindi una struttura sociale si giudica dal grado della sua capacità di amore oblativo.
    L'uomo è in divenire e la sua identità sta nel futuro, poiché egli nasce come complesso di possibilità da realizzare e come struttura di sviluppo. Attraverso le scelte, i gesti quotidiani, le speranze alimentate, l'uomo segna progressivamente la sua persona fissandola nella forma definitiva, che la morte consegnerà alla storia e all'eternità.
    Il divenire si realizza attraverso i rapporti. Il dono della vita non perviene ad alcuno se non attraverso l'azione amorosa di altri uomini. Tutti, per crescere, hanno bisogno di ambienti vitali, che sono costituiti dalle strutture comunitarie, da intrecci di rapporti. Le istituzioni e i gruppi sociali possono essere un ambito di crescita personale solo in virtù dei rapporti che favoriscono, delle dinamiche sessuali che mettono in moto e quindi del tipo di amore che suscitano.
    La gestione della sessualità è il mezzo a disposizione della persona per realizzare lo sviluppo armonico di questi processi. La crescita personale, infatti, avviene attraverso l'esercizio armonico della sessualità, che guida lo sviluppo dell'amore fino all'oblatività e realizza l'interiorizzazione delle persone amate con l'integrazione delle componenti maschile e femminile, presenti in ogni soggetto. Imparare a gestire la propria sessualità è, quindi, un traguardo proposto dalla vita a ciascun essere umano. La virtù che regola la gestione armonica della sessualità secondo le diverse età e le varie condizioni di esistenza è la castità. Di conseguenza, esercitare la castità è la condizione per stabilire rapporti armonici, per realizzare lo sviluppo della vita, per raggiungere la propria identità personale e per acquisire la capacità di solide amicizie.
    La dinamica dell'offerta vitale stimolata dalla sessualità è costituita dall'amore. Gli ambienti vitali non sono stabiliti dalla semplice presenza delle persone, ma dalle dinamiche di amore che li uniscono. All'origine di ogni forma di amore vi è l'incontro tra un uomo e una donna, che costituiscono la cellula elementare della vita. L'amore sponsale fonda la struttura originaria dei rapporti vitali, induce nei figli bisogno di amore, stimola la ricerca di altri ed è la fonte, perciò, di ogni altra modalità di amore. Man mano che cresce, l'uomo ha bisogno di ambienti vitali sempre più ricchi, e la ricerca è stimolata appunto dallo sviluppo della sessualità che, già in azione nel rapporto iniziale tra genitori e figli, acquista progressivamente dinamiche sempre più diversificate. L'amore nell'uomo, quindi, non è semplice esecuzione di un dovere, o puro risultato di una necessità istintiva, ma è urgenza vitale per la crescita personale e per il cammino dell'umanità nella storia.
    La caratteristica fondamentale degli ambienti vitali è la oblatività. Non ogni forma di amore è sufficiente per far crescere persone: più la persona è vuota, più esige un amore oblativo, capace cioè di offerta senza aspettative, ricatti o condizioni. Quando i rapporti vengono stabiliti e sviluppati con atteggiamenti oblativi, costituiscono un notevole stimolo per la crescita delle persone. Quando invece i rapporti vengono stabiliti solo per interesse, per convenienza, per appagamento dei propri istinti o autogratificazione, non costituiscono ambiti di crescita profonda perché sviluppano dinamiche possessive. Tutti nascono possessivi e incapaci di oblatività, ma a tutti nella morte la vita, chiede di essere diventati capaci di offrirla senza riserve. Se tutti amassero in modo possessivo, la vita si fermerebbe perché nessuno la offrirebbe ad altri. La vita stessa, perciò, per poter continuare nel tempo esige la oblatività nell'amore. La vita cioè, per non esaurirsi e per poter diffondersi, esige che almeno alcuni giungano ad atteggiamenti oblativi, che siano capaci di offerte libere e non interessate. Non è necessario, però, che tutti coloro che sono coinvolti nei rapporti siano sempre capaci di gestire la sessualità in forme oblative. La caratteristica oblativa può essere determinata da una sola parte coinvolta nel rapporto, a beneficio delle altre. Nella famiglia, ad esempio, i figli iniziano a vivere i rapporti con dinamiche necessariamente possessive dato che, venendo al mondo, l'uomo non può fare altro che esigere offerte vitali, senza essere in grado per il momento di ricambiarle. È sufficiente però che i genitori abbiano amore oblativo perché i rapporti siano fecondi e creatori, costituiscano quel clima che consente la crescita di persone autentiche. Quando ciò si verifica, i figli diventano capaci di amare, come riflesso dell'amore che li investe e, se non trovano altri ostacoli, crescono fino a raggiungere forme di oblatività personale.
    Le istituzioni sociali e le strutture comunitarie si caratterizzano come ambienti vitali secondo le spinte amorevoli che le percorrono, e quindi secondo lo stile sessuale prevalente. Ogni egoismo degli adulti, in questa luce, acquista una dimensione di male sociale: esso provoca il deterioramento del clima vitale, distrugge energie necessarie alla crescita di tutti, induce attitudini egocentriche e a lunga scadenza sfocia nella sterilità. Gli emarginati, gli oppressi, i poveri sono l'espressione del peccato delle comunità umane: dell'egoismo, della pigrizia, della indifferenza, e queste condizioni rivelano un livello insufficiente di amore oblativo e quindi una gestione imperfetta della sessualità. Vi è profonda connessione tra lo stile sessuale di una comunità, l'aggressività che circola nelle sue strutture sociali e le ingiustizie che la caratterizzano. Ogni gruppo umano, l'umanità intera soffre per il peccato di coloro che esercitano violenza ed operano discriminazione per incapacità di amare. Finché i poveri non vengono sollevati dalla loro condizione di emarginazione e di oppressione, le comunità che le hanno in misura diversa provocate sono percorse da inquinamenti spirituali. Al contrario, l'umanità si arricchisce delle energie vitali e delle invenzioni di amore che fioriscono in ambiti di rapporti intensi.
    Vivere i rapporti e imparare a gestire la sessualità non è perciò un semplice dovere morale, ma un'esigenza della crescita personale, una condizione fondamentale per l'armoniosa convivenza dei popoli e per la pace dell'umanità intera.

    PROFEZIA, AUTORITÀ E UBBIDIENZA

    L'umanità sta vivendo un veloce processo di mutazioni culturali radicali e profonde. Molti giustamente pensano a una di quelle svolte epocali che segnano le grandi tappe della cultura umana e suscitano modelli nuovi di pensiero e di vita sociale. In questi cambiamenti sta acquistando grande valore nella cultura il nuovo rispetto al tradizionale. L'accelerata velocità delle dinamiche storiche proietta i processi di sviluppo personale e sociale verso traguardi continuamente rinnovati. Conseguentemente, nella vita individuale e sociale sta esercitando sempre maggiore rilevanza la dimensione profetica dell'esistenza. La profezia è, infatti, la capacità di accogliere il futuro che avanza e di discernervi il bene, il vero e il giusto. Ma proprio per questo stesso motivo la scelta del bene è diventata sempre più problematica, bisognosa cioè di discernimento continuo. Proporzionatamente anche l'esercizio della autorità è diventato sempre più difficile. Quando il passato e la tradizione prevalevano sul futuro, il riferimento principale nella vita civile, spirituale e religiosa era costituito dalla legge e dalle strutture autoritarie che custodivano la tradizione. Nell'agricoltura, nell'artigianato, nel lavoro in genere l'autorità era dalla parte di chi conosceva il passato, di chi ne conservava la memoria e i segreti. Nella attuale società, invece, caratterizzata dalla tensione veloce verso il nuovo, il riferimento delle scelte quotidiane non può essere il passato, la legge scrigno della tradizione, o l'autorità che la tutela, ma la profezia, che consente di leggere il presente nella sua tensione al futuro. Interrogarsi perciò sulla profezia significa anche chiedersi come imparare a fare il bene oltre la legge, e quindi come esercitare l'autorità nella famiglia, nella scuola e nella società. La società antica era strutturata in un orizzonte sacro nel quale alcune figure, come quella del re o della autorità religiosa, avevano valore assoluto. Ora siamo pervenuti ad una concezione diversa attraverso un processo di desacralizzazione che ha investito tutti gli ambiti dell'esistenza: la creazione, la storia, l'uomo. La scoperta delle leggi naturali, negli ordini fisico, morale e psicologico, ha progressivamente eliminato la necessità di ricorrere ad esseri trascendenti per spiegare gli eventi della creazione, dell'esistenza individuale e comunitaria, e per conoscere le regole del comportamento umano. Abbiamo già avuto occasione di esaminare il processo attraverso cui il mondo è apparso nella sua autonomia, attraversato da forze intrinseche e caratterizzato da dinamiche che seguono leggi proprie. In questo contesto anche l'autorità ha perso il suo carattere sacro e si è strutturata come funzione necessaria di ogni organismo sociale. Nelle scelte di un gruppo umano o di un popolo sono necessari organismi di decisione: non si può agire insieme lasciando a ciascuno di andare dove desidera. Questo vale per la società civile come per la famiglia o per la chiesa. Ogni vita comunitaria esige coordinamento e scelte unitarie. Per questo si affida a qualcuno il compito di decidere secondo il bene comune. L'autorità è appunto la componente della comunità umana che ha l'ufficio di coordinare l'azione o gli sforzi di tutti per il bene comune. La designazione dell'autorità avviene in modo vario: o per natura (i genitori) o per elezione (forme democratiche) o per discendenza (monarchie), ecc. Ma in ogni caso non si pensa più ad una investitura divina, ad una potenza celeste che costituisca in uno stato diverso la persona che esercita l'autorità.
    Per il cristiano obbedire significa compiere la volontà di Dio. Per Gesù «compiere la volontà di Dio» significa rivelare l'amore del Padre, attuare i valori del Vangelo, rendere presente il Regno. Ubbidire quindi è vivere in atteggiamento di fede.[5] La fede, infatti, è l'atteggiamento con cui l'uomo si abbandona completamente a Dio prestandogli l'ossequio dell'intelletto e della volontà,' in tutte le circostanze, buone o cattive, giuste o ingiuste della sua esistenza. Accettare nella fede gli avvenimenti non significa, perciò, ritenere che essi siano voluti da Dio, o che corrispondano a un suo piano nei nostri confronti, ma impegnarsi a viverli in ogni caso in modo da rivelare il suo amore, esprimere la sua misericordia, compiere la sua volontà. Nella istituzione ecclesiale o nella vita religiosa ubbidire non significa ritenere che le decisioni del Papa, dei vescovi o, in genere, dell'autorità corrispondano perfettamente alla volontà di Dio, o siano la cosa migliore. E facile, infatti, che le loro decisioni siano influenzate da fattori culturali, da tendenze personali o da pregiudizi e che, quindi, esse non corrispondano pienamente alla volontà di Dio. Anzi, in termini assoluti il volere di Dio è sempre oltre tutte le realizzazioni umane e la sua volontà non coincide mai esattamente con ciò che accade; per cui, rigorosamente parlando, nessuna situazione storica corrisponde mai perfettamente al volere divino. Tuttavia anche nelle circostanze chiaramente imperfette e, come tali, non corrispondenti al volere assoluto di Dio, è possibile ubbidire a Dio, compiere cioè la sua volontà. Poiché quando in tutte le circostanze, giuste o ingiuste, perfette o imperfette, si compiono gesti di amore, si formulano progetti di giustizia, si alimentano speranze di misericordia, si esprimono propositi di perdono, allora si compie sempre la volontà di Dio, perché si rivela la forza della vita che è da Dio per la salvezza dell'uomo. Nella vita comunitaria, civile o religiosa, quando si esegue con impegno e con animo sereno ciò che è stato stabilito per il bene comune, anche quando non è la cosa migliore, si seguono le dinamiche della vita comunitaria, si persegue il bene, e si compie così la volontà di Dio. Il bene che si attua, con l'accettazione delle decisioni comunitarie, è abitualmente superiore all'eventuale imperfezione che la loro esecuzione comporta. In tale modo, pur non facendo la cosa più perfetta, si è in grado di rivelare l'amore di Dio e la sua perfezione, ci si educa alla obbedienza a Dio e si impara a vivere tutte le situazioni in modo da compiere sempre la sua volontà, da realizzare cioè i valori del regno in tutte le circostanze dell'esistenza. In questa prospettiva, nessuno può mai impedire il compimento della volontà di Dio, perché nessuno può rendere impossibile la sua rivelazione nella carne umana, quando le persone coinvolte hanno raggiunto una adeguata maturità e sono consapevoli dell'azione di Dio. Quando, tuttavia, compiere la volontà di Dio, è reso socialmente difficile o impossibile dalla contraria volontà degli uomini, si impone o almeno diventa legittima l'obiezione di coscienza. E quando anche l'obiezione di coscienza è violentemente impedita, diventa necessaria la redenzione dell'ingiustizia nella testimonianza suprema del martirio. Questo è appunto il luogo della profezia: la rivelazione del bene quando il male prevale, della misericordia quando la violenza è mortale, del perdono quando l'offesa è senza limiti.

    INTERMEZZO
    COME REAGIRE ALLA VIOLENZA

    La violenza, le mafie e tutti i fenomeni analoghi che imperversano nel mondo non sempre suscitano reazioni adeguate e utili perciò a vivere in modo positivo la situazione storica.
    Queste riflessioni partono dal presupposto evangelico che tutti gli eventi possono essere vissuti in modo salvifico. Le domande che si pongono, perciò, sono: come vivere in modo salvifico gli eventi violenti, assurdi e insensati: reagire o fuggire, rifugiarsi nella preghiera o pensare al premio eterno? Quali atteggiamenti si devono sollecitare nella comunità cristiana di fronte alla violenza: rabbia, sdegno, rifiuto, perdono, indifferenza?
    Gli assunti fondamentali che vorrei chiarire sono due:
    - vivere in modo salvifico una situazione significa mettere in moto al suo interno dinamiche risanatrici, opposte a quelle del male;
    - per opporsi alla violenza una comunità cristiana non deve far affidamento solo sulla forza di polizia e sulla attuazione della giustizia, ma deve vivere e diffondere forme nuove di umanità.
    Per chiarire queste due affermazioni è necessario prima mostrare quali siano le dinamiche sociali del male.

    Il peccato sociale

    Il peccato non è solo un male individuale o di una comunità, ma diventa sempre anche un male sociale: si struttura in abitudini, in leggi, in mode e diventa tradizione. Esse progressivamente si consolidano in ideali che si diffondono e possono costituire l'orizzonte di una società intera. In questi anni le cronache hanno riportato casi di giovani che uccidono i genitori per denaro, di genitori che torturano i figli con sadismo, di donne violentate, di vecchi trascurati, ecc. Sarebbe sbagliato pensare che tutto si sia risolto all'interno di una coscienza e di una decisione individuale. Questi fatti sono sempre l'espressione di dinamiche molto più estese, che coinvolgono la società intera. Essa propone ideali, indica suggestivi traguardi di benessere, induce desideri incontrollati e giunge fino a elevare altari agli idoli sulle piazze delle città e a organizzare sacrifici in loro onore. Ma in tale modo induce frustrazioni nei suoi adepti e nei più deboli scatena dinamiche distruttrici. Quando il male diventa struttura di una società e diventa abitudine, produce stragi nelle coscienze e devasta tutte le forme di vita. Di fronte a violenze gratuite, a crudeltà assurde, siamo tutti sollecitati a riflettere sulla condizione attuale della società, perché certamente ci sono degli ideali falsi che stanno insinuandosi e stanno diventando criteri assoluti delle scelte dei gruppi, delle famiglie, degli individui. Questo male è molto più incidente degli altri, perché penetra insensibilmente, diventa orizzonte comune e non si ha neppure consapevolezza della sua diffusione. La nostra educazione di tipo individualista ha inciso anche nella vita di fede e nella morale, e spesso ci conduce a trascurare il male strutturale. Il fatto che spesso si dice: «Tutti fanno così», significa che si riconoscono strutture di male così potenti che condizionano il giudizio e vincolano la libertà delle persone, per cui sembra che non ci si possa opporre al male.

    Salvezza e redenzione

    La teologia della salvezza ha due capitoli, complementari ma distinti: il primo riguarda l'azione redentrice di Cristo (in che modo Gesù ci ha salvato?), il secondo riguarda il contenuto e la sostanza antropologica della salvezza (in che cosa consiste la salvezza per l'uomo?). Riguardo a questi due problemi la riflessione occidentale ha seguito strade divergenti rispetto all'oriente.

    Redenzione oggettiva

    L'interpretazione della missione di Cristo ha costituito uno dei temi centrali della riflessione cristiana. Già le prime comunità cristiane si ponevano la domanda: come mai la sofferenza, la morte e la risurrezione di Gesù hanno avuto efficacia redentiva per l'uomo e gli hanno portato salvezza? Le risposte date a questo interrogativo sono state molte lungo i secoli.
    La prima interpretazione si è concentrata nel termine Servo. Quattro Carmi contenuti nel libro di Isaia (Is 42-53) parlano di un servo di Dio che avrebbe giustificato molti. A questo titolo è connesso il termine Messia, che ha raccolto tutte le attese di salvezza del popolo ebraico. Più tardi è stato aggiunto il termine Signore, che connota lo stato di gloria a cui Gesù è pervenuto nella risurrezione.
    Nel contempo sono state utilizzate numerose metafore per chiarire il senso della morte di Cristo e della sua azione redentrice. «Nella terminologia del NT è espressa in termini commerciali di compra e vendita: lett. riscatto (cf 1 Cor 6,20; 7,23; Gai 3,13; Ap 5,9; 1 Tm 2,6). Si tratta di un'immagine, non di una descrizione realistica. I vari contesti in cui l'espressione ricorre indicano soprattutto due cose: un nesso inscindibile tra la giustificazione dell'uomo e l'opera redentrice di Cristo, e l'impegno che Cristo e Dio hanno messo sull'opera della nostra salvezza... E grottesco parlare di un prezzo pagato al demonio, è antropomorfico parlare anche di un prezzo pagato a Dio: Dio è infinitamente superiore alle nostre categorie di giustizia commutativa».[6]
    Queste metafore assunte come categorie teologiche fissavano la teologia in una cornice giuridica e interpretavano Gesù come colui che soddisfa la giustizia divina e ripara il peccato degli uomini con la sua sofferenza. Queste formule si sono diffuse sempre più nella teologia per l'influsso di maestri autorevoli. Fino a poco tempo fa la spiegazione abituale della redenzione era, in sostanza, quella presentata da sant'Anselmo di Aosta nell'opera Cur Deus homo.[7] Essa poggia su due concetti fondamentali: il peccato come offesa di Dio e la necessità di una riparazione, sia essa volontaria (soddisfazione) o imposta (pena). Peccare, secondo sant'Anselmo, è offendere Dio e privarlo dell'onore dovutogli. La giustizia esige che sia restituito ciò che è stato tolto e in più che venga offerta «una riparazione gradita al disonorato, per il dolore recatogli disonorandolo. Questa è la soddisfazione di cui ogni peccatore è in debito con Dio». Ma quale offerta, argomenta sant'Anselmo, l'uomo è in grado di fare a Dio che non gli sia già dovuta in quanto creatore? Solo la sofferenza e la morte di un giusto non erano dovute a Dio e possono quindi costituire una soddisfazione accettabile. Ma quale uomo avrebbe potuto offrire questa soddisfazione? Solo un uomo-Dio è in grado di «pagare a Dio, per il peccato dell'uomo, un prezzo più grande di tutto ciò che esiste all'infuori di Dio».
    Questa argomentazione di sant'Anselmo ha avuto larga risonanza nella teologia fino al nostro secolo. L'esasperazione di alcune componenti di questo modello ha portato ad assurdi teologici.
    Oggi la teologia ha chiarito definitivamente l'insufficienza di questa argomentazione. Sant'Anselmo utilizzava modelli giuridici antropomorfici, non teneva conto della risurrezione come momento salvifico e non spiegava perché mai Dio non avrebbe potuto perdonare spontaneamente il peccato dell'uomo rinunciando a ciò che l'uomo dovrebbe offrire pur essendo impossibilitato a farlo. Egli si limita ad affermare che sarebbe «un oltraggio attribuire a Dio questa misericordia». Ma è questo Dio che Gesù ha rivelato: misericordioso senza limiti e senza ragioni. Dio è amore misericordioso, e la nostra salvezza non sta nella riparazione del peccato, ma nell'accoglienza dell'amore divino. Il sacrificio di Gesù, in questa prospettiva, non è offerta a Dio, ma rivelazione per l'uomo. L'espressione del Vangelo di Giovanni: «Io santifico me stesso perché anch'essi siano santificati nella verità» (Gv 17,19) è indicativa di questo atteggiamento: divenire rivelazione di Dio (spazio sacro) per comunicare vita. In questo senso la sua morte è stato evento salvifico per l'uomo. Le formule neotestamentarie: «giustificati dal suo sangue» (Rm 5,9) , «comprati a caro prezzo» (1 Cor 6,20; 7,23) sono metafore che indicano quanto sia costata a Gesù la fedeltà al processo rivelativo. Quella del prezzo è «l'immagine, probabilmente, più umanamente espressiva per dire l'amore di un uomo che dà la vita per salvare un altro» (Lyonnet). Gesù non ci ha salvato, quindi, perché ha versato il sangue, ma perché ha continuato ad amare, a perdonare, ad esprimere la misericordia divina anche quando uomini violenti lo martoriavano in modo crudele fino a farlo morire. Fare memoria di questa fedeltà all'amore è possedere il criterio per valorizzare le sofferenze di ogni uomo che ingiustamente è oppresso, è impegnarsi a creare un clima di vita che consenta la nascita di persone gratuite e pronte a donarsi senza riserve per la vita degli altri. Il sangue di Cristo non è simbolo di esigenze della giustizia divina, ma l'espressione delle possibilità che la misericordia di Dio apre al futuro dell'uomo quando resta fedele all'amore. Gesù ha reso presente Dio dove gli uomini lo avevano allontanato. Egli ha contemporaneamente fatto l'esperienza della lontananza di Dio e della possibilità di renderlo presente. In quel momento Dio era stato allontanato, ma Gesù che continuava ad amare mentre pendeva dalla croce lo rendeva presente. In quel luogo, in quel momento Dio era realmente assente e fu solo l'amore incondizionato di Gesù a renderlo ancora presente nel luogo della desolazione e della morte. L'amore, quando è incondizionato ed assoluto, diventa epifania di Dio, rivelazione della potenza che la misericordia può immettere nella storia degli uomini. Gesù è riuscito ad amare al punto da far esplodere la vita nel luogo della morte. Per questo la resurrezione è momento essenziale della salvezza operata da Gesù.
    La redenzione da parte di Gesù, inoltre, non consiste solo nella riparazione di un male passato, che pure gravava con il suo peso, ma anche e soprattutto nella realizzazione del progetto di Dio, reso possibile per la sua fedeltà di uomo che ha accolto il dono in maniera esaustiva e completa. Gesù rappresenta il momento storico in cui l'offerta creatrice di Dio ha trovato un ambito nel quale esprimersi compiutamente per realizzare quella somiglianza, che in Adamo era appena delineata e che l'infedeltà di molti aveva a lungo ritardato. Cristo perciò è stato l'ologramma perfetto di Dio nella storia umana, l'uomo nuovo che ha iniziato la fase matura della salvezza. La parabola del Buon Samaritano che Egli ha raccontato, l'analogia dell'agnello pasquale, a cui nell'ultima cena si è riferito, e la figura del servo che si offre in espiazione per il peccato di altri, da Lui più volte rievocata, sono indicazioni chiare di una legge fondamentale della salvezza: il male si vince portandolo, mettendo in moto, cioè, dinamiche di vita, opposte a quelle diffuse dal male. Gesù non ha eliminato il peccato del mondo, né ha detto di distruggere il peccatore, ma ha insegnato a portare il male in modo da annullarne le dinamiche disordinate e da diffondere, all'opposto, l'energia vitale. Per questo è stato costituito da Dio «causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli ubbidiscono» (Eb 5,9).

    Salvezza soggettiva e sociale

    Nei secoli il contenuto umano della salvezza è stato interpretato in modo diverso secondo i bisogni sofferti e le esigenze avvertite. I nomi dati alla salvezza sono, perciò, rivelatori delle situazioni storiche in cui la fede in Cristo veniva vissuta. Essi, ad esempio, sono stati: luce della verità, immortalità o vita eterna, divinizzazione o figliolanza divina, liberazione dal male e dal peccato, grazia o forza dello Spirito.[8]
    Mentre l'oriente cristiano ha utilizzato soprattutto i primi nomi, l'occidente ha sviluppato in particolare gli ultimi due: la grazia e la liberazione dal male. Come in ordine all'azione redentrice di Cristo sant'Anselmo è il teologo della soddisfazione, in ordine ai contenuti della salvezza sant'Agostino è il teologo della grazia. «Per Agostino e per i teologi che seguiranno... l'uomo redento e risanato è l'individuo che in forza della grazia è reso libero per amare veramente, è colui che nella fede e nella speranza, nella gioia e felicità può resistere al mondo di peccato e di morte in cui vive, è uno che può attendersi la manifestazione del regno di Dio».[8] Lo sviluppo di questa teologia ha registrato limiti, ambiguità e insufficienze. Ha presentato la grazia come dono soprannaturale, come perfezione interiore e individuale, come acquisizione di meriti e quindi si è mossa in prospettiva giuridica. La speranza messianica ha assunto, così, caratteri nuovi. È stata vissuta ed intesa in modo privato, giuridico, estrinseco e soprattutto è stata proiettata verso la fine: come se si esaurisse nell'attesa della vita futura e della visione di Dio. Le teologie della liberazione, come le varie forme recenti di teologia della prassi, hanno invece sviluppato una prospettiva sociale, vitale, storica e globale della salvezza. In particolare hanno messo in luce il nesso profondo che esiste tra impegno storico e accoglienza del regno di Dio.[9]
    In prospettiva dinamica, infatti, essere salvati non è tornare a una condizione primitiva perfetta, attraverso una soddisfazione riparatrice offerta a Dio, ma è accogliere un compimento e una ricchezza vitale, promessa già nella tensione iniziale, contrastata successivamente dal peccato, e in Cristo presentata nella sua forma definitiva. La salvezza non elimina per sempre dal mondo le situazioni negative, ma offre di viverle in modo da crescere come persone o come figli di Dio anche per mezzo di esse. In questa prospettiva l'espressione della maturità umana è la capacità di portare il male e di annullare le spinte deleterie del peccato, è imparare a vivere in modo salvifico le situazioni di sofferenza. La salvezza in senso soggettivo è quindi la vita piena o posseduta in pienezza (cf Gv 10,10) in tutte le situazioni o circostanze dell'esistenza.
    La fede in Dio implica appunto la certezza che il Bene può entrare nella storia umana in modo da distruggervi ogni resistenza del male per realizzare nell'interiorità dell'uomo e nella storia l'ordine, cioè la pace.
    Il male si vince portandolo, mettendo in moto, cioè, dinamiche di vita, opposte a quelle diffuse dal male. In questa prospettiva l'espressione della maturità umana è la capacità di portare il male, è imparare a vivere in modo salvifico le situazioni di sofferenza e quindi di annullare le spinte deleterie del peccato. Il futuro dell'umanità richiede forme nuove di solidarietà e di condivisione, comunità fedeli che sappiano inventarle e persone autentiche che sappiano gestirle.

    La giustizia non basta, occorrono comunità nuove

    Sono molte le reazioni teologiche possibili di fronte ai fenomeni di violenza. Se si accettano le prospettive sopra delineate, è facile capire che non è sufficiente diffondere esigenze di giustizia vendicativa. Secondo i criteri evangelici, l'unico atteggiamento che una comunità ecclesiale può assumere e diffondere è quello che rende possibile la rivelazione dell'amore misericordioso e liberatore di Dio.
    Le comunità ecclesiali devono prima di tutto leggere correttamente gli eventi. Il male è un parassita: poggia la sua azione sul bene che si espande e utilizza sempre le sue strutture. Per questo può sempre accompagnare il faticoso cammino della gloria di Dio nella storia umana.
    Anche l'esercizio della violenza legale sta dalla parte del male, e le comunità ecclesiali non possono rallegrarsi quando la società è costretta a ricorrere ad atti violenti per reprimere il male e per rendere impotenti i delinquenti. Sarebbe un errore pensare che solo con l'organizzazione della repressione si possa eliminare la violenza. Le punizioni carcerarie e le restrizioni delle persone mettono in moto gli stessi meccanismi soggettivi dei violenti, e quindi rischiano di rafforzare i loro stessi atteggiamenti. Per natura sua la violenza è distruttrice di persone e di rapporti. Anche se esercitata per il bene comune e per la repressione del male, la violenza non cambia la sua dinamica intrinseca. Vi sono situazioni nelle quali essa è un male minore, ma resta sempre un male. Le vittorie delle forze dell'ordine in ogni caso sono anche una sconfitta per la società.
    Le comunità ecclesiali devono, in secondo luogo, alimentare la speranza: le dinamiche del male possono sempre essere sconfitte. Il male sta alle spalle e il cammino dell'umanità rappresenta il faticoso e spesso doloroso sforzo del Bene di irrompere nel disordine, residuo del caos primordiale. Le comunità ecclesiali, quindi, non si perdono d'animo di fronte alle inedite forme del male, ma rinnovano ad ogni occasione la loro fedeltà al Vangelo.
    Ad ogni vittoria della giustizia intensificano atti di misericordia reciproca, di oblatività, di condivisione per rendere meno dannoso dall'interno il ricorso alla violenza legale. L'azione delle forze di polizia e la repressione della giustizia, infatti, sono efficaci solo quando si innestano in un ambiente alimentato da forze sanatrici, da dinamiche cioè di misericordia, di mitezza e di disinteresse che annullino le spinte distruttrici dei gruppi violenti e della stessa giustizia.
    Ad ogni nuova esplosione di violenza le comunità ecclesiali purificano i loro ideali e rivedono il loro modo di agire, perché sanno che portare il male della società e annullarne le dinamiche richiede una purezza sempre più radicale, un amore così generoso da far scoppiare la vita nei luoghi della morte e far fiorire la novità dove la violenza crea il deserto. Anche nei confronti dei colpevoli e dei loro familiari, le comunità ecclesiali sviluppano una attenzione misericordiosa, che faccia prendere coscienza del male e perseguiti così l'ingiustizia e la violenza fino a volgerle in conversione di vita.
    Non è nell'ambito morale e giuridico che il male, residuo del caos originario, potrà essere sconfitto, ma nell'ambito vitale e sociale. Solo comunità nuove possono creare quegli spazi inediti di solidarietà e di misericordia che fanno irrompere forme nuove di umanità. La violenza allora potrà costituire una sfida cui le comunità ecclesiali rispondono con fedeltà radicale al Vangelo della salvezza. I santi, che esse in tale modo susciteranno, mostreranno concretamente i nuovi orizzonti della storia umana. E ancora una volta il male avrà stimolato le pigre volontà dei «giusti».


    NOTE

    1 Messaggio finale dei cristiani europei a Basilea (20 maggio 1989): Adista n. 42, 1989, p. 6.
    2 AA.VV., Il futuro di noi tutti, o.c., p. 414.
    3 Il futuro di noi tutti. Rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, Bompiani, Milano 1988, pp. 23ss.
    4 Id., ib., p. 32.
    5 Cf Rm 1,5; 16,26 (obbedienza della fede), Rm 16,19 (la fama della vostra obbedienza=la fama della vostra fede: Rm 1,8); Rm 6,16-17. 2 Cf Concilio Vaticano II, Dei Verbum 5.
    6 Vanni Ugo, Lettera ai Romani, in Il Nuovo Testamento, Paoline 1977, p. 48.
    7 S. Anselmo, Perché un Dio uomo, Paoline 1966.
    8 Cf Greshake G., La trasformazione delle concezioni soteriologiche nella storia della teologia, in AA.VV., Redenzione e emancipazione, Queriniana 1975, pp. 29430; Molari Carlo, «Salvezza», in AA.VV., Nuovo Dizionario di teologia, Paoline 1971, pp. 1413-1437.
    9 Id., L'uomo e la salvezza di Dio, in AA.VV., Problemi e prospettive di teologia dogmatica, Queriniana 1983, p. 279.


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