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    Quando il non senso interroga la vita (Seconda parte di: La vita del credente)


    Carlo Molari, LA VITA DEL CREDENTE. Meditazioni spirituali per l'uomo d'oggi, Elledici 1996


     

    IL MALE

    Ci sono problemi che improvvisamente si dissolvono o acquisiscono nuove prospettive nel mutare improvviso degli orizzonti culturali. Il cambiamento realizzatosi in questi ultimi decenni nella visione del mondo da parte delle scienze ha modificato completamente anche la prospettiva di un problema che da sempre assilla l'uomo e in particolare il credente in Dio: il male nelle sue molteplici forme di disordine o disarmonia cosmica, di sofferenza dei viventi sensibili e di peccato umano.
    Fino ad ora il problema del male, sia fisico che morale, ha posto gravi difficoltà a coloro che professano la fede in un Dio creatore, misericordioso e provvedente. Come mai, se all'origine vi è un creatore buono, esistono imperfezioni e insufficienze nella creazione e la vita umana è percorsa da sofferenze e dolori? In vari modi, lungo i millenni della storia umana, i credenti hanno cercato di scagionare Dio dalla responsabilità del male. Alcuni hanno cercato di eludere il problema dicendo che nonostante tutti gli sforzi il problema non può essere risolto ed è opportuno non perdere tempo in elucubrazioni sul male, ma è necessario dedicarsi alla purificazione per vivere intensamente la condizione che ci è data. Altri hanno pensato che all'origine del mondo vi fosse un duplice principio, uno buono ed uno cattivo. Anche alcuni cristiani dei primi secoli distinguevano il Dio della creazione, crudele e punitivo, dal Dio misericordioso della salvezza rivelato da Gesù.
    Molti altri hanno sostenuto che all'inizio la creazione avesse un aspetto completamente diverso e che solo il peccato degli uomini abbia sconvolto il piano originario della creazione. Questo modello ha avuto notevole incidenza nella tradizione cristiana, in particolare con la dottrina del peccato originale.
    L'ingresso e lo sviluppo del modello evolutivo per interpretare il cosmo e la storia umana consente oggi di vedere il problema del male in una prospettiva inedita.
    Nell'ambito scientifico il passaggio da una concezione statica del mondo ad una dinamica è avvenuto negli ultimi quattro secoli attraverso scoperte progressive e acquisizioni inconfutabili, prima nell'ambito della biologia fossile, della geologia e della embriologia, e poi nel superamento della meccanica newtoniana, con la relatività e con la meccanica quantistica all'inizio del nostro secolo. La fisica nucleare oggi descrive le forze che regolano i moti delle componenti elementari della materia, come l'astrofisica ha esteso l'applicazione di queste acquisizioni all'origine e allo sviluppo del cosmo nel suo complesso. Tutta la realtà cosmica è considerata come un grandioso processo di scambi energetici dalla particella più piccola alla più immensa galassia in una profonda unità di movimento. Anche la teologia ha cominciato a considerare la creazione in questa prospettiva come un faticoso e progressivo emergere della realtà dal nulla o dal vuoto in forza della Parola creatrice. Comprendiamo che l'accoglienza dell'essere e della vita non può avvenire se non attraverso tappe successive e gradi di volta in volta incompleti. Si potrebbe dire che il nulla e il vuoto oppongono resistenze alla forza creatrice perché non hanno il sostrato sufficiente per accogliere nella sua complessità e pienezza il dono offerto. L'imperfezione delle cose e delle loro dinamiche, perciò, appare come una necessità del processo, e il male si presenta come lo scotto pagato dalle cose al nulla originario per giungere alla loro perfezione. In prospettiva dinamica, quindi, si potrebbe definire il male del mondo come la necessaria espressione dell'incapacità di accogliere in un solo istante e compiutamente il dono di essere, e la conseguente necessità di passare attraverso stadi successivi di incompiutezza e di imperfezione.
    Il male nella creazione perciò si presenta come la disarmonia e il disordine legati alla fase di transizione in cui le cose e l'uomo si trovano. Il vero problema allora non è quale sia la causa del male o perché Dio lo permetta, dato che è una necessità assoluta per la creatura, ma come l'uomo possa inserirsi nei processi evolutivi in modo da favorire le dinamiche positive e far fluire la vita.
    Il male non è più un problema teorico (perché mai esista e da dove venga), ma resta un assillante problema pratico ed esige un impegno spirituale che risponda alla domanda che emerge dal grido del creato in cammino: come agire perché il male sia superato e il processo sostenuto dalla parola creatrice giunga a compimento? Dio non è perciò coinvolto nell'origine del male, ma entra come il salvatore. Egli offre all'uomo la possibilità di superare il male e pervenire al traguardo dell'armonia finale. Il lamento di Giobbe si trasforma perciò nel grido della croce che annuncia la Pasqua e sollecita la condivisione perché la vita trionfi.

    PECCATO COME INFEDELTÀ ALLA VITA

    Per capire il processo che i peccati innescano e la rilevanza che essi hanno nello stabilire uno stato nella condizione personale e storica dell'uomo, occorre ricordare che l'uomo è in processo e che il suo divenire si attua nei rapporti attraverso i quali l'azione creatrice di Dio si esprime e si offre. Il processo di crescita personale però non procede in modo automatico, ma suppone la libera volontà umana e il coinvolgimento personale. Quando vi è il rifiuto da parte dell'uomo inizia il peccato. I peccati, perciò, non sono semplici gesti contrari alle norme etiche o alle leggi della natura; sono i vari rifiuti di crescere, le scelte attraverso le quali si stabilisce uno stato vitale contrario a quello che dovrebbe essere, una struttura di vita opposta alla condizione di pienezza o di armonia, cui ogni persona aspira non solo a livello individuale ma anche sociale o comunitario. Analizziamo singolarmente queste diverse affermazioni.

    L'uomo in processo: natura e persona

    Nel nostro secolo diverse convergenze culturali hanno favorito un notevole cambiamento nella concezione dell'uomo. Si è passati da una concezione antropologica statica ad una dinamica ed evolutiva: l'uomo, cioè, non è stato pensato come un essere già costituito e perfetto nella sua natura, ma in processo: egli deve diventare quello che ancora non è. Tale passaggio si è realizzato per alcune acquisizioni scientifiche (evoluzionismo biologico e relatività) e per mutazioni culturali come, in particolare, la diffusione della coscienza storica. Tale passaggio ha provocato il cambiamento dello stesso concetto di natura e di persona.
    Per la cultura cristiana il concetto di natura è importante non solo per l'utilizzazione fattane fin dai primi secoli nelle polemiche cristologico-trinitarie e nelle formule dogmatiche, ma anche per la sua valenza. Il concetto di natura come principio intrinseco di azione (significato primario nell'uso filosofico e teologico) si può dire che è sorto e si è sviluppato come concorrente degli Dei, come sostituto della azione di esseri trascendenti nella creazione, dei loro interventi nella storia. L'introduzione del concetto di natura ha costituito una delle prime forme di desacralizzazione del cosmo, fase del passaggio da una prospettiva sacra ad una profana della realtà e delle sue dinamiche. Le cose, attraverso il concetto di natura, cominciano ad essere definite per se stesse e non attraverso il rapporto con esseri trascendenti; tutto il cosmo comincia ad essere pensato nella sua autonomia e non immaginato quale spazio di energie attraversato da azioni di divinità benevoli o malvagie.

    Divenire persona

    Il cambiamento verificatosi nel nostro tempo ha spostato nuovamente l'asse di interesse dall'origine alla fine, per cui anche il criterio di moralità deve essere individuato in riferimento al termine del cammino. Ne consegue che anche le esigenze morali corrispondenti alle finalità dell'uomo dovranno apparire maggiori man mano che i vari traguardi storici vengono raggiunti. L'identità dell'uomo non è già costituita all'inizio del suo cammino, ma assume le sue sembianze definitive alla fine. Alla nascita l'uomo è solo un complesso di possibilità vitali aperte ad innumerevoli sbocchi. La identificazione della persona avviene progressivamente attraverso scelte di ogni giorno. Esse, mentre vanificano molte possibilità reali, ne rendono attuali solo alcune. La scelta comporta a volte la necessità di annullare molte possibilità e di anticipare in parte l'esperienza o l'angoscia della morte. Questo perché, in realtà, ogni decisione, soprattutto se importante, qualifica la persona in un determinato modo disperdendo molte altre possibilità. Finché la propria identità non è consolidata, l'uomo si identifica attraverso realtà a lui esterne: il luogo e la data di nascita, la professione, i genitori, ecc. Crescere come persone richiede l'abbandono progressivo di questi riferimenti di identità e l'acquisizione della propria forma personale fissata dalla interiorità. Per questo, invecchiare esige la capacità di fare progressivamente a meno di tutti i riferimenti di identificazione, per essere semplicemente se stessi. Il continuo potenziamento personale attraverso l'osmosi dei molteplici doni ricevuti e custoditi come serbatoio nella propria interiorità si conclude con la morte. La morte ci chiederà di avere acquisito in modo così completo e definitivo il proprio nome da saperlo abitare pienamente, senza necessità di altri riferimenti. Quando il nome scritto nei cieli potrà appartenerci definitivamente perché corrispondente alla nostra identità di figli, allora non avremo bisogno di altro: la vita ci appartiene per sempre.
    Per descrivere lo stesso processo si possono anche utilizzare altri modelli. Si può dire, ad esempio, che l'uomo nasce carne e deve diventare spirito. Quando si coglie il carattere trascendente della causalità divina, fondamento e principio di ogni azione creata, e si ha presente la condizione dell'uomo in processo, si comprende come una creatura possa progressivamente accogliere in modo più ricco l'azione creatrice di Dio ed aprirsi ad effetti superiori alla sua attuale realtà. L'uomo nasce materiale e diventa spirituale, nel senso che acquisisce caratteristiche nuove e capacità operative inedite. Questo processo coincide con il divenire persona: l'uomo nasce natura e diventa persona, nasce carne e diventa spirito.

    Il divenire della persona si realizza nei rapporti

    L'azione creatrice di Dio non emerge nella creazione e non diventa efficace nella storia se non attraverso creature. Solo nei rapporti, quindi, la creatura umana cresce come persona. Il Concilio Vaticano II, che nella Costituzione Pastorale ha avvertito la necessità di presentare un abbozzo di antropologia in una prospettiva dinamica ed unitaria, scrive che l'uomo può «divenire più uomo» (GS n. 41, EV 1, 1446) attraverso i rapporti e raggiungere la sua identità piena. «L'uomo, infatti, per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti» (GS n. 12, EV 1, 1358). Il criterio perciò per giudicare le scelte storiche è il divenire dell'uomo, la sua piena maturazione nell'intreccio dei rapporti.
    Ma queste riflessioni, fatte in chiave individuale, possono essere sviluppate anche in chiave comunitaria. L'umanità intera è in un processo di crescita. Esistono tappe reali nella acquisizione della perfezione umana. Ci sono forme di giustizia, di pace, di misericordia che nel passato non potevano essere neppure immaginate e che solo ora possono essere accolte e vissute. Le persone sono l'ambito dove la vita cerca spazi di espressione e di sviluppo per aprire nuove vie e forme di umanità non ancora sperimentate o realizzate.

    Vita morale e peccato

    In questa prospettiva dinamica ed evolutiva acquista un particolare significato il peccato. Anche in ordine all'azione morale, l'introduzione del concetto di natura ha costituito un processo di desacralizzazione. La legge di natura ha sostituito la volontà divina espressa nelle prescrizioni rivelate. Non c'è stato più bisogno di ricorrere a una rivelazione divina per individuare il bene e il male. La volontà di Dio è già fissata nelle cose fin dalla loro origine o creazione (natura deriva appunto da nascere), e perciò può essere individuata attraverso l'analisi della realtà creata. Il bene non è semplicemente l'esecuzione di un comando, ma l'accoglienza di una offerta nuova. Il male non è semplicemente disubbidienza a un precetto, ma prima di tutto rifiuto di crescere come persona, impedimento posto alle dinamiche dello sviluppo umano. Lo stato di peccato è il ritardo delle persone nei confronti della storia, e l'insufficienza delle qualità umane richieste per affrontare le nuove situazioni dell'umanità in cammino. Il passaggio da una antropologia statica ad una dinamica ha avuto notevoli incidenze quindi anche nella concezione del peccato. In una prospettiva antropologica dinamica ogni infedeltà umana è il rifiuto di crescere, è l'ostacolo posto alla offerta quotidiana della vita. Tutte le esperienze e gli incontri, se vissuti secondo le dinamiche della vita, contengono offerte vitali. La preoccupazione principale di ogni persona dovrebbe essere quella di cogliere attentamente le novità che la vita è in grado di offrire quotidianamente. Il criterio morale da seguire costantemente non dovrebbe essere quello di seguire una legge o di conformarsi ad una tradizione, ma quello di accogliere interamente l'offerta vitale di ogni circostanza storica. La legge raccoglie i criteri sperimentati nel passato; essa non costituisce un valore in sé, ma il riassunto di una esperienza storica e l'indicazione di una scoperta progressiva. Il valore assoluto è invece la crescita personale e della società umana o l'espressione umana della perfezione divina: la gloria di Dio. Tutti i peccati perciò hanno anche una valenza sociale e comunitaria: il blocco dei processi vitali si riflette su tutti i viventi. Queste convinzioni tradotte in terminologia religiosa significano che l'azione creatrice di Dio contiene ricchezze umane non ancora accolte, ma che Dio offre continuamente perché la sua perfezione possa esprimersi anche umanamente. I peccati sono in questo senso anche offesa di Dio: impedimento alla sua rivelazione o alla sua gloria. Per questo la gloria di Dio è l'uomo che diventa vivo, e l'uomo vivo è rivelazione divina, cioè manifestazione della sua perfezione.

    SOFFERENZA

    La spiritualità della sofferenza ha seguito le alterne vicende della teologia del male, dipendente a sua volta dalle diverse interpretazioni della creazione e delle sue origini che si sono succedute nella storia. La sofferenza infatti è la risonanza umana delle disarmonie e delle incongruenze esistenti nelle dinamiche della creazione e la conseguenza del male che l'uomo compie.
    Quando si pensava che la creazione fosse iniziata in uno stadio di perfezione assoluta e che solo un peccato di origine e i numerosi peccati, a quello succedutisi, ne avessero sconvolto le dinamiche, anche la sofferenza appariva come la penosa conseguenza di errori umani o la giusta punizione di peccati.
    In questa luce la sofferenza veniva vissuta con il rammarico della sua evitabilità e con l'interrogativo angosciante di quali errori fosse conseguenza o di quali peccati fosse punizione. Quando questi interrogativi apparivano non pertinenti, come nel caso della sofferenza dei giusti, allora si ricorreva al modello del capro espiatorio e del prezzo pagato per il riscatto dal male. In questa luce la spiritualità proponeva la riparazione dei peccati altrui come finalità della sofferenza.
    Anche la passione e la morte di Gesù per lunghi secoli sono stati interpretati secondo questi paradigmi, che hanno suscitato forti correnti penitenziali.
    Nell'attuale orizzonte culturale questi atteggiamenti appaiono infondati e quindi improponibili. Ciò non significa che in altri tempi essi non abbiano potuto accompagnare il cammino dei santi. Anzi, è certo che la spiritualità della sofferenza riparatrice ha suscitato profonde dinamiche di amore e di solidarietà. Ma oggi le proposte spirituali devono avere altre motivazioni, perché il modo di vedere il mondo e di interpretare la sua evoluzione è cambiato alla radice. Se si concepisce l'origine e l'evoluzione del cosmo come un faticoso e progressivo emergere dal nulla o dal vuoto, in virtù della parola creatrice «l'immensa sofferenza del mondo appare come il risvolto inevitabile, o meglio ancora come la condizione, o ancora più esattamente come il prezzo, di un immenso successo».[1] Si può esprimere questa condizione come lo sforzo delle cose per giungere al proprio compimento o, per dirla con Teilhard de Chardin, «l'angosciante sforzo verso la luce e la coscienza».[2]
    In questa prospettiva tre sono gli aspetti della sofferenza da considerare: come eredità del passato da accogliere, come riparazione del presente da vivere e come sforzo della vita in noi per avanzare.
    In prospettiva dinamica la sofferenza appare prima di tutto come l'unico modo possibile che in alcune circostanze abbiamo per raccogliere l'eredità trasmessaci dal passato e per consegnarla a nostra volta al futuro. Se il passato emerge dal nulla e dal vuoto delle origini, è comprensibile che ci consegni anche insufficienze e dolori. Ma la ricchezza della realtà trasmessa è tale che con gioia se ne portano i limiti provvisori. Solamente accettando le insufficienze che provengono dal passato si è in grado, infatti, di accoglierne tutte le ricchezze. Ciò vale a livello fisico, psichico, morale e spirituale. Sarebbe realmente insensato chi pretendesse accogliere i valori della sua tradizione storica senza portare il peso delle insufficienze.
    Ma le insufficienze del passato, che costituiscono il male del nostro presente, debbono essere accolte per essere superate. La sofferenza è appunto l'impegno per esprimere modalità nuove di vita. Molte sofferenze umane provengono appunto dalla resistenza che la situazione presente oppone allo sviluppo della vita.
    Infine il futuro è l'ambito più esigente nei confronti della sofferenza umana. Esso non irrompe infatti se non si realizzano condizioni di distacco.

    LA SOFFERENZA, LA GIOIA, LA NOVITÀ VISSUTE NELLA FEDE

    Il cristiano ha in Gesù il riferimento della propria spiritualità. Egli ha rappresentato una svolta nella vita religiosa dell'umanità perché ha introdotto principi e atteggiamenti interiori validi per tutti. Le prime comunità cristiane hanno verificato la validità delle indicazioni offerte da Gesù e da questa verifica è partita l'esperienza della Chiesa nella storia umana. Ne vorrei richiamare tre aspetti centrati su tre episodi centrali: la Pasqua, il Venerdì di passione e la Pentecoste.

    La gioia di vivere

    Molti ambienti della nostra società sono caratterizzati dalla sindrome della noia o della stanchezza vitale. Numerose persone non sanno più che cosa attendere dalla vita o che cosa inventare per essere felici. Il tempo che passa suscita melanconia, paura e indifferenza anziché gioia di vivere. Una inchiesta della Presidenza del Consiglio ha appurato che persino «nella classe di età più giovane è solo una scarsa maggioranza quella di coloro che al futuro guardano con un atteggiamento non ombrato dalla indifferenza e dalla malinconia o oscurato dalla pena».[3] Anche la denatalità e l'attenuato desiderio di avere figli è espressione di una stanchezza che isterilisce le fonti della vita. La fuga nella droga e le numerose espressioni di violenza gratuita sono un sintomo chiaro di rifiuto di vivere.
    La ragione fondamentale di questo fatto sta nella verifica quotidiana della insufficienza di risposte che alle domande di felicità vengono all'uomo dalle altre creature e dalla storia. L'uomo attende sempre qualcosa di più grande di quanto le cose possano offrire, e se non scopre la ragione di questa sua ricerca e il fondamento della risposta alla sua domanda non è in grado di vivere gioiosamente. La nostra società, invece, costruita sulla produzione e sui consumi dei beni, sviluppa con molta facilità dinamiche illusorie, appunto perché presenta cose, situazioni, persone, come ragioni adeguate e sufficienti dei desideri vitali e degli istinti ad essi corrispondenti. Anche in altri secoli queste proposte illusorie erano frequenti, ma non offrivano le medesime possibilità, né avevano verifiche così frequenti. Lo sviluppo attuale della scienza e della tecnica ha reso molto più facili ma anche molto più precarie le risposte delle cose, e quindi suscita con maggiore frequenza insoddisfazione e noia. Ha reso più facili le risposte illusorie perché, con lo sviluppo tecnico e una vertiginosa produzione, ha moltiplicato l'offerta di proposte sempre nuove e varie. Ma nello stesso tempo ha reso molto più precarie le risposte, perché con l'accelerazione veloce dei processi storici ha favorito la verifica della loro insufficienza e ha provocato a breve termine l'esaurimento degli ideali che pure suscita a velocità vertiginosa.
    Il problema che l'uomo deve risolvere è, quindi, se esista o meno una soluzione a questa condizione, se esista e quale sia la via della felicità. La tensione suscitata nell'uomo dalle cose non termina ad esse, ma è orientata altrove: ma verso dove? In un recente documento i Vescovi italiani affermano: «In tutti noi è presente l'anelito profondo a una pienezza di vita. Ciascuno lo sperimenta fin dall'infanzia nell'affetto della madre e del padre, lo scopre nell'amore fecondo dell'uomo e della donna, lo esprime nell'amicizia sincera, lo ritrova nel desiderio ardente di vivere, soprattutto quando l'esistenza si fa fragile e breve».[4] Finché non si scopre il termine reale di ogni tensione vitale, non si è in grado di godere pienamente la vita. I credenti in Dio sanno che questo termine esiste e offre risposte definitive. «Il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te», diceva sant'Agostino riassumendo lapidariamente la sua sofferta esperienza di ricerca. I credenti in Dio possono unirsi in questa testimonianza comune: la vita ha un significato perché ha un fondamento; Dio la può alimentare, il suo amore la sostiene. Vivere in questa certezza è scoprire una gioia profonda. Per questo oggi sono necessari apostoli della gioia, testimoni della vita. I credenti in Dio lo possono essere in modo efficace ed autentico perché avere fede in Dio implica la certezza che il Bene esiste ed è a disposizione dell'uomo, che la vita può fluire perché è sostenuta da un amore senza limiti. La testimonianza che i credenti devono dare al mondo è appunto questa: la vita può svilupparsi ed assumere forme nuove perché essa ha una fonte inesauribile. Il Vangelo (Euangellion) in greco significa «annunzio gioioso» (cf At 5,42) e la ragione della missione di Gesù è stata appunto quella di rendere possibile la gioia degli uomini: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). La stessa caratteristica gioiosa, secondo il racconto di Luca negli Atti degli Apostoli, qualificò le prime esperienze di salvezza cristiana: «Ogni giorno frequentavano il tempio e spezzavano il pane, prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46) «e vi fu grande gioia nella città» (At 8,8); «proseguì pieno di gioia il suo cammino» (At 8,39); «mentre i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo» (At 13,52); «e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per aver creduto in Dio» (At 16,34). Anche quando subivano oltraggi, gli apostoli «se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41) . San Paolo, da parte sua, era convinto di agire in mezzo ai cristiani di Filippi «per il progresso e la gioia» (Fil 1,25) della loro fede; per questo invitava insistentemente i cristiani di Filippi ad essere nella gioia sempre: «Per il resto, fratelli miei, siate lieti nel Signore. Rallegratevi nel Signore, sempre; e lo ripeto ancora rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil3,1; 4,45) e augurava ai Romani: «Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito santo» (Rm 15,13).

    Spiritualità del pianto

    La Pasqua nel senso cristiano non è solo la domenica della Risurrezione, è anche la passione del venerdì e il silenzio del sabato. La spiritualità pasquale non consiste solo nella capacità della gioia, ma anche nel saper portare la sofferenza introducendo senso salvifico dove non esiste. Il segreto della spiritualità quotidiana è appunto questo: imparare a vivere in modo salvifico ogni situazione, anche quelle contrarie alle dinamiche della vita. Per capire queste affermazioni è necessario ricordare come Gesù ha reso salvifica la sua sofferenza. La passione di Gesù e la sua morte violenta non corrispondevano alla volontà di Dio, ma sono state il frutto della violenza umana, del compromesso politico, del peccato. Esse quindi costituiscono per Gesù l'esperienza della lontananza del Padre. Il grido di Gesù: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34) non è solo la citazione di un salmo e quindi una preghiera, ma è anche l'espressione di una esperienza dolorosa. Ma Gesù ha vissuto quella situazione con un amore e una fedeltà alla volontà di Dio (= rivelare l'amore ed esprimere la misericordia divina) da fare di quell'evento una teofania e il dono dello Spirito. Per questa fedeltà al progetto salvifico «Dio lo ha esaltato e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9) .
    La validità e l'efficacia del messaggio cristiano si verificano dalla capacità di diffondere vita, di alimentarla anche nelle situazioni negative e nei processi di morte. L'annuncio fondamentale della Pasqua è che Dio risuscita i figli dalla morte e la sua chiamata alla vita non ha ripensamenti. Questo annuncio può essere ripetuto nel mondo solamente da coloro che ne vivono il significato e ne diventano testimoni. Il segreto della gioia non consiste nel successo delle nostre imprese o nella riuscita dei nostri progetti, ma nell'accogliere quel dono di vita che in ogni situazione ci è offerto. Non esiste circostanza in cui ci sia impedito di crescere come figli di Dio, in cui cioè non possiamo aumentare la capacità di amare, o ci sia impossibile diffondere dinamiche di giustizia, o ci possa essere impedito di esprimere la misericordia divina. Questa garanzia assoluta costituisce un solido ancoraggio alla Vita ed é, per tutti, sempre ragione di gioia.

    La novità che irrompe

    La condizione fondamentale per uno sviluppo armonico della vita interiore dell'uomo e per la felicità è quindi l'atteggiamento teologale con cui l'uomo prende coscienza della sua condizione di creatura e diventa consapevole di come tutta la sua esistenza sia sotto la pressione dell'azione divina. Egli avverte che il suo amore è sollecitato da un Bene sommo, che la sua ricerca è stimolata da una Verità eccelsa, che la sua sete di uguaglianza è alimentata da una Giustizia rigorosa, che la sua esaltazione estetica è eccitata da una Bellezza senza canoni, che il suo bisogno di gioia è suscitato dalla Vita che si offre. L'atteggiamento conseguente a questa scoperta è l'attesa di una novità quotidiana, è un fiducioso abbandono in Dio, è l'accoglienza e la rivelazione del suo amore. Un tempo, anche nei miti pagani, l'ideale era l'inizio, ciò che era stato da sempre e che da tutti era stato affermato. La fissità era la regola d'oro della cultura umana. La Pentecoste invece è la celebrazione del nuovo che irrompe, del vento che scompagina il presente e che introduce elementi inediti.
    Questo è il nucleo della spiritualità come Gesù l'ha vissuta e l'ha inculcata. L'esistenza di Gesù, come appare dai Vangeli, fu eminentemente teologale perché centrata in Dio, riconosciuto come Padre misericordioso. Anche i suoi fedeli sono chiamati a «compiere le opere che egli ha compiuto, e a farne di più grandi» (cf Gv 14,12). La spiritualità cristiana implica la presa di coscienza di questa missione e l'impegno a realizzarla facendo risuonare la Parola di Dio nella storia attraverso decisioni e gesti coerenti. Concretamente, tutto ciò significa assumere il Vangelo come punto di riferimento per le proprie scelte di vita e cogliere nella propria esperienza il valore della proposta gioiosa di Gesù, testimoniare l'autenticità delle speranze da lui suscitate e diffondere lo stile di amore da lui introdotto. In tale modo la rivelazione di Dio compiuta in Gesù si dilata nel tempo, diventa tradizione, struttura e acquista forme adatte alle nuove esigenze.

    DISTACCO

    Nel Vangelo di Giovanni c'è un'espressione che può sorprendere. Gesù dice: «È bene per voi che io me ne vada, altrimenti non verrà lo Spirito» (Gv 14,24) . Si direbbe che Gesù avverta di essere un ostacolo per il cammino dei suoi discepoli, come se egli impedisse lo sviluppo della loro fede. Le cose stavano realmente in questo modo: i discepoli avevano con Gesù un rapporto tale che non poteva consentire ulteriori sviluppi; il loro cammino di fede richiedeva un distacco. Nella dichiarazione di Gesù «E bene per voi che io me ne vada», è indicata una legge essenziale della storia salvifica: la legge della rinuncia o del distacco.
    Questo spiega perché tutte le religioni, con qualche minima eccezione, indichino traguardi di distacco e suggeriscano pratiche ascetiche per giungere alla perfezione personale. Ma spesso esse vengono interpretate dagli estranei, e a volte anche dagli stessi praticanti, come doveri imposti dalla divinità, o sacrifici in sconto di peccati, oppure ancora come riparazione del male altrui. In realtà queste pratiche sono un allenamento a vivere i distacchi che la vita esige per essere accolta pienamente ed essere portata a compimento. Esse hanno quindi un rapporto anche con il peccato, ma solo in quanto esso provoca attaccamenti e idolatrie che costituiscono un ostacolo al fluire della vita.
    Gesù stesso ha riproposto più volte e in varie maniere la necessità del distacco, come quando diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,23s). Rinunciare a se stessi significa staccarsi da una condizione di vita per consentirne un'altra, lasciar perdere ciò che si è, per diventare nuovi. Rinunciare a se stessi significa non seguire i propri istinti che riflettono il passato immaturo, ma lasciarsi guidare dalle esigenze della vita per crescere come figli di Dio. Concretamente significa distaccarsi anche dalle cose e dagli altri: «Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33), perché «non si può servire due padroni» (Mt 5,3-4; 19,21-26). Anche i rapporti di sangue erano da Gesù sottoposti al criterio della volontà di Dio o della sua Parola (cf Mc 3,35) , al punto da dire: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me, chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me» (Mt 10,37). Questo in sostanza corrisponde alla croce, la condizione per seguire Gesù: «Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,17; Mt 10,38). La legge contenuta nelle richieste di Gesù potrebbe quindi essere formulata in questo modo: ogni creatura accoglie vita solo se abbandona la sua attuale condizione, ed è in grado di offrire vita solo se è disposta a scomparire. Sono i due aspetti fondamentali della crescita spirituale che meritano di essere chiariti.

    Per crescere occorre distaccarsi

    Non è difficile comprendere le esigenze di un distacco per la vita spirituale quando si considerano le caratteristiche della nostra condizione. Come creature non siamo in grado di accogliere la vita tutta in un solo istante o di svolgerla in una unica stagione. Non possiamo svilupparci che in eventi successivi, attraverso i quali ci sono offerti, a piccoli frammenti, doni nuovi di vita, che ci consentono di sviluppare, a brevi tappe, inedite dimensioni di umanità. La condizione perché questo processo possa continuare nel tempo è che si sia in grado di abbandonare una forma per assumerne una nuova, e di passare così da una condizione ad un'altra. Il che significa che la vita per procedere impone distacchi progressivi dalle persone, dalle situazioni e dai beni posseduti. Per questo è necessario che impariamo a vivere esperienze e rapporti in modo provvisorio. Ogni volta, invece, che ci fissiamo alle situazioni, blocchiamo il flusso della vita e impediamo lo sviluppo personale. Ogni forma di idolatria, perciò, mentre conduce alla illusione di una stabilità definitiva, provoca attaccamenti mortiferi. Al contrario, l'esercizio del distacco libera forze vitali e consente l'accoglienza di nuove forme di umanità.
    Anche la morte, per essere vissuta, chiederà ad ogni persona di sapersi staccare in modo radicale e completo, così da partire senza rimpianti e in perfetta solitudine. Ma il distacco della morte non si può improvvisare, occorre apprenderlo e lo si apprende solo in un allenamento quotidiano.offrire beni e, cosa più grave, si sente fattore essenziale del processo, per cui non è in grado di lasciare spazio alla fase successiva. La vita può essere offerta pienamente solo da chi non l'ha aggrappata alle cose e soprattutto da chi è capace di farsi da parte. Questa è la ragione fondamentale della morte come momento essenziale al processo della storia umana. Ogni generazione deve lasciare spazio ad un'altra perché la vita possa procedere. Quando hanno svolto la loro funzione, le creature diventano ingombranti e devono lasciare la scena del mondo. Più esse sono state efficaci e oblative, più devono avvertire l'esigenza di abbandonare il campo perché il dono che hanno preparato incombe e deve trovare spazi liberi. Occorre perciò non solo distaccarsi dalle cose e dagli altri per saper morire, ma anche imparare a farsi da parte perché la storia possa procedere oltre e la vita possa esprimersi con doni nuovi.

    Distaccarsi per far crescere

    Il distacco non condiziona solo la maturazione personale, ma anche lo sviluppo della storia umana. Il flusso di vita procede attraverso creature. Esse tuttavia non debbono offrire cose, ma doni vitali, di cui non sono la fonte di origine, ma solo l'ambito di comunicazione. Spesso invece chi deve comunicare vita si accontenta di


    INTERMEZZO
    LA MORTE DELL'UOMO E LA MORTE DI CRISTO

    Nelle svolte storiche, nei periodi di crisi profonda i grandi problemi si pongono in modo inedito. Nell'attuale sconvolgimento di quadri culturali e religiosi, il problema della morte si impone all'attenzione di tutti in maniera continua. A riproporre il problema non sono solo le immagini di violenza e di morti che sempre più spesso i mezzi di comunicazione diffondono nel mondo, ma anche tutte le esperienze personali e sociali di fallimento e di dolore, di tradimento e di sconfitta. L'impotenza delle organizzazioni internazionali dinanzi alla violenza che si scatena tra nazioni e popoli diversi, l'incapacità di alimentare la speranza, che appare sempre più ridicola a fronte della malizia e dei sotterfugi dei malvagi, sembrano conferire alla morte il carattere di destino assoluto della storia, compagna crudele del nostro cammino. La morte sembra rendere vano ogni ideale e sterile ogni amore dell'uomo.

    La morte destino dell'uomo

    Ma in realtà queste esperienze frequenti e universali mettono in luce una componente essenziale e una insopprimibile condizione della nostra esistenza. Noi siamo accompagnati sempre dalla morte perché è il traguardo del nostro cammino. La morte è il nostro destino. Essa non è un incidente nel nostro percorso storico, ma ragione ultima di ogni impresa vitale. Noi siamo in questa fase di esistenza per diventare capaci di uscirne. Per questo motivo la morte è criterio supremo della vita, e solo l'esperienza di un amore incondizionato rende sopportabile la nostra condizione di condannati. Solo quando nell'amore si percepisce in concreto la forza della vita, si è in grado di accogliere senza dubbi le sue promesse e di abbandonarsi senza resistenze ai suoi ritmi. Non ci è imposto di attendere il futuro per capire il senso di tutta l'esistenza, perché nella stessa accoglienza della nostra condizione di morte si svela il suo valore. Come avviene per il feto nel seno materno. Egli vi resta finché diventa capace di uscirne in modo vitale. La sua nascita è la fine di uno stadio vitale. Il che significa che tutto ciò che capita al feto è valutabile secondo il rapporto che ha con la fine che lo attende. Ciò che favorisce la sua uscita dal seno materno è bene per lui. Ciò che invece la impedisce è un male. Analogamente noi siamo in una situazione destinata a finire. Ciò che nella vita ci consente di finire bene è salutare; ciò che invece ci impedisce di morire bene è un male per noi. Ma noi non sappiamo cosa possa significare morire bene o male come invece riusciamo a capire ora che significhi per il feto essere o non essere pronto a nascere. Conosciamo solo gli atteggiamenti necessari per vivere la morte secondo le sue esigenze. Prepararsi a vivere la morte implica quindi accogliere queste esigenze per essere in grado di assumere gli atteggiamenti necessari. La morte allora diventa il criterio supremo di vita: si comincia a capire la vita solo quando si impara ad utilizzare i criteri indicati dalla morte. Importante perciò è sapere che cosa la morte chiederà per essere vissuta.
    La morte chiederà a tutti almeno cinque cose:
    - di avere consolidato la propria identità al punto da saper abitare il proprio nome senza dover ricorrere a riferimenti esteriori;
    - di avere imparato ad amare in modo autentico, così da interiorizzare gli altri senza possederli;
    - e in modo oblativo da sapersi donare interamente senza rimpianti;
    - di avere acquisito un distacco tale dalle cose da saper partire senza portare nulla con sé;
    - e infine di avere imparato a fidarsi così della vita da saperla perdere per ritrovarla.
    Per il cristiano queste richieste sono apparse con chiarezza nell'esperienza di Gesù e nel suo insegnamento. La croce per lui è diventato il segno concreto di come la morte possa essere criterio di fedeltà alla vita.

    Chi sei?

    L'identità della persona umana non sta all'inizio del suo cammino, ma alla fine. Alla nascita l'uomo si identifica con il tutto ed è un complesso di possibilità aperte ad innumerevoli sbocchi. L'identificazione della persona avviene progressivamente attraverso le scelte, che rendono attuali solo alcune possibilità, annullandone altre. Ogni decisione, soprattutto se importante, qualifica la persona in un particolare modo annullando molte altre possibilità ugualmente reali. L'identificazione personale avviene, perciò, attraverso piccole morti quotidiane, che però consentono la nascita definitiva dell'uomo interiore. Per questo ogni scelta comporta l'esperienza di una perdita e quindi anticipa, in certo modo, l'angoscia della morte. Finché l'identità personale non è consolidata, ci si designa attraverso realtà più o meno esteriori: il luogo e la data di nascita, i genitori, la residenza, i titoli di studio, la professione, ecc. E ci si identifica con le cose possedute, il lavoro compiuto, le relazioni vissute. La crescita personale esige l'abbandono progressivo di questi riferimenti, per acquisire la forma ultima, fissata dalla interiorità. La morte ci chiederà appunto di aver raggiunta una presenza a noi stessi che non esiga altri riferimenti per sentirci vivi e per abitare in modo definitivo il proprio nome.
    In prospettiva cristiana, l'identità richiesta dalla morte è quella dei figli di Dio, quella cui corrisponde, secondo Gesù, un nome scritto nei cieli (cf Lc 10,20). Abitare il proprio nome è entrare nella forma definitiva di vita propria dell'uomo interiore che cresce lungo i cammini del tempo.

    Imparare a partire sospinti dall'amore

    Ogni tappa dell'esistenza umana implica partenze e abbandoni sempre più impegnativi. Le partenze iniziano con la nascita, che è, a suo modo, l'uscita da una forma di vita e l'ingresso in un'altra. Crescendo l'uomo deve progressivamente lasciare forme immature di esistenza per entrare in modalità diverse: lascia la casa per andare a scuola, lascia i genitori per incontrare altri, lascia il gioco per iniziare il lavoro, lascia la famiglia di origine per costruirne una nuova, ecc. Le diverse partenze diventano possibili in virtù dell'amore da cui l'uomo è spinto a crescere e quindi in virtù della interiorizzazione dei doni vitali che altri vanno facendo. Inizialmente qualcuno ci conduce per mano nelle diverse tappe della vita, poi le strutture personali si consolidano e rendono possibili solitudini sempre più radicali e quindi partenze per nuove avventure vitali sempre più libere e impegnative. La morte rappresenta l'ultima partenza nell'attuale forma di esistenza ed esige la capacità di solitudine totale. Essa è resa possibile in virtù delle progressive interiorizzazioni di persone che, amandoci, stabiliscono in modo definitivo la loro presenza dentro di noi. La morte, perciò, quando la vita è stata nutrita dall'amore, è una solitudine abitata da molte presenze. Esse rendono possibile la partenza in piena solitudine senza la necessità di condurre nessuno per mano lungo i sentieri del futuro ignoto. Anche per questo aspetto solo l'esperienza di un amore incondizionato rende possibile la serena accoglienza della morte come solitudine abitata da presenze amorose e come partenza verso ignoti traguardi.
    Nella prospettiva di fede, l'esperienza dell'incontro con Dio rende ragione e fonda il senso di ogni amore incondizionato della storia, per il cammino verso l'ignoto. Non possiamo sapere che cosa ci attende, ma ci è chiesto di partire ugualmente, certi che dove perveniamo un amore compie le sue promesse.

    Distacco dalle cose

    Mentre le persone debbono essere interiorizzate per saper partire, le cose debbono essere consegnate perché servano ad altri. Ogni attacco alle cose diventa un ostacolo per morire. La vita perciò richiede che si impari a fare a meno di tutto, per concentrare tutta l'attenzione all'essenziale, che consiste nella interiorità. La morte chiede di avere raggiunto un tale distacco dalle cose da essere capaci di lasciare tutto senza portare nulla con noi. Se non raggiunge questa disposizione oblati-va, l'uomo subisce la morte come il furto, che gli sottrae le cose che egli ritiene sue. In realtà nulla appartiene all'uomo se non il suo nome, quello che fissa la sua identità definitiva: il nome scritto nei cieli. Ma questa convinzione non si acquisisce se non attraverso l'esercizio di amore gratuito e disinteressato. La morte chiede ad ogni uomo di avere imparato l'insufficienza delle cose e di saper consegnare, quindi, tutto ciò che la vita ci ha consegnato.

    Imparare ad amare in modo oblativo

    La morte chiede a tutti di consegnarsi totalmente perché la vita fluisca. Essa perciò chiede ad ogni uomo di avere imparato ad amare al punto da non trattenere nulla per sé, neppure il proprio corpo e da sapere, quindi, consegnarsi interamente. L'esistenza perciò è palestra per imparare ad amare in modo così oblativo da diventare capaci, nella morte, di offrire senza riserve ciò che la vita aveva consegnato. La vita chiede a tutti questa disposizione come prima condizione perché essa possa continuare a diffondersi sulla terra. Se ogni persona, ogni gruppo sociale, ogni popolo non consegnasse nella morte quello che ha appreso o accumulato, la vita finirebbe ben presto. L'amore oblativo, perciò, non è semplice imposizione morale, ma esigenza fondamentale della vita stessa. L'amore è la reazione all'attrattiva esercitata sull'uomo dal Bene, dal Vero, dal Giusto e dal Bello, è la forza vitale che spinge a stabilire rapporti e a sviluppare perciò la capacità di consegnare vita secondo le esigenze della persona in crescita.
    Il dono della vita, infatti, non perviene ad alcuno se non attraverso l'azione amorosa di altre persone. Tutti, per crescere, abbiamo bisogno di ambienti vitali, costituiti dalle strutture comunitarie, da intrecci di rapporti. Gli ambienti vitali non sono stabiliti dalla semplice presenza delle persone, ma dalle dinamiche di amore che li uniscono. L'amore nell'uomo, quindi, non è semplice esecuzione di un dovere, o puro risultato di una necessità istintiva, ma è urgenza vitale che sollecita la libertà, per la crescita personale e per il cammino dell'umanità nella storia. Ma non ogni forma di amore è sufficiente a far crescere persone: più la persona è vuota, più esige un amore oblativo capace cioè di offerta senza aspettative, ricatti o condizioni.
    Tutti nascono possessivi e incapaci di oblatività, ma a tutti la vita chiede di diventare capaci di offrirla senza riserve. Quando vengono vissuti con dinamiche oblative, i rapporti costituiscono un notevole stimolo per la crescita delle persone. Quando invece i rapporti sono stabiliti solo per interesse, per convenienza, per appagamento dei propri istinti, per autogratificazione, non costituiscono ambiti di crescita perché sviluppano dinamiche di possesso. Se tutti amassero in modo possessivo, la vita si fermerebbe perché nessuno la offrirebbe ad altri.
    La vita stessa, perciò, per poter continuare nel tempo esige l'oblatività. La vita, cioè, per non esaurirsi e per potersi diffondere, sollecita atteggiamenti oblativi, chiede cioè che almeno alcuni siano capaci di offerte libere e non interessate. Nella famiglia, ad esempio, i figli iniziano a vivere i rapporti con dinamiche necessariamente possessive dato che, venendo al mondo, non possono fare altro che esigere offerte vitali, senza essere in grado per il momento di ricambiarle. E sufficiente però che i genitori abbiano amore oblativo perché i rapporti fra loro e i figli siano fecondi e creatori, costituiscano cioè quel clima che consente la crescita di persone autentiche. Quando ciò si verifica, i figli diventano capaci di amare, come riflesso dell'amore che li investe e, se non trovano altri ostacoli, crescono fino a raggiungere forme di oblatività personale. Questa seconda dimensione dell'amore comincia a svilupparsi quando si diventa strumenti della vita per gli altri, quando si è accoglienti in modo tale da consentire che la vita diventi dono.
    Ogni egoismo provoca deterioramento del clima vitale, distruzione delle energie necessarie alla crescita di tutti.
    La morte porta il segno di questa ambiguità dell'amore umano. Ogni morte ingiusta è il segno di un amore che non è giunto ancora alle forme oblative. Gli emarginati, gli oppressi, i poveri, i morti per violenza, sono l'espressione del peccato delle comunità umane: dell'egoismo, della pigrizia, della indifferenza.
    Finché i poveri non vengono sollevati dalla loro condizione di emarginazione e di oppressione, le comunità che li hanno provocati soffriranno del male di coloro che esercitano violenza ed operano discriminazione.

    Fidarsi della Vita

    La morte chiederà di avere appreso a fidarsi così della vita da saperla consegnare interamente per ritrovarla in modo nuovo e insospettato. Gesù diceva che chi vuole conservare la vita per sé la perde per sempre; solamente chi impara ad offrirla è in grado di ritrovarla e per sempre (cf Mt 16,21; Lc 17,33; Gv 12,25). Ma abbandonare la vita è possibile solo quando si è in grado di abbandonarsi alla Vita, di fidarsi cioè così dell'Amore, da rimettere la propria esistenza nelle sue mani (cf Lc 23,46).
    Quella fede per cui il piccolo, appena nato, si abbandona senza riserve fra le braccia di chi lo ama, si sviluppa progressivamente nell'esistenza fino a scoprire l'Amore fontale e il fondamento di ogni speranza.
    Quando si è appreso questo atteggiamento, si scopre la gioia di essere Figli, gioia che nessuno è più in grado di distruggere.
    La morte allora acquista un significato nuovo: è l'attesa gioiosa del segreto che la vita non ha potuto ancora rivelare, ma che ha lasciato intravedere nei riflessi gioiosi delle anticipazioni della storia.

    La morte di Gesù

    Nella sua esperienza e nel suo insegnamento Gesù è stato il segno concreto del valore della morte come criterio di vita. La «sua ora», come in Giovanni Gesù chiama la sua morte, ha orientato tutti i suoi passi ed è diventata la ragione delle sue scelte. Per questo Gesù è stato l'espressione concreta delle esigenze della vita nella fedeltà della morte. La croce, luogo della sua fedeltà, è diventata il simbolo di chi vive fino alla pienezza.
    Nella morte egli ha raggiunto la sua identità di Figlio ed è stato costituito Messia e Signore per noi. Sulla croce Egli «è stato esaltato e gli è stato dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9) .
    Nella croce egli ha mostrato la forza dell'insegnamento che egli aveva dato sulla povertà. Egli chiedeva di distaccarsi completamente dalle cose: «Chi non rinunzia ai suoi beni non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). Egli infatti sapeva che: «Non si può servire due padroni» (Mt 5,34; 19,21.26); perché «dove è il... tesoro, là sarà anche il... cuore» (Lc 12,34); o si è servi di Dio e si diventa vivi o si è schiavi delle cose e si perde la vita. Quando ci è chiesta la vita, non possiamo offrire le cose. La vita può essere offerta solo da coloro che non l'hanno affidata agli idoli.
    Nella croce Gesù ha mostrato la forza dell'amore di Dio che diventa offerta ai fratelli. Gesù nel suo insegnamento ha unito il comandamento dell'amore di Dio, che è accogliere la sua azione, al comandamento dell'amore per gli altri, che è donare la sua azione. Non sono due comandamenti diversi, ma due momenti dello stesso processo vitale. In questo senso il riferimento a Gesù è per noi straordinariamente efficace, perché attraverso Gesù abbiamo scoperto a che cosa conduce la fedeltà al progetto di Dio.
    Gesù è stato costituito Messia e Signore, per la fedeltà con cui ha amato anche quando intorno l'odio e la violenza lo uccidevano. Egli ci ha rivelato la legge fondamentale dell'amore che salva: per rendersi salvatore Dio deve farsi carne. Il dono di Dio, infatti, non può emergere nella storia se non attraverso l'azione amorosa degli uomini. Dio non può operare salvezza che attraverso gesti storici di uomini amanti. L'uomo infatti non è in grado di accogliere l'azione salvifica di Dio se non gli perviene attraverso strumenti umani. Dio perciò non ha la possibilità di mostrare il suo amore agli uomini se non esistono persone che lo rendano visibile. Per questo la rivelazione di Dio non è manifestazione di idee, ma serie di eventi che interpellano l'uomo e lo sollecitano a decisioni di vita.
    Gli atteggiamenti indicati da Gesù per essere suoi discepoli sono necessari a tutti per divenire uomini. Essi, infatti, corrispondono alle esigenze che la morte porrà ad ogni vivente per essere vissuta. Infatti la fiducia totale nella Vita così da saperla perdere, l'ascolto fedele della Parola in modo da compiere sempre il volere di Dio, il distacco completo dalle cose così da saperle consegnare tutte, l'amore oblativo che consente alla vita di offrirsi senza ricatti, sono attitudini necessarie per sviluppare gli atteggiamenti profondi della persona o per far crescere l'uomo interiore fino alla statura di figlio di Dio. Sono le condizioni imprescindibili per raggiungere la vita eterna, cioè per vivere intensamente ogni giorno così da pervenire ad acquisire il nome che è riservato nei cieli (cf Lc 10,10).
    Questi atteggiamenti sono necessari a tutti per vivere intensamente. Le modalità per raggiungere questo stato sono varie e le pratiche per svilupparne le dinamiche sono diverse, ma la sostanza è universale. La vita esige da tutti l'acquisizione di questi atteggiamenti perché essi sono le condizioni assolutamente necessarie per saper morire e quindi per vivere intensamente. Ma per acquisirli ciascuno deve modificare la condizione iniziale della sua esistenza. Noi infatti nasciamo centrati sulle persone, mossi dagli istinti, guidati dal bisogno al possesso delle cose. Per giungere a maturità è necessario perciò cambiare stile di vita e operare continue conversioni. Questa è la rinuncia a se stessi e alle cose che Gesù chiedeva ai suoi quando diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso» (Lc 9,23); «Chi non odia perfino la propria vita non può essere mio discepolo» (Lc 14,26); «Chi vuole conservare la propria vita la perderà» (Lc 9,23).
    Questo in sostanza significa «portare la croce», che è una condizione per seguire Gesù: «Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,17; Mt 10,38). Rinunciare a se stessi significa non seguire i propri istinti che riflettono il passato immaturo, e lasciarsi guidare dalle esigenze della vita per crescere come figli di Dio. Queste indicazioni sono per tutti, perché riguardano gli atteggiamenti necessari per raggiungere la maturità o sviluppare la dimensione interiore di ogni persona, quella che Gesù chiamava anche la vita eterna.
    Quando l'uomo prende coscienza di essere creatura e di essere sempre sotto la pressione dell'azione divina, egli avverte che il suo amore è sollecitato da un Bene sommo, che la sua ricerca è stimolata da una Verità inesauribile, che la sua esigenza di equità è suscitata da una Giustizia rigorosa, che la stia esaltazione estetica è alimentata da una Bellezza senza canoni, e che il suo bisogno di gioia è risonanza di una Vita che si offre.
    Conseguente a questa scoperta è l'abbandono fiducioso, l'attesa del dono quotidiano, l'accoglienza e l'epifania dell'amore. Sono appunto questi atteggiamenti interiori che consentono all'uomo di consegnarsi alla morte in attesa del compimento delle promesse che la Vita ha formulato lungo il cammino. Egli non sa che cosa l'attende, ma è ormai certo dell'amore di chi lo chiama.


    NOTE

    1 Teilhard de Chardin P., Comment je vois, § 30, in Les directions de l'avenir, in Oeuvres 11, Seuil, Paris 1973, p. 212.
    2 Teilhard de Chardin P., Lettera del 6 agosto 1915 a Margherita Teilhard Chambon, in Genése d'une pensée. Lettres 1914-1919, Grasset, Paris 1961, p. 76.
    3 Presidenza del Consiglio, I valori guida degli italiani, Roma 1989, p. 61.
    4 Evangelizzazione e cultura della vita umana, n. 18: Regno 35 (1990) 3, p. 86.


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