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    Mario Russotto, LA BREZZA DI DIO. Meditazioni bibliche per educatori e catechisti, Elledici 1998



    LA GUARIGIONE DELLO STORPIO
    (At 3,1-10)

    Una situazione difficile

    Nei primi due capitoli degli Atti, la comunità cristiana vive in sé il dono dello Spirito, le cui manifestazioni sono derise da alcuni e comprese come segno dell'intervento divino da altri. La comunità riceve rispetto e accoglienza da parte del popolo e non incontra ostilità né persecuzione. Tuttavia il confronto con il mondo giudaico, in particolare con il sinedrio e le istituzioni, non tarda a manifestarsi con violenza e si presenta come diffidenza, intimidazione, sfida, persecuzione. All'inizio le autorità giudaiche si muovono con cautela, pensando forse di poter controllare facilmente il nuovo movimento religioso. L'orizzonte cupo che si profila non annienta né indebolisce la comunità, anzi l'accresce numericamente, la fa progredire spiritualmente, la rende compatta all'interno e provoca anche l'espansione esterna, fuori dalla Palestina, fino alla capitale dell'impero romano.
    Il conflitto scoppia con la guarigione di uno storpio, che manifesta la presenza del divino ed è la concretizzazione di quei «molti segni» ricordati a più riprese nel libro degli Atti. Il miracolo infatti provoca la spiegazione di Pietro al popolo e davanti al sinedrio. La comunità affronta la difficile situazione che si profila ricorrendo alla preghiera, rafforzando i legami comunitari, aiutandosi in ogni modo e proclamando coraggiosamente la Parola ovunque.

    Non elemosina ma carità

    «Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita...» (3,1-2). Alle tre del pomeriggio, all'ora della preghiera vespertina, Pietro invocando il nome di Gesù salva un uomo: lo fa camminare, lo inserisce nella comunità, permettendogli di entrare nel tempio e rendendolo missionario della potenza di Cristo Risorto, suscitando in tal modo grande stupore nel popolo: «Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio e riconoscevano che era quello che sedeva a chiedere l'elemosina alla porta Bella del tempio ed erano meravigliati e stupiti per quello che gli era accaduto» (3,9-10).
    Luca ha composto l'episodio con elementi ricevuti dalla tradizione e con riflessioni personali. È storica la guarigione constata dal popolo in seguito al comando e al contatto fisico, la presentazione del personaggio, l'ambientazione dell'episodio e lo stupore suscitato. E di Luca l'indicazione dell'ora della preghiera che, mentre giustifica la venuta di Pietro al tempio, rivela la volontà dei cristiani di vivere in armonia con i Giudei. L'episodio è ambientato nella tipica tradizione socio-religiosa di Gerusalemme: è nominato per cinque volte il tempio, è indicata la consuetudine di portare gli ammalati nel luogo di afflusso della moltitudine, è fatto riferimento alla preghiera delle tre del pomeriggio preceduta da quella delle ore 9 (2,15) e delle ore 12 (10,9), che fondano la tripartita orazione cristiana. I primi cristiani, dimenticando e perdonando, non hanno rifiutato quell'ambiente giudaico causa della morte di Gesù: non l'abbandoneranno se non scacciati. Essi ne accettano la struttura esterna, ma la trasformano con l'introdurvi l'elemento innovatore e sconvolgente della presenza del soprannaturale che scaturisce dal nome di Gesù. Due mondi, quello tradizionale giudaico e quello nuovo cristiano, sono vicini all'uomo malato con atteggiamenti e risultati diversi. Il mondo giudaico rimane esterno all'uomo, con l'elemosina che tacita momentaneamente la coscienza e offre solo un rimedio sintomatico alle sue necessità. Il cristiano si interessa a tutto l'uomo: Pietro delude l'attesa immediata e guida la persona alla richiesta di un dono maggiore e insperato. L'ammalato non pronuncia una parola, ma il dialogo si svolge al livello più profondo dell'essere e si esprime nel gesto.

    L'oggi della salvezza

    «Questi, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, domandò loro l'elemosina. Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e disse: "Guarda verso di noi". Ed egli si volse verso di loro, aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: "Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!". E, presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava» (3,3-8). Al duplice comando di Pietro: guardaci... cammina, corrisponde l'unica risposta efficace dell'uomo di lasciarsi invadere dalla potenza di Dio. Quanto sia stata valida questa collaborazione risulta dal triplice camminare presente nell'episodio, anzi, si tratta di un balzare, di un saltare che esprimono tradizionalmente l'effetto esterno di una gioiosa e misteriosa ebbrezza interiore (cf Es 15,21; 2 Sam 6,14; Sal 149,3; 150,4; Is 55,12). L'effetto è prodotto da un'azione quasi sacramentale (sguardo, parola e gesto): lo fissò... (disse) alzati... lo afferrò per la destra.
    La salvezza non è rinviata, ma donata subito: è tipicamente lucana l'annotazione di una guarigione all'istante: «Chinatosi su di lei, intimò alla febbre, e la febbre la lasciò. Levatasi all'istante, la donna cominciò a servirli» (Lc 4,39). L'annotazione che subito si consolidarono le piante dei piedi e le caviglie (3,7) annuncia dunque una liberazione immediata e totale dell'uomo. Simile concetto è espresso anche dal frequente oggi, che specialmente nel vangelo connota una salvezza sperimentata, dal quell'«oggi è nato per voi un Salvatore» (Lc 2,11), alla «salvezza entrata oggi in una casa» (Lc 19,9), fino a quell'«oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43): si attua così quanto predetto dal profeta Isaia per gli ultimi tempi: «Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa» (Is 35,6).
    Il segno e lo strumento della guarigione è il gesto di prendere la mano destra (3,7) come fece Gesù per la figlia di Giairo (Lc 8,54), la causa invece è il nome di Gesù. Come Cristo operava nel nome, cioè nella potenza, di Dio (cf Lc 11,20) , così gli apostoli operano nel nome di Gesù. La fede nel nome di Gesù è il motivo del discorso seguente e dell'opposizione del sinedrio. La potenza del nome di Gesù è la vera ricchezza della Chiesa, la quale per essere credibile dovrà sempre dire: «Non ho né oro né argento...» (3,6).
    Nel nome di Gesù si trovano uniti, complementari e non opposti, Pietro e Giovanni: essi rappresentano nella comunità l'elemento istituzionale e quello carismatico, l'anziano e il giovane. La fede in Gesù e l'attenzione premurosa verso il prossimo bisognoso creano comunione e unità, che fa superare bei divisione: di età, cultura, ruolo. La complementarietà dei ruoli risalta anche dal fatto che alla posizione centrale di Pietro e Giovanni segue la prevalente azione degli apostoli. Il gesto dei due discepoli provoca l'arresto di tutti gli apostoli, ma questi accettano volentieri di condividere con i due amici difficoltà e persecuzioni: «Fatti arrestare gli apostoli, li fecero gettare nella prigione pubblica» (5,18).
    L'azione unitaria della comunità cristiana o di parte di essa, provoca sempre scandalo o stupore, inquieta le coscienze perché li scuote dal torpore e dalla mediocrità. Poveri di oro e argento, i due amici Pietro e Giovanni regalano allo storpio emarginato qualcosa di grande: la dignità del suo essere uomo, la possibilità di reggersi sulle sue gambe e di esprimere la gioia di un gesto che lo ha restituito a se stesso. Pietro e Giovanni non si accontentano di dare le «mille lire» allo sventurato, ma perdono tempo con lui e per lui, tessono con il mendicante un dialogo vitale, si interessano del suo problema fino a farsene carico. Non temendo di «contaminarsi» con quello storpio considerato un «senza Dio» nella cultura ebraica, gli tendono la mano e lo aiutano a stare in piedi con dignità. Il resto è opera della fede nella potenza del nome di Gesù.

    Il coraggio di tendere la mano

    L'insistenza sui particolari fa dell'episodio una testimonianza per tutto il popolo: la porta «Bella» che immetteva dal cortile esterno in quello delle donne, decorata in bronzo corinzio, richiamava tutta la struttura religiosa del giudaismo. Questo, che aveva rifiutato il ministero di Gesù iniziato proprio con guarigioni (cf Lc 4,33-39), riceve ora una prova di appello nel potere dei dodici (Lc 9,1-2.6): il taumaturgo è infatti sempre Gesù. L'effetto del miracolo è duplice: permettere allo storpio ammalato ed emarginato di entrare nel tempio per lodare Dio ed esprimere pubblicamente la sua fede; suscitare nei molti presenti stupore e agitazione, un misto tra ammirazione e reazione scomposta provocata dalla presenza del divino (cf 4,21; 11,18; 13,48; 21,20).


    FILIPPO E L'ETIOPE
    (At 8,26-40)

    L'escluso dalla comunità

    «Un angelo del Signore parlò intanto a Filippo: "Alzati e vai a mezzogiorno, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza, essa è deserta". Egli si alzò e si mise in cammino quando ecco un etiope...» (8,26-27).
    Il significato dell'espansione della comunità cristiana scaturisce da un nuovo personaggio. Si tratta di un etiope, rappresentante di quel mondo africano ai confini dell'impero romano, chiamato spesso Kush nella Bibbia e corrispondente all'attuale Sudan. Questo etiope non è una persona qualsiasi, ma l'amministratore, il tesoriere della regina, la quale viene chiamata Candace («faraone» in Egitto). Egli sta compiendo un pellegrinaggio a Gerusalemme, anche se non è indicato con precisione lo scopo della sua visita nella città santa: il testo dice per adorare: si tratta di un semplice simpatizzante del monoteismo ebraico, oppure di un proselito entrato a pieno titolo nella comunità giudaica? Il testo non risponde con chiarezza: risulta solo che l'etiope aveva conosciuto la rivelazione divina, dal momento che ad Assuan, ai confini del suo regno, e nell'isola di Elefantina sul Nilo esisteva una colonia ebraica, dedita ad una forte attività missionaria.
    L'etiope viene da Luca chiamato eunuco. Questa parola svela il significato della conversione. Di costui dice un crudo testo di Dt 23,2: «Non entrerà nella comunità del Signore chi ha i testicoli contusi e il membro mutilato». La speranza di una sua ammissione alla comunità dei salvati era legata solo alla venuta del Messia. Così proclama un testo di Isaia: «Non dica l'eunuco: Ecco io sono un legno secco! Dice infatti il Signore: Agli eunuchi che osservano i miei sabati, amano ciò che mi è gradito e restano fermi nella mia alleanza, io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un luogo e un nome migliore che ai figli e alle figlie, darò loro un nome eterno incancellabile» (56,3-5). Alla luce di questo testo, Luca presenta una comunità che accetta gli esclusi per imperfezioni fisiche e fa cadere le discriminazioni proprie del mondo giudaico.

    Dio guida Filippo

    L'episodio va collegato idealmente con i convertiti che il lettore di Luca ha già conosciuto: la peccatrice (Lc 7,37-50), Zaccheo (Lc 19,2-10), il buon ladrone (Lc 23,40-43) e con quanti incontrerà in seguito: Paolo, il carceriere di Filippi, Cornelio... Una costante e provvidenziale azione di Dio guida con ispirazioni, rivelazioni e ragionamenti le fasi del cammino. L'angelo del Signore, una manifestazione di Dio stesso, spinge Filippo a recarsi nel momento più caldo della giornata in una strada deserta; lo Spirito di Dio, un'ulteriore espressione qualificante una presenza divina attiva, lo fa avvicinare al carro, e alla fine rapisce Filippo, inquadrando gli episodi nella luce dei racconti di Elia e di Eliseo: il progresso dell'evangelizzazione è chiaramente indicato come opera di Dio.
    Senza questa percezione di una guida divina appare assurdo avventurarsi a mezzogiorno in una strada deserta: ma il mezzogiorno, come la mezzanotte, la mattina e la sera sono i grandi momenti della rivelazione. Mezzogiorno è anche l'ora in cui Gesù viene crocifisso, dunque nella teologia di Luca questo mezzogiorno rappresenta l'ora della salvezza, l'ora in cui Gesù si lascia inchiodare in croce per tutti gli uomini, senza esclusione alcuna; è l'ora in cui il Crocifisso testimonia sommamente il suo amore per l'umanità. Per questo a mezzogiorno Filippo si alza e si mette a correre per andare ad incontrare questo straniero. È lo zelo di chi deve annunciare il Vangelo, di chi non dice: «Uffa, che caldo!», di chi non si lamenta, perché è più importante andare ad annunciare il Signore a questo uomo che non pensare a se stessi, al caldo, al freddo, alla fame, in una strada deserta piena di polvere. Per questo Filippo non solo va, ma corre, non solo vede, ma ascolta chi legge a voce alta il testo nella lingua internazionale di allora: il greco; non solo si avvicina, ma sale sul carro, non solo inizia il dialogo, ma – come faceva Gesù in una sapiente catechesi – fa compiere all'uomo il cammino di conversione che si attua in più tappe.
    C'è anzitutto l'incontro con la persona alle prese con un importante testo biblico incomprensibile, muto, come il personaggio umiliato e deriso di cui parla. Egli intuisce che quel testo può riguardarlo, ma non ha chi gli faccia da guida in quella comprensione. Filippo giunge al momento giusto, ha perfino osato fare una domanda indiscreta, e l'invito caldo e immediato a salire sul carro esprime l'apprezzamento dell'eunuco per lo sconosciuto.

    La parola muta

    «E rivoltosi a Filippo l'eunuco disse: "Ti prego, di quale persona il profeta dice questo?"» (8,34). L'etiope ha un problema di identificazione del personaggio che dona la vita per gli altri: non desidera una nozione in più, ma la soluzione di un angoscioso problema esistenziale che trova nel testo di Isaia il suo vertice. Le domande rivelano un vivo desiderio di sapere la verità che gareggia con una incolpevole ignoranza: «Come posso sapere se nessuno mi introduce?». La saggezza di un uomo è nell'ammettere di aver bisogno degli altri e nell'accettare umilmente il loro aiuto: necessita una guida (letteralmente: Chi mi conduce per la strada...) per conoscere la parola di Dio, fatta da chi ha già percorso il cammino, introdotto esso pure da altri. Siamo gli uni degli altri maestri e discepoli. Ammettere i propri limiti, dire «non lo so», è già la prima forma di sapienza. L'eunuco non solo dice «non lo so», ma ammette di aver bisogno di altri per capire e ne accetta umilmente l'aiuto.
    Questo uomo straniero ci insegna che nella vita abbiamo bisogno degli altri, anzi egli ammette di avere bisogno di una guida, quasi di un padre spirituale: «Come posso sapere se nessuno mi conduce per la strada?». La vita e la fede sono un cammino, allora se nessuno mi guida per questa strada come posso sapere?
    La seconda domanda dell'eunuco rivela un problema più circoscritto, l'identificazione del personaggio, e manifesta un discepolo più attento. «Di chi afferma questo il profeta, di sé o di un altro?». Si fa distinzione tra l'autore e il personaggio definitivo cui si riferisce.
    La terza domanda, più che una richiesta, è la manifestazione di una conoscenza di Cristo già acquisita, quasi intuita, implicita: «Ecco dell'acqua: cosa impedisce che io sia battezzato?». E qui delineato il programma di catechesi per giungere alla fede: necessità di una guida per «leggere» la Parola, lettura cristologica di essa secondo una linea di predizione-compimento, professione di fede nella potenza salvifica di Cristo che raggiunge l'uomo nel sacramento.

    La catechesi di Filippo

    Il centro di questa catechesi è l'annuncio di Cristo come Messia attraverso un testo di Isaia. Luca riporta i versetti centrali del quarto canto del Servo di Yhwh, che dopo e in conseguenza di una dolorosa umiliazione in una vita spesa per gli altri vedrà la gloria e diventerà causa di salvezza per la moltitudine. Nel testo di Isaia si afferma del Servo: «Chi mai potrà parlare della sua discendenza?»: la morte del Servo dà origine a un popolo che nessuno potrà valutare e per il numero sterminato dei suoi appartenenti e per la qualità di vita che condurrà: ritorna ancora il tema della comunità in espansione.
    Una catechesi ben fatta e assimilata conduce al battesimo, costituendo il credente membro di un nuovo popolo. Che cosa impedisce che io sia battezzato? L'eunuco sente che Cristo non lo respinge, e pronuncia la sua professione di fede in lui. Una formula simile è sulla bocca di Pietro: «Cosa proibisce di dare il battesimo a chi ha già ricevuto lo Spirito?» (At 10,47); oppure: «Chi ero io da oppormi a Dio che aveva dato la stessa grazia come a noi?» (At 11,7).

    Alla fine la gioia

    Il termine del cammino di conversione è la gioia, dono dello Spirito: «Quando furono usciti dall'acqua, lo Spirito del Signore rapì Filippo e l'eunuco non lo vide più e proseguì pieno di gioia il suo cammino» (8,39). L'etiope ha capito che nella fede in Gesù trova la gioia. Ora non ha più bisogno di Filippo, da solo può proseguire il suo cammino.
    Un'esistenza piena di gioia è il frutto di una felice combinazione delle disposizioni interiori di chi cerca la verità e dell'accoglienza trovata nell'evangelizzatore. L' etiope pensa che Dio non possa respingerlo per la sua condizione fisica, per la sua nazionalità, per il colore della sua pelle. -Con il pellegrinaggio egli compie quanto è in suo potere per avvicinarsi al Signore. È un uomo in ricerca di Dio. E Dio si fa sentire nel momento e nel luogo umanamente meno ragionevoli: il caldo del mezzogiorno, una strada polverosa e deserta. È sulla propria via, nella ferialità di un'esistenza rivelatasi forse sterile nel passato, che l'uomo può incontrare Dio.
    La vita concepita come un cammino esige un partire (da se stessi o da una situazione negativa), obbliga a tappe di riposo, a mettere in preventivo cadute, paure, smarrimenti, scoraggiamenti, superabili con una ferrea decisione a proseguire verso la meta, verso la gioia e la felicità della salvezza trovata. Tutto questo diventa realtà perché Cristo cammina con noi, si fa incontrare alle curve più impensate e si fa riconoscere. La strada che collega Gerusalemme con Gaza diventa il luogo di incontro, una mediazione tra l'uomo e Cristo. La strada deserta è il segno di quel deserto umano, rappresentato da chi è incapace di suscitare una nuova vita, l'eunuco. Con l'intervento dello Spirito Santo si anima, si trasforma, diventa fecondo: per questo ci vuole anche l'intermediario, l'evangelizzatore che continua il gesto storico di Gesù (cf i discepoli di Emmaus in Lc 24,13-35).
    L'episodio dell'eunuco e dei discepoli di Emmaus si svolgono nella strada che scende da Gerusalemme, presentano persone in difficoltà per la comprensione della Scrittura, risolta con l'intervento di un intermediario; danno un significato cristologico ai fatti o al testo, terminano con una domanda rivolta a Gesù perché resti, fatta a Filippo perché battezzi, e con un sacramento (eucaristia/battesimo), dopo il quale i due mediatori della Parola scompaiono lasciando gli interlocutori in un clima di gioia. Filippo è allora l'evangelizzatore nella cui attività continua ad operare il Crocifisso Risorto: sulla «via» Filippo indica all'eunuco la «Via» che è Gesù stesso.


    UNA MISSIONE FALLITA
    (At 17,16-34)

    Nel cuore della cultura greca

    Atene è il luogo ideale scelto da Luca per illustrare una esperienza, un tentativo di dialogo fra Vangelo e cultura, in quanto questa città greca – anche se già in declino – rappresentava il faro culturale e la capitale spirituale del mondo di allora, la città dai molti templi e dalle numerose divinità, il luogo ove erano fiorenti le scuole filosofiche (qui gli Atti menzionano solo stoici ed epicurei), abitata da gente sempre disposta ad ascoltare e ad accogliere le novità. Atene si presenta come un centro di studi, una città universitaria, simbolo ideale della cultura ellenica. Proverbiale è la sua sensibilità religiosa testimoniata dal coacervo di simboli religiosi e monumenti: templi-statue-altari votivi.
    In questo ambiente rappresentativo della civiltà ellenistica, Paolo si muove non con la curiosità del turista ma con la sensibilità del credente e lo slancio dell'evangelizzatore. Luca nota che Paolo è indignato ed esasperato in mezzo alla foresta di simboli religiosi pagani che fiancheggiano la via principale che conduce al centro storico di Atene, l'agorà. Questa impressione stimola ulteriormente l'impegno missionario di Paolo. Egli affronta con metodo nuovo e libero da schematismi la situazione. Il suo impegno maggiore è rivolto più che ai Giudei a quelli che sono fuori della sinagoga e della cerchia giudaica, alla massa di greci curiosi e dialettici che frequentano il luogo dei dibattiti e della vita pubblica, l'agorà, appunto, detta del Ceramico, dove si svolgono la vita economica, la discussione politica spicciola e le dispute filosofiche. È la prima volta che Paolo affronta a viso aperto, senza la protezione del luogo di culto e del clima religioso, il mondo della cultura profana pluralistica e disinibita. Il metodo paolino di incontro e di dialogo sulla piazza di Atene richiama ai lettori la figura di Socrate.

    L'impegno del dialogo

    «Discuteva nella sinagoga con i Giudei e i pagani credenti in Dio e ogni giorno sulla piazza principale con quelli che incontrava. Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui» (17,17-18). Paolo cerca innanzitutto di capire il contesto in cui si trova, per cui cammina «dentro» la città: è il momento dell'ascolto e della conoscenza delle culture. Della città poi sceglie due luoghi particolari: la sinagoga per incontrare i credenti in Dio e l' agorà per incontrare i passanti, l'uomo della strada. Paolo cerca gli uomini lì dove essi si trovano: nella sinagoga, simbolo dell'istituzione religiosa giudaica, e nell'agorà – la piazza del Ceramico – dove si svolge la vita economica e politica. In entrambi i luoghi Paolo assume il dialogo come stile di incontro, cercando di essere un tessitore di comunicazione fra le culture. Il dialogo testimonia in Paolo il desiderio di capire i suoi interlocutori, egli parla e ascolta senza imporre ad alcuno la sua fede. Finché sta sulla piazza, Paolo vive il dialogo come stile di evangelizzazione; dialogo che non avviene con i sistemi filosofici o religiosi. Il dialogo è con gli uomini e ciò che pensano. Più che con le culture, il dialogo è con le aspirazioni profonde degli uomini e delle donne che le culture e i sistemi – filosofici e religiosi – tentano di esprimere e soddisfare.
    Dialogando, Paolo si sforza di usare un linguaggio efficace per illuminare con la fede comportamenti e mentalità. Dialogava: il verbo all'imperfetto indica un'azione continuata e ripetuta nel tempo; l'evangelizzatore vive quasi in uno «stato di confronto», fatto di accoglienza e di proposta, alla ricerca di una «traduzione» sempre rinnovata della Parola di Dio nelle parole e nelle lingue dei suoi interlocutori, senza paura di dire le ragioni della fede a chi non conosce Gesù, il Crocifisso Risorto.
    Diversamente da Paolo, i filosofi non «dialogavano», ma discutevano con lui: il verbo greco sottolinea l'intenzione di questi «pensatori laici» di confrontarsi con Paolo per capire. Fino a questo punto essi sono disposti ad accogliere la novità dell'insegnamento dell'apostolo e desiderano vederci chiaro: interrogano e ascoltano, cercano di «mettere insieme» le cose che capiscono per avere un quadro più chiaro circa il Vangelo annunciato da Paolo. Per ben due volte, infatti, i filosofi esprimono a Paolo questa loro intenzione: «Possiamo dunque sapere qual è questa nuova dottrina predicata da te?... desideriamo dunque conoscere di che cosa si tratta» (17,19-20). Ma sono sinceri? Hanno veramente l'intenzione di ascoltare per capire ed eventualmente accogliere la parola di Paolo?

    Una predica ben preparata

    «Presolo con sé, lo condussero sull'Areòpago... Allora Paolo, alzatosi in mezzo all'Areòpago, disse: "...Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio"» (17,19.22- 23) . Da giorni Paolo preparava per bene il suo discorso. Ha studiato i poeti greci che cita ora a memoria e tiene una predica che, partendo dalla storia e dalla cultura dei suoi destinatari, sfocia nell'annuncio del Vangelo di Cristo morto e risorto. Paolo nel suo discorso parte dal contesto culturale dei suoi uditori, cerca di entrare nella mentalità della gente, nel loro desiderio di trascendenza. E annuncia il Dio ignoto al quale gli ateniesi hanno dedicato per scrupolo un altare. Paolo sottolinea più volte l'importanza della ricerca di Dio, la quale comporta fatica e costanza: è come il cammino di un uomo in un tunnel buio: «perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi» (17,27). Il processo o cammino nella ricerca di Dio è incerto come quello di un cieco che cerca la via d'uscita tastando le pareti, o la verifica di un dubbioso che si accosta alla realtà toccando. La ricerca di Dio si oppone alle false, inutili e vane preoccupazioni degli uomini di «provvedere» a Dio con le proprie mani, essa corrisponde all'iniziativa gratuita ed efficace di Dio, ma anche al giusto rapporto religioso dell'uomo con Dio. Cercare e trovare Dio è un compito difficile ma non impossibile. Filone diceva: «Anche se una chiara visione di Dio come egli è ci è negata, noi non dobbiamo abbandonare la ricerca». E possibile incontrare Dio, sostiene Paolo, perché Dio stesso sta cercando l'uomo con la sua presenza e attività.
    «Dopo esser passato sopra ai tempi dell'ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i tempi di rawedersi» (17,30). Incontrare Dio è possibile a patto che l'uomo –predica Paolo – sia disposto alla metanoia, cioè a cambiare mentalità o ad andare oltre la ragione. Bisogna in un certo senso spogliarsi del proprio modo di pensare, occorre vedere «oltre» le cose, saper andare al di là dell'immediato, del «tutto e subito» per incontrare Dio. Ma è necessario altresì, dice Paolo, avere il coraggio di andare «oltre» la propria ragione, la fede attraversa la ragione e nello stesso tempo la supera. Così la ragione è chiamata a cedere il passo alla fede nel Dio incarnato, nel Crocifisso risuscitato.
    Era una predica ben preparata, i «condimenti» culturali erano stati ben scelti, tutto faceva sperare in un grande successo; invece «quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: Ti sentiremo su questo un'altra volta. Così Paolo uscì da quella riunione» (17,32-33). È un fallimento quasi totale, a Paolo resta la consolazione di alcune conversioni e dell'adesione a lui di due illustri personaggi: Dionigi membro dell'Areòpago e una donna di nome Dàmaris. Fra derisione e adesione, Paolo scende dalla cattedra. Questa esperienza lo segnerà per il resto della sua vita. Scrivendo ai Corinti, infatti, dirà: «Anch'io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1 Cor 2,1-5).

    Non un dialogo ma un monologo

    Cosa non ha funzionato ad Atene? Il discorso all'Areòpago è un esempio da imitare o da non imitare? È certo che Paolo arriva a Corinto depresso e deciso a fare a meno dell'eloquenza, ma il metodo non è del tutto sbagliato, infatti qualcuno si converte. D'altra parte l'esperienza di Paolo era stata anche di Gesù quando, dopo un bel discorso nella sinagoga di Nazareth, i suoi concittadini «lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò» (Lc 4,29-30). Anche Paolo «uscì di mezzo a loro». Luca non fornisce ricette dal successo garantito!
    I filosofi ateniesi avevano una cultura fondata su una certa curiosità superficiale e volubile, non radicata nei problemi reali e profondi della vita. La loro ricerca di Dio non è sincera, si presenta piuttosto come libido della ragione. Il loro passatempo più gradito, infatti, è «dire o ascoltare novità» (17,21). Più che Dio cercano se stessi, e il loro sapere è arrogante e autoreferenziale. Non sono disposti a «convertirsi», non intendono cambiare mentalità e sono prigionieri della loro stessa ragione. «Se c'è un vero desiderio, se l'oggetto del desiderio è veramente la luce, il desiderio della luce produce la luce. C'è un vero desiderio quando c'è sforzo d'attenzione. E si desidera veramente la luce quando non è presente nessun altro movente. Quand'anche gli sforzi dell'attenzione rimanessero in apparenza sterili per anni, vi sarà un giorno in cui la luce, esattamente proporzionale a quegli sforzi, inonderà l'anima» (Simone Weil). Ma per i filosofi di Atene è troppo difficile!
    D'altra parte, quando Paolo passa dall'agorà all'Areòpago, il dialogo scade in monologo ed egli sperimenta – nonostante il suo brillante e ben articolato discorso – il fallimento dell'annuncio. All'Areòpago Paolo sale in cattedra, è al centro dell'attenzione, ma le sue parole non incontrano le attese della gente e gli intellettuali – ubriachi di novità – non incontrano Dio nelle parole di Paolo. Non nell'Areòpago, ma nell'agorà, nell'ordinarietà della vita il cristiano deve sapersi porre per «dialogare», senza pretesa di indottrinamento ma senza paura di «dire la fede».
    Paolo ha sbagliato quando, dinanzi alla babele religiosa e culturale di Atene, perde la lucidità e la serenità interiore. Luca scrive: «fremeva il suo spirito in lui» (17,16). Un giorno, scrivendo ai cristiani di Corinto, Paolo dirà: «La carità non si adira», come a dire che l'amore vero rende sereno il cuore. All'Areòpago Paolo non ascolta più, la sua predica pur bella è un fiume di parole che soffocano la Parola. In questa circostanza Paolo non è un testimone ma un maestro. Da questa esperienza però capirà che per annunciare e testimoniare il Vangelo non è necessario occupare gli «areòpaghi della cultura»: è la piazza, quale crocevia delle storie e delle culture delle donne e degli uomini lo spazio in cui il cristiano deve imparare a vivere. È lì, nel cuore delle città, dove si svolge e si decide il destino economico e politico della società, che la comunità cristiana deve dialogare, cogliendo le attese e le speranze della gente. Lungi dalla logica del successo e della crociata della verità, la comunità ecclesiale deve accettare di essere fra i «passanti» della scena sociale e politica, pronta a imparare, ascoltare, capire le culture e a incarnare il dialogo come metodo di evangelizzazione.
    Gli educatori devono educarsi ed educare i giovani alla lucidità interiore, a quell'agape che non si adira, che sa ascoltare, cercare, cogliere il valore delle culture pur nella loro complessità e frammentarietà. È loro compito formare i giovani a saper stare con coraggio nell'agorà più che pretendere di salire all'areòpago, a saper entrare nel cuore delle istituzioni sia ecclesiali che civili senza paura né timidezza, ma con franchezza e umiltà, capaci di elaborare e proporre idee, di affrontare le questioni, di vivere e testimoniare il Vangelo nell'ordinarietà della vita, di cercare nuovi e idonei linguaggi perché la comunicazione della fede sia comprensibile dai loro contemporanei.


    IL TESTAMENTO DELL'EDUCATORE
    (At 20,17-38)

    Un testamento spirituale

    «Da Mileto mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case» (20,17- 20) . Siamo quasi al termine dell'esperienza di evangelizzazione di Paolo; volgendo lo sguardo al passato, l'apostolo comunica agli anziani di Efeso il suo testamento spirituale, che ci aiuta a comprendere lo stile del responsabile nella comunità. Il discorso di Paolo, diversamente dal solito, è impostato sul rapporto io-voi; è una comunicazione confidenziale e pastorale che testimonia lo stile del rapporto che questo grande educatore ha avuto con coloro che per tre anni ha guidato nella via di Dio. Qui scorgiamo le cose che a Paolo sono sembrate importanti, quelle che più hanno caratterizzato la sua azione verso la comunità.

    Uno con la comunità

    Con le parole introduttive del discorso, Paolo abbraccia in sintesi il suo ministero di circa tre anni ad Efeso, con una espressione che rimanda immediatamente agli uditori: «Voi sapete come mi sono comportato...». Non ha bisogno di parlare prima di tutto di se stesso e rinvia all'esperienza che altri hanno fatto con lui. Paolo si sente «uno» con la sua comunità, si sente conosciuto, familiare. Egli ha vissuto la sua responsabilità educativa non con distacco, né dalla cattedra, ma partecipando pienamente alla vita della comunità e dei singoli credenti. Paolo, perciò, è uno che la comunità conosce, di cui sa tutto e può renderne testimonianza. Quello di Paolo è un ministero fondato sull'essere con, sul comunicare, sul convivere. Paolo sa benissimo che guardano a lui come ad un esempio e sente perfettamente la responsabilità, non soltanto delle parole che ha detto ma di ciò che ha fatto: «Voi sapete come mi sono comportato». La gente ha guardato a ciò che lui era, a come viveva, prima ancora di giudicare se le sue parole erano interessanti, belle, vere, pratiche. Come si è dunque comportato Paolo? Come deve comportarsi un buon educatore?

    Servitore del Signore

    «Ho servito il Signore»: è la prima realtà. Paolo si vede, e gli altri ne hanno fatto esperienza, come un servitore di Cristo. Prima di essere servo della comunità, l'educatore è servo di Cristo. Se uno è veramente servo di Cristo, può servire la chiesa e la comunità. D'altra parte la comunità sa benissimo che Paolo non è lì per piacere, per accontentare, per rispondere alle attese, ma è lì per servire Cristo.
    «Tra le lacrime e tra le prove»: Paolo sa che quello di Mileto è un discorso di addio, perché ciò che lo attende è la persecuzione e la sofferenza. Ma anche guardando la sua vita passata e il suo modo di servire Cristo e la comunità, Paolo non può fare a meno di comunicare che quel servizio non gli ha risparmiato né lacrime, né prove, né difficoltà. «Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi» (20,31): sono lacrime versate nello sforzo affettuoso, amoroso e insistente, di convincere e aiutare qualcuno. Scrivendo ai Corinti Paolo dice: «Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e col cuore angosciato, fra molte lacrime, però non per rattristarvi, ma per farvi conoscere l'affetto immenso che ho per voi» (2 Cor 2,4). Quella delle lacrime, per Paolo, è un'esperienza limite. Egli non era un uomo dal pianto facile, eppure si trovava in situazioni di tale tensione, di tali violente difficoltà, di tali amarezze e delusioni, da scoppiare in pianto sia parlando con la gente, sia scrivendo.
    Ecco l'intensità emotiva del responsabile: egli non è un funzionario, un burocrate, un programmatore, ma uno che sa partecipare e vivere intensamente le gioie e i dolori del suo ministero educativo. Chi ama molto soffre molto e gode molto; chi ama poco soffre poco e gioisce poco! Paolo si lascia coinvolgere in ciò che fa anche con la sua emotività. Ama moltissimo la gente e non con amore generico: ha presenti i nomi, le situazioni personali, di famiglia, di lavoro, di malattia. Uno per uno quei cristiani gli stanno davanti, conosciuti; uno per uno sono fonte di amarezza, tristezza, lacrime, ma anche di gioia intensa.

    Umiltà e trasparenza

    «Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12,16): l'atteggiamento umile è quello di chi non si gonfia e non si illude di se stesso. Paolo vive questa umiltà nei suoi tre aspetti: comunitario, personale, spirituale.
    Dal punto di vista comunitario, l'umiltà è assenza di pretese, è attenzione agli altri. Alla comunità di Tessalonica infatti egli scrive: «E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri... Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1 Ts 2,6-8). L'umiltà è comunione senza pretese, colma di affetto, di attenzione, di amorevolezza. L'umiltà comporta anche educazione profonda, finezza che conquista il cuore perché non è semplicemente modo esteriore di agire. I cristiani di Paolo erano in gran parte schiavi, abituati ad essere maltrattati, presi in giro, disprezzati, trascurati e possiamo immaginare cosa volesse dire per loro sentirsi rispettati e sinceramente amati.
    Dal punto di vista personale, l'umiltà è la capacità di valutarsi giustamente e secondo ciò che le nostre debolezze e fragilità ci fanno comprendere. Anche di questo scrive Paolo: «Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (1 Cor 15,8-9). L'umiltà personale viene da una storia vissuta, è frutto della scuola di prove ed esperienze della propria debolezza, che ci mettono al posto giusto e ci liberano da ogni presunzione. È doloroso vedere come a volte passiamo per queste prove senza saperle vivere. Paolo ha saputo accogliere dal dolore del suo ministero quella umiltà vissuta che poi ha espresso nella sua vita.
    Dal punto di vista spirituale, l'umiltà si manifesta come esperienza di profonda verità davanti a Dio: «Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l'avessi ricevuto?» (1 Cor 4,7). Al fondo dell'atteggiamento di umiltà sta un senso profondo di Dio creatore e Signore misericordioso. Di fronte a Lui Paolo è un povero peccatore che riceve grazia, misericordia, salvezza. Questa umiltà è trasparenza del divino che vive in lui, è trasparenza di Cristo servo di Yhwh, di Cristo umile, umiliato, che non ha scelto di primeggiare, di buttarsi dal pinnacolo del tempio per fare scalpore, di cambiare le pietre in pane, di dominare sui regni della terra; ma ha scelto di essere servo di tutti. Cristo ha servito con tutta umiltà e il suo servo Paolo sceglie la sua stessa via esercitando l'autorità con l'umiltà, la mansuetudine e la mitezza del Maestro.

    La maturità dell'educatore

    «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18): Paolo afferma di essere trasformato ad immagine di Gesù acquistando la luminosità di Cristo. Questa trasformazione è in Paolo il risultato di un lungo cammino di prova, di sofferenza, di preghiere incessanti, di confidenza rinnovata. Questa maturità dell'educatore nasce da alcuni atteggiamenti interiori: la gioia, la gratitudine, il coraggio, la libertà.
    «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7,4). Paolo sa di aver ricevuto questa gioia come dono da Dio; non è frutto di buon carattere, non è dote umana. «Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2 Cor 4,8-10). L'educatore non sempre vive in una situazione di tranquillità e successo, ma non per questo deve spegnere la sua gioia interiore. La vera gioia deve saper fare i conti con tutti i tipi di pesantezze, di difficoltà, di malintesi, di fallimenti... La gioia vera si comunica da sé, non è un fatto privato. Paolo, infatti, vive nella gioia per quello che succede intorno a lui, per gli amici che segue con paterna responsabilità. Scrivendo ai Filippesi Paolo definisce la comunità «Mia gioia e mia corona» (Fil 4,1), anche se questa non era certamente una comunità perfetta; anzi, proprio dalla Lettera sappiamo che Paolo deve scongiurare quei cristiani, quasi in ginocchio, di non litigare, di non dividersi. Questo vuol dire che c'erano rivalità e vanagloria, che quella non era una comunità «facile» perché gli creava problemi e molestie. Eppure Paolo riesce a considerarla come la sua gioia, perché la guarda con una visuale di fede che va al di là delle cose piccine!
    Tutte le lettere di Paolo cominciano con una preghiera di ringraziamento. Paolo sa ringraziare e le sue parole non sono un formulario vuoto, ma esprimono ciò che sente! In Paolo non troviamo mai la deplorazione sterile. C'è il rimprovero, non la rassegnata amarezza. Paolo ha la capacità di vedere innanzitutto il bene! Gli occhi della fede gli permettono di vedere che un briciolo di fede dei suoi poveri pagani convertiti è un dono talmente immenso da fargli lodare Dio senza fine. Il responsabile maturo ha la capacità di riconoscere il bene che c'è intorno e di esprimerlo con semplicità.
    «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (Ef 1,3): la preghiera di Paolo è prima di tutto una lode; così può valorizzare anche i suoi momenti oscuri. Il cristiano, e l'educatore in particolare, è spesso tentato di cadere nella tristezza, che è la caratteristica dell'uomo che vive nella chiusura delle prospettive di fede. Paolo invece reagisce con la fede, la preghiera, la lode. Per questo ogni prova, ogni difficoltà gli danno più grinta, più coraggio nell'andare avanti. Tutta la vita di Paolo è segnata da questo impegno ad andare contro corrente, a non cedere: predica a Damasco e deve fuggire; va a Gerusalemme, predica ma poi lo fanno partire; a Tarso rimane finché la Provvidenza non lo richiama. Quando lo richiama, dimenticati i sentimenti passati, riparte; predica ad Antiochia di Pisidia, viene cacciato e va ad Iconio. Ad Iconio minacciano un attentato contro di lui, tentano di lapidarlo e va a Listra, dove lo prendono a sassate (At 14,19-21). Da Atene esce umiliato, preso in giro dai filosofi, eppure va a Corinto e ricomincia anche se ha l'animo pieno di timori. Questo coraggio non è umano: un uomo, dopo alcuni tentativi falliti, umanamente resta fiaccato. In Paolo questa lotta controcorrente nasce da quella «carità che non si stanca mai» (1 Cor 13,7) cioè dall'amore di Dio: «La carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato» (Rom 5,5). Il suo modo di agire è un dono dall'alto, il quale fa sì che la delusione non sia mai definitiva. «Siamo addirittura orgogliosi delle nostre sofferenze» (Rom 5,3) perché «la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rom 5,3-4).
    Paolo agisce così perché è ricco dentro. È libero da ogni giudizio o opinione corrente: è molto difficile perseverare isolati di fronte ad una mentalità comune, ad una cultura avversa. Paolo lo fa con estrema libertà, senza vittimismi, perché la ricchezza che sente dentro non è paragonabile all'opinione altrui. Questa sua forza gli permette, ad un certo punto, di opporsi addirittura a Pietro. E un caso limite di libertà. Una libertà che non è arbitrio o presunzione, ma senso di assoluta e totale appartenenza a Cristo, come un servo al suo Signore. In questa luce la libertà diventa una forma rigorosissima di servizio: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù... Voi fratelli siete stati chiamati alla libertà...» (Gal 5,1.13). L'assolutezza del servizio di Cristo rende l'uomo libero al punto da non temere di farsi servo del fratello. Solo da una grande libertà interiore può scaturire la gioia di un servizio umilissimo.


    T e r z a
    p a g i n A


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