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    Vivere in comunità... (Terza parte di: La brezza di Dio)


    Mario Russotto, LA BREZZA DI DIO. Meditazioni bibliche per educatori e catechisti, Elledici 1998


     

    INIZIA UNA NUOVA STORIA
    (At 1,3-11)

    Con una espressione un po' ardita possiamo dire che per Luca non può esistere la comunità cristiana finché Gesù è fisicamente presente. La comunità, infatti, trova la sua funzione nel testimoniare Cristo a chi non l'ha visto, nel trasmettere un'esperienza a chi non può farla direttamente. L'Ascensione, pertanto, costituisce una svolta tra la testimonianza di Gesù nei confronti del Padre e quella della comunità nei confronti di Gesù. Si tratta di una comunità relativa a Gesù, quasi un suo prolungamento.
    I primi versetti del libro degli Atti ci presentano già i personaggi della storia: Gesù, lo Spirito, gli apostoli... riuniti in comunità assieme a Maria e ad alcune donne...

    L'ultima riunione e la promessa dello Spirito

    Il testo di At 1,3-8 è strettamente collegato alla finale del vangelo secondo Luca e ne costituisce lo sviluppo: si parla dell'universale missione conferita ai discepoli (Lc 24,46-47; At 1,8) sulla linea del terzo canto del Servo di Yhwh (Is 49,6). Tale missione si realizza attraverso la testimonianza apostolica (Lc 24,48; At 1,8), resa possibile dall'imminente invio dello Spirito che, definito promessa del Padre (Lc 24,49; At 12,4) concentra e riassume tutti i doni divini.
    La comunità ecclesiale trova il suo fondamento e la sua ragione di esistere nella risurrezione di Cristo, di cui Luca nel vangelo aveva raccontato alcuni episodi (Lc 24,13ss) quali prove inoppugnabili che Gesù vive ed è il Vivente. La prova fondamentale consiste nell'apparire per 40 giorni e nel parlare del regno di Dio. Il numero 40 va preso in senso teologico in riferimento anche alla cultura del tempo: è un «tempo sacro» caratterizzato da manifestazioni divine importanti. Tali manifestazioni caratterizzano la storia stessa di Israele: diluvio: Gn 7,4.12.17; 8,6; permanenza del popolo nel deserto: Es 16,35; permanenza contemplativa di Mosè sul Sinai: Es 24,18; 34,28; missione degli esploratori nella terra promessa: Nm 13,25; 14,34; durata del cammino di Elia verso il monte Oreb: 1 Re 19,8; permanenza di Gesù nel deserto: Lc 4,2. Questo numero simbolico rappresenta anche il tempo necessario perché un rabbino possa impartire un insegnamento completo e autorevole. Nel nostro testo il numero 40 separa il tempo di Gesù dal tempo della Chiesa. La finalità di questo tempo sacro è di approfondire la natura del regno di Dio, inteso come intervento salvifico definitivo di Dio nella storia.
    «Mentre si trovava a tavola insieme con essi... Così venutisi a trovare insieme gli domandarono... » (1,4.6). Gli ultimi momenti della presenza fisica di Gesù includono dunque un pasto e una riunione finale sul monte degli Ulivi, in perfetta simmetria con il vangelo secondo Luca che parla di un pasto assieme ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-32) e della riunione con gli undici (Lc 24,36-53).

    Il racconto dell'Ascensione

    «Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo» (1,9). Il racconto dell'Ascensione del Signore, che apre il libro degli Atti degli Apostoli, intende porre alla riflessione dei credenti la fine della presenza visibile del Cristo nel nostro mondo, la sua glorificazione presso il Padre, il modo «nuovo» della sua presenza nel mondo: Gesù scompare per essere più presente, «accompagnandosi» agli uomini tramite la missione e la testimonianza della Chiesa.
    Nel racconto colpisce l'insistenza su elementi visivi: guardare, sottrarre agli occhi, nube, movimento ascensionale controllabile con lo sguardo: «Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava» (1,10). Confrontato con Lc 24,51-53, il nostro testo presenta delle differenze: al gesto di Gesù (la benedizione) viene sostituita una sua parola (mi sarete testimoni ovunque); nel vangelo l'episodio è collocato nello stesso giorno di Pasqua, gli Atti indicano uno spazio di 40 giorni; nel vangelo l'atteggiamento degli apostoli si condensa in un positivo e lodevole atto di adorazione, seguito da un gioioso ritorno alla vita quotidiana nella lode e benedizione di Dio, negli Atti si conclude in un insistente, inutile e biasimevole guardare verso il cielo. Anche il luogo è diverso: nel vangelo è «verso Betania», negli Atti sul monte degli Ulivi. La diversità fa concludere che non siamo davanti alla descrizione di un fatto, poiché Luca non trova difficoltà a giustapporre i due racconti, ma all'interpretazione diversa della cessazione della presenza fisica di Gesù in questo mondo e alla contemporanea sua esaltazione gloriosa presso il Padre.
    Nel vangelo il distacco di Gesù è visto come ovvio, invita a riprendere la vita ordinaria da viversi con gioia e gratitudine a Dio, sorretti da una sicura anche se misteriosa presenza di Gesù. Negli Atti è sottolineato il distacco come fonte di smarrimento, come necessità di superare un ozioso guardare al cielo. L'Ascensione segna dunque l'entrata dell'umano nel divino, il riconoscimento della responsabilità profetica che Cristo affida agli Apostoli e, per mezzo loro, a tutti i cristiani in ogni parte del mondo in cui essi vivono e operano.

    La terra in cielo?

    «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto al cielo, tornerà un giorno...» (At 1,11).
    Due i «tipi» di tentazione a cui il travaglio di una storia a volte sghemba e di difficile interpretazione ha sottoposto i cristiani. La tentazione della fuga con il conseguente rifugio in un misticismo appagante e gaudente che fa della «religione l'oppio dei popoli». La contrapposizione, dunque, tra cielo e terra, spirito e materia, contemplazione e azione; la fede come fuga dalla fatica del pensare, l'eternità dal tempo, il futuro dal presente. L'altro tipo di tentazione è esattamente l'opposto: l'esaltazione spasmodica delle realtà intramondane, il mondo come inizio e fine, la ragione come dea, il presente luogo in cui consumare tutta la propria felicità perché «di doman non v'è certezza».
    Nel Crocifisso Risorto, invece, cielo e terra si incontrano e se l'uno è la meta verso la quale tendere, l'altra è il teatro di una storia di gioia che marcia in direzione di Cristo; è il luogo dell'avventura della «fede che ama la terra», terreno in cui spendere la speranza e «rischiare» l'eternità. Ma il cielo, cos'è? Non è uno spazio al di là delle stelle; è mistero grande e audace: significa avere un posto in Dio! Il cielo non è uno spazio, ma una persona, anzi è il mistero tripersonale di Dio indissolubilmente unito all'uomo per l'eternità. E noi possiamo «penetrare nel cielo» nella misura in cui ci avviciniamo a Gesù Cristo e «rimaniamo» in Lui. L'ascensione, allora, è un evento che si realizza ogni giorno in mezzo a noi.

    La compagnia del Crocifisso

    La grandezza di Gesù, Signore dell'universo, non si deve intendere in contrapposizione con l'immagine del Sofferente. È infatti motivo di speranza per i credenti il fatto che l'Umile, il Povero e Abbandonato, Colui che ha offerto se stesso in sacrificio per gli altri, sia ritornato vittorioso nel «grembo della Trinità» e siede alla destra del Padre. Se l'ascensione rappresenta per Gesù il completamento della sua missione terrena, la sua esaltazione a Signore dell'universo e il suo ingresso nella gloria (cf Ef 1,20-23), non bisogna dimenticare quanto afferma l'inno della Lettera ai Filippesi: «Cristo Gesù... spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo... umiliò se stesso... fino alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato» (2,6-11).
    La theologia glorice non può prescindere dalla theologia crucis. Una comunità ecclesiale che si rivolgesse al mondo allontanandosi dalla Croce annuncerebbe se stessa e non il suo Signore, portando non al proprio continuo rinnovamento ma alla propria fine. Il cammino della Chiesa nella storia non deve mai rimuovere lo scandalo della Croce, deve anzi saperlo mostrare e annunciare in tutta la sua nudità. E se per Cristo l'ascensione è un traguardo raggiunto, per noi è ancora un cammino da fare, un continuo cammino verso Dio che attuiamo nell'incontro e nella disponibilità per i fratelli: è la stessa strada percorsa da Cristo.
    L'ascensione di Gesù tuttavia non è una conclusione, né un definitivo addio di Cristo al mondo, ma un vittorioso «arrivederci in cielo» e il dono di una «divina compagnia nello Spirito». Cristo non possiamo toccarlo con mano né vedere con gli occhi come potevano fare i discepoli prima dell'Ascensione. Solo nella fede siamo consapevoli della sua vicinanza. Noi viviamo, in un certo modo, nel segno della nube, del chiaroscuro: il Crocifisso glorificato è vicino e lontano a un tempo, Egli vive e agisce in mezzo a noi e in noi, e pur tuttavia è nascosto. È come la luce: ne avverti la luminosità e ne senti il calore, ma non puoi afferrarla con le mani. Cristo va cercato, mai posseduto né conquistato per sempre: Egli è il Signore!
    «Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati...» (Ef 1,18): la speranza del cristiano non è il frutto di un poderoso sforzo di volontà, ma proviene da Colui che è uscito da Dio ed è risorto da morte e come tale dichiara in tutti i luoghi e in ogni tempo: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Alla Chiesa e a tutti i credenti spetta il compito di intonare nella storia l'alleluia pasquale che ci consola lungo il cammino!


    LA PRIMA RIUNIONE DELLA COMUNITÀ
    (At 1,12-14)

    Il monte della croce e della gloria

    «Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi... Entrati in città salirono al piano superiore dove abitavano» (1,12-13). Dopo l'Ascensione di Gesù la comunità ritorna nella vita ordinaria dimostrando di aver compreso pienamente il significato dell'Ascensione stessa e, d'altra parte, anticipa quello che diverrà dopo la discesa dello Spirito Santo. Solo ora Luca ci dà la notizia del luogo dell'Ascensione: il monte detto degli Ulivi, nei pressi del Getsemani. La menzione di questo monte è molto evocativa, perché secondo il profeta Ezechiele la «gloria del Signore», uscendo da Gerusalemme distrutta dal moltiplicarsi dei peccati, si posa proprio su questo monte: «Dal centro della città la gloria del Signore si alzò e andò a fermarsi sul monte che è ad oriente della città» (Ez 11,23).
    Inoltre, secondo il profeta Zaccaria alla fine dei tempi i piedi del Signore si poseranno su questo monte: «Il quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente» (Zc 14,4). Dal monte degli Ulivi Gesù invia i suoi discepoli a prendere il puledro per il solenne ingresso in città (Lc 19,29), dal monte predice la distruzione di Gerusalemme (Mc 13,2-3), lì soffre l'agonia prima di essere arrestato (Lc 22,38-46). Il monte è pertanto il luogo di partenza sia per la croce che per la gloria del cielo: due realtà che nel vangelo secondo Giovanni si identificano.

    Le donne della comunità

    Di ritorno dal monte, gli apostoli si riuniscono in città. La prima comunità comprende anche le donne, non soltanto le spose degli apostoli, come intende una variante del codice occidentale che parla di «mogli e figli», ma anche quelle discepole delle quali Luca fa menzione nel vangelo (Lc 8,2-3; 23,27-31.49.55; 24,1-10). L'evangelista nota compiaciuto la presenza delle donne sia nella vita di Gesù che in quella della Chiesa. Si tratta appena di accenni, ma rivelano un tipo di femminilità aperta a Dio, che trova piena cittadinanza nella Chiesa, brillante per intuizione, attiva e rispettosa, mai invadente.
    In tutta l'opera lucana tante sono le donne che vengono poste in primo piano. Basti pensare ad Elisabetta (giusta e irreprensibile: Lc 1,5-6), Anna (la vedova che vive nella preghiera e nel digiuno e riconosce il Cristo nel bambino Gesù: Lc 2,36-38), la suocera di Pietro (guarita dalla malattia e pronta al servizio: Lc 4,38-39), la vedova di Nain (a cui Gesù risuscita il figlio morto: Lc 7,11-15), la peccatrice (ridotta a merce da comprare e restituita alla speranza da Gesù: Lc 7,36-50), le donne al seguito di Gesù (che mettono i loro beni a disposizione del Maestro: Lc 8,1-30), l' emorroissa e la figlia di Giairo (che «toccano» Gesù e «obbediscono» alla sua voce: Lc 8,40-55), le due sorelle di Betania (nella cui casa Gesù trovava momenti di riposo e di ospitalità), Tabità (che con la sua premurosa attenzione ai poveri si era conquistato il cuore di tutti: At 9,38-48), la giovane Rode (la prima ad intuire che Dio era intervenuto con un gesto miracoloso a liberare dal carcere Pietro: At 12,12-13), Lidia (che trasforma la sua casa in una chiesa: At 16,15), i coniugi Aquila e Priscilla che aiutavano Paolo nell'opera di evangelizzazione.
    Questi accenni su un ruolo attivo della donna, rivoluzionario per quei tempi e base per un rapporto di pari dignità con l'uomo valido per tutti i tempi, devono essere tenuti presenti per comprendere la sintetica affermazione di Luca: «con gli apostoli, assidue e concordi nella preghiera c'erano anche le donne» (At 1,14). Spicca giustamente la figura di Maria, designata con il suo titolo più nobile: la Madre di Gesù. È da lei che ha origine il Gesù storico, è con lei che ha inizio il «Cristo mistico», cioè la Chiesa: nessuna comunità può nascere e svilupparsi senza Maria.

    L'unità dei cuori

    «Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera» (1,14): la comunità realizza l'unità dei cuori, si riunisce frequentemente per la lode e la benedizione di Dio nel tempio (Lc 24,53), in attesa dello Spirito (At 2,2). Sono queste le condizioni perché una preghiera sia ascoltata. Dio non potrà mai esaudire le invocazioni di una comunità divisa da rancori e rivalità. «Se due di voi sopra la terra si metteranno d'accordo per chiedere qualsiasi cosa, il Padre mio celeste la concederà» (Mt 18,19). La comunità mette ora pienamente in pratica questo chiaro insegnamento di Gesù. Luca però negli Atti usa una espressione più forte rispetto a questa di Matteo: non si tratta di comunione come armonia di voci, ma di identità di cuori. Si tratta di un anticipo di quello che in seguito Luca dirà sulla comunità, che è «un cuor solo e un'anima sola».
    Se l'unità dei cuori è la condizione principale della comunione, non può essere trascurata però la frequenza nella preghiera. Sul comando di Gesù (Lc 11,9-13) e sull'esempio stesso di Gesù (Mt 14,23), la comunità prega in occasioni importanti: quando devono essere eletti i responsabili (At 1,24; 6,6; 13,3; 14,23) , in tempi difficili (At 4,24-31; 12,5.12), per ottenere un intervento divino miracoloso (At 9,40; 28,8), per attenuare le conseguenze di una dolorosa separazione (At 20,36; 21,5), per lodare, ringraziare, chiedere perdono dei peccati. In particolare Luca raccomanda la preghiera comunitaria insistendovi per ben 25 volte. Anche il luogo ha la sua importanza: la sala superiore, forse la stessa dell'ultima cena (Lc 22,8), oppure la casa di Giovanni Marco dove si riunivano i primi discepoli a pregare in segreto (Mt 6,6).


    IL DONO DELLO SPIRITO
    (At 2,1-13)

    La formazione della Chiesa

    Luca prepara la nascita e la formazione della Chiesa con il suo vangelo e con il cap. 1 degli Atti degli Apostoli. La Chiesa non nasce all'improvviso, quasi per incanto, ma dopo un lungo processo di preparazione, che nella persona e nell'attività di Gesù prima e in quella dello Spirito Santo poi raggiunge il suo culmine.
    Luca lega la nascita della Chiesa con l'inizio del ministero pubblico di Gesù. Gesù comincia la sua attività dopo il Battesimo nell'acqua e nello Spirito (Lc 3,21-22) e con il discorso tenuto nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,1ss). La Chiesa comincia la sua missione dopo il Battesimo nello Spirito e nel fuoco (At 2,1-4) e con il discorso di Pietro a Gerusalemme (At 2,14ss). Tra i due inizi non c'è soltanto identità formale, ma anche somiglianza di contenuto: il discorso nella sinagoga di Nazareth è il messaggio programmatico dell'attività di Gesù. È come se Gesù, prima di iniziare la sua missione ne spiegasse il contenuto e lo stile. Il discorso di Pietro a Gerusalemme è il manifesto programmatico della missione della Chiesa. Nel discorso tenuto a Nazareth Gesù, pur rivolgendosi ai Giudei, annuncia alla fine una prospettiva di salvezza universale. Nel discorso di Pentecoste Pietro, pur parlando a tutta la «casa di Israele», chiude il discorso con una prospettiva universalistica della salvezza. Da tutto ciò si vede come la Chiesa non è altro che il prolungamento, il sacramento di Cristo nella storia.
    «Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire si trovavano tutti insieme nello stesso luogo...» (At 2,1). Tutti insieme: in greco l'espressione indica una comunione affettiva delle persone. La Chiesa che sta nascendo si presenta già come una comunità dove non ci sono più rivalità fra quegli stessi Apostoli che prima litigavano per i primi posti, non c'è gelosia né invidia; è una comunità dove si respira l'amore reciproco e la comunione di affetto.
    «Venne all'improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano» (2,2). Luca intende qui ricordare il Battesimo di Gesù: «E scese su di Lui lo Spirito Santo in apparenza corporea come di colomba e ci fu una voce dal cielo» (Lc 3,22). Nel giorno del Battesimo era il Cristo nel suo corpo «fisico» che veniva investito dallo Spirito Santo; nel giorno di Pentecoste è la Chiesa corpo «mistico» di Cristo ad essere investita dallo Spirito Santo! Luca vuole anche richiamare la potente manifestazione di Dio sul monte Sinai in occasione dell'Alleanza con Israele attraverso il dono dei «Dieci Comandamenti» (Es 19,18). In quell'occasione Israele da tante tribù divenne una sola famiglia, un solo popolo; anche se proprio quella teofania aveva scatenato la paura nel popolo a causa del terremoto. Nella Pentecoste lo Spirito Santo di tanti uomini diversi fra loro fa una sola famiglia: la Chiesa. Questa volta nessuno ha paura e tutti godono della presenza del loro Signore.
    «Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro» (2,3). «Si dividevano»: il verbo usato da Luca è rarissimo nella Bibbia, si trova soltanto in Dt 32,8, in cui si descrive la divisione dei popoli in seguito all'episodio della torre di Babele. In quella circostanza i popoli si dispersero e ognuno parlava una lingua incomprensibile agli altri. La Pentecoste cristiana è invece il contrario, è l'anti-Babele: dalla dispersione alla riunione, da lingue diverse a una lingua che tutti intendono! La Chiesa così si presenta come una comunità unita, i cui membri si sforzano di vivere la comprensione reciproca; una comunità che parla una sola lingua: quella dell'amore; che ha una sola parola: l'affetto e l'amicizia che proviene dal Signore.

    La forza che viene da Dio

    Per Luca il disegno salvifico di Dio culmina non nella Passione ed esaltazione di Cristo, ma nella effusione dello Spirito Santo. Egli comincia il racconto della Pentecoste con una espressione che ha una notevole carica teologica: «si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2,1). Anche il disegno che Dio ha su ciascuno di noi non culmina nella croce, ma nella comunione della comunità.
    Lo Spirito Santo si manifesta alla Chiesa nascente sotto forma di fuoco e trasforma questi uomini paurosi e fragili in apostoli; li consacra facendoli annunciatori di Cristo. Il fuoco trasforma ogni cosa in fuoco o in qualcosa di diverso da ciò che era prima. Se noi lasciamo che il fuoco dello Spirito penetri in noi e nelle nostre comunità, Egli ci trasformerà! La Pentecoste con il dono dello Spirito segna l'immersione nella storia umana di una forza che viene da Dio. Lo Spirito non è una forza immanente nella storia, ma è una forza che scende dall'Alto (Lc 24,49), dal mondo di Dio ed entra nella storia umana per vivificarla. Lo Spirito è una realtà che gli uomini ricevono come dono. Forza di Dio data in dono agli uomini, lo Spirito diventa realtà esperienziale nella vita della Chiesa. Lo Spirito si presenta così come dono, esperienza, testimonianza, amore ricevuto e donato. Il giorno di Pentecoste dà origine alla comunità degli ultimi giorni, e la vita del credente deve essere segno e anticipo di ciò che saremo, segno storico del Regno dei Cieli.
    Gli Ebrei avevano collegato la festa della Pentecoste con il rinnovamento dell'alleanza sinaitica e Luca ha voluto presentare l'effusione dello Spirito a Pentecoste come l'antitipo della pentecoste ebraica. Il dono dell'alleanza sinaitica era la Legge; il dono dell'alleanza cristiana è lo Spirito. Come Mosè, salito sul monte, aveva ricevuto da Dio la Legge, così Cristo esaltato alla destra di Dio ha ricevuto dal Padre lo Spirito che ha effuso nella Chiesa. Come la Legge era principio di unità del popolo di Israele nato dopo l'esperienza del Sinai, così lo Spirito è principio di unità del popolo cristiano nato dopo l'esperienza della Pentecoste.
    Lo Spirito è la nuova Legge del cristiano (Rm 8,2) ed appare come principio di unità della comunità.

    Una comunità missionaria e profetica

    Per Luca l'anima di tutta l'azione missionaria della Chiesa è lo Spirito Santo; il successo missionario dei predicatori del Vangelo come l'iniziativa e il contenuto dell'annuncio è opera dello Spirito: «pieni di Spirito Santo cominciarono a parlare come lo Spirito dava loro di esprimersi» (At 2,4). Nell'ambito della comunità lo Spirito agisce nella persona di Pietro (At 2,14) e degli altri apostoli (At 2,4; 4,8) ai quali dona non soltanto la capacità di comprendere, proclamare e testimoniare Gesù, ma infonde la forza, il coraggio, la libertà di parola per superare tutte le difficoltà che si oppongono a tale annuncio (At 4,13.19.29).
    La fede deve esprimersi. Una fede che non diventa parola non è fede, come un uomo che non «parla» non è uomo. È attraverso il linguaggio che l'uomo si costituisce come soggetto; è attraverso il linguaggio di fede che il credente si costituisce come credente. Chi fa parlare il credente è lo Spirito Santo!
    La Pentecoste è anche il momento della piena conversione degli apostoli, perché lo Spirito Santo fa conoscere loro «la verità tutta intera» (Gv 16,13), cioè fa loro scoprire la realtà profonda del Cristo. Ora non sono più duri di cuore, la loro fede si fa luminosa: capiscono e accettano Gesù in pienezza. Hanno attraversato momenti di delusione, di stanchezza, di debolezza. Ma ora è venuto lo Spirito Santo a renderli forti. Hanno scoperto che Dio è il loro sostegno, la solida roccia a cui ancorarsi. Non hanno più paura. Prima della Pentecoste non possedevano questa forza, anzi erano molto deboli. La notte di agonia di Gesù al Getsemani si erano addormentati. Ma ora la loro debolezza è diventata forza e incrollabile speranza.


    LA VITA DELLA COMUNITÀ
    (At 2,42-47)

    La fede nella quotidianità

    «Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere... Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune... spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore... Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (2,42-47).
    I temi proposti da questo sommario della vita della prima comunità sono: la crescita della comunità (2,47), la comunione dei beni (2,44-45), la dimensione comunitaria della vita di fede (2,44.46.47).
    Luca presenta la vita cristiana e la comunità attraverso la perseveranza nell'insegnamento degli Apostoli, la koinonia (comunione fraterna), la frazione del pane (Eucaristia), la preghiera, la gioia, il fatto stesso di sentirsi comunità. E tutto questo per Luca è frutto dello Spirito Santo presente nella comunità. Negli Atti degli Apostoli lo Spirito non opera soltanto nell'azione missionaria esterna, ma anche nel lavoro di consolidamento all'interno della comunità (cf 9,31; 20,28.32). In particolare, la concordia e l'unità dei cristiani stimolano e preparano la discesa dello Spirito Santo: nel Cenacolo era tutti insieme, in una comunione anche affettiva, riuniti a pregare (1,41; 2,1), ma la comunione e l'unità è anche un prodotto dello Spirito (2,42.44.46; 15,25-28).
    Con questo brano, la narrazione degli Atti degli Apostoli passa dalla descrizione di fatti accaduti una volta (2,1: «Mentre il giorno di Pentecoste...») alla presentazione di una condotta di vita stabile, continua, permanente, quotidiana (2,46: «Ogni giorno...»). Si passa da quell'oggi alla storia attuale, dall'evento della Pentecoste ad una vita vissuta nello spirito della Pentecoste. C'è un giorno in cui ha avuto inizio la nostra avventura e la storia del nostro cammino di fede. Poi però c'è 1' ogni giorno in cui si deve vivere secondo lo spirito che ci investì quel giorno.

    Aspetti caratteristici della vita della comunità

    Con l'espressione insegnamento degli apostoli, Luca intende indicare tutto il contenuto della predicazione del collegio apostolico, dato sotto le diverse forme del servizio della Parola, attraverso cioè il kerigma (primo annuncio del Vangelo), la catechesi, la testimonianza, la profezia. Nella concezione lucana del ministero apostolico la fedeltà e la perseveranza alla dottrina del collegio apostolico garantiscono la continuità tra Gesù e la Chiesa del periodo post-apostolico.
    La koinonia include la messa in comune dei beni, la libera vendita degli stessi per venire incontro ai bisogni dei fratelli più poveri. Tuttavia non si esaurisce in questi aspetti. Indica soprattutto la comunione profonda dei cristiani, alimentata dal possesso del medesimo Spirito e dell'identica fede che si esprime a livello liturgico, spirituale e comunitario.
    La frazione del pane è un'espressione tipica della Chiesa primitiva che allude al memoriale della Cena del Signore. Perché una Comunità possa veramente essere Chiesa deve vivere dell'Eucaristia, consapevole che «Quando tu, cristiano, ti nutri dell'Eucaristia, diventi ciò che mangi!» (Leone Magno). L'Eucaristia cristifica il credente e la comunità. Nutrirsi dell'Eucaristia è lasciarsi trasformare da Essa in rendimento di grazie vivente e quotidiano.
    Le preghiere sono la quarta caratteristica della vita della comunità cristiana. In At 1,14 Luca aveva presentato il gruppo degli apostoli e dei discepoli come perseveranti concordemente nella preghiera, sottolineando così due aspetti: l'assiduità dei primi cristiani nella preghiera e la dimensione comunitaria della preghiera (concordemente perseveranti). È l'unica volta che Luca in questi capitoli parla di preghiere al plurale. Con questo termine probabilmente si intende la preghiera pubblica-liturgica (Liturgia delle Ore). La comunità diventa Chiesa perché si nutre dell'Eucaristia e celebra concordemente e con gioia la Liturgia delle Ore.
    Sentirsi comunità: due volte (2,42.47) Luca utilizza una sua formula caratteristica «tutti insieme», che indica la dimensione comunitaria a livello spirituale profondo. Non c'è un solo momento nella storia del cristianesimo delle origini in cui la vita cristiana appaia come una esperienza religiosa individuale. È nella comunità che si fa esperienza del Vangelo e dell'amicizia; è la comunità tutta che annuncia e testimonia la fede in Gesù crocifisso e risorto, anche se a parlare sono ora l'uno ora l'altro dei suoi componenti.
    La semplicità di cuore: la vita liturgica della comunità, nella sua dimensione pubblica e privata e nei rapporti con Dio e con il popolo, ha il suo perno nel pasto in comune fatto con «esultanza e semplicità di cuore». Si tratta di un sentimento che, unito alla gioia, è caratteristico dei tempi messianici. Il pasto in comune dei primi cristiani è il banchetto della comunità messianica, che vive la salvezza nella gioia della presenza del Signore risorto (Lc 24,41). La semplicità di cuore è un sentimento che regola la vita del credente in rapporto a Dio e agli uomini. Essa esclude gli interessi egoistici (Rm 12,8), l'ipocrisia (Ef 6,5), il plauso degli uomini (Col 3,22). Implica invece una grande sincerità e generosità (2 Cor 8,2; 9,11), soprattutto nella vita di comunione all'interno di una stessa Chiesa o nei rapporti con altre comunità (2 Cor 11,3).

    Quadro ideale o realtà?

    Il quadro della Chiesa delle origini, che Luca ha dipinto in At 2,42-47, esprime senz'altro una situazione reale della Chiesa primitiva. Se c'è stato un periodo della vita della Chiesa in cui l'azione dello Spirito è stata particolarmente forte, questo deve essere stato senz'altro il periodo dell'età apostolica. Tuttavia Luca, oltre che descrivere un quadro ideale della vita della primitiva comunità cristiana, ha inteso soprattutto tracciare un traguardo ideale per i cristiani della seconda generazione, cui egli e la sua comunità appartenevano, e per tutti i cristiani che si sarebbero succeduti nella storia.
    Il quadro idilliaco della vita di comunione dei cristiani è infatti in contrasto con quanto lo stesso libro degli Atti ci dice sulle tensioni che erano presenti nei primi 30 anni della vita della Chiesa (6,1ss; 11,12; 15,1-5; 21,17-25). Per arrivare alla meta bisogna volgere lo sguardo a Gesù: guardare indietro, vedere come eravamo è utile solo se sappiamo proiettarci nel futuro attraverso il cammino dell'impegno e della comunione.


    LE PRIME DIFFICOLTÀ NELLA COMUNITÀ
    (At 4,36-5,11; 6,1)

    La prova nella comunità

    Dopo aver presentato il progetto e il fine della Chiesa, Luca non trascura di narrare le difficoltà e i malumori che serpeggiano all'interno della prima comunità cristiana. Attento a raccontare la verità delle cose e ad allargare lo sguardo nell'orizzonte progettuale della Chiesa, l'evangelista coglie nella comunità colpe, ritardi e distanze dall'ideale proposto e vissuto fino a questo momento.
    La comunità, che viveva in un cuor solo e un'anima sola, scopre con sgomento, sofferenza e umiliazione, di essere lontana dall'ideale che così rapidamente aveva accolto e incarnato. L'esperienza di questa distanza fa cadere la comunità nello sgomento: non ci si spiega come sia potuto accadere; nella sofferenza: la comunità avverte il rischio di perdere la sua identità; nella umiliazione la comunità si scopre misera e diversa da come credeva di essere. Ci occupiamo ora di due particolari episodi che evidenziano questo momento negativo e drammatico della comunità. In questi episodi emergono alcune caratteristiche che in ogni epoca la comunità può con amarezza trovare al suo interno: il calcolo, l'ipocrisia e la mormorazione.

    II calcolo del cristiano ipocrita

    «Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa "figlio dell'esortazione", un levita originario di Cipro, che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l'importo deponendolo ai piedi degli apostoli» (4,36-37).
    Con un gesto di generosità e di donazione totale, Luca presenta un cristiano autentico, colui che diverrà una delle colonne della comunità e dell'opera di evangelizzazione: Barnaba, che vuol dire colui che consola. Barnaba sarà, in un certo senso, anche il padre spirituale di Paolo, lo introdurrà nella comunità cristiana ed entrambi saranno scelti dallo Spirito come compagni nella non facile missione dell'annuncio del Vangelo ai pagani.
    Luca riporta compiaciuto questo scorcio di vita comunitaria proprio per farci vedere, nella generosità e nell'autenticità di un cristiano che ha deciso di vivere con serietà e radicalità la sua fede, un momento di gioia e di «consolazione» della comunità. È bello vedere come lo Spirito Santo nei momenti difficili dia conforto alla comunità. La testimonianza sincera ed entusiastica di Barnaba è di grande esempio: altri cristiani colpiti dalla sua generosità cercano così di imitarlo.
    «Un uomo di nome Anania, con la moglie Saffìra, vendette un suo podere e tenuta per sé una parte dell'importo, d'accordo con la moglie, consegnò l'altra parte deponendola ai piedi degli apostoli... E un grande timore si diffuse in tutta la chiesa e in quanti venivano a sapere queste cose» (5,1-11).
    Capita nella comunità che la generosità si sposi con la voglia di «apparire» buoni e bravi, con il desiderio di primeggiare, di essere fra «quelli che contano» perché capaci di gesti eclatanti, fuori dall'ordinario. È l'esperienza di una coppia di cristiani che con tristezza Luca racconta. La comunità smaschera questa falsità ed è dura nell'estirpare sul nascere ogni atteggiamento di ipocrisia che si oppone al dire e al «fare» la verità.
    Anania è un brav'uomo, va d'accordo con sua moglie, quindi sa voler bene; è anche un discepolo serio e generoso: accoglie e vuole mettere in pratica la parola di Dio. Aveva sentito parlare della generosità di Barnaba e, trascinato dal buon esempio, vuole essere generoso insieme a sua moglie Saffira. Decide dunque di fare della beneficenza, forse preso dal desiderio di apparire pubblicamente come un grande benefattore della comunità. Tuttavia non dà tutto quello che promette e, per giunta, usa la menzogna per ingannare la comunità, mostrandosi ipocrita: vuole apparire quello che non è.
    Il problema che crea sofferenza nella comunità non sta tanto nel fatto che Anania abbia voluto di nascosto tenere per sé una parte di denaro e, in fondo, nemmeno nella bugia in sé, ma nell'aver dato spazio al male dentro di sé. Per capire la gravità di questo peccato è utile fare un confronto con la fine di Giuda: nei due episodi è satana ad agire, c'è l'attaccamento al denaro accettato o trattenuto, c'è un atteggiamento opposto alla propria natura di discepolo che include la ricerca della povertà e della condivisione dei beni. L'ipocrisia unita all'attaccamento al denaro ha lacerato Giuda trascinandolo al suicidio. Nel caso di Anania il dio «quattrino» e l'ipocrisia possono creare un forte sbandamento e una lenta morte nella giovane comunità, nella quale si sarebbe infiltrato subdolamente satana.
    Anania e Saffira rimangono ricchi e si fingono poveri, sono egoisti e si fingono altruisti, sono avari e si fingono generosi: questa è ipocrisia! Il loro cuore è pieno di satana e di frode. Il loro peccato è un mentire allo Spirito Santo. La comunità cristiana invece deve essere fondata sulla trasparenza d'animo dei suoi membri, sulla continua presenza dello Spirito di verità.
    Quello che aggrava la colpa di questi due coniugi, oltre all'ipocrisia, è il calcolo, l'aver considerato l'impegno della comunità insieme ai propri interessi personali, l'aver voluto camminare su due binari, riservando per sé il denaro per la paura del domani. Anania e Saffira si donano ma fino ad un certo punto, non si fidano totalmente di Gesù, del suo Vangelo, della comunità. Nessuno aveva chiesto loro questa fiducia totale, sono essi che vogliono apparire più bravi di quello che sono in realtà e così finiscono per ingannare la comunità e se stessi, calcolando i loro gesti e la loro generosità.
    Alla radice di questa mancanza di generosità calcolata di Anania e Saffira c'è la paura di dare tutto e trovarsi senza niente, la paura di buttarsi allo scoperto! Anania, pertanto, è una persona di cui non ci si può fidare fino in fondo, perché non si sa fino a che punto sia sincero, che cosa dice di vero e che cosa nasconde, cosa effettivamente dà e cosa tiene per sé. Una persona del genere rovina la comunità!
    In questa coppia di cristiani emerge l'incapacità e la fatica a cogliere la richiesta di Gesù come totale, la fatica a comprendere la serietà della richiesta di Gesù... e con Dio non si scherza!
    Nella comunità c'era gente che veniva con impegno e dedizione vera; ma c'era anche gente che veniva perché attratta dall'entusiasmo degli altri, senza una propria convinzione. Pur aderendo alla comunità, c'era chi riservava tante cose per sé e tutto questo affiorava poi nei momenti difficili e di persecuzione: «Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo, ma nell'ora della tentazione vengono meno» (Lc 8,13). Nonostante questo, la comunità qui per la prima volta viene chiamata Chiesa: «E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in quanti venivano a sapere queste cose» (5,11).
    Anche le nostre possono essere comunità dove si calcola, dove si stenta a donarsi; comunità nelle quali emerge la mormorazione, il pettegolezzo, l'ipocrisia. Lo spirito di Anania che vive in noi è il ripiegarsi su di sé, mettendo mille condizioni al dono sincero di se stessi. Lo spirito di Anania dentro di noi è la sottile durezza di cuore che agguanta e si diffonde nell'animo dei discepoli che, sempre, di fronte a Gesù dicono: dove vai, cosa fai, dove ci porti, sei proprio sicuro? Lo spirito di Anania ci rivela la distanza dall'essere persone che hanno consegnato la vita per il nome di Gesù.

    Diffidenza e mormorazione

    «In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana» (6,1).
    E veramente strano: in una comunità in cui tutti sono «un cuor solo e un'anima sola» si fanno delle distinzioni, delle discriminazioni! Le vedove ebree vengono trattate meglio di quelle greche. Nessuno però ha il coraggio e la semplicità di far notare con verità queste difficoltà. E allora si diffondono nella comunità la diffidenza e la mormorazione. Il termine greco usato da Luca è lo stesso che troviamo nei capitoli 16 e 17 dell'Esodo: il popolo mormora contro Dio e contro Mosè con un crescente malcontento che appesantisce il cammino nel deserto. Questo «dire velato» e questa diffidenza non espressa apertamente sono una spina nel cuore di Mosè. Il popolo non si fida di Dio né del suo rappresentante Mosè, che addirittura rischia di essere lapidato: «Che farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!» (Es 17,4).
    Israele era come un adolescente instabile e capriccioso, da educare alla libertà e alla verità. La comunità cristiana, invece, si presenta fin dall'inizio come adulta, matura, responsabile. E tuttavia scopre che ci sono cose che non vanno, ci sono delle ingiustizie e delle preferenze. Forse sul piano «umano» possono anche essere comprensibili, ma sul piano del Vangelo liberamente accolto e vissuto sono ingiustificabili. Il male però nasce quando queste ingiustizie causano il malcontento, il malumore, la scontentezza; quando si dice e non si dice e si passa al sospetto. La comunità che con gioia cercava di vivere l'unità in Gesù, vive ora questa dolorosa esperienza della mormorazione come una ferita sempre più profonda che rischia di creare rotture e lacerazioni irreparabili.
    La sapienza e la vigile attenzione dei responsabili trovano un tempestivo rimedio che impedisce il dilagare di questo sottile male: «Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest'incarico» (6,3).


    LA COMUNITÀ LACERATA
    (At 9,28-30; 15,36-40)

    La comunità lacerata dall'invidia

    Saulo inizia ad annunciare il vangelo ottenendo subito un grande successo. Ma proprio questo successo e la facilità con la quale Saulo predica il Vangelo e converte la gente, suscita nella comunità gelosia e invidia. Paolo è già un grande predicatore, riesce veramente a comunicare la Parola di Dio. Ma i cristiani ebrei di lingua greca tentano di ucciderlo. Allora i «fratelli lo condussero a Cesarea e lo fecero partire per Tarso». A Tarso, cioè nel suo paese, Paolo rimase senza predicare per almeno dieci anni, pur essendo un apostolo di grande valore. L'invidia della comunità ha bloccato la Parola di Dio in un apostolo di così grande valore. Appena i «fratelli» fanno partire di nascosto Paolo, il suo amico Luca con fine ironia nota: «La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo» (9,31). Come a dire: messo da parte Paolo – l'apostolo di «successo» –, la comunità si organizza e vive meglio!

    Una profonda amicizia

    Paolo e Barnaba, due eccellenti responsabili della prima comunità cristiana, due amici che hanno condiviso le gioie e le fatiche dell'annuncio del Vangelo, ad un certo punto sperimentano in modo drammatico una lacerante separazione, dando un'amara e triste testimonianza agli altri cristiani che li amavano. La rottura con Barnaba è l'esperienza più dura che Paolo soffre, più della prigionia, delle percosse, dei naufragi e delle persecuzioni. Si tratta di un episodio doloroso di cui l'Apostolo non parla mai nelle sue Lettere. È come una oscurità dell'esistenza attraverso la quale deve passare l'uomo di Dio e il responsabile di una comunità per «raffinarsi» e purificarsi.
    Barnaba è uno dei «giganti» della Chiesa, uso dei primi cristiani che ha preso sul serio il Vangelo e ha creduto alla predicazione degli apostoli. Barnaba è un cristiano che ama senza calcoli, che sa rischiare tutto per il Vangelo: è il primo che vende tutto quello che ha a beneficio della comunità. È un uomo ricco di sapienza e di ottimismo; irradia fiducia e volentieri gli altri camminano con lui e fanno affidamento su di lui al punto da affidargli le missioni più difficili. Quando si tratta di verificare quello che sta succedendo ad Antiochia, gli apostoli da Gerusalemme inviano Barnaba, il quale «vide la grazia del Signore, si rallegrò e da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore. E una folla considerevole fu condotta al Signore» (At 11,23-24).
    Barnaba è l'uomo che ha saputo riconoscere l'autenticità della fede della giovane comunità di Antiochia, da cui è nato tutto il cristianesimo dell'occidente greco e dell'Asia Minore. Barnaba ha una intuizione profonda, è libero da pregiudizi, da paure, e capisce che ad Antiochia sta operando lo Spirito. E capace anche di mediazione: rassicura Gerusalemme e incoraggia Antiochia, evitando possibili rotture fra le due comunità.
    Barnaba per Paolo è di importanza fondamentale. È l'uomo a cui Paolo deve di più, perché è colui che lo ha cercato, lo ha capito, lo ha sostenuto. Nei confronti di Paolo Barnaba è un vero amico, quasi un padre spirituale e un maestro di apostolato. «Venuto a Gerusalemme (Paolo) cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo» (At 9,26). La comunità di Gerusalemme non riesce a fidarsi dell'ex persecutore dei cristiani, di questo improvviso e nuovo convertito. «Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù» (At 9,27).
    Barnaba lo prese con sé, il verbo greco è lo stesso che viene usato quando Gesù prende per mano Pietro che sta per affondare nel lago durante la tempesta (Mt 14,31). L'immagine che possiamo avere davanti è quella di Paolo smarrito a Gerusalemme: tutti gli chiudono la porta in faccia; non ha neppure dove dormire. Solo Barnaba ha il coraggio e la delicatezza di cercarlo, di prenderlo per mano e portarlo con sé. Poi lo presenta agli apostoli e alla comunità. Ora, grazie a Barnaba, le porte si aprono a Paolo: «Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore» (At 9,28).
    Secondo la lista riportata in At 13,1 Barnaba è il primo dei profeti. Paolo è l'ultimo arrivato. Tutti e due però «rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente» (At 11,25-26): qui c'è l'immagine di una meravigliosa collaborazione tra Barnaba e Paolo; l'uno sa valorizzare l'altro e introdurlo piano piano nella missione della Chiesa. Barnaba è anche il primo scelto dallo Spirito Santo per la missione: «Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati» (At 13,2). Barnaba è il primo, Paolo – chiamato ancora con il vecchio nome – è il «gregario».
    Barnaba viene presentato così come il capo della nuova spedizione missionaria e nelle liste risulta sempre il primo, il responsabile dell'opera di evangelizzazione. Ma ad un certo punto nel corso della missione, la personalità di Paolo comincia ad emergere, fino a diventare l'attore principale (cf At 13,9), tanto che in At 13,13 Barnaba è ridotto al rango di semplice «compagno»: «Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia». Abbiamo così il cambiamento definitivo dei ruoli, tanto che il primo discorso della missione è attribuito a Paolo (cf At 13,16), anche se ancora per due volte sarà Barnaba ad essere menzionato per primo (At 14,12; 14-15). La missione termina senza rotture: i due amici sono pienamente d'accordo e agiscono sempre in comunione.

    La rottura della comunione

    Nonostante qualche screzio, mai espresso apertamente, Paolo e Barnaba fin qui vivono la loro amicizia con gioia e successo. Ma alla fine del capitolo 15 degli Atti, Luca presenta il dramma della rottura. Quando la comunità affida ai due amici la seconda missione, Paolo dice a Barnaba: «Ritorniamo a far visita ai fratelli in tutte le città nelle quali abbiamo annunziato la parola del Signore, per vedere come stanno» (15,36). Nel corso della missione, Paolo cambia programma senza interpellare la comunità: si sente responsabile di tutta l'attività della Chiesa nell'Asia Minore e vuole rivisitare i fratelli. A questo punto nasce il dissenso: la goccia che fa traboccare il vaso è il parente di Barnaba, Giovanni Marco, che nella precedente missione aveva avuto paura della traversata nel mare.
    «Barnaba voleva prendere insieme anche Giovanni, detto Marco, ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro nella Panfilia e non aveva voluto partecipare alla loro opera» (15,37-38). Apparentemente si tratta di un dissenso su un collaboratore. Per Barnaba va bene, per Paolo no. Si aggiunge una situazione imbarazzante: Barnaba era cugino di Giovanni Marco, e probabilmente difende un po' se stesso e l'immagine di famiglia. Paolo si irrigidisce su una questione di principio: «Il dissenso fu tale che si separarono l'uno dall'altro» (15,39). I due amici discutono per alcuni giorni, probabilmente la comunità cerca di riconciliarli e di convincerli; ma la discussione raggiunge un punto tale di tensione che pare davvero meglio che ciascuno se ne vada per conto proprio. La parola greca usata da Luca per dire «dissenso» indica un diverbio così forte, un «parossismo» appunto, che arriva fino al litigio, ad afferrarsi per i capelli: è un fremere interiore che raggiunge l'incandescenza. Un giorno, riflettendo probabilmente su questo episodio, Paolo scrivendo ai Corinti dirà: «La carità non si adira» (1 Cor 13,5), usando proprio lo stesso termine; cioè l'amore vero non giunge a questi eccessi di irritazione!

    La voglia di essere primo

    Probabilmente la storia del collaboratore è solo un pretesto, forse il problema vero per i due amici è chi deve essere il capo della missione. Barnaba è l'uomo di grande autorità, noto a tutta la Chiesa: come può lasciare il posto a un uomo nuovo, che ancora molti non conoscono e a Gerusalemme non è ben visto? Il 'problema non può essere la gelosia e l'invidia? Barnaba è a disagio nel constatare che da una parte era lui ad avere la responsabilità della missione, ma dall'altra si accorge che è Paolo a prendere le decisioni. Paolo dal canto suo ha l'imbarazzo opposto... «e si separarono...».
    La conseguenza è che la lacerazione è stata molto dolorosa e drammatica per entrambi. Paolo, che aveva goduto della fiducia di Barnaba e grazie a questa fiducia si era salvato ed era stato rimesso in circolazione, non riesce a dare fiducia a Barnaba nella questione di Giovanni Marco.
    Barnaba dopo questo episodio scompare. Un «gigante» della prima comunità cristiana ad un certo punto non lascia quasi più traccia di sé. Paolo però sarà sempre rispettoso verso Barnaba; scrivendo ai cristiani della Chiesa di Colossi dice: «Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere e Marco il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni... quando verrà da voi fategli una buona accoglienza» (Col 4,10).
    Paolo ha vissuto questa rottura certamente con sofferenza, sentendo il peso della solitudine, nella quale però ritrova Dio come il grande amico, come il suo tutto. Alla comunità di Filippi scriverà: «Quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo...» (Fil 3,7-8).


    Intermezzo

    L'UTOPIA DELLA PACE
    Shalóm

    In ebraico la parola shal6m (pace) indica fondamentalmente il benessere dell'esistenza quotidiana, lo stato dell'uomo che vive in armonia con la natura, con se stesso, con Dio. Il termine ebraico racchiude perciò il significato di benedizione, riposo, gloria, ricchezza, salvezza, vita. Shalòm indica anche il benessere fisico, per cui chi non è in pace non gode di buona salute: «Per il tuo sdegno non c'è in me nulla di sano, nulla è intatto nelle mie ossa per i miei peccati» (Sal 38,4). Per domandare se una persona sta bene gli Ebrei sono soliti dire: «Sei in pace?» (cf 2 Sam 18,32; Gn 43,27). Infine shal6m indica la concordia in una vita fraterna: il familiare o l'amico, infatti, è «l'uomo della mia pace» (Sal 41,10; Ger 20,10), come pure un rapporto di mutua fiducia sanzionato sovente da una alleanza (cf Nm 25,12; Sir 45,24) o da un trattato di buona vicinanza (cf Gs 9,15; 1 Re 5,26; Lc 14,32; At 12,20).
    Dalla tranquillità alla concordia, dalla salute fisica al benessere familiare, tutto è benedizione di Dio e riflesso del grande shal6m di cui è beneficiario l'intero Israele. Nessun individuo può veramente essere in pace se il popolo nel suo insieme non gode di tale pace e, al contrario, la pace su Israele si riflette e si manifesta nella pace individuale e familiare: «Beato l'uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie. Vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai d'ogni bene... Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme per tutti i giorni della tua vita. Possa tu vedere i figli dei tuoi figli. Pace su Israele!» (Sal 128).

    I profeti e la pace

    I profeti d'Israele non separano mai il politico e il sociale dal religioso. Il loro modo di considerare la pace, bene primariamente religioso, è complessivo, partendo necessariamente dall'affermazione della signoria di Dio e della necessità di accoglierla in piena dedizione. Essi perciò denunciano, quasi ad una sola voce e con martellante costanza, le fallaci alleanze internazionali con le quali i re pensavano di sostenere la precarietà del loro regno, la corruzione dei giudici e l'assenza di giustizia all'interno del popolo eletto, il vuoto sacrilego di un culto trionfalistico ed esteriore privo di contenuti e di fede sincera (cf 1 Re 22; Am 1,3-2,16). Nella predicazione profetica la pace è sì dono di Dio, ma anche opera dell'uomo nell'esercizio del diritto e della giustizia: dove non c'è giustizia non c'è vera pace! La battaglia profetica incontra resistenza da ogni lato: da parte dei dirigenti politici perduti nei loro calcoli umani (Is 7; Ger 3739), dei ricchi avidi solo di possedere, dei sacerdoti aggiogati al carro dei potenti (Ger 20,1-6), dello stesso popolo facile preda di beni illusori, ma in particolare dei profeti della falsa pace.
    La falsità di questi profeti consiste nell'annunciare una pace che non c'è, nel trascurare i peccati commessi dal popolo e nel non saper riconoscere, nella grave perturbazione che si profilava sull'orizzonte politico, l'approssimarsi del giudizio di Dio. Così si fa strada in Geremia ed Ezechiele l'opposta parola d'ordine: non vi è shalòm: «Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: "Bene, bene! (shal6m)", ma bene non va» (Ger 6,14; cf Ez 13,10.16).
    Dopo le gravi sconfitte del 597 e del 586 Geremia scrive agli esuli che Dio nei loro confronti nutre «pensieri di pace e non di sventura» (Ger 29,11). Anche in Ezechiele la predizione della pace raggiunge due volte il suo culmine nell'annuncio di un patto di pace che Dio stringerà col suo popolo: «Susciterò per loro un pastore che le pascerà... Stringerò con esse un'alleanza di pace e farò sparire dal paese le bestie nocive, cosicché potranno dimorare tranquille nel deserto e riposare nelle selve» (Ez 34,23ss); «Farò con loro un'alleanza di pace, che sarà con loro un'alleanza eterna. Li stabilirò e li moltiplicherò e porrò il mio santuario in mezzo a loro per sempre. In mezzo a loro sarà la mia dimora: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ez 37,26-27).
    Dal periodo esilico in poi, in particolare nel secondo e terzo libro di Isaia, la pace della quale si parla non è più né la sola sicurezza, per quanto certa, né il solo benessere, per quanto splendido. E invece un bene talmente eccelso, che la sua realizzazione non potrà assolutamente più venire aspettata, e come costretta, entro i limiti angusti del tempo dell'umanità. La pace vera, in quanto dono essenziale di Dio, non potrà essere, nella sua pienezza, che dono finale di Dio, dono del tempo del Messia, di cui si dirà: «E sarà lui la pace!» (Ef 2,14).

    Il Vangelo della pace

    Nell'AT Dio si presenta più volte non solo come dispensatore di pace ma anche come garante di questo stesso dono, perché Egli vuole la prosperità di coloro che compiono opere di giustizia: «Esulti e gioisca chi ama il mio diritto, dica sempre: Grande è il Signore che vuole la pace del suo servo. La mia lingua celebrerà la tua giustizia e canterà la tua lode per sempre» (Sal 35,27-28). La convinzione che la pace è un dono di Dio che richiede la conversione sincera e l'esercizio della giustizia nella verità, ha trovato nel Salmo 85 una singolare espressione: «Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con tutto il cuore... Misericordia e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 85,9-12). Qui la propensione di Dio ad elargire «salute» al suo popolo è vista come causa di una perfetta pace terrena, e ciò rappresenta un momento culminante nell'uso del termine shal6m nell'AT.
    La pace-dono di Dio nel NT esprime la grazia che Dio in Cristo Gesù elargisce ai credenti. Alla nascita del Salvatore, gli angeli annunciano la pace, perché sugli uomini è riversata l'abbondanza dell'amore gratuito e misericordioso di Dio (cf Lc 2,14). E dopo la Pasqua, il Salvatore stesso è annunziato in tutto il mondo come il vangelo della pace: «Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d'Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti» (At 10,36). Per adempiere questa missione di evangelizzazione nel mondo è necessario attingere forza nel Signore e rivestirsi dell'armatura di Dio per «restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestititi con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace» (Ef 6,13-14). Questo vangelo è il lieto annuncio di una relazione nuova tra il cielo e la terra: con la venuta del Principe della pace (Is 9,5; cf Zc 9,10), la pace in cielo (Lc 19,38) è diventata pace in terra (Lc 2,14).

    Pace e riconciliazione

    «Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo... Se infatti, quand'eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,1.10). Secondo questo testo paolino sia la pace che la riconciliazione con Dio sono due aspetti dello stesso Vangelo e intendono sottolineare il fatto che, in Cristo Gesù, il Dio ricco di grazia e di misericordia ha stabilito con l'umanità una comunione fondata sull'amore. Riconciliati con Dio sì da essere in pace con Dio: sono due aspetti paralleli e complementari. Dire che siamo in pace con Dio significa affermare che in noi Dio esercita e manifesta la sua signoria, che Egli riversa in noi l'abbondanza della sua grazia e opera il suo progetto d'amore; significa affermare che noi siamo graditi a Dio perché in noi Egli contempla vivo il volto del suo Cristo. Dire invece che siamo stati riconciliati con Dio è precisare il «modo» in cui abbiamo ottenuto tale pace: al disordine ingiusto del peccato-ribellione è subentrato l'ordine giusto della obbedienza-comunione; ed alla privazione-precarietà della colpa è subentrata la dignità di esistenze aperte all'abbondanza dei doni divini.
    Una pace con Dio che non fosse vita nuova realmente donata e ricchezza personale realmente vissuta, non sarebbe degna del Vangelo che è Cristo Gesù. Espressione caratteristica dei beni della redenzione, la pace con Dio è lo stato di un'umanità a cui Dio stesso ha concesso, in Cristo Gesù, di non essere più da Lui separata. La pace con Dio è lo stato di credenti introdotti per la grazia di Cristo in un vero rapporto filiale con Dio e che sono, pertanto, in comunione di vita e d'amore col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo (1 Gv 1,3).

    La comunione vincolo di pace

    La potenza della grazia dà ai credenti la possibilità di essere in comunione con Dio e in comunione gli uni con gli altri (cf 1 Gv 1,3.6.7). La pace con Dio è anche pace degli uomini tra loro: l'umanità, prima separata da Dio e in se stessa divisa, è stata raggiunta dalla grazia di Cristo e in Cristo si ritrova unita a Dio e in se stessa unificata.
    In Ef 4,3 Paolo si augura di vedere i credenti «solleciti di conservare l'unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace». Subito dopo egli ricorda loro le premesse oggettive di tale impegno: «Un solo corpo, un solo Spirito, una sola speranza... Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,4-6). Comunione filiale di tutti con l'unico Dio e Padre, la pace si esprime nella comunione fraterna, la koinonia cioè che si addice ad una umanità redenta e radunata in unità quale famiglia nuova di Dio. È normale che si considerino in pace gli uni con gli altri i membri di questa famiglia, se è vero che in essa la dignità filiale è ricchezza di grazia che in tutti crea l'identità, pur nella diversità, di fratelli. In Cristo siamo figli di Dio e in Cristo siamo fratelli gli uni degli altri, non più dispersi e divisi da ostilità, ma radunati insieme come i membri di una famiglia dove l'unità è comunione e la comunione è vincolo di pace.
    «Non c'è più né giudeo né greco; non c'è più né schiavo né libero; non c'è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,27-28). La nuova famiglia di Dio è novità nel segno dell'unità; ed è l'unità di una umanità finalmente in pace con se stessa. Infatti sono cancellate le divisioni e le ostilità che laceravano l'umanità non redenta: non hanno più peso alcuno le differenze di tipo etnico (giudei o greci) o sociale (schiavi o liberi) o fisiologico (uomo o donna) che un tempo potevano suscitare odio, sfruttamento e prepotenza. Si tratta di una grande novità che fa sorgere nella storia l'inedita e affascinante realtà di una nuova umanità, riconciliata con Dio e in se stessa e a tal punto rivestita di Cristo e vivificata dalla grazia di Cristo, da essere una in Cristo e, pertanto, unificata con il vincolo della pace, nel segno vivo della comunione fraterna. Solo così la comunità dei credenti può essere epifania di Cristo nella storia, anticipazione della pienezza di pace, coraggioso e credibile annuncio che «Cristo è la nostra pace» (Ef 2,14).

    La felicità di chi fa la pace

    «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Nel cosiddetto Discorso della Montagna, Gesù dichiara felici già nel presente gli operatori di pace. Di solito con il termine «operatore di pace» si pensa ad una persona che si sforza di riconciliare coloro che sono in lite. Così, infatti, hanno interpretato i Padri della Chiesa. Sant'Ambrogio definiva tale «operatore»: pacem aliis ferens, chi porta la pace agli altri. E San Beda: alios pacificans invicem, chi mette la pace reciproca fra gli altri. Nel suo vangelo Matteo parla raramente di pace. Infatti, oltre alla nostra beatitudine, fa uso di questo termine solo nel discorso missionario: Gesù esorta i suoi inviati a dare il saluto dello shalòm entrando in una casa. Gli inviati di Gesù giungono dunque in nome della pace e la portano con sé ma, quanto al dispensare o meno tale dono, dipendono dalla reazione dei loro interlocutori: «Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi» (Mt 10,13).
    L'unico altro passo che contiene questo termine è Mt 10,34: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada». Questo detto, che sembra in netto contrasto con la settima beatitudine, introduce il brano (10,34-39) in cui Gesù conferisce assoluta priorità all'amore verso la sua persona e, a causa di ciò, prevede dei contrasti fra gli uomini. La fedeltà all'amore di Gesù Cristo può creare delle divergenze anche con le persone più prossime. Essere operatoli di pace non significa cercare la pace anche a costo di abbandonare Gesù! Significa piuttosto mettere sempre Gesù al primo posto, anche a costo di «perdere la pace» con le persone più care.
    La pace è un bene prezioso, è dono di Dio; ma è necessario che gli uomini vivano in modo radicale il Vangelo per conservare e conquistare la pace. L'impegno di Cristo per la pace va fino al sacrificio della sua vita e crea una base radicalmente nuova della vita umana. Egli ci schiude la possibilità di vivere in pace, cioè di vivere il nostro rapporto con Dio come figli di Dio e quello con gli uomini come fratelli. I credenti devono aprirsi al dono della pace mediante un continuo ed appropriato impegno per la pace, all'interno della comunità e con tutti gli uomini. Tale impegno deve essere animato e sorretto dall'amore e li unisce al Dio dell'amore e della pace. Gli «operatori di pace» sono coloro che fanno la pace e, per essa, si impegnano. Questo naturalmente comincia dai propri rapporti con gli altri, in un cura che eviti ciò che danneggia l'amorevole convivenza con i fratelli e faccia ogni cosa che conserva, promuove e ristabilisce la pace. I cristiani che si impegnano ad essere operatori di pace, proprio per questi loro sforzi che non corrispondono alle tendenze spontanee umane, sono già ora «felici» e vivono il loro essere figli del Padre come un dono speciale che Dio conferisce loro.
    «Beati gli operatori di pace»: questa beatitudine presuppone e riassume le sei precedenti, in quanto l'impegno per la pace racchiude in sé tutti gli atteggiamenti espressi nelle altre beatitudini. Se un credente, che pretende di essere «operatore di pace», è orgoglioso, si disinteressa delle sofferenze altrui, è duro, ingiusto, dal cuore impuro, certo il suo impegno per la pace è destinato sin dall'inizio al fallimento. Infatti, questi atteggiamenti sono causa di contrasti e non solo non promuovono la pace, ma la impediscono. Invece, sono proprio gli atteggiamenti menzionati nelle prime sei beatitudini ciò di cui ha bisogno un operatore di pace per essere tale e godere della felicità promessa, nella consapevolezza che «è più grande gloria uccidere le guerre con la parola che gli uomini col ferro, ed è vera gloria acquistare la pace con la pace!» (S. Agostino).


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