Attesi dal suo amore
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    I punti fermi (Seconda parte di: La brezza di Dio)


    Mario Russotto, LA BREZZA DI DIO. Meditazioni bibliche per educatori e catechisti, Elledici 1998


     

    UN GIOVANE EDUCATORE
    L'esperienza di Timoteo

    Fra smarrimento e perdita di memoria
    Timoteo, responsabile della comunità nonostante la sua giovane età, stava vivendo un momento di disorientamento circa la sua vocazione e la sua missione. Paolo allora in una seconda lettera gli scrive: «Ringrazio Dio... ricordandomi sempre di te nelle mie preghiere, notte e giorno... Mi ricordo infatti della tua fede schietta... Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza ma di forza, di amore e di saggezza» (2 Tm 1,3-7). Paolo usa tre volte il verbo «ricordare»: le prime due in riferimento a se stesso, la terza in riferimento a Timoteo. L'Apostolo fa dunque esercizio di memoria e invita l'amico presbitero ad un esercizio che è insieme di memoria e di ricerca. Vuole che Timoteo faccia una verifica del suo modo di vivere il Sacerdozio e, nello stesso tempo, gli propone alcune piste da seguire. La vocazione è un dono che si può offuscare, può perdere la sua forza e luminosità. Perché?
    Nel caso di Timoteo si tratta di tre cause fra loro connesse:
    – il peso della solitudine, accentuata dalla fatica di gravi responsabilità e di decisioni da prendere, oltre che dalla lontananza della sua guida spirituale. In questa situazione non riesce ad attingere alla potenza del dono che l'ha costituito Sacerdote e Vescovo;
    – la giovane età che lo fa sentire inadeguato alla missione affidatagli;
    – un lento spegnimento della fede dovuto ad una certa negligenza nell'esercizio spirituale: Timoteo si è lasciato talmente assorbire dalle «cose da fare» e dai tanti impegni da ritrovarsi in un profondo stato di stanchezza, per cui tralascia la preghiera e non si dedica più come un tempo alla meditazione della Sacra Scrittura (2 Tm 3,14-15).

    La forza dello Spirito

    Timoteo così perde a poco a poco quella triplice dimensione dello Spirito che Paolo chiama: potenza, amore, sapienza. La forza dello Spirito Santo si esprime attraverso la gratuità dell'amore e la saggezza; quest'ultima può essere intesa come capacità di equilibrio, costanza, prudenza, discernimento. Come si fa ad uscire dallo stato di smarrimento e di chiusura interiore in cui Timoteo vive e come può ritrovare quella declinazione dinamica, agapica e sapienziale dello Spirito? Paolo dà all'amico due indicazioni e un metodo. Queste le indicazioni:
    – «Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù» (2 Tm 1,13);
    – «Custodisci il buon deposito con l'aiuto dello Spirito Santo che abita in noi» (2 Tm 1,14).

    Il primato di Dio

    Cosa intende Paolo per «sane parole» che Timoteo deve prendere come modello e per «buon deposito» da custodire? Per spiegare il suo pensiero Paolo usa due termini: ortopodia e ortonomia. L'ortopodia (lett. camminare diritto) è la coerenza fra la verità del Vangelo e la vita quotidiana, fra le convinzioni interiori e la vita pratica. È proprio questa mancanza di ortopodia che Paolo rimprovera a Pietro nell'episodio di Antiochia (Gal 2,14). L' ortonomia (lett. retta distribuzione della dottrina) è la capacità di dire la fede senza sminuirla, il coraggio di dire Dio senza sconti né compromessi. Paolo, infatti, esorta l'amico presbitero ad essere «scrupoloso dispensatore della parola di verità» (2 Tm 2,15).
    L'ortopodia e l'ortonomia si fondano sulla gratuità della grazia, sul primato di Dio. Ogni educatore è chiamato ad essere testimone del primato di Dio, trasparenza e indice dell'Assoluto e della compagnia dell'Eterno nel tempo. È questo ciò che Paolo chiama «sane parole» o «buon deposito», da cui scaturisce un modo nuovo di pensare e di agire, una spiritualità che si esprime in un comportamento umile, sincero, disinteressato e servizievole; opposto ad ogni forma di autogiustificazione, pretesa, orgoglio, arroganza, protagonismo, voglia di successo. Tali atteggiamenti, infatti, sono per Paolo una chiara manifestazione della mancanza del primato della grazia, della lontananza da quel Gesù «il quale non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo... e umiliò se stesso fino alla morte di croce» (Fil 2,6-8).

    Educare all'essenziale

    Ritengo allora che il primo e il principale ruolo di un educatore sia la formazione dei giovani al primato di Dio nella logica della croce e nello stile dell'umiltà, che è il cuore della rivelazione di Gesù. È necessario pertanto essere scrupolosi dispensatori della parola di verità attraverso atteggiamenti e parole ispirate alla Sacre Scritture, pronti a pagare di persona e a saper sopportare le lacerazioni della complessità e le istanze audaci ed esigenti dei giovani.
    I giovani ai loro educatori rimproverano a volte – come Paolo a Pietro – un eccessivo arroccamento all'ortonomia, cioè la retta dottrina, e una certa carenza di ortopodia, di coerenza evangelica e pratica fra ciò che sono e professano e il loro personale modo di vivere. Per S. Paolo ortonomia e ortopodia non esistono in modo separato, egli criticherebbe la formula che noi spesso usiamo: il distacco tra fede e vita.
    Parlare di distacco tra fede e vita significa che può esserci una fede vera e autentica che poi non si incarna nella vita. Ma non è così. Paolo direbbe che la sana dottrina, cioè il primato di Dio e della grazia nella logica della croce, non è stata colta e assimilata in tutta la sua profondità, pur essendo capaci di esprimerla correttamente al livello verbale, altrimenti ne seguirebbero opere e atteggiamenti diversi. Gli educatori sono chiamati a recuperare e vivere l'essenziale del loro servizio, della fede, del linguaggio, evitando – dice Paolo a Timoteo – vane discussioni e fatue verbosità che non servono al disegno divino manifestato nella fede: «Alcuni si sono volti a fatue verbosità, pretendendo di essere dottori della legge mentre non capiscono né quello che dicono, né alcuna di quelle cose che danno per sicure» (1 Tm 1,6-7). Occorre educare i giovani a cercare nella religione «l'essenziale, l'originario, ciò che è sostanziale, ciò che è primieramente vitale: la centralità di Cristo» (G.B. Montini).

    Parola e servizio

    Ed ecco il metodo che Paolo propone circa lo stile e l'esercizio dell'educare: «Annunzia la Parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina... vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del vangelo, adempi il tuo ministero» (2 Tm 4,2-5). Si tratta di nove imperativi il cui contenuto può essere racchiuso negli ultimi due: evangelizzare e servire. Manca l'ammonizione a decidere e scegliere. E questo perché nel pensiero di Paolo l'educatore deve esercitare il suo ministero in una duplice dimensione: annunciare e testimoniare la parola di Dio, vivere la sua responsabilità educativa come servizio. All'educatore perciò non viene chiesto altro se non l'annuncio della Parola e la diaconia. Il resto è opera dello Spirito!


    COSTRUIRE SULLA ROCCIA
    (Mt 7,13-27)

    «Perciò dobbiamo cercare in ogni modo – come cosa primaria rispetto a tutto il resto – di accogliere in noi le parole di Dio, di raccoglierle al centro del nostro essere, nei pensieri, nelle preoccupazioni, nelle attenzioni e nei nostri atti, affinché le nostre azioni corrispondano alle parole delle Scritture e il nostro agire non risulti discorde dall'insieme dei precetti celesti. E possiamo anche noi dire: La tua parola ci ha infuso la vita» (S. Ambrogio, Sul Salmo 118,7). Raccogliere le parole di Dio al centro del nostro essere in una sintesi vitale contemplativa-operativa, nell'impegno ad evitare ogni dissonanza fra intenzione e azione, è quanto emerge dal testo di Matteo che chiude il Discorso della Montagna.

    Decidere e scegliere

    Attraverso alcune immagini: la porta-via, l'albero, la casa, l'evangelista pone chiunque ha intrapreso la scalata al Monte di Dio e vuole farsi discepolo di Cristo dinanzi ad una scelta radicale. La chiave di lettura del nostro testo, infatti, è decidersi e scegliere fra due possibilità: la porta-via stretta o la porta-via larga; l'albero dai frutti buoni o l'albero dai frutti cattivi; la casa sulla roccia o la casa sulla sabbia. Una terza possibilità, quella di un facile accomodamento e di un tranquillo compromesso, non esiste!
    «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male... scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita...» (D t 30,15-20). Nel suo ultimo discorso al popolo, ormai alle soglie della terra promessa, Mosè consegna la responsabilità – senza delega alcuna – di scegliere tra la vita e la morte, il bene e il male: cioè, decidersi seriamente e definitivamente per Dio e quindi per la vita, oppure percorrere sentieri propri allontanandosi da Dio e marciando verso la morte. Già nel libro dell'Esodo, dopo aver ricevuto le dieci parole, il popolo si era impegnato dicendo: «Tutto ciò che il Signore ha detto, lo faremo e lo ascolteremo!» (Es 24,7). La Bibbia della CEI non rende bene in italiano il testo ebraico e traduce con «lo faremo e lo eseguiremo». La nostra mentalità occidentale ci porta prima ad ascoltare e poi a realizzare. Per i Semiti invece una cosa prima la si fa e di conseguenza la si ascolta. Chi non «fa la Parola» non ascolta! La nostra vita cambierebbe notevolmente se la parola di Dio la realizzassimo a prescindere dal capirla. È nella misura in cui la mettiamo in pratica che la comprendiamo!
    Anche il NT presenta tracce di questa «mentalità occidentale»: durante la lavanda dei piedi Pietro si rifiuta di accogliere il gesto di Gesù e dice: «Signore, tu lavi i piedi a me?... Non mi laverai mai i piedi!». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo... Se non ti laverò, non avrai parte con me» (Gv 13,6-8). Pietro vuole mettere in pratica la parola di Gesù dopo aver capito. Non si rende conto invece che comprenderà pienamente solo dopo aver accolto il gesto di Gesù e aver eseguito la sua Parola!
    Le immagini usate da Matteo ci riportano così alla inderogabile priorità del «fare la Parola» (il verbo «fare» ricorre quattro volte nel nostro testo: w. 17.19.21.24), evitando ogni possibilità di inganno attraverso le «apparenze»: la prassi rivela il cuore e le sue intenzioni! La vita dà senso al sacro! Dissociare questi due aspetti è voler entrare per la porta larga, percorrere la via spaziosa, essere albero dai cattivi frutti, costruire una casa destinata alla rovina. L'impegno del discepolo autentico invece è l'unificazione della coscienza, camminando la vita con le sue fatiche, vivendo della volontà di Dio, costruendo sulla roccia della Parola viva una casa che né le grandi acque, né i fiumi possono travolgere.

    Lo stretto sentiero della vita

    Il libro dei Salmi si apre con una beatitudine: «Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori...» (Sal 1). Mettendo insieme il testo di Matteo e il primo salmo della Bibbia abbiamo due porte, due vie. La via indica il corso della vita, la vita che fluisce nel tempo ed è un pellegrinaggio senza posa fino alla... porta: ingresso nella vita o ingresso nella morte... per sempre! L'immagine della via e della porta messe insieme illuminano il senso della nostra esistenza di camminatori verso il Regno su un percorso non facile né comodo (cf Mt 5-7). È il sentiero stretto della croce, della gloria attraverso la «kenosi»; un sentiero che si oppone al senso comune e alla cultura dominante. Questa via comoda della mediocrità è battuta da molti, ma conduce alla rovina. La via del duro impegno e delle esigenze radicali, invece, è trovata da pochi coraggiosi autentici discepoli. Ma è l'unica che porta alla città di Dio!
    È una via in salita che fa dei suoi camminatori una eco udibile della legge dell'amore al fratello e al nemico in quanto fratello in Cristo. Camminando s'apre cammino: è una via che esige il coraggio della ricerca, lo slancio dell'avventura, la fatica della credibilità. Non è facile trovarla, tuttavia bisogna chiedere e bussare senza desistere (cf Mt 7,7). E lungo questa via ricordarsi del ma io vi dico... (Mt 5,22ss). Solo allora si è sale della terra e luce del mondo (Mt 5,13-14).

    La verità dell'Amore

    «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37). «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna...» (1 Cor 13,1-3).
    Il cristiano come può essere certo che sta percorrendo la via stretta che conduce alla vita? Gesù suggerisce la risposta attraverso l'immagine dell'albero. Non giudicare dalle apparenze, ma dai frutti: cioè dalle opere. I frutti non sono le parole né le intenzioni, ma è la prassi, epifania delle scelte di fondo di ogni uomo. È una norma infallibile!
    Il discepolo deve imparare ad essere critico nei confronti di se stesso e di coloro che parlando le parole di Dio non danno chiari segni di dono sincero e gratuito di sé, di coerenza fra la vita e la fede, di unità fra il dire e il fare. La vita del discepolo autentico deve costituire una unità: i suoi sentimenti, i suoi pensieri, il suo volere ed agire devono concordare. La frattura che spezza questa unità si rivelerà anche all'esterno, perché l'albero cattivo produce frutti cattivi e solo ciò che è uno, dura. I frutti non sono le singole azioni, ma la vita nel suo insieme, informata da carità fattiva, da fede autentica, da verità trasparente. Quella verità che conduce a libertà (cf Gv 8,32); la verità che non è mai divorziata dall'amore; la verità custodita nel cuore e detta con la vita, la verità di «colui che cammina senza colpa, agisce con giustizia e parla lealmente, non dice calunnia con la lingua, non fa danno al suo prossimo e non lancia insulto al suo vicino» (Sal 14,2-3).
    Non è sufficiente, infatti, dire la fede (Signore, Signore...). Non basta neppure riunirsi in preghiera con la comunità e poi vivere nell'anomia, cioè agire al di fuori della legge di Dio riassunta nel comandamento dell'amore. La carità che si fa storia concreta è la vera carta di identità del discepolo autentico di Gesù. Essa è l'unico «documento» richiesto per l'ingresso nel Regno: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare...» (Mt 25,35-40). Questa è la volontà di Dio e l'unico termine di orientamento per tutti. La fedeltà a Dio esige la fedeltà all'uomo. Il servizio (culto) al Signore si fa storia nel servizio ai fratelli perché «...di tutte più grande è la carità!» (1 Cor 13,13).

    Costruire con saggezza

    A conclusione di tutto il Discorso della Montagna, Gesù con pochi e vigorosi tratti presenta due quadri e mette a confronto due costruttori. Il primo costruisce la sua casa sulla roccia. Il secondo sulla sabbia. Sono due modi di costruire posti a paragone di due categorie di discepoli: quelli che ascoltano e «fanno» le parole di Gesù e quelli che si limitano al semplice ascolto. Il furore della tempesta non riesce minimamente a minare la casa sulla roccia, mentre travolge irrimediabilmente l'altra casa, sottraendole con facilità la sabbia su cui è costruita. La parabola è una provocazione per i lettori di ogni tempo. Essi devono confrontarsi con i due costruttori, prendendo coscienza di quale fondamento e orientamento danno alla loro vita. La tempesta, presentata nella parabola con i tipici colori palestinesi, è così violenta da far pensare all'immane catastrofe che chiuderà la storia. È l'uragano escatologico che decide una volta per tutte la sorte della casa: nessuno potrà costruire una seconda volta. Se la casa è crollata, resta in rovina... per sempre!
    Tutto il Discorso della Montagna così acquista una profondità e un'efficacia particolare: ognuno può costruirsi la casa soltanto nell'uno o nell'altro modo. La vita è una e irripetibile, e alla fine il giudizio è inevitabile. Lo potrà superare soltanto colui la cui vita è costruita su Cristo, l'unico capace di rendere incrollabile la fede del discepolo, e su una risposta di impegno concreto che trasforma l'uditore in «facitore» della parola di Gesù. Matteo, diversamente da Luca, definisce i due costruttori: l'uno è saggio, l'altro stolto. La sapienza nella Bibbia non riguarda semplicemente l'esercizio dell'intelletto, né è incasellata nel sapere. È piuttosto una saggezza artigianale: un saper costruire il proprio essere, un saper vivere. Secondo la parabola evangelica, all'uomo viene affidato il compito di farsi, di essere responsabile dell'edificio della sua vita. Un compito da condurre fino alla fine della vita.
    Essere artefici della propria vita: è la principale fatica e la principale gloria dell'essere uomini. Modellare con decisioni piccoli o grandi la propria vita è un'opera di saggezza, è compiere un'opera d'arte. Impresa ardua, impossibile se l'uomo si fida soltanto di se stesso e costruisce sulla fragilità della sua finitudine. Avventura affascinante e solida se l'uomo costruisce la sua opera d'arte sulla roccia della Parola viva: Cristo Gesù, colui – scriveva K. Rahner – «senza cui io non posso essere, l'infinito in cui solo può vivere la mia finita umanità».


    INVENTARE LA ROTTA
    (Lc 19,11-23)

    «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano... Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine...» (Lc 19,1213): questa parabola delle mine è molto diversa da quella dei talenti. La parabola dei talenti presenta il caso di un uomo, un padrone, che affida ad ogni suo servo dei talenti diversi: a chi dieci, a chi cinque, a chi uno. Il primo servo li moltiplica per due, la stessa cosa fa il secondo servo, ma il terzo va a nascondere il talento per paura di perderlo. In questa parabola, invece, si parla di un re; non ci sono talenti ma mine (è la stessa cosa: si tratta di beni affidati). Il re dà a tutti lo stesso bene, le stesse mine; i servi sono dieci e non tre. Pur avendo ricevuto la stessa somma, la risposta dei servi è diversa.

    Quando crolla la speranza...

    Ci troviamo ormai alla conclusione della terza tappa del viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Il cammino sta per concludersi perché Gerusalemme ormai è vicina. A questo punto Luca cerca di fare una sintesi dell'insegnamento di Gesù e vede, in fondo, come deve orientarsi il cammino di un cristiano.
    «Gesù disse ancora una parabola perché era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all'altro» (Lc 19,11). La parabola è provocata dal fatto che la gente, vedendo ormai Gesù quasi all'ingresso di Gerusalemme, pensava che il regno di Dio si sarebbe subito manifestato.
    La parabola non intende darci delle informazioni ma vuole offrire una problematica. Luca al capitolo 18 aveva presentato la guarigione del cieco di Gerico che gridava: «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me...»: chiamare Gesù «Figlio di Davide» vuol dire attribuirgli la qualità di Messia annunciato dai profeti e atteso da molti secoli. La gente e i discepoli pensavano dunque che all'arrivo a Gerusalemme Gesù avrebbe manifestato il regno di Dio, assumendo il comando della città e scacciando i Romani dominatori. Ma non succede nulla, anzi Gesù viene crocifisso. La risurrezione però è il segno inequivocabile che Gesù è il Messia e... ritornerà! Ma quando?
    La comunità cristiana, dopo l'ascensione di Gesù, aspetta che questo regno di Dio venga. Ma Gesù non viene, non torna, passano i mesi, passano gli anni! Che cosa fare? Questa è la domanda a cui Luca vuole rispondere e siccome il problema grosso è il crollo della speranza, Luca ricorda alcuni insegnamenti di Gesù e presenta la parabola.

    Inventare la propria rotta

    L'uomo di stirpe nobile che se ne va per ricevere il titolo regale è Gesù, salito al cielo per sedere come Re e Signore alla destra del Padre e un giorno tornerà. La parabola dice che questo re dà la stessa somma di denaro ad ognuno dei suoi discepoli, ma non dice come i servi devono usare e far fruttare questo denaro. Il padrone vuole lasciare tutto alla libera iniziativa dei suoi servi. Gesù rispetta la nostra libertà, la nostra libera iniziativa, ha piena fiducia in ciascuno di noi.
    Ciascuno di noi ha la libertà di inventare la rotta del suo cammino. Pur avendo la «stessa somma», ognuno deve inventare le sue vie verso la santità perché il cammino di fede è anche un cammino molto personale, perché ciascuno viene da una formazione diversa, una cultura diversa, ha un carattere diverso, ha dei talenti diversi, delle qualità diverse. Questo vuoi dire che il discepolo deve coinvolgersi in questa parabola e deve sentirsi obbligato a provvedere lui stesso al suo avvenire, inventando ogni giorno la sua vita di servo del Signore.

    Paura e infedeltà

    Il cammino però non è semplice. Quando il padrone torna, chiede conto ai suoi servi di come hanno amministrato le mine. Egli è stato giusto con ciascuno, li ha trattati tutti allo stesso modo dando ad ogni suo servo lo stesso numero di mine. Il primo e il secondo servo si sono adoperati per far fruttare le mine ricevute. Anche se i risultati sono diversi, Gesù loda questi due servi per il loro impegno e la loro fedeltà. L'attenzione del lettore ora si focalizza sull'atteggiamento del terzo servo che dice: «Signore, ecco la tua mina, che ho tenuta riposta in un fazzoletto; avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato» (Lc 19,20-21).
    Ciò che è grave in questo servo è il fatto che si dimostra un servo infedele, perché ha rifiutato di impegnarsi. Gesù infatti condanna la sua mancanza di impegno, l'aver custodito il dono ricevuto senza aver fatto nulla per portarlo a frutto. Il servo si è «bloccato» per paura. Ha avuto paura! Il padrone però affidandogli le mine aveva dimostrato di fidarsi di lui, quindi questa paura è ingiustificata. Il servo non ha avuto fiducia nel padrone e nemmeno in se stesso e nelle sue qualità.
    Quando noi abbiamo paura perdiamo anche la stima di noi stessi. I giovani, soprattutto, si ritrovano sovente a dire a se stessi: ho paura, non sono capace, non riesco a far nulla! La paura ci blocca e invece il Signore vuole che noi abbiamo fiducia in Lui e fiducia in noi stessi. Questo servo è il modello dei discepoli che vivono l'attesa del Signore con paura, di quei discepoli che vorrebbero sapere con esattezza il tempo della venuta del Signore e ciò che Lui pretenderà. La paura blocca la nostra espressività, l'energia nascosta in ciascuno. La paura manifesta il non-amore verso noi stessi e verso l'altro. La paura ripiega il nostro essere in se stesso e non ci fa alzare lo sguardo verso l'orizzonte della speranza, dell'oceano di potenza racchiuso nella nostra anima. E così temiamo il giudizio degli altri, crediamo di non essere capaci di portare avanti la responsabilità che il Signore ci affida. Siamo troppo preoccupati dei risultati e ci blocchiamo prima ancora di partire.
    Dio non dà alcuna importanza al risultato. Il Signore guarda all'impegno che noi abbiamo messo nel fare le cose. Infatti nella parabola, pur avendo ricevuto tutti la stessa somma, uno la moltiplica per dieci volte e un altro per cinque. L'importante non è arrivare primo, ma «partecipare», impegnarsi fino in fondo. Questo è il senso della parabola.
    «Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci... A chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Lc 19,2425). Gesù emette la sentenza pronunciando dure parole. La condanna riguarda due tipi di persone: il discepolo che per paura non si è impegnato e coloro che non hanno mai riconosciuto Gesù come il Signore.
    Coloro che non sono fedeli, che rifiutano Gesù come Signore, alla fine della storia troveranno la condanna e questa parabola è detta ai discepoli perché anche noi possiamo non riconoscere il Signore, anche noi possiamo agire in modo tale che Cristo non regni nei nostri cuori, non regni nelle nostre comunità, non regni nelle nostre città. Se uno non si è impegnato alla fine si troverà senza niente, si accorgerà di essere un fallito ed il Signore lo caccia via perché non si è impegnato. Chi invece si è impegnato, al di là dei risultati ottenuti, alla fine del suo cammino verrà premiato dal Signore per la vita eterna.


    RIMANERE NELL'AMORE
    (Gv 15,1-17)

    Una relazione triangolare

    «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti frutto» (Gv 15,1-2). Le parole di Gesù, in questo secondo «discorso di addio», rivelano una dimensione triangolare: il Padre è il vignaiolo, il Figlio è la vera vite e i discepoli sono i tralci. Il Padre taglia il tralcio sterile e pota quello fecondo. Il Figlio, Cristo Gesù, è la vite veritiera: la sua parola purifica, rende fecondi; Egli ama fino a dare la vita per i suoi servi - i discepoli - elevati alla dignità di amici. Suo desiderio è rimanere in coloro che ha scelto perché camminino la vita rimanendo in Lui e portando frutto. Il suo desiderio è anche un imperativo: «amatevi gli uni gli altri». I discepoli, purificati dalla parola di Gesù, non possono portare alcun frutto se non rimangono in Lui, senza il quale nulla possono fare. Pena l'essere gettati nel fuoco come legna inaridita. Rimanere in Cristo significa rimanere nel suo Amore. Il frutto è la comunione ecclesiale nell'amore vicendevole come Cristo ci ha amati... fino a dare la vita!

    La vite della menzogna

    Il vangelo di Giovanni ha già riportato delle affermazioni in cui Gesù si autopresenta in questi termini: Io Sono il pane; Io Sono la luce; Io Sono la via, la verità e la vita... Il nostro testo ora sviluppa una tipica immagine biblica: la vite. Il simbolismo della vite/vigna ricorre più volte nei libri dell'AT e in particolare negli scritti profetici. Nel testo giovanneo Gesù si autodefinisce – rendendo bene il senso greco – «la vite quella veritiera», cioè «la vite della verità». Si oppone dunque a una «vite della menzogna», a una «vite falsa»? E qual è il senso del simbolo? Ricorriamo ad alcuni testi dell'AT.

    Israele-vigna infedele

    «Rigogliosa vite era Israele, che dava frutto abbondante; ma più abbondante era il suo frutto, più moltiplicava gli altari...» (Os 10,1).
    Nell'AT la vite, come il grano e l'ulivo, sono il segno della benedizione di Yhwh, il simbolo dell'alleanza che Egli ha stipulato con il popolo eletto e rappresentano il tempo messianico, fecondo di grazia e di pace (cf Mic 4,1ss; Zc 3,10). Per Osea la vite si identifica con Israele, popolo che Dio ha colmato di benedizione e di tenerezza durante il periodo del deserto, tempo dell'innamoramento e dell'amore fedele. Tuttavia la sposa-Israele, dopo aver ricevuto anche il dono di una terra ricca, pecca di infedeltà. Pensa ormai di poter fare a meno di Dio e rivolge il suo amore ai numerosi «amanti», agli idoli che «hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono...» (Sal 115,5). Israele è una vite infedele: ha tradito se stesso e l'amore di Dio.

    Il canto della vigna: l'amore deluso

    «Canterò per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna... Egli l'aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti... Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica... Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (Is 5,1-7).
    Volendo fare un bilancio della storia di Israele, segnata con monotonia dall'ingiustizia e dall'infedeltà, Isaia canta la parabola della vigna. All'inizio sembra trattarsi di un caso ipotetico, ma alla fine la parabola viene scagliata contro gli ascoltatori, cioè Israele. È stridente il contrasto fra l'amore e la premurosa attenzione di Dio-Vignaiolo e l'incapacità del popolo a corrispondervi. Israele è una vigna menzognera e falsa. La sua è una storia di delusione! Attendere-aspettare: è la delusione! Dio è l'innamorato deluso. Attende giustizia e il popolo amato risponde con l'ingiustizia. Aspetta rettitudine, ed ecco invece sopruso e oppressione. E una storia che non può continuare all'infinito. E una storia di ostinata sterilità. La delusione di Dio allora assume i toni del giudizio e del castigo. Il tralcio secco non serve a nulla se non ad essere bruciato: «Perciò così dice il Signore Dio: Come il legno della vite fra i legnami della foresta io l'ho messo sul fuoco a bruciare, così tratterò gli abitanti di Gerusalemme» (Ez 15,6). Dinanzi all'inesorabile giudizio di Dio, Israele innalzerà il suo lamento: «Dio degli eserciti, volgiti, guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato, il germoglio che ti sei coltivato... fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi» (Sal 80,15-20).

    Gesù vera vite

    Gesù è la risposta di Dio al lamento di Israele. La vite non è più il popolo (Israele-Chiesa) ma Gesù nella sua dignità cristologica: Io Sono. Egli è la vera vite che dà finalmente il frutto atteso da Dio Padre-Vignaiolo. È in quanto radicata in Cristo-vite-pietra angolare che la Chiesa-popolo nuovo esiste. La dimensione ecclesiologica può essere colta solo a partire dalla realtà cristologica.
    Voi siete i tralci può essere detto ai discepoli (la Chiesa) solo in virtù dell'Io Sono di Cristo Signore. Gesù allora è la vera vigna, che tiene uniti a sé i tralci-discepoli. Solo chi rimane unito a Lui, come un tralcio al ceppo, è fruitore di vita e portatore di energia vitale che si manifesta nel frutto. «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me... fa molto frutto... Chi non rimane in me viene gettato via...»: è il dilemma posto da Gesù ai suoi discepoli: accettare di essere innestati in Lui o essere soppressi perché... «senza di me non potete fare nulla». L'unione con Gesù è essenziale, porta con sé la fecondità di Cristo-vigna che ha dato se stesso per amore.
    Gesù è la vera vite perché in sé riassume il dono di Dio e la risposta fedele dell'uomo. Dono e risposta in Lui si compenetrano e si esprimono in pienezza. Luogo di incontro di queste due realtà è la Croce: suprema manifestazione del dono di Dio che muore per noi e risposta fedele e obbediente dell'Uomo che muore per Dio. Nel Crocifisso la potatura raggiunge il culmine, perché il Figlio «si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8): è la kenosi! In Lui cielo e terra si incrociano per un abbraccio e un dialogo.
    Come Cristo, anche i tralci fruttuosi devono sottoporsi alla prova della potatura, cioè alla purificazione. I credenti vengono continuamente purificati affinché la loro fede, confessata e praticata, risulti autentica. La fede non è data una volta per sempre, esige una rinnovata risposta e una rinnovata adesione alla Parola, esige il coraggio dello spoglia-mento di sé, della disponibilità a lasciarsi potare passando, in un certo modo, per la stessa kenosi di Cristo «vera vite».

    La reciprocità relazionale

    Senza di me non potete fare nulla: è costitutivo dell'essere umano la sua relazione-dipendenza da Dio. Non nell'autonomia o nell'autosufficienza, ma solo nell'apertura a Dio l'uomo può ritrovare se stesso, e soltanto nel rimanere in Cristo il discepolo trova vita e porta frutto. Come il Figlio nel grembo della Trinità è costantemente rivolto al Padre (cf Gv 1,1), così i discepoli e la Chiesa devono essere rivolti a Cristo, innestati in Lui come i tralci nella vite.
    Ma c'è di più: il rimanere, nel discorso di Gesù, è reciproco: «Rimanete in me e io in voi... Chi rimane in me e io in lui... Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi...»: è una formula di reciprocità e di mutua presenza usata da Gesù altre volte nel quarto vangelo (cf il discorso sulla eucaristia 6,56; sul buon pastore e il gregge 10,14-15; sull'amore 14,20.23). Tale formula caratterizza innanzitutto la profonda e intima relazione che intercorre fra il Padre e il Figlio, la cui epifania è il legame di intimità amicale fra Cristo e i discepoli. I discepoli per portare frutto devono vivere totalmente immersi nella vita di Gesù. Gesù vive pienamente la sua vitalità di salvezza nella vita dei discepoli: «rimanete in me e io in voi».
    Rimanere in Cristo significa lasciarsi abitare dalla sua parola (v. 7), dimorare nel suo amore (vv. 9-10) vivendo e prolungando la comunione che unisce il Padre e il Figlio, storicamente manifestatasi nell'amore di Cristo per i discepoli (v. 12). L'opera della salvezza è uno scambio d'amore che dal Padre, per il Figlio, discende verso i discepoli. È la triangolarità dell'attività salvifica. Gesù è l'epifania del Padre che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). In Gesù noi adoriamo il mistero del Dio-connoi e contempliamo l'amabilità di Dio.
    Rimanere in Cristo, come i tralci nella vite, significa dunque essere inseriti in modo vitale nel suo amore, la cui sorgente è la comunione del Padre e del Figlio (v. 9). Questa è la condizione indispensabile per portare frutto e «chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come Lui si è comportato» (1 Gv 2,6). Non ci si illuda: «senza di me non potete fare nulla»!

    E il vostro frutto rimanga

    Qual è il frutto che i tralci devono portare? Quali i comandamenti che i discepoli devono osservare per rimanere in Cristo? L'amore fraterno. Null'altro. E la misura è Gesù Cristo; Egli ha donato la sua vita come supremo segno dell'amore. Elemento costitutivo dell'essere discepoli è l'amore del Padre che ci raggiunge in Cristo. Esso è appello, compito e risposta dei discepoli. «Amatevi gli uni gli altri» non è la condizione per portare frutti, ma è il frutto e in questo è glorificato il Padre. «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (v. 12); «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). L'amore fraterno rende identificabili i discepoli di Gesù e testimonia il loro rimanere in Cristo, senza il quale non possono fare nulla né portare frutto.
    È questa reciprocità di amore fino a dare la vita a caratterizzare la Chiesa. Non si deve però incatenare l'amore; esso esige l'universalità e fonda la missione: «Io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (v. 16). Da teologico e cristologico, l'amore assume il volto ecclesiale e l'apertura missionaria. Non basta dunque il vogliamoci bene, occorre andare... fino a dare la vita. Altrimenti si uccide l'amore. Il frutto deve essere portato a tutti e condiviso con tutti. Solo così esso rimane, perché in questo frutto è Gesù stesso che agisce efficacemente in mezzo agli uomini. Non è anzitutto con la loro azione che i discepoli si scoprono missionari, ma rimanendo uniti a Cristo come i tralci alla vite, partecipando a tutti il loro frutto, cioè l'amore reciproco come Cristo li ha amati: «Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3,16). «E ora, figlioli, rimanete in lui» (1 Gv 2,28), perché «la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (v. 11). La gioia è il dono di Cristo ai discepoli che rimangono in Lui e nasce dalla consapevolezza della sua Presenza salvifica in mezzo ad essi. La gioia scaturisce dalla gratuità dell'amore di Dio ed è possibile unicamente nella reciprocità dell'amore... e il vostro frutto rimanga...


    E NOI ABBIAMO CREDUTO ALL'AMORE
    (1 Gv 4,9-16)

    L'Incarnazione: un dialogo d'amore

    «In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui» (1 Gv 4,9). Il Verbo di Dio entra nella realtà dell'umanità non quale Dio l'aveva originariamente pensata, ma in tutta la fragilità della «carne», cioè della natura umana confinata nella regione delle tenebre e del peccato. Due estremi si congiungono: la divinità si unisce alla fragilità estrema della carne. E il grande paradosso del cristianesimo. Il cielo scende sulla terra e Dio dimora in mezzo a noi in modo unico e nuovo. La terra – con le sue contraddizioni e i suoi smarrimenti – diventa la culla di Dio, del Dio che in Cristo rivela la potenza e il fascino di un Amore che si fa «debolezza» per l'uomo. «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10). Dio è impotente e debole nel mondo – scriveva Bonhoeffer – e soltanto così rimane con noi e ci aiuta. Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza che ci sovrasta, ma in virtù della sua sofferenza. La «novità» di Gesù Cristo è la definitiva rivelazione della storia come tempo di abbraccio con la Parola che viene dall'alto, la cui tenda é per sempre inchiodata con noi nella medesima terra... e i suoi solchi custodiscono il nuovo definitivo futuro, affidato a chiunque crede seriamente che «colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo» (1 Gv 4,5).

    La follia dell'amore

    Alla luce della rivelazione di Dio in Cristo si coglie come la vita – che per lui noi abbiamo – si gioca nella banale realtà di ogni giorno, nella consapevolezza che essa è preservata dallo svuotarsi nella contingenza e nell'episodicità, proprio perché traduce nella «carne», cioè nell'umano concreto e storico, l'amore divino. La teologia della vita non è che una variante della teologia dell'incarnazione: il Verbo si fece carne, l'Amore si fece croce, la Vita di Dio si fece vita umana. Questa Vita però può essere donata solo perché e in quanto Gesù affronta la passione e la morte e dà la sua stessa vita sull'altare della Croce, mediante la quale la partecipazione della vita divina si rende attuabile nella concreta situazione di peccato in cui l'uomo si trova. La Croce è sempre stata segno di contraddizione e motivo di divisione tra gli uomini. Tuttavia essa costituisce il paradosso supremo della forza di Dio in Cristo, perché è il vertice della «follia» dell'amore che ama per primo fino a dare la vita e concedere il perdono. Forti della forza crocifissa e viva di Dio, «anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1 Gv 4,11), certi che «con Dio noi faremo cose grandi» (Sal 60,14). Ma occorre giocare la propria vita nella fiducia che mai, nemmeno nei segmenti più tenebrosi dell'esistenza, verrà meno l'amore di Dio per noi, e rischiarla nella consapevole accettazione che nessun appoggio e nessuna sicurezza troveremo in noi stessi, e che tutto ci dovrà essere donato: questa fiducia e questa consapevolezza nascono dal coraggio e dalla capacità di leggere nella propria povertà e sofferenza la certezza di essere amati da Dio.

    Conoscere e credere all'Amore

    «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi» (1 Gv 4,16) : l'uomo salvato dall'amore del Padre in Gesù, uscendo da se stesso, dai propri ritegni interiori più profondi, deve riconoscere con gioia che è questo amore che lo fa essere e lo definisce come dono per gli altri; accettandolo, non può non derivarne un atteggiamento di prossimità, un percorrere la vita come cammino verso l'altro. In quanto siamo amati da Dio e facciamo esperienza dei suo gratuito amore, possiamo diventare capaci di metterci gli uni verso gli altri in atteggiamento semplice, amorevole e disponibile al servizio: «Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4,11-12). Se Dio in Cristo è stato così solidale con noi al punto da farci dono della sua vita, la conseguenza è l'impegno della solidarietà nostra nell'amore perché tutti abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza.
    Dio è amore e solo chi ama conosce Dio: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4,8). «Conoscere» nella Bibbia indica una relazione intima che arriva al cuore dell'altro, una «conoscenza interiore» che porta a farsi carico dell'altro, a prendere a cuore il cuore dell'altro. I Padri della Chiesa definivano la contemplazione, cioè la «conoscenza interiore» del mistero divino, notitia Dei cum amore: Dio si può incontrare solo nell'esercizio d'amore e per via di amore. Se Dio è Amore, la sua presenza deve essere contrassegnata dall'amore. Anzi, l'amore che Dio ha rivelato nel mandare suo Figlio a morire per noi e a darci la vita raggiunge la perfezione quando ci amiamo gli uni gli altri con quello stesso amore. E così l'amore è portato alla perfezione nel credente quando il credente è portato alla perfezione nell'amore.

    Appello e compito

    «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio...» (1 Gv 4,10): il movimento d'amore della storia parte da Dio; vocazione dei credente è fare «suo» il movimento di Dio e mettere in marcia la sua libertà verso l'Amore più grande. Tale «vocazione» non è esteriore all'uomo, ma si iscrive nelle fibre del suo essere e lo rende capace di dialogo con Dio, per una risposta consapevole e libera di collaborazione e di creatività. Dovuta alla libera iniziativa di Dio – «chiunque ama è generato da Dio» (1 Gv 4,7) – la «vocazione» non è innanzitutto la realizzazione di se stessi, ma il modo di donare (personale ed unico) l'amore di Dio che è dentro ciascuno di noi. Vocazione è uscire fuori dal proprio guscio per ascoltare l'appello di Dio che si nasconde nella storia e in ogni uomo. Atteggiamento fondamentale di ogni uomo «in vocazione» è la ricerca. Il cristiano è l'uomo sempre in ricerca, sempre in ascolto della parola di Dio che lo chiama e via via gli si rivela. «Avere la vocazione», come si usa dire,soltanto affer- mare di avere saputo che c'è un appello e un compito al fondo della propria storia e quindi dichiarare la propria disponibilità a cominciare un cammino di ricerca verso la conoscenza di Dio per via di amore. Il cristiano è l'uomo che crede all'amore, ad un amore senza limiti e senza eccezioni, un amore instancabile e mai deluso, perché crede all'amore di Dio che si è fatto uomo per incarnare l'amore nell'esperienza umana di ogni giorno.

    La sfida dell'Amore

    Vocazione è la sfida di Dio all'uomo. Se l'uomo accetta in pienezza di dipendere e di affidarsi a Dio, ritrova se stesso nella pienezza del suo destino; se invece non accetta, cade nella contraddizione esasperante della disperazione di un sogno svanito per sempre. Il cristiano è l'uomo che accetta la sfida di Dio, e perciò accetta una situazione di continua tensione verso la pienezza dell'amore: queste tensioni sono la certezza dell'amore di Dio, della sua presenza, del suo aiuto, che spingono il cristiano a tentare in ogni momento della sua vita la sintesi fra il tempo e l'eternità, fra il limite e l'infinito, fra la morte e la vita, divenendo nella storia epifania dell'Amore più grande. Se con la «vocazione» si coglie come un chiamato e un eletto da Dio, con la sua libera e gratuita risposta a seguire Cristo in modo radicale deve poter orientare l'umanità e la storia in direzione di Dio: è questa la particolare assunzione di responsabilità dalla quale non può prescindere e per la quale gioiosamente riconosce e crede all'amore di Dio. Il «conoscere» e il «credere» nell'Amore diviene in lui «un'originaria forza di iniziare e per questo deve rispondere di ciò che fa in quel modo specifico che è la responsabilità» (R. Guardini).
    Forti della forza dell'amore, i credenti devono essere capaci di assunzione di responsabilità, a tutti i livelli, trovando il coraggio di osare, di camminare la vita assumendo le responsabilità della vita. «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi»: il coraggio di «credere» nell'Amore trasforma i credenti in uomini e donne propositivi, capaci di superare timidezze e paure, in grado di dialogare con competenza e convinzione con i loro contemporanei e con chiunque domandi ragione della loro speranza. Uomini e donne che possano dire con S. Agostino: «O Signore, io ti amo. Non ho dubbio, sono certo che ti amo. Tu hai percosso il mio cuore con la tua parola e ti ho amato».


    T e r z a
    p a g i n A


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