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    Come un seme (Prima parte di: La brezza di Dio)


    Mario Russotto, LA BREZZA DI DIO. Meditazioni bibliche per educatori e catechisti, Elledici 1998


     

    LA PARABOLA DEL SEMINATORE
    (Mc 4,1-9)

    «Di nuovo si mise insegnare lungo il mare. E si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli salì su una barca...» (Mc 4,1). Marco ambienta questa prima parabola del suo vangelo sulla riva del lago di Tiberiade, che egli chiama «mare». La parabola, tuttavia, trae spunto dalla vita dei campi: si parla di un seminatore e del seme che cade su terreni diversi.

    L'imperativo dell'ascolto

    Per consentire alla «folla enorme» di ascoltare le sue parole, Gesù «salì su una barca e là restò seduto, stando in mare». Gesù sale in cattedra. Per tre volte, infatti, Marco sottolinea che Gesù si siede per insegnare «Di nuovo si mise a insegnare... Insegnava loro molte cose in parabole e diceva nel suo insegnamento» (Mc 4,1-2). A Gesù maestro si deve l'obbedienza dell'ascolto: «Ascoltate. Ecco, uscì il seminatore a seminare» (Mc 4,3).
    L' imperativo dell'ascolto implica un coinvolgimento totale della persona: dall'udire al comprendere e dalla comprensione alla vita. «Chi ha orecchi per intendere intenda!»: Gesù chiede un ascolto attento, orecchi protesi a cogliere con attenzione ogni cosa senza perdere alcuna parola. L'insegnamento di Gesù richiede attenzione e discernimento, capacità di decifrare con la mente e il cuore le sue parole. La folla è avvertita: esiste l'eventualità di non capire la parabola!

    Una storia e diversi destini

    «Ecco, uscì il seminatore a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada... Un'altra cadde fra i sassi... Un'altra cadde tra le spine... E un'altra cadde sulla terra buona...» (Mc 4,3-8). Il soggetto agente è uno solo: il seminatore. Egli compie sempre gli stessi gesti con la ferma speranza che la sua fatica sia feconda di frutti. Una è la semina, lo stesso è il seme diviso in più parti. Si racconta dunque un' unica storia con i medesimi protagonisti, ma gli esiti dell'azione del contadino e del seme sono diversi. Marco pone al centro della parabola non l'azione del seminatore, non le sue attese e nemmeno la diversificazione dei terreni, bensì il destino del seme.
    Una è la storia, uno il contadino, uno il seme gettato con speranza nello stesso giorno in un unico campo. Ma il futuro del seme si apre alla sorpresa: i risultati sono diversi! Tanto diversi. Questa parabola racconta la storia del ministero di Gesù e, dopo di lui, della comunità cristiana, dell'educatore e dell'evangelizzatore. La Parola di Dio, che è Gesù e da lui abbondantemente seminata, non sempre e non dovunque è coronata da successo. Il fallimento fa parte della sua storia. È l'esperienza della comunità e di ogni evangelizzatore responsabile: il frutto non segue «automaticamente» alla semina. Il fallimento va messo sempre in preventivo. Da chi o da che cosa dipende? Perché la Parola di Dio si scontra con il fallimento e l'improduttività?

    La forza della fiducia

    Nella parabola sembra che Gesù insista più sul fallimento che sul successo: per un motivo o per l'altro nelle prime tre scene il seme va incontro al fallimento e solo nella quarta e ultima scena porta frutto. Non c'è proporzione! Si tratta di un contadino sfortunato? Oppure di una «giornata storta»? Vale la pena affrontare la fatica della semina visti gli esiti infelici? Le prime tre scene, infatti, si soffermano a sottolineare con insistenza l'inutilità della fatica dell'evangelizzatore e l'insuccesso quasi totale della Parola. Se l'ascoltatore chiudesse l'udito a questo punto, concluderebbe che non vale la pena impegnarsi a vivere e ad annunciare la Parola di Gesù.
    Ma c'è una quarta scena: il racconto ha una conclusione a sorpresa: nonostante i ripetuti fallimenti, quello stesso seme porta certamente frutto. L'importante è non cedere, non scoraggiarsi dopo i primi tentativi, perché: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata» (Is 55,10-11).
    L'insuccesso è parte della storia, ma la parabola suggerisce la necessità della fiducia: il seme porta frutti abbondanti. L'inatteso successo finale ripaga la fatica, pur fra ostacoli e azioni infeconde. È una storia a lieto fine. Niente deve dunque scoraggiare il testimone e annunciatore della Parola: l'abbondanza del raccolto supera di gran lunga i ripetuti fallimenti. Il seme incontra – è certo – la terra buona e dà frutto al trenta, sessanta, cento per uno: è una proporzione altissima e fuori misura per qualsiasi terreno della Palestina. È il miracolo di Dio: l'importante è seminare con fiducia. Mai seppellire la speranza!

    Nella croce la vittoria

    «E un'altra cadde sulla terra buona, diede frutto che spuntò e crebbe, e rese...» (Mc 4,8). Il successo finale dell'azione del contadino non è posto in un lontano futuro ma nel presente. qui e ora il frutto c'è! La successione delle scene è temporale, ma quella dei destini del seme è spaziale. La differenza non riguarda i tempi, ma i terreni. Lo stesso contadino, nella medesima semina con lo stesso seme, fa esperienza di fallimenti e successi. La parabola così invita ogni «seminatore» ad avere uno sguardo ampio, a saper accogliere sconfitte e vittorie, che convivono insieme e sono frutto della stessa fatica. Anzi, mentre altri possono scoraggiarsi dinanzi alla «croce», ogni buon «seminatore» sa che lì è inchiodata la vittoria.
    La storia di Gesù ci aiuta a capire meglio la parabola, perché Egli è la parabola per eccellenza che illumina e spiega tutte le altre. Nell'apparente fallimento della Croce si rivela qualcosa di eccezionale: l'Amore più grande... fino a dare la vita! Nella debolezza si manifesta la potenza dell'Amore. E se l'enorme folla che seguiva Gesù si riduce a pochi intimi sulla collina del Calvario, un giorno non lontano «tutti mi conosceranno», perché «io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,33).
    L'educatore però faccia attenzione: non si lasci afferrare dalla tentazione di «selezionare» i terreni, scegliendo quelli che gli sembrano «buoni»; bisogna saper seminare con larga generosità... e il seme scriverà la sua storia. La Parola incontrerà da sé il terreno buono.


    IL SEMINATORE SEMINA LA PAROLA...
    (Mc 4,13-20)

    Dalla parabola alla spiegazione

    «Se non comprendete questa parabola, come potrete capire tutte le altre parabole?» (Mc 4,13). Rimasto solo con i suoi discepoli, Gesù viene interrogato sul significato della parabola del seminatore e rimane un pò sorpreso: sembrava così chiara, eppure i suoi non hanno capito. Con pazienza allora Gesù riprende il racconto e ne dà la spiegazione.
    Il seminatore resta... seminatore, di lui non si dice nulla. Tutti gli altri elementi della parabola hanno un preciso corrispondente: il seme è la parola (di Dio); i quattro terreni descrivono la variegata tipologia degli ascoltatori-destinatari della Parola; gli uccelli sono l'immagine di satana; il terreno sassoso è l'uomo facile all'entusiasmo e volubile; le spine sono le tante passioni, le preoccupazioni «mondane» e la ricchezza che soffocano il cuore dell'uomo.
    La parabola aveva un intento teologico: presentava la storia di Gesù e del cristiano in rapporto all'evangelizzazione. La spiegazione, invece, ha un intento morale, è una esortazione all'impegno. L'attenzione, infatti, ora viene spostata: dal «destino» del seme alla varietà dei terreni e Gesù chiarisce perché un terreno è produttivo e un altro no. La parabola rispondeva alla domanda: la parola di Dio è efficace e riesce a portare frutto? La domanda sottesa alla spiegazione, invece, è diversa: come rendere efficace la parola di Dio e cosa occorre fare perché porti frutto? L'ascoltatore coglie dunque uno slittamento di piani: si passa dall'attenzione alla Parola alla sua accoglienza e da Dio agli uomini. Gesù sottolinea nella spiegazione che la fecondità o meno della parola di Dio non sta solo in essa, ma anche nell'uomo: se la
    Parola porta frutto è anche perché il credente si impegna con responsabilità, serietà, perseveranza.

    Condizioni per portare frutto

    La spiegazione della parabola presenta due elementi costanti: la parola seminata e l'ascolto. Gesù insiste nell'affermare che tutti e quattro i terreni sono destinatari dello stesso seme e tutti lo accolgono: la Parola è rivolta a tutti senza distinzioni e tutti l'ascoltano. I risultati, tuttavia, sono assai diversi; evidentemente ascoltare non basta. E qui Gesù spiega quali sono le condizioni necessarie perché la parola di Dio faccia il suo percorso nel cuore dell'uomo e dia risultati fruttuosi. Le differenze fra i vari terreni-ascoltatori emergono proprio al livello delle condizioni richieste.
    «Quelli lungo la strada... subito viene satana, e porta via la parola seminata in loro» (Mc 4,15). In questo primo tipo di ascoltatori la parola di Dio quasi non fa a tempo a raggiungere il terreno, non riesce nemmeno a mettere radici. La Parola scivola via senza lasciare traccia: «subito viene satana». Il male c'è e si configura come «satana» o «diavolo», cioè come divisione, lacerazione interiore, smarrimento. Superficialità, distrazione e frammentazione caratterizzano questo primo tipo di ascoltatori. L'uomo non «unificato», privo di una direzione nella sua vita e smarrito nei meandri dell'esistenza, incapace di cercare un filo unificatore non riesce nemmeno a «custodire» la Parola, a darle ospitalità nella sua coscienza. E tutto scivola via...
    «Similmente quelli che ricevono il seme sulle pietre... subito l'accolgono con gioia, ma non hanno radice in se stessi, sono incostanti... subito si abbattono» (Mc 4,16-17). Questa seconda tipologia presenta degli ascoltatori entusiasti ma incapaci di «interiorizzare» la Parola. Ciò che li caratterizza è l'avverbio subito, come nel primo tipo: là indicava la superficialità dell'ascolto, qui la fragilità del carattere: «subito l'accolgono con gioia... subito si abbattono». Si tratta di persone prive di equilibrio interiore: con la stessa fretta con la quale si entusiasmano, ora si scoraggiano. Passano così da un eccesso all'altro, non riescono a mantenersi «fermi», a tenere saldi i loro impegni; per cui al sopraggiungere delle prime difficoltà, tirano i remi in barca e si lasciano andare. Nel loro orizzonte esistenziale e nel loro- cammino di fede tutto deve andare sempre a gonfie vele: la fatica e le difficoltà non rientrano nelle loro prospettive.
    «Altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine... ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e l'inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie...» (Mc 4,18-19). Troppi sono gli interessi dietro i quali corre questo terzo tipo di ascoltatori... e in essi la Parola viene soffocata. Non c'è spazio sufficiente nel loro gretto e passionale cuore, non c'è aria sufficiente per dare «respiro» alla parola di Dio. Distratti e appesantii dall'idolatria del denaro, del potere e del sesso, questi ascoltatori non riescono a giocare la vita per ciò che vale veramente. Cercano un appagamento nell'immediato, nell'afferrabile: sono schiavi di ciò che credono di possedere, sono compressi fra le righe di un quaderno disegnato dalle mode, dal pensare comune, dalla ricerca del potere. Pensano di essere dominatori ma sono solo schiavi: priva di uno spazio di libertà, la Parola soffoca nella coscienza di questi ascoltatori.
    «Quelli poi che ricevono il seme su terreno buono... l'accolgono e portano frutto nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno» (Mc 4,20). Per questo tipo di ascoltatori Gesù non spende molte parole: li qualifica soltanto come «terreno buono». Gesù non spiega il «perché», ma descrive cosa fanno e usa due verbi comuni agli altri ascoltatori e uno diverso: ascoltano, accolgono, portano frutto... senza alcun avverbio. Non si dice «subito» accolgono la Parola, o «subito» portano frutto. Non si indica perciò una sequenza temporale di azioni, ma un atteggiamento, una dimensione interiora l'ascolto si fa accoglienza feconda; la Parola riceve ospitalità con amicizia, con animo aperto. Il frutto arriva senza rumore, senza azioni eclatanti. Non l'affanno di molteplici azioni, bensì la serenità del cuore caratterizza questi ultimi ascoltatori. E il frutto arriva abbondante, al di là di ogni attesa.


    NEL FRATTEMPO IL SEME CRESCE
    (Mc 4,26-29)

    Dopo la lunga parabola del seminatore e la sua spiegazione, Marco presenta una piccola parabola tratta sempre dalla vita agricola. Descrivendo una realtà «ordinaria» che è sotto gli occhi di tutti – l'evangelista infatti mette tutti i verbi al presente –, la parabola verte su ciò che, pur nella sua «banalità», è sorprendente: il seme gettato nella terra germoglia e cresce.

    Un racconto in tre tempi

    «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra...» (Mc 4,26): è il dispiegarsi di una storia in cui il seme e il Regno si intrecciano in un unico racconto in tre tempi, con tre protagonisti: il contadino, il seme, la terra. Il racconto prende il via dall'azione del contadino nella prima scena: seminare.
    Nella brevità della parabola, la prima scena si presenta brevissima: una sola azione che coinvolge tutti i tre protagonisti.
    Nella seconda scena – la più lunga e ricca di dettagli –l'attenzione si concentra sul seme e sulla terra: sono loro i protagonisti; il contadino pur alternando veglia e sonno è impotente, non può fare altro che attendere lo sviluppo della sua prima e unica azione nei confronti degli altri due protagonisti. Il seme germoglia e cresce, la terra produce da sé – spontaneamente – straordinarie trasformazioni: «prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (Mc 4,28). A questa silenziosa ma incessante azione congiunta del seme e della terra viene contrapposta l'azione non agente del contadino che si dispiega nell'intero arco del chronos (notte-giorno): dormire-vegliare. In questo frattempo (dalla semina al raccolto) il contadino «agisce» fra sonno e veglia. Ma è un'azione che non aumenta la sua conoscenza, egli resta nell'ignoranza: non sa come si sviluppa la vita del seme. Il seme vive nel frattempo il suo kairòs (tempo importante per la crescita, il suo tempo di «grazia»). Anche per la terra è giunto il kairòs (tempo in cui opera spontaneamente le sue meraviglie: dal seme al frutto).
    Nella terza scena i protagonisti sembrano diversi: sono assenti il contadino – Marco dice: «si mette mano alla falce», senza nominare il soggetto –, il seme e la terra. In realtà la scena è dominata dall'unico vero protagonista, che ora appare trasformato perché è giunto a «maturazione»: il seme-frutto. Il seme silenziosamente germoglia, cresce, matura. E ora si consegna. All'uomo non resta che accogliere questo dono appena il frutto è pronto a consegnarsi.

    Nel tempo intermedio

    Il narratore vuole catturare l'attenzione del lettore sul tempo intermedio, il tra dal tempo della semina a quello della raccolta: qui c'è il lento decisivo tempo della misteriosa crescita. Il contadino è impotente, non può far nulla se non passare il tempo fra riposo e attesa vigilante, caratterizzati da fiducia e serenità. Il tempo del contadino è brevissimo, sia al momento della semina come in quello della raccolta. Il tempo del seme è invece molto lungo.
    E normale allora porre due interrogativi: perché e cosa significa questo lungo frattempo teso fra la semina e il raccolto? Come è possibile coniugare la serenità evangelica con l'impazienza dei risultati? Il momento prezioso e fecondo sta proprio in quel tempo intermedio: in esso si incrociano il tempo eterno di Dio e il tempo dell'uomo, fatto di cronologico avvicendarsi dei giorni e delle stagioni. Con la storia di Pasqua, lo Spirito è entrato in modo pieno e definitivo nella vicenda di questo mondo: Dio ha avuto tempo per l'uomo e i giorni dell'uomo sono diventati, a partire dal giorno di Pasqua, il tempo penultimo, il frattempo, che sta fra la prima venuta del Figlio dell'uomo e il suo ritorno nella gloria.
    Disseminato di pause e iati, il nostro tempo non è mai pieno; eppure noi viviamo spesso in una presunta pienezza del tempo come se tutto dovesse risolversi qui e ora. Ma l'Ulteriorità che la fede ci dischiude esige una chiara coscienza dell'intervallo, che non è ignoranza del presente e di un futuro da costruire, ma impegno, perché essi siano «tappe» vitali e non mete. In questo fragile frattempo i credenti, pur nella frantumazione cronologica e nella caducità del tempo, imparano per Cristo nello Spirito ad aprire ogni giorno lo sguardo all'orizzonte della speranza e di una creazione che geme e soffre nelle doglie del parto: «Chi vi impedisce di vivere la vostra vita come un bello e doloroso giorno nella storia di una grande gestazione? Non vedete come tutto quanto accade è ancora sempre un cominciamento?» (RM. Rilke).
    Il seme, affidato al grembo della terra, nel silenzio del solco va spegnendo ogni gemito vitale perché silenziosamente possa divenire «altro». Non c'è rumore nel fecondo silenzio del seme, non c'è frastuono nel suo germogliare e neppure nel suo offrirsi alla falce del contadino. Tutto avviene invisibilmente e misteriosamente. Così è del Regno di Dio: posto nella storia come un seme, germoglia e cresce spontaneamente, per forza propria, e si offre all'uomo come dono. Esso è opera di Dio non degli uomini. Ai credenti non resta che vivere nel «tra» della storia, tesa fra il già e il non ancora, con un atteggiamento di vigilante fiducia non potendo essi garantire il successo del Regno. Non l'affanno dell'organizzazione e neppure l'ansia dell'efficienza, ma l'affidamento e l'accoglienza devono caratterizzare l'impegno dei cristiani nella storia.


    UN GRANELLO DI SENAPA
    (Mc 4,30-32)

    Nel quotidiano Dio

    Questa brevissima parabola chiude il trittico delle parabole del Regno tratte dalla vita dei campi, a cui Marco dedica quasi tutto il capitolo 4. Per Matteo (13,31-32) e Luca (13,18-19) il soggetto narrante è lo stesso Gesù: Egli descrive il Regno di Dio con una sequenza di immagini semplici e sotto gli occhi di tutti, perché il suo discorso sia incisivo e comprensibile. Per Marco, invece, il soggetto narrante è un «noi»: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?» (Mc 4,30). Il narratore coinvolge se stesso insieme ai suoi ascoltatori o, forse, è lo stesso Gesù a indurre i suoi discepoli a fare lo sforzo di trovare un linguaggio semplice, capace di far cogliere agli uditori qualcosa del Regno di cui Gesù stesso è annunciatore e presenza.
    Non è facile «dire Dio»: già all'alba del cristianesimo la comunità viveva la fatica di trovare un linguaggio attento ai destinatari e fedele alla divina realtà da annunciare. Per questo Gesù e i suoi, convinti che la vita stessa parla di Dio, cercano immagini «ordinarie» per raccontare Dio: il quotidiano è un libro aperto in cui il Signore scrive le sue parole fra le righe degli uomini. Del resto, già il popolo dell'Antico Testamento aveva compreso la straordinaria compagnia della parola di Dio, la quale «non è troppo alta per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo... Non è di là dal mare... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,11-14).
    «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o – traducendo letteralmente il testo greco – in quale parabola possiamo collocarlo?»: secondo Marco esiste uno stretto rapporto, quasi una mutua appartenenza, fra parabola e Regno. Il narratore cerca un'immagine, una parabola in cui esso può essere collocato. Esiste dunque un punto di congiunzione tra la presenza del Regno e la nostra esperienza, altrimenti oltre che incomprensibile risulterà estraneo. Il Regno e la vita quotidiana si incontrano ma non si identificano: è sempre un «come», un paragone. Prossimità e distanza qualificano così il rapporto Regno-vita. Il «come» appartiene alla natura della parabola, che suggerisce senza definire. E ancor prima appartiene alla natura del Regno, che si fa sperimentare vicino ma non afferrare. Nessuno può dire di possederlo: siamo tutti e sempre cercatori e non possessori del Regno: esso è in mezzo a noi ma nello stesso tempo ci trascende.

    I protagonisti, i tempi

    Due sono i protagonisti principali di questa breve parabola: il seme di senapa e gli uccelli; non ci sono soggetti umani, non si parla nemmeno di un contadino. Il granelli-no di senapa, infatti, in apertura è descritto con un verbo passivo: «quando viene seminato per terra...» (Mc 4,31): fin dall'inizio cattura l'attenzione del lettore-uditore: è il protagonista della parabola. Il Regno di Dio, tuttavia, non viene paragonato al seme in sé, bensì alla storia del seme.
    La parabola non racconta cos'è un granellino di senapa, ma la sua storia, anzi il processo del suo sviluppo che avviene in tre tempi: la semina, la rapida crescita, la pienezza della maturazione: il piccolo seme diventa un albero! Il momento intermedio è solo un passaggio; al narratore interessa puntare l'attenzione sul primo e sull'ultimo tempo per far risaltare il contrasto fra la piccolezza iniziale e la straordinaria grandezza nella maturazione finale. L'infimo seme si fa un albero capace di accogliere e ospitare gli uccelli del cielo!

    I rami del piccolo seme

    Il Regno è descritto in una dimensione dinamica, con una storia in divenire: il seme è in fase di crescita, non è statico. Il Regno di Dio è una storia in crescita, un evento e non una verità astratta e atemporale.
    La storia del seme è descritta con una sequenza di verbi posti su un'asse verticale (alto-basso) e un'asse orizzontale (si allarga). Il seme «viene seminato per terra»: è un dono dall'alto in basso; «appena seminato cresce»: è uno sviluppo che dal grembo della terra sale verso l'alto; «fa rami tanto grandi»: il seme-albero ora allarga i suoi rami perché divengano casa ospitale per gli uccelli. Unico soggetto di questi verbi è sempre il seme, ma è importante fissare l'attenzione sugli aggettivi che qualificano la sua storia: il più piccolo di tutti... diviene più grande di tutti... e fa rami tanto grandi. Il narratore ci invita così a cogliere il contrasto: piccolo-grande. È la logica di Dio, lo stile del suo accompagnarsi agli uomini: si pensi a Israele, il più piccolo fra tutti i popoli; oppure al liberatore Gedeone o al re Davide, i più piccoli nelle loro famiglie. Entrare nella logica di Dio significa saper cogliere la grandezza della piccolezza e della debolezza: «Chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,4); «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1 Cor 12,7).
    Nella storia del seme è importante non perdere di vista che il contrasto piccolo-grande è in realtà l'esito di una continuità, non di una rottura. Per lo scopo della parabola la continuità fra l'inizio e la fine è importante quanto la differenza: è proprio questo piccolo seme che diventa un grande albero!
    «... e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra» (Mc 4,32): è un'immagine che svolge due funzioni importanti: rafforzare il contrasto ribadendo la grandezza del seme; offrire all'ascoltatore una chiave di lettura. Infatti l'immagine dell'albero nel quale trovano riparo gli uccelli è ricca di risonanze bibliche (Gdc 9,8-15; Ez 17,22-24; Dn 4,10-12.17-23). Queste evocazioni fanno riferimento all'atteso Regno di Dio, la cui grandezza contrasterà con la situazione difficile nella quale ora il popolo vive. Grandezza e sicurezza sono le due note suggerite dall'immagine dei «rami tanto grandi». Secondo Marco gli uccelli non dimorano o nidificano fra i rami, ma cercano riparo sotto la loro ombra. «Una tenda fornirà ombra contro il caldo di giorno e rifugio e riparo contro i temporali e contro la pioggia» (Is 4,6): per il profeta Isaia, l'ombra è il simbolo della signoria di Dio, che è rifugio e riparo per gli uomini dalle intemperie della vita. Il Regno di Dio non è un grembo protettivo che distoglie i credenti dalla lotta e dalla fatica di una fede incarnata nella storia, ma uno spazio interiore in cui ritrovarsi e ritrovare il calore e la forza per librarsi nell'orizzonte della vita... come gli uccelli nel cielo.

    Siamo sempre un seme

    La parabola si mantiene in una dimensione teologica o, più precisamente, cristologica: racconta la storia di Gesù, descrive l'evento-Cristo nel suo farsi Dio-con-noi. Pur presentandosi umile, pur apparendo un fallito sul legno della croce, Gesù è la buona novella di Dio, è il Regno di Dio in mezzo agli uomini. Ma Egli si è presentato come un fragile, debole seme: «Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta» (Is 42,2-3). Così il profeta Isaia aveva annunciato il Messia. Gesù-Regno di Dio: questo connubio esige una profonda conversione «teologica» prima che morale: anche nel tempo del compimento Dio non pianta alberi ma getta semi. E un modo assolutamente nuovo di intendere il compimento!
    La parabola vuole suggerire una maniera diversa di immaginare la presenza del Regno nella storia. Il tempo di Gesù non è solo l'inizio e il fondamento del tempo della Chiesa, ma il «codice genetico» che ne determina l'identità, la fisionomia e il carattere. Anche quello della Chiesa è tempo di semi, non di alberi. Capovolgere la parabola partendo dall'albero - eravamo un piccolo seme e ora siamo un grande albero - significa fraintenderla. Chiunque legge e ascolta la parabola sa che vive nella situazione del seme. Nello stesso tempo, però, è importante imparare ad alzare lo sguardo, a puntare in avanti: il seme è un albero! Guardare all'albero fatto significa cogliere la forza del seme, scoprire la potenza della debolezza. Lo stupore di fronte all'albero deve trasformarsi in stupore di fronte al seme. Se Gesù orienta lo sguardo al futuro è per rivelare la potenza del presente. Il presente è decisivo, non importa se è piccolo. L'oggi, pur nella sua fragilità e debolezza, è l'ora decisiva per la crescita, è già tempo di grazia, tempo di Dio... perché il Regno di Dio è qui, proprio in questa realtà del mio e del nostro «oggi».


    IL TESORO E LA PERLA
    (Mt 13,44-46)

    Due uomini e un bene prezioso

    Nello sforzo di trovare immagini adeguate per descrivere il Regno di Dio, Matteo riporta alla fine del capitolo 13 tre parabole: il tesoro, la perla, la rete. Noi ci occupiamo solo delle prime due, definite parabole gemelle. Il Regno viene paragonato, «è simile», alla storia che ha per oggetto un tesoro e una perla di grande valore.
    «Un uomo» e «un mercante» nei loro confronti compiono le stesse azioni: trovare-andare-vendere-comprare. La prima parabola aggiunge due particolari rispetto alla seconda: l'uomo nasconde in un primo tempo il tesoro trovato; la scoperta lo riempie di gioia anche se decide di vendere tutto quello che possiede per quel tesoro. Entrambi i personaggi, un uomo (probabilmente un contadino) e un mercante, sono dei possidenti; tuttavia il primo non è proprietario del campo in cui trova il tesoro e il secondo, pur avendo dei negozi, non possiede quella rara e preziosa perla.
    Il contadino e il mercante sono i soggetti di tutte le azioni delle due parabole: trovare, (nascondere), andare, vendere, comprare; ma i veri protagonisti sono il tesoro e la perla. Grazie all'incredibile fascino dei due oggetti, che afferra totalmente i due uomini, questi agiscono in quel modo. E agiscono con immediatezza appena fanno la sorprendente scoperta: prendono subito importanti e radicali decisioni, prontamente e senza esitazioni. Quasi certamente chiunque avrebbe fatto così al loro posto. La «novità» delle parabole sta proprio nella loro «ovvietà». Un uomo che, afferrato dal Vangelo, si comporta come il contadino e il mercante non fa nulla di straordinario. È semplicemente un uomo a cui è capitata una enorme fortuna. Imbattersi in un bene prezioso che dona la pienezza della gioia e decidere di non lasciarsi sfuggire l'occasione: così è il discepolo.
    «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova...» (Mt 13,44). «Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata...» (Mt 13,45).
    Le due parabole gemelle presentano delle sottili differenze, oltre a quelle notate prima: oggetto del ritrovamento è il tesoro nel primo caso, la perla preziosa nel secondo; ma la seconda parabola non dice che il Regno è simile alla perla bensì al mercante in ricerca. Nella prima parabola possiamo parlare di «fortuita scoperta»: il tesoro quasi si offre da sé all'uomo che per caso lo ha scoperto. Nella seconda parabola, invece, l'incontro mercante-perla preziosa è frutto di una lunga ricerca. E forse la gioia del contadino evidenzia uno stato d'animo euforico, tipico di chi scopre all'improvviso un bene eccezionale di cui non conosceva né immaginava nemmeno l'esistenza. Il mercante invece sa ciò che cerca e dopo lunghe ricerche approda finalmente al ritrovamento: la sua è una gioia contenuta. Il narratore, caso mai, avrebbe sottolineato infatti la sua tristezza qualora l'oggetto della ricerca non fosse stato raggiunto. Diverse sono dunque le strade attraverso le quali incontrare Dio: per alcuni si tratta di un'inaspettata scoperta, per altri di un faticoso cammino di ricerca. A tutti viene comunque chiesto totalità e radicalità. Non basta aver trovato, occorre andarevendere-comprare. E questo è quanto il Regno di Dio chiede a tutti.

    Radicalità e totalità

    «...poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra... va, vende tutti i suoi averi e la compra». Il contadino è quello che comunemente viene definito «un uomo nato con la camicia»: trova per caso mi tesoro in un campo non suo, vende il poco che ha – non è ricco – e compra il campo con il tesoro. Non è un benestante, però è un uomo onesto: il tesoro non si può rubare, occorre acquistarlo comprando il terreno che lo contiene. Il mercante invece è ricco, possiede qualche negozio di gioielleria, che il testo greco chiama «emporio»; quindi deve vendere molto per comprare la preziosa perla.
    Due i tratti comuni ai nostri personaggi: al ritrovamento segue la rapida decisione di vendere per comprare; ciò che vendono è tutto quello che possiedono, poco o molto che sia. Il Vangelo richiede un distacco totale, non per spirito di sacrificio, ma per la preziosità del bene trovato. E si vende tutto senza rimpianti. In fondo è un vero affare! Così è per il Regno di Dio: la sola scelta intelligente è lasciare tutto per entrarne in possesso. Si pensi alla storia dei primi discepoli: «Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono... Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono» (Mt 4,20-22). Diversa è la storia del giovane ricco, il quale «se ne andò triste; perché aveva molte ricchezze» (Mt 19,22). La tristezza del giovane si contrappone alla gioia del contadino.
    La pienezza di vita è frutto dell'aver trovato, dell'esperienza di un dono inaspettato o cercato ma sorprendente, di un incontro che allarga il cuore. Per questo il vero cristiano non dice: «Ho lasciato», ma «Ho trovato». Non dice: «Ho venduto il campo», ma «Ho trovato un tesoro». Il vero discepolo parla molto non di ciò che ha lasciato, ma di ciò che ha trovato. E non invidia nessuno, e si ritiene fortunato. È un problema di appartenenza: appena fatta la loro scoperta, il contadino e il mercante decidono prontamente di «appartenere» interamente al tesoro o alla perla che hanno trovato. La misura del discepolo è l'appartenenza, non il distacco. Per questo la gioia del contadino nasce dal ritrovamento e non dalla vendita. Dinanzi al tesoro o alla perla preziosa tutto il resto perde valore: «Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,8).


    IL FARISEO E IL PUBBLICANO
    (Lc 18,9-14)

    Due uomini al tempio

    «Due uomini salirono al tempio per pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano» (Lc 18,10). In questa parabola Gesù mette in scena due uomini: un fariseo e un pubblicano. Si tratta di due personaggi che vivono in modo completamente opposto.
    I farisei (la parola ebraica hasdim indica una classe sociale e religiosa di uomini «puri» e «devoti») erano dei benestanti e profondi conoscitori delle Scritture, che citavano a memoria, e osservavano scrupolosamente tutte le leggi religiose di Israele, attenti a non dimenticarne nemmeno una.
    I pubblicani, invece, erano degli ebrei venduti al potere romano. Benestanti anch'essi, si arricchivano riscuotendo le tasse dai loro stessi concittadini per conto dei romani. Erano perciò del traditori della patria e, molto spesso, ladri e sfruttatori. Scomunicati dalla classe dirigente ebraica (scribi e farisei), erano considerati dei «rinnegati», senza Dio e senza patria.
    Ebbene, Gesù racconta questa parabola proprio «per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18,9). L'intenzione di Gesù è dunque quella di denunciare due atteggiamenti sbagliati, due modi di pensare e di comportarsi nettamente in opposizione al Vangelo: la presunzione di ritenersi perfetti davanti a Dio e il sentirsi superiori agli altri giudicandoli con disprezzo. I due atteggiamenti sono legati e il secondo dipende dal primo.
    Il fariseo presume di sé, è sicuro della propria giustizia; egli è anche un giudice «zelante» e spietato nei confronti del suo prossimo: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti e adulteri, e neppure come questo pubblicano» (Lc 18,11).
    Il pubblicano invece non si preoccupa di quello che gli altri sono e fanno; è lontano dalla sua mente il giudicare il fariseo o altri. Egli è consapevole dei propri tradimenti e delle sue colpe e non tenta di mascherarli davanti a Dio. Si presenta così con quella che dovrebbe essere la «carta d'identità» di ogni cristiano: peccatore! Tutti e due i personaggi fanno un cammino in salita per arrivare al tempio, il luogo per eccellenza della presenza di Dio, e lì formulano la loro preghiera.

    Parole senza preghiera

    Il fariseo entra nel tempio e rimane «in piedi»: è sicuro e fiero di sé. Formula una preghiera di ringraziamento a Dio non per i doni ricevuti, non per la vita o la fede; ma perché non è come gli altri. Egli si «distingue» per il suo impegno e avanza dei meriti dinanzi a Dio: «Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo» (Lc 18,12). È più che scrupoloso nell'osservare i suoi doveri religiosi. La sua «santità» è frutto unicamente del suo sforzo e del suo impegno. In fondo, il fariseo dice la verità, perché è vero che osserva fedelmente la legge e fa grandi sacrifici; è vero che il suo zelo lo spinge a fare più di quanto la legge richiede: non digiuna soltanto un giorno alla settimana come era prescritto, ma due. Che cosa allora non va nella sua vita? Perché la sua preghiera non è gradita a Dio? Il «difetto» del fariseo non è l'ipocrisia, ma il riporre la fiducia unicamente in se stesso. La sua preghiera è un monologo: «pregava così tra sé» (Lc 18,11). Egli sta «in piedi», non ha nulla da chiedere a Dio, anzi ritiene che Dio debba qualcosa a lui: nella sua preghiera non chiede misericordia, non aspetta il dono della salvezza, ma aspetta da Dio il premio che gli è dovuto per il bene fatto. Nel suo monologo orante esordisce dicendo: «O Dio, ti ringrazio...», ma poi il suo sguardo è tutto ripiegato in se stesso. La sua giustizia non deriva da Dio e il suo modo di giudicare con disprezzo il prossimo non ha nulla a che vedere con la preghiera: è solo un autocompiacimento. La sua vita è troppo distante dalla vera preghiera; il «suo» Dio troppo diverso da quello annunciato e testimoniato da Gesù. Era salito al tempio per pregare ma non sa confrontarsi con Dio, non gli domanda nulla, non gli presenta la sua vita. Dice a se stesso tante parole, ma non sa mettersi in atteggiamento di preghiera. Uscirà come era entrato: con il suo orgoglio, la sua presunta santità, il suo disprezzo per gli altri.

    Il coraggio di piegarsi

    Il pubblicano, ebreo «rinnegato», è iscritto nell'elenco ufficiale dei «senza Dio» insieme ai ladri, alle prostitute, agli adulteri e ai pagani. Consapevole che la sua vita è in forte dissonanza con la fede e la giustizia, «fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto...» (Lc 18,13). Entra nel tempio con la coscienza di porre dinanzi a Dio tutta la sua vita, senza maschere e in tutta la sua nudità. Il suo atteggiamento di preghiera è esattamente opposto a quello del fariseo. La sua preghiera non è un monologo ma un dialogo; egli non parla a se stesso ma a Dio: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Dice la verità: è peccatore! A Dio presenta con coraggio la sua carta di identità e, cosciente della sua fragilità, piega le ginocchia, tiene abbassato lo sguardo perché si vergogna di se stesso, resta in fondo al tempio perché non osa avvicinarsi alla santità di Dio. La sua umiltà, tuttavia, non consiste nell'abbassarsi, perché egli è realmente ciò che dice di essere, ma nel coraggio di presentarsi con verità a Dio e a se stesso. Al coraggio unisce il bisogno di cambiamento, consapevole di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla di cui vantarsi e non ha nulla da esigere. Può solo chiedere: «O Dio, abbi pietà di me», eleeson me: chiede l'elemosina di Dio, implora cioè il chinarsi misericordioso del Signore sulla sua fragilità, sul suo peccato. E si rimette a Lui, si affida completamente allo sguardo compassionevole di Dio, non a se stesso. È questa l'umiltà di cui parla la parabola, è questo l'atteggiamento che Gesù loda.

    Bisognosi di perdono

    Gesù non elogia la vita del pubblicano e non disprezza le opere del fariseo; apprezza la verità con la quale il pubblicano si pone dinanzi a Dio e a se stesso; del fariseo condanna l'atteggiamento orgoglioso e arrogante e l'inutilità della sua vuota preghiera.
    L'unico modo di porsi di fronte al Signore, nella preghiera e nella vita, è quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore. Bisogna compiere opere buone, ma non li si deve calcolare né ci si deve vantare giudicando gli altri. Il fariseo è sinceramente religioso e quello che dice è vero. Egli considera la sua santità come frutto del suo impegno e non come dono di Dio; è lontana dalla sua mentalità la misericordia e la «prossimità» con chi è diverso da lui, con il pubblicano.
    Gesù non rimprovera perciò il fariseo di ipocrisia, ma evidenzia che è sbagliato l'intero suo modo di rapportarsi a Dio: «Disse questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri». Gesù smaschera nel fariseo la sua «radice inquinata», il sistema religioso nel quale vive e non una semplice incoerenza. La parabola non afferma che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano: non sono le sue opere ad essere contestate ma egli stesso e il suo modo di essere. L'errore sta nel guardare a Dio alla luce delle proprie opere. Per Gesù invece è importante e necessario che l'uomo guardi a se stesso a partire da Dio, che l'uomo impari a cogliersi dallo sguardo di Dio e ad essere «vero» di fronte a Lui. «Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro» (Lc 18,14); la «giustificazione» è permettere a Dio di farci dono del suo perdono, lasciare che Dio ci ami così come siamo, senza paura e senza infingimenti. E allora la fragilità umiliata si trasforma in forza e in coraggio, ci rimette nuovamente in strada verso la pienezza della vita: «Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».


    Intermezzo

    UN PADRE E DUE FIGLI
    (Lc 15,11-32)

    Il testo è comunemente chiamato «parabola del figliol prodigo», ma sarebbe meglio intitolarlo la parabola del padre misericordioso. Vero protagonista, infatti, non è il figlio (fra l'altro i figli sono due) ma il padre con il quale, in modo diverso, si relazionano i due figli. I personaggi dunque sono tre: il padre, il figlio giovane, il figlio maggiore. Manca la madre, forse perché questa dimensione materna è presente nel participio «commosso» riferito al padre. Dobbiamo anche notare che i due figli non parlano mai fra di loro e che il padre parla solo con il figlio maggiore, mentre con il figlio minore si esprime solo con il linguaggio gestuale dell'amore e dell'accoglienza.

    L'umiltà e il coraggio dell'amore

    Il padre rappresenta chiaramente Dio e viene presentato con alcune particolari caratteristiche.
    Umiltà: il figlio più giovane decide di gestire la propria vita, di possedere i beni che afferma a lui dovuti e di disporne indipendentemente dal padre. Di fronte a questa scelta del figlio il padre non oppone resistenza. Lo lascia partire. Si adegua alla sua decisione e sa aspettarlo con un desiderio carico di infinita umiltà. L'umiltà è la caratteristica di Dio! L'unico che può essere veramente umile è Lui. Lui soltanto può fare pienamente spazio all'esistenza dell'altro, in quanto Egli solo occupa ogni luogo, ogni essere. L'umiltà di Dio è il suo ritrarsi perché noi esistiamo. Dio fa spazio alla dignità delle sue creature. Vi è come un'autolimitazione di Dio determinata dal fatto che noi possiamo esistere nella nostra libertà. Dio può tutto, ma non vuol salvarci contro la nostra volontà.
    Questa è l'umiltà di Dio: l'Onnipotente, l'Infinito accetta di definire la propria potenza, di arrestarla dinanzi alla soglia del mistero della persona da Lui creata. Non l'uomo soltanto si toglie i sandali davanti al mistero di Dio perché quella dove poggia i piedi è terra santa; ma commovente è che il Dio della parabola si tolga i sandali davanti all'uomo perché il mistero del cuore umano è terra santa. Un Dio rispettoso fino in fondo della libertà della sua creatura è il Dio dell'umiltà. «La virtù nascosta nel più profondo della Divinità è l'umiltà» (Taulero), in quanto solo Dio fa originariamente spazio all'altro nel profondo rispetto dell'amore creatore.
    Speranza: questo Dio umile è anche il padre che sta alla finestra in attesa del ritorno del figlio: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e, commosso, gli corse incontro» (Lc 15,20). Il padre scrutava da lungo tempo l'orizzonte, era alla finestra in attesa del desiderato ritorno. È la speranza di Dio. L'altro nome dell'umiltà è la speranza. L'umiltà è fare spazio all'altro perché esista, è la contrazione dell'amore. La speranza è il proiettarsi verso l'altro nel desiderio che egli sia, in una risposta libera e gratuita d'amore.
    Compassione: la parabola indica nel cuore del padre la radice profonda di questo duplice atteggiamento, l'umiltà e la speranza, nell'atteggiamento che spinge il padre commosso a correre incontro al figlio che torna. Dio ama con l'amore viscerale di una madre: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15).
    La compassione è l'amore viscerale materno (le viscere di misericordia del nostro Dio), l'amore per il quale Egli ha rispettato fino in fondo la libertà del figlio. L'umiltà e la speranza di Dio non cessano di attendere il ritorno dei suoi figli, con un amore più forte di tutto il non-amore con cui può essere corrisposto. Dio ama come solo una madre sa amare, con un amore irradiante tenerezza.
    Il coraggio dell'amore di Dio: il padre della parabola corre incontro al figlio. Secondo la mentalità semitica questo era un gesto scandaloso, perché il padre doveva avere sempre un portamento solenne, ieratico. Era il figlio che veniva a presentarsi e si prostrava davanti a lui. Non sarebbe stato concepibile il contrario: che il padre corresse verso il figlio, e per di più gli gettasse le braccia al collo. La parabola ci pone dinanzi a un padre che non ha paura di perdere la propria dignità, che anzi sembra metterla in pericolo.
    L'autorità di un padre non sta nelle distanze che egli più o meno mantiene, ma nell'amore irradiante che egli esprime. È questo il coraggio dell'amore di Dio, il coraggio di infrangere le sicurezze false, apparenti, per vivere l'unica sicurezza che è quella dell'amore più forte del non-amore. È il coraggio di andare all'altro superando le distanze protettive che la nostra incapacità di amare troppo spesso vuole erigere intorno a noi. Molte volte dietro l'autoritarismo di alcuni comportamenti, specialmente di chi ha responsabilità, si nasconde un'incapacità di amare e quindi un bisogno di difendere la propria autorità, senza saper annullare la necessità di questa difesa con la pienezza dell'amore.
    La gioia di Dio: quando arriva il figlio, il padre felice come un bambino fa festa, lo bacia, lo abbraccia, ingiunge ai servi di portare il vestito più bello, di mettergli l'anello al dito, i calzari ai piedi, di ammazzare il vitello grasso. È la gioia di Dio! Far dono del vestito significa ridare ad una persona la dignità perduta. Solo un padre che ama veramente il proprio figlio è capace di concedere il perdono, restituendo il figlio a se stesso e alla sua dignità. E la commovente esperienza di Dio già all'alba della creazione: «Il Signore Dio fece all'uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì» (Gn 3,21). Oltre alla dignità, il padre restituisce al giovane la figliolanza: mettere l'anello al dito significa infatti reintrodurre nel casato quel figlio perduto, rifarlo erede nonostante egli abbia già dilapidato quello che aveva ricevuto. Accogliere nuovamente il figlio come erede significa farlo padrone della proprietà del padre: è questo il senso del dono dei calzari. Quando Mosè incontrò Dio sul monte Oreb nel mistero del roveto ardente, una «voce» gli ordinò: «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» (Es 3,5). Mosè non poteva avanzare alcun diritto davanti a Dio, doveva incontrarlo completamente «espropriato», anche della sua stessa vita. Questo padre sa gioire perché prima ha sofferto. Se in Dio c'è una gioia, c'è anche un mistero di sofferenza, che trae le sue origini dalla compassione, dall'amore viscerale del padre. Noi crediamo in un Dio che soffre perché è un Dio che ama.
    La sofferenza di Dio: il padre della parabola non rappresenta un Dio impassibile, spettatore freddo delle sofferenze del mondo. Il padre della parabola non è un Dio indifferente alla vicenda umana e quindi alla storia delle sue sofferenze, ma un Dio che è capace di soffrire per amore della sua creatura: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,24.32). Il primo motivo del dolore del padre è che il figlio «era morto», ha distrutto se stesso: Dio soffre perché il figlio ha annientato, ha alienato se stesso. Il secondo motivo, «era perduto», si collega al fatto che il figlio si era allontanato da Lui.
    Dio soffre prima di tutto perché la sua creatura soffre, e soltanto in secondo luogo perché tale sofferenza è causata dall'allontanamento da Lui. Come avviene per ogni vero amore, al primo posto non c'è il dolore del nostro cuore, ma il dolore dell'altro, la rovina dell'altro. Se Dio non potesse amare, semplicemente non potrebbe soffrire. Il mistero della sofferenza in Dio è il mistero della sua infinita capacità di amare. Dio soffre perché ama, perché si coinvolge con le vicende dell'uomo, perché è veramente un Dio che diventa povero per amore della sua creatura.

    Dall'esilio al ritorno

    Il figlio più giovane ha voluto gestire la vita per conto suo. Il suo «peccato» sta nella prima affermazione: «Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise fra loro le sostanze». È interessante notare che nel greco il termine «sostanza» è ton bion, cioè la vita, quel che aveva per la vita. Dunque il figlio prodigo è colui che non vuol saperne del padre nella gestione della sua vita. «Dammi tutto ciò che è mio perché ne faccia quello che voglio». È il tentativo di gestire la vita per conto proprio come se Dio non esistesse. Il peccato del figlio giovane, immagine di ogni peccato, è un peccato di ricchezza, un voler essere padroni della propria vita, un escludere di affidare perdutamente e incondizionatamente questa vita nelle mani di Dio, un voler mettersi al posto di Dio per gestire la sostanza della vita.
    Gestire la vita esclusivamente da sé significa non vivere più, aver smarrito il senso, la bellezza, la forza, l'essenza della propria vita. Ebbene, il figlio giovane prende coscienza di tutto questo quando scopre la sua solitudine interiore: «rientrò in se stesso», e percorre un cammino dalla ricchezza alla povertà. Egli che ha voluto scegliere la ricchezza, gestire la propria vita, essere padrone di sé, arriva come un povero davanti a Dio per confessare il proprio nulla.
    L'itinerario di questo giovane si snoda in cinque tappe. L'inizio della conversione è nel percepire l'esilio esteriore, nell'avvertire che si sta male. Questa prima condizione dice che normalmente anche una conversione inizia da una molla egoistica: si sta male e si vorrebbe star meglio: «Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza, io invece...» (Lc 15,17). Il primo momento del ritorno a Dio è la percezione dell'esilio esteriore, dell'alienazione, il riconoscimento della propria miseria. Il secondo momento è il ricordo della casa paterna. La percezione dell'esilio esteriore si congiunge al ricordo della patria, al ricordo di una casa dove c'è pane in abbondanza, perfino per i salariati.
    Tra la propria miseria e il ricordo di un'abbondanza perduta nasce la percezione dell'esilio interiore. Percepire l'esilio esteriore non basta; è necessario accorgersi che la radice profonda del male è la separazione da Dio: «Gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio» (Lc 15,18-19). È la separazione da Colui che immensamente ci ama. È l'aver voluto gestire la propria vita diventando ricchi di sé, ma in realtà poveri di Dio e quindi, alla fine, poveri di se stessi. La percezione dell'esilio interiore diventa il no al passato e un sì al futuro, perché si pensa alla patria dell'amore, si ricorda che nella casa del padre c'è pane in abbondanza. Perché il padre è buono. Senza questo quarto momento la conversione non produrrebbe i suoi frutti. Bisogna avere la speranza e credere che è possibile una vita nuova. Bisogna credere all'impossibile possibilità di Dio. Occorre dire un sì al futuro, nella certezza che il Padre sa farci ricominciare da capo.
    Andare effettivamente dal padre: «Mi alzerò e andrò da mio padre... si alzò e andò...». E la decisione senza la quale la conversione resterebbe pio desiderio e non si tradurrebbe nella vita nuova che cambia il destino di un'esistenza. Così il figlio più giovane ritrova la vera libertà e giunge alla povertà.dalla logica del merito e del profitto, per entrare nella logica dell'amore. Il padre invita il figlio maggiore a convertirsi anche lui alla povertà, a passare dalla ricchezza di chi presume di giudicare tutto e tutti, alla povertà di chi si lascia condurre da Dio e giudicare da Dio. Il padre invita il figlio maggiore ad entrare nella logica della gratuità, dell'amore più grande. Ma il figlio maggiore entrerà in casa a far festa con il padre e il fratello? Sta a noi completare la storia e dare una risposta. La parabola, infatti, si chiude qui perché deve continuare nella vita di ciascuno di noi.

    Nella logica della gratuità

    Il figlio maggiore è l'ultimo personaggio della parabola. Egli è sempre rimasto in casa, in una situazione di vicinanza fisica al padre. Ma la vicinanza esteriore non significa necessariamente vicinanza del cuore. Si può vivere tutta una vita nella casa di Dio e non amare Dio... Quel che conta veramente è la vicinanza del cuore, è l'essere interiormente innamorati di Dio. Anche il figlio maggiore vive il suo dramma: non perdona al padre di avere perdonato al fratello. È lo stesso peccato del figlio più giovane. Il figlio maggiore vuole gestire lui la vita, farsi lui arbitro e giudice del bene e del male. Anche in questo caso il padre «esce» per convincerlo, va da lui quasi a chiedere perdono del suo amore. Il padre invita il figlio maggiore ad una conversione, ad uscire


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