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    Comunicazione e formazione (cap. 2 di: I media per l'animazione)


    Gianna Cappello - Lucio D'Abbicco, I MEDIA PER L'ANIMAZIONE, Elledici 2002

     

    PREMESSA

    Obiettivo di questo capitolo è fornire una panoramica introduttiva della comunicazione e del suo rapporto con la formazione nella convinzione che, come dicevamo nell'introduzione, «il punto di vista educativo sui media possa (e debba) far parte dell'orizzonte della pastorale giovanile». Pertanto, dopo aver illustrato sinteticamente gli elementi base della teoria della comunicazione e indicato gli aspetti di maggiore impatto socio-culturale della comunicazione mediale, il capitolo si concentra sulla Media Education (ME), ovvero sui concetti-chiave, le aree esplorative e le attività fondamentali di un tipo di educazione che nei contesti più diversi – anche quello della pastorale giovanile – fa dei media sia un oggetto di analisi critica (educazione ai media) che un sussidio e uno strumento di espressione e comunicazione (educazione con i media). Allo scopo di esemplificare quanto può essere fatto nella ME, il capitolo si chiude con tre paragrafi che trattano dell'analisi della pubblicità (e in particolare della pubblicità nei giornali e in televisione) e dell'analisi del testo (e in particolare della fiction televisiva).

    LA «SCOPERTA» DELLA COMUNICAZIONE

    Tutti siamo coinvolti in reti di comunicazione più o meno complesse e tutti, nei modi e con i mezzi più diversi, comunichiamo pensieri, opinioni, sentimenti. Trovarsi in una qualsiasi situazione sociale, ovvero entrare in una qualche forma di rapporto con gli altri, implica inevitabilmente l'attivazione di un flusso comunicativo: con la parola, i gesti, l'aspetto fisico, la postura, i più piccoli comportamenti ci scambiamo continuamente messaggi gli uni con gli altri.
    Per lungo tempo abbiamo dato per scontati gli atti e le circostanze che rendono possibile una particolare situazione comunicativa soffermandoci raramente a pensare a ciò che stiamo facendo e a come lo stiamo facendo quando comunichiamo. Tuttavia, negli ultimi decenni, nella scuola e nell'università, come pure negli ambienti di lavoro e nelle più diverse situazioni di interazione umana, si è progressivamente «scoperta» l'importanza di una più attenta considerazione dei processi e dei mezzi di comunicazione, delle loro componenti interne e tipologie, dei loro meccanismi di funzionamento ed evoluzione storica, ecc. Aspetto (anzi, esigenza) vitale della condizione umana, la comunicazione si è insomma imposta come oggetto di studio a pieno titolo.
    Se comunicare costituisce una caratteristica pressoché innata degli individui, comunicare in maniera efficace è il risultato di un processo empatico-cognitivo che richiede:
    • l'acquisizione di abilità e competenze specifiche;
    • una certa sensibilità e disponibilità verso le persone con cui comunichiamo;
    • una conoscenza del contesto entro cui avviene la comunicazione. Ad esempio, avremmo ben poche speranze di dare vita a una comunicazione efficace con un non udente se non sapessimo comprendere e usare a nostra volta il linguaggio gestuale con cui questi ci si rivolge. Allo stesso modo, pur possedendo l'abilità necessaria, ovvero pur condividendo lo stesso codice linguistico, avremmo parecchie difficoltà a comunicare con una persona verso la quale siamo, inconsciamente o meno, prevenuti. Infine, la nostra comunicazione sarà inevitabilmente diversa se ci troviamo a conversare in un affollato stadio o nella tranquillità del salotto di casa nostra. Abilità e competenze specifiche, empatia verso l'altro, conoscenza del contesto: sono queste le tre ineludibili condizioni di ogni situazione comunicativa, cui si aggiungono una certa flessibilità strategica, ovvero la capacità di un approccio alla comunicazione aperto e disponibile a modificazioni e adattamenti sia prima che durante il processo comunicativo, e una certa conoscenza di se stessi, dei propri limiti, dei pregiudizi, degli stereotipi e dei luoghi comuni che possono in qualche modo condizionare il nostro comunicare.
    Oltre a queste condizioni, ogni processo comunicativo richiede, come vedremo, la presenza di segni e codici, attraverso i quali è possibile formare dei messaggi. I messaggi vengono poi messi in circolazione tramite dei mezzi che in parte ne determinano la natura (e che quindi non si limitano a essere un semplice veicolo). Una tale circolazione è di importanza vitale per le relazioni sociali e le pratiche culturali di una società, pertanto studiare la comunicazione significa anche studiare la società e la cultura all'interno delle quali essa si articola e circola.

    ELEMENTI DI TEORIA DELLA COMUNICAZIONE

    Le componenti interne della comunicazione

    Il concetto di comunicazione si è sviluppato secondo due principali scuole di pensiero. La prima vede la comunicazione come trasmissione di messaggi, come passaggio lineare di informazioni attraverso il quale chi trasmette è in grado di condizionare il comportamento e le idee di chi riceve, provocando degli effetti osservabili e misurabili. In questo caso l'intenzionalità dell'emittente, sia essa esplicita o implicita, è un importante fattore costitutivo del messaggio e deve essere sempre rintracciabile attraverso l'analisi. La seconda scuola invece, più orientata verso un approccio di tipo semiotico-culturale, considera la comunicazione come produzione e scambio di significato, come processo di negoziazione in cui ogni singolo partecipante contribuisce alla produzione di senso. L'emittente acquisisce a questo punto un'importanza secondaria (o comunque paritaria) rispetto agli altri elementi che intervengono nella situazione comunicativa e cioè il messaggio, il destinatario e il contesto. In questo caso, lo studio della comunicazione si configura come studio dell'interazione tra individui, cultura e società.
    A livello elementare possiamo dire che ogni processo comunicativo si articola secondo il seguente schema:
    emittente –› messaggio –› destinatario
    Per comunicare è necessario che ci sia un emittente, ovvero qualcuno che comunichi (può anche essere una fonte non umana), e un destinatario, ovvero qualcuno cui rivolgere la comunicazione. Il messaggio è l'insieme dei segni (elementi di varia natura che rimandano ad altro da sé) usati dall'emittente per comunicare un'idea con un mezzo e attraverso un canale. Tuttavia, affinché il messaggio possa essere efficace (e sortire gli effetti desiderati), è necessario che emittente e destinatario condividano lo stesso codice, ovvero il sistema di regole e convenzioni con cui assegnare significati particolari ai segni. L'alfabeto, per esempio, è un codice in cui ogni lettera forma delle sillabe e quindi delle parole le quali, collegate in base a certe regole, formano frasi con di senso compiuto. I codici formano il linguaggio, e cioè un modo particolare di comunicare attraverso un processo di codifica/decodifica dei segni (ad es., i linguaggi gestuale, verbale, musicale, o cinematografico assegnano un preciso significato rispettivamente al gesto, alla parola, al suono e all'immagine). Se mi trovo a Londra e chiedo un'informazione a un poliziotto locale, molto probabilmente non riceverò alcuna risposta se non sono in grado di codificare la mia richiesta in inglese (o comunque attraverso un linguaggio gestuale appropriato). Lo schema precedente si arricchisce a questo punto di un'altra importante dimensione:
    emittente –› codifica –› messaggio –› decodifica –› destinatario
    Ma perché il processo comunicativo possa andare avanti e non spegnersi in un monologo, è necessario che si attivi un feed-back, ovvero una qualche risposta da parte del destinatario. Il nostro schema a questo punto si complica ulteriormente:

    cappello 0001

    Il feed-back può essere diretto e immediato (come nel caso di una comunicazione interpersonale), a volte può essere inconscio, ma è sempre e comunque influenzato dai filtri percettivi, i bisogni personali e il background dei soggetti partecipanti al processo comunicativo, e cioè dalla loro cultura, dal loro vissuto, dalle loro esperienze personali, dal loro ambiente di provenienza, ecc.
    Infine, non va dimenticato che ogni processo comunicativo può essere interrotto e/o falsato da azioni di disturbo di diversa natura definite rumore (nel caso della comunicazione televisiva potrebbe essere un rumore la cattiva ricezione o l'interruzione della trasmissione, o il passaggio di una persona davanti allo schermo o ancora, a un livello più profondo, la mancanza nello spettatore di una competenza specifica nei riguardi del linguaggio televisivo e dei suoi testi).

    Segno e simbolo

    Abbiamo visto che uno dei requisiti essenziali perché la comunicazione possa essere efficace è la condivisione di determinati codici linguistici con i quali è possibile organizzare ed esprimere pensieri ed emozioni. Questi codici possono essere verbali o non verbali. La loro unità minima, il segno, è costituita:
    • da una forma percepibile, il significante e
    • da un concetto astratto, il significato.
    Ad esempio, il segno «macchina», sia esso pronunciato/scritto come parola oppure disegnato/fotografato/ripreso come immagine, rimanda al concetto mentale di macchina. La relazione tra il concetto di macchina e una macchina reale esprime quel processo di astrazione – detto anche processo di significazione – attraverso il. quale gli individui danno significato al mondo e lo interpretano. Prendiamo il caso della lingua. Attraverso il processo di significazione, una lingua ritaglia e rappresenta la realtà in un certo modo, a seconda di certe coordinate storiche e culturali. È molto importante sottolineare questo aspetto della produzione linguistica di significato in quanto prova che non sono soltanto i significanti a essere culturalmente e storicamente determinati, ma anche i significati. Di conseguenza, quando si passa da una lingua all'altra non è sufficiente tradurre un significante di una con il. significante corrispondente dell'altra, e pensare che il. significato rimanga universalmente immutato. In realtà anche il concetto mentale può variare da una lingua all'altra sulla base delle coordinate spazio-temporali, degli individui che la usano e del contesto socio-culturale in cui funziona. Facciamo un esempio. A differenza della parola italiana bue, l'inglese ox non indica la carne macellata e destinata al consumo per la quale c'è la parola beef; il russo byk può designare anche il toro e il cinese niù, oltre al bue e al toro, può designare anche la mucca. Come si vede la stessa porzione di realtà («l'area dei bovini», per così dire) viene ritagliata e definita in modi diversi.
    I processi di astrazione e interpretazione della realtà di una lingua ci portano a parlare della natura simbolica di ogni tipo di comunicazione. Per definizione un simbolo è un segno che rimanda ad altro da sé.
    Possiamo avere tre diversi tipi di relazione tra il segno e ciò a cui esso rimanda:
    1. l'icona. In questo caso il. segno somiglia a ciò che rappresenta: una croce disegnata su un foglio di carta rappresenta la cristianità e ha una certa somiglianza con la croce sulla quale il Cristo fu sacrificato; il segnale stradale di un incrocio somiglia effettivamente al modo in cui le strade si incontrano in quel punto; una foto è un'icona, così come lo è anche una cartina geografica o le figurine uomo-donna attaccate alla porta dei bagni pubblici;
    2. l'indice (detto anche indizio). In questo caso esiste un legame diretto tra il segno e ciò che esso rappresenta: il fumo è indice della presenza di fuoco; uno starnuto è indice di un raffreddore; un'orma è indice del passaggio di qualcuno; o ancora se do un appuntamento a una persona che non mi ha mai visto e le dico che potrà riconoscermi perché indosserò un maglione giallo e un cappello nero, quel maglione e quel cappello diventano indici della mia presenza;
    3. il simbolo. In questo caso non esiste alcuna connessione tra il segno e la realtà che esso rappresenta. Il simbolo rimanda a una certa cosa solo perché gli individui, per convenzione e arbitrariamente, hanno deciso così. Una lingua è un insieme di simboli per eccellenza. Anche i numeri sono simboli: non c'è alcuna ragione per cui il segno «2» debba indicare una coppia di cose, persone, animali, ecc.: lo fa solo per convenzione. Si noti, invece, che il numero romano II è iconico.
    Naturalmente, in un segno le relazioni tra icona, indice e simbolo possono essere molto complesse e operare contemporaneamente. Facciamo un esempio:

    Secondo la segnaletica stradale it triangolo rosso è simbolo di «pericolo». La croce al suo interno è insieme un'icona e un simbolo: è iconica in quanto richiama alla forma del suo oggetto (l'incrocio stradale); è simbolica in quanto è per pura convenzione che essa richiama a un incrocio e non a una chiesa o a un ospedale. Infine, il segno, nella sua globalità, è un indice (un indizio) del fatto che ci stiamo avvicinando a un incrocio.

    Ritornando al nostro esempio della comunicazione verbale, abbiamo già notato che tale comunicazione ha una natura simbolica e non iconica (anche se l'onomatopea può essere ricondotta al concetto di icona). Non esiste infatti alcuna connessione tra una parola e ciò che essa simboleggia: ad esempio, una parola lunga come «acido ribonucleico» rimanda a qualcosa di estremamente piccolo, mentre la parola «orca» rimanda a qualcosa di estremamente grande. Ciò testimonia che i processi di significazione di una lingua sono del tutto arbitrari, funzionano per convenzione e sono storicamente e culturalmente determinati. Tuttavia tale convenzionalità e arbitrarietà non impedisce il sorgere di equivoci e disaccordi nell'interpretazione di certi termini, siano essi riferiti a concetti astratti o a realtà concrete. Quante volte si discute sul colore degli occhi di una persona? O quante discussioni hanno provocato e provocano termini come pace, uguaglianza, libertà, ecc.?
    Fino a ora abbiamo parlato di segno e di significazione in generale, ma in realtà un segno può significare a livelli diversi. In particolare distinguiamo un livello denotativo e un livello connotativo. Nel primo caso ci si limita a descrivere, informare, spiegare mentre nel secondo caso la lingua viene piegata per comunicare significati impliciti non immediatamente riscontrabili «in superficie». Mentre la denotazione è (o dovrebbe essere) neutrale e oggettiva, la connotazione è simbolica e soggettiva. Prendiamo il termine «maiale». A livello denotativo rimanda a un animale a quattro zampe, onnivoro, di colore rosa, ecc.; a livello connotativo viene invece impiegato per indicare una persona poco pulita, dal linguaggio e dai modi sboccati, amante esagerato del cibo, insomma una persona dalle qualità negative.
    Riassumendo, possiamo dire che i processi di significazione della comunicazione verbale sono estremamente complessi e stratificati e proprio questo fa di una lingua un meccanismo altamente sofisticato. Indubbiamente, tutto sarebbe molto semplice se ognuno di noi comunicasse in maniera diretta e senza sottintesi. Pensiamo, ad esempio, alla conversazione tra due neo-vicini di casa. Uno chiede: «Bella giornata, non è vero?», «Sì, speriamo che duri!», risponde l'altro. In realtà, nessuno dei due è veramente interessato al. tempo, ma questa sembra essere un'ottima frase di contatto, di approccio. Ad un livello di significato più profondo, è come se il nostro vicino volesse dire: «Guarda io sono una brava persona, mi piacerebbe conoscerti meglio, ma fino a quando non troviamo degli argomenti o degli interessi comuni, perché non parliamo di qualcosa di neutro come il tempo?». I livelli di significato si fanno anche più complessi se si associano alla comunicazione non verbale dando vita a modalità espressive come l'ironia e il sarcasmo. Nel caso dell'ironia, per esempio, in cui si dice esattamente il contrario di quello che si pensa veramente e quindi le parole non hanno alcun valore (anzi sono fuorvianti e false), è molto importante decifrare i segnali non verbali che la persona ci sta inviando. Immaginate di incontrare un amico a una festa che con aria annoiata vi dice: «Bella compagnia, vero?». Ebbene, crederete più alle sue parole o alla sua espressione? La linea che distingue l'ironia dal sarcasmo è molto sottile: possiamo dire che il sarcasmo non è altro che una forma di ironia usata in modo sprezzante e particolarmente negativo. Nell'esempio precedente, immaginate che il vostro amico vi dica: «Bella compagnia, vero?», ma guardandosi attorno con un'aria di profondo disgusto e disprezzo.[1]

    LA COMUNICAZIONE MEDIALE

    L'immagine come rappresentazione della realtà

    Ma non è solo la comunicazione verbale ad essere complessa e stratificata. Anche la comunicazione visiva è tutt'altro che lineare, a partire dalla nostra stessa percezione delle immagini. Infatti, non si tratta semplicemente di aprire gli occhi e lasciare fluire inalterate le cose dentro di noi. In realtà il cervello continuamente (anche senza il nostro volere) filtra, seleziona, interpreta le informazioni che gli arrivano dalla nostra percezione. Non c'è nulla di ciò che conosciamo, vediamo, sentiamo, gustiamo, che non sia stato in qualche modo filtrato e organizzato dal cervello. Facciamo un esempio banalissimo. Proviamo a leggere le seguenti scritte:

    PARIGI IN

    IN PRIMAVERA

    UNA VOLTA AL

    AL GIORNO

    LA CASA NEL

    NEL GIARDINO

    Cosa hanno di strano? Riusciamo a capirlo immediatamente o ci vuole un po' di tempo? Probabilmente ci abbiamo messo qualche secondo per individuare la ripetizione delle preposizioni. Questo piccolo esperimento è sufficiente a dimostrare che durante la percezione delle immagini è il nostro cervello a decidere quello che dobbiamo o non dobbiamo vedere. E siccome, in questo caso, il nostro cervello immagina che la ripetizione della preposizione sia grammaticalmente improbabile, si trova impreparato a farcela notare.
    Ma non è solo la percezione a giocarci brutti scherzi. Il fatto è che le immagini in sé - apparentemente specchio della realtà - sono il risultato di un complesso processo di costruzione del significato e, proprio come la comunicazione verbale, si compongono di diversi livelli di significazione. Anche in questo caso possiamo parlare di livello denotativo e di livello connotativo, di significante e significato. Leggiamo l'esempio pluricitato del semiologo francese R. Barthes: «Sono dal parrucchiere, mi viene porto un numero di Paris Match. Sulla copertina, un giovane negro vestito di un'uniforme francese fa il saluto militare, con gli occhi verso l'alto, fissati certo su una piega della bandiera tricolore. Questo è il senso dell'immagine. Ma, per quanto ingenuo, vedo bene ciò che essa mi vuol significare: che la Francia è un grande Impero, che tutti i suoi figli, senza distinzione di colore, servono fedelmente sotto la sua bandiera, e che per i detrattori di un preteso colonialismo non c'è risposta migliore dello zelo di questo negro nel servire i suoi presunti oppressori».[2] Se a livello denotativo l'immagine ci dice «mostro un soldato negro che fa il saluto militare», a livello connotativo ci dice «rimando a una Francia militarista, fiera di tutti i suoi figli, non razzista, né colonialista, ecc.». Le immagini, insomma, proprio come le parole comunicano molto più di quanto non dicano in superficie, dandoci della realtà, sempre e inevitabilmente, una versione mediata, parziale che noi non sempre siamo in grado di afferrare. Anche le immagini più realistiche sono il frutto di una «messinscena» che si nasconde dietro la creazione del cosiddetto effetto realtà. Nei casi estremi, più l'immagine è apparentemente fedele al reale, maggiore è l'artificio. Pensiamo, per esempio, alla prospettiva o alla tecnica del trompe l'oeil: in entrambi i casi per creare l'effetto-realtà, i complessi procedimenti di produzione e organizzazione della rappresentazione vengono accuratamente occultati attraverso la messa in opera di impatti percettivi analoghi a quelli vissuti nell'esperienza reale.
    Riassumendo, le immagini non riflettono come uno specchio la realtà, ma la rappresentano per cui quando ci troviamo dinanzi a un'immagine dobbiamo andare aldilà della semplice osservazione empirica, dobbiamo imparare a guardare non solo a ciò che è immediatamente visibile a livello di superficie, ma anche ciò che giace al di sotto di essa. I processi di interpretazione e astrazione della realtà appartengono dunque non solo alla comunicazione verbale, ma a tutta l'attività intellettuale in genere nella misura in cui, mediante il simbolo, viene conferita una particolare forma e significato a certi aspetti del reale. In questo senso anche la comunicazione mediale si rapporta al reale tramite coerenti sistemi di significazione, simbolizzazione ed espressione. Ciò comporta, da una parte, il riconoscimento che la comunicazione mediale possiede una capacità di modellamento/indirizzo delle idee, e dall'altra la problematizzazione della supremazia della parola e la conseguente affermazione di una nozione olistica della comunicazione in quanto basata su una pluralità e coesistenza di codici linguistici verbali e non verbali. Tutto questo ci porta a dover ammettere che la cultura di un popolo non passa più solo attraverso il linguaggio verbale, ma anche attraverso i suoni, le immagini, i movimenti, i testi elettronici e non dei media e dei new media.

    Dalla cultura orale ai media elettronici

    Adottando una prospettiva antropologico-culturale, i media appaiono non più come meri veicoli di significato, ma come ambienti di vita in grado di «re-inventare» gli individui, di causare profonde riorganizzazioni sensoriali e cognitive, di attivare contesti relazionali nuovi e inconsueti. In effetti, la presenza dei média nell'esperienza quotidiana di ciascuno di noi è evidente non solo in termini quantitativi, ovvero nel consumo più o meno elevato dei prodotti mediali, ma più ancora in termini qualitativi, e cioè nella capacità di orientare i comportamenti, modellare le idee e le opinioni, trasformare le abitudini culturali, ridefinire i confini sociali, ecc. Ecco perché gli studiosi preferiscono parlare di ecologia dei media. «L'avvento di ogni nuova tecnologia – scrive P. C. Rivoltella – produce una profonda trasformazione del significato delle parole, cambia il nostro modo di pensare la conoscenza e la verità, altera la nostra visione del mondo... La trasformazione tecnologica, come suggerisce Postman, non è né additiva, né sottrattiva: è ecologica. "Io intendo ecologica nello stesso senso in cui la parola viene usata dagli scienziati dell'ambiente". Quando una nuova tecnologia subentra non toglie, né aggiunge nulla al nostro sistema socio-culturale: cambia tutto!».[3]
    Pensiamo alla cultura orale, per esempio. I rapporti interpersonali sono immediati e la voce è strumento più che sufficiente a soddisfare le esigenze di comunicazione e relazione tra le persone. Gli individui comunicano in maniera naturale – non mediata da supporti tecnici –e globale – non solo con la parola, ma anche con i gesti, la mimica facciale, la postura del corpo, ecc. Infine, comunicano e si tramandano le cose ricorrendo alla memoria, ed è per questo che devono essere ripetitivi e ricorrere a frasi fatte, proverbi, rime, allitterazioni. L'effetto di questo modo di comunicare, nel lungo periodo, è quello di rendere il pensiero situazionale, partecipativo, esperienziale. L'individuo della cultura orale non riesce a pensare in termini di figure geometriche, di categorie e definizioni astratte, non riesce a seguire la logica formale, né l'argomentazione causa-effetto, tutte modalità di pensiero che si affermano solo con l'avvento della scrittura.[4]
    Con l'avvento della scrittura sillabica, e più tardi della stampa, si diffonde la cultura letteraria, una cultura dove al mezzo voce si affiancano altri mezzi di comunicazione (la lettera, il manoscritto, il libro, ecc.) che, se da una parte permettono una più facile circolazione e ricezione dei messaggi, dall'altra segnano il venir meno della relazione diretta tra gli interlocutori. Anche in questo caso si verificano importanti mutazioni a livello cognitivo. Non a caso la filosofia, l'etica, la scienza si sviluppano con il diffondersi della scrittura, e cioè quando questo nuovo dispositivo comunicativo - la scrittura - comincia a mutare gli schemi mentali rendendo il pensiero più astratto, analitico e raziocinante, ovvero meno legato a situazioni ed esperienze concrete. Nella cultura letteraria, e ancor più in quella elettronica, il processo di emancipazione dal contesto reale entro cui avviene la comunicazione orale si accentua sempre più. Chi legge o guarda un programma alla tv entra all'interno di uno spazio comunicativo, per così dire, virtuale. E ciò offre dei vantaggi e degli svantaggi al tempo stesso. Da una parte infatti la scrittura (o un medium elettronico) distaccando il testo dal contesto, facilita la circolazione e la trasportabilità dei messaggi e permette un accesso più democratico all'informazione e alla conoscenza. Tuttavia, nel momento stesso in cui il testo si distacca da chi lo produce, esso viene inevitabilmente sottoposto alle interpretazioni più soggettive e personali, fino ad arrivare alle «decodifiche aberranti» di cui parla U. Eco. Oltre al contesto reale, viene a perdersi anche quel surplus di significato che solo la comunicazione orale può dare e cioè gesti, espressioni facciali, postura del corpo, ecc. Viene meno insomma la dimensione comunitaria del comunicare poiché l'individuo comunica ma isolandosi. Pertanto, sebbene sia innegabile che la comunicazione mediale permette, democraticamente, il moltiplicarsi dei punti di vista e delle interpretazioni, è altrettanto vero che essa può portare al relativismo più spinto, all'autoisolamento, al rifiuto (o all'incapacità) dello scambio interpersonale, al. disimpegno collettivo e solidaristico.

    Le dimensioni della comunicazione

    Nel tentativo di dare una definizione del concetto di comunicazione, P. C. Rivoltella parla di quattro dimensioni del comunicare che a loro volta attivano altrettante tipologie di interazione umana.[5]
    La prima dimensione è la dimensione informativa. Comunicare significa mettere al corrente qualcuno di qualcosa. Significa trasmettere e ricevere messaggi di qualunque natura. I media portano al massimo questa dimensione del comunicare. Essi non solo favoriscono uno scambio infinito delle informazioni, ma permettono anche di farlo superando qualsiasi barriera spazio-temporale. La definizione della società contemporanea come «società dell'informazione» indica appunto una società in cui i media (dal telefono cellulare, alla televisione, al Web) possono raggiungere anche il più remoto angolo della terra permettendo agli individui di accedere, senza spostarsi da casa propria, alle più diverse fonti di informazione. Tuttavia, con il crescere della possibilità di dare e ricevere informazioni, cresce anche la possibilità di manipolarle, di darne una versione parziale, se non addirittura falsa. Pensiamo, per esempio, alle agenzie stampa o alla CNN. Poche grandi agenzie, tutte praticamente occidentali, e una rete statunitense raccolgono e mettono a disposizione dei media informativi di tutto il mondo i fatti della giornata. I giornalisti di tutto il mondo, senza lasciare la loro redazione, le leggono (o le vedono) e ne danno notizia. E se queste agenzie stampa decidono che un fatto non è «notiziabile», che non merita visibilità, quel fatto per milioni di persone semplicemente non esisterà.
    La seconda dimensione della comunicazione è la dimensione relazionale. Riappare qui il senso comunitario e la fisicità del processo comunicativo, poiché comunicare in questo caso significa entrare in rapporto con qualcuno. Significa non tanto scambiare informazioni, ma aprirsi all'Altro, interagire, dialogare. Purtroppo non sempre il dialogo si pone nei termini di una relazione di reciproca uguaglianza e rispetto. Spesso accade che il dialogo acquisti il carattere di una relazione di dominio e prevaricazione. Anche in questo caso il riferimento ai media è d'obbligo. E per due motivi. Primo perché i media fin troppo spesso si rendono colpevoli di una rappresentazione parziale e stereotipata dell'Altro, e secondo perché sostituendo alla relazione immediata tra gli individui una relazione mediata e indiretta possono dare vita a una comunicazione poco autentica. Può infatti succedere che si venga a creare una «perdita di senso» e di referenzialità. In particolare, dinanzi all'impetuoso sviluppo delle capacità interattive del computer, «sorge la domanda se sia possibile parlare di una nuova forma di relazione in cui sparisca la dimensione corporea sostituita dal mondo virtuale costruito dalla tecnologia. È questa una delle principali questioni che investono attualmente la pertinenza etica del mondo della comunicazione».[6]
    La terza dimensione della comunicazione è la dimensione rituale. La condizione fondamentale qui è la partecipazione, l'aggregazione comune attorno a qualcosa. Concepire la comunicazione come rito e viceversa il rito come comunicazione permette di afferrare meglio ciò che avviene quando si partecipa a un rito come la Messa o una situazione, altrettanto rituale, come la visione di un programma televisivo. Pensiamo alla Messa, per esempio. Come in un qualsiasi processo comunicativo, abbiamo una fonte del rito (il fondatore) che stabilisce il valore simbolico del rito e ne decreta la ripetizione per tutta la comunità (nel nostro caso il fondatore è Cristo e il rito è il sacrificio eucaristico). Abbiamo un emittente (il. sacerdote) che attraverso la ripetizione del rito, mantiene simbolicamente aperto il dialogo fra la comunità e il fondatore. Abbiamo un messaggio, e cioè la liturgia. Abbiamo un destinatario (la comunità dei fedeli) e infine abbiamo un contesto spazio-temporale (la chiesa) dove avviene tutto questo. Ma qual è la peculiarità della comunicazione rituale? Il. tratto caratteristico che la distingue, per esempio, da una comunicazione di tipo informativo? Nella comunicazione rituale, in effetti, quello che conta non è tanto il guadagno conoscitivo, in fondo le cose di cui vengo informato, se si esclude l'omelia, sono più che note. In realtà, quello che conta è la partecipazione al rito, l'esserci, il farne parte insieme agli altri per testimoniare come nel momento stesso in cui si ripete identico, il rito sa rinnovarsi, dispiegando tutte le sue potenzialità latenti nel presente. Sta tutta qui la forza creativa del rito: offrire il nuovo e il diverso attraverso una costante riproposizione del vecchio e dell'identico. Allo stesso modo si può leggere in maniera rituale la partecipazione a un rito come la visione di una fiction televisiva seriale. Consideriamo, per esempio, un successo televisivo come Un medico in famiglia. La rete è sempre quella, l'ora e il giorno pure. Ogni giorno ritroviamo gli stessi personaggi principali. Cambiano le trame e le sotto-trame ma non troppo da renderci il tutto poco familiare e riconoscibile. Anche qui il nuovo entra, ma solo nella misura in cui si adegua a uno schema essenzialmente ripetitivo, consolidato e rassicurante. Anche qui quello che conta è la partecipazione: partecipando al rito di Un medico in famiglia, milioni di italiani ritrovano e si ritrovano in situazioni a loro familiari, vicine alla loro vita quotidiana, capaci di illuminarla e indirizzarla in un certo modo.
    Più sfuggente ma ugualmente significativa è la quarta dimensione della comunicazione, e cioè la dimensione esplorativa. In quest'ambito la metafora portante è quella del viaggio inteso nel duplice senso di spostamento fisico in un preciso contesto spazio-temporale in vista della scoperta di nuovi mondi e nuove culture, e di orientamento cognitivo dell'individuo nello spazio sociale entro cui vive. Mentre il primo senso richiama a tutta una tradizione di viaggi, esplorazioni, scambi commerciali e culturali di cui l'Occidente è ricco, il secondo senso si riallaccia all'idea del viaggio come «occasione per ridefinire la propria posizione nello spazio, riconducendo la propria parzialità posizionale a una totalità cui essa possa relazionarsi».[7] In entrambi i casi il viaggio si qualifica come una forma di comunicazione, ovvero come una presa di contatto tra società e culture diverse e come un processo costante di posizionamento nella mutevole e complessa realtà contemporanea.

    LA MEDIA EDUCATION

    Lo stato attuale

    Oggi si parla sempre più spesso di «policentrismo formativo» in quanto alle agenzie di formazione e socializzazione tradizionali (famiglia, scuola e chiesa) si affiancano «realtà informali quali il "gruppo dei pari", i club di tifosi, i divi della musica, della moda e degli spettacoli; per non parlare dei beni di consumo, il cui acquisto e fruizione, indotti da una pubblicità suadente e pervasiva, appare un imperativo di massa, quasi una nuova "religione dei consumi"».[8] A seguito della progressiva affermazione di questo policentrismo formativo, saperi, competenze, ruoli e funzioni delle agenzie tradizionali vengono messi in discussione mentre i media si impongono come una «nuova agenzia» che «pur collocandosi nella sfera del tempo libero ed agendo in maniera soft, [offre] tuttavia un vasto insieme di informazioni, stimoli culturali e modelli comportamentali».[9] In questo senso i media, affermandosi come «scuola parallela», entrano in diretta competizione con il mondo dell'educazione imponendogli la necessità di adeguarsi al mutamento, di trovare la giusta misura tra l'atteggiamento critico tipico degli «apocalittici» e la celebrazione ottimistica degli «integrati», di assumere una posizione meno difensiva e più interlocutoria costantemente arricchita da una conoscenza sempre più rigorosa del mondo dei media.
    L'educazione viene dunque «interpellata» dai media - come rileva giustamente P. C. Rivoltella - e ciò almeno in tre sensi:
    1. dal punto di vista alfabetico perché richiede che il sistema formativo, nei suoi diversi livelli ed ambiti, si prepari per abilitare i soggetti a conoscere e ad utilizzare i media nella loro vita privata e nel lavoro;
    2. dal punto di vista metodologico perché richiede che il sistema formativo acquisisca nuove forme di mediazione culturale, nuove modalità di relazione con i soggetti, nuovi approcci didattici che sappiano tenere conto del «nuovo habitat culturale» originato dai media;
    3. infine, dal punto di vista critico perché richiede che il sistema formativo si prepari e sappia preparare non solo a livello di abilità tecniche (saper usare la posta elettronica, saper montare un audiovisivo, impaginare un giornale, costruire una pagina Web), ma anche dal punto di vista culturale poiché «non è sufficiente favorire l'adattamento degli individui a questo paesaggio, occorre far sì che essi vi interagiscano in maniera riflessiva e responsabile».[10] La ME può essere una risposta a ciascuna di queste tre interpellazioni, a patto però che le venga riconosciuto una spazio legittimo di azione e che vengano superati definitivamente diffidenze, timori e preconcetti nei riguardi dei media più diffusi di quanto non si creda. In effetti, a voler volgere lo sguardo a un passato non troppo lontano, gli ambiti formativi – siano essi formali o informali – hanno in genere assegnato ai media una posizione precaria e certamente subalterna rispetto al medium formativo per eccellenza, il libro. Il loro ruolo è stato (e in parte ancora è) inteso in termini puramente strumentali, nell'ottica di un'educazione con i media (i media come sussidio audiovisivo) piuttosto che di educazione ai media (i media come «ambiente di vita» e come oggetto di analisi critica). Raramente si ha una conoscenza teorico-pratica delle specificità linguistiche e delle potenzialità espressive proprie del mezzo, e ancor più raramente si ha una percezione di quanto la presenza dei media comporti inevitabilmente un profondo riorientamento a livello cognitivo, socio-culturale e pedagogico.
    Questo stato di precarietà e subalternità dei media è il risultato essenzialmente di due «difetti»:
    • il primo è la non sistematicità, ovvero la episodicità, delle attività di ME che sono spesso affidate (e sopravvivono) più per l'entusiasmo empirico del singolo che per una progettazione rigorosa, ragionata e sostenuta dai vertici istituzionali. La sporadicità di queste esperienze fa sì che esse muoiano nello spazio ristretto del caso singolo vissuto come «evento»: la rappresentazione teatrale, l'allestimento di una mostra fotografica, un video da poter esibire in un concorso, ecc. In questo modo, però, l'esperienza non riesce a diventare una pratica abituale, non crea una tradizione, non si traduce cioè in patrimonio comune su cui reinvestire per attività future;
    • il secondo difetto è la non organicità delle esperienze. Si tratta spesso di interventi a se stanti piuttosto che di tasselli di un piano complessivo e graduale teso a studiare i media non tanto (o non solo) come mezzi singoli ma come sistema multimediale integrato che agisce sia sul piano culturale e valoriale che su quello economico-industriale.
    A questi difetti si sono aggiunti negli ultimissimi anni due rischi legati al massiccio e repentino diffondersi delle nuove tecnologie informatiche:
    • il primo è che i diversi ambiti formativi si abbandonino a una sorta di «febbre tecnologica», di incessante rincorsa del nuovo, di impulso a stravolgere le prassi tradizionali all'insegna di uno sperimentalismo sfrenato e spesso poco ragionato. Le conseguenze negative di questo tecnologismo spinto sono essenzialmente due: da una parte, si confonde la ME in quanto progetto formativo complesso con il semplice addestramento tecnologico, ad uso e consumo dei formatori più che dei soggetti. Dall'altra, e questo è anche più grave, si finisce con il perpetuare le pratiche più tradizionaliste anche con le tecnologie più moderne per cui si può benissimo continuare a tenere una lezione frontale commentando le immagini di una videocassetta o la schermata di un computer, si può usare una sofisticata videocamera per puri fini documentativi, si possono fare ricerche su Internet come una qualsiasi ricerca in biblioteca, ecc. Si possono, insomma, scolarizzare i media, neutralizzando la loro specificità comunicativa ed educativa;
    • il secondo rischio è che si verifichi, come in effetti si sta già verificando, un «by-pass tecnologico» e cioè una sovraesposizione del ruolo delle nuove tecnologie rispetto ai media tradizionali con il risultato di ridurre la ME all'ambito puramente informatico, ignorando quanto i media tradizionali (dalla stampa ai media audiovisivi) siano ancora parte fondamentale del vissuto degli individui e quanto la conoscenza e l'uso di tali media siano indispensabili per-farli interagire con maggiore consapevolezza anche con l'ambiente multimediale originato dal computer.
    A monte di tutto questo sta la convinzione, certamente sbagliata, che l'ingresso dei media (e dei new media) negli ambiti formativi sia sufficiente perché questi si trasformino e si rinnovino magicamente. Riferendosi alla scuola in particolare, A. Calvani denuncia il fatto che l'innovazione didattica viene spesso identificata con la semplice adozione: «Dirigenti scolastici e altre autorità considerano attuata l'innovazione nel momento in cui semplicemente viene accolta. Una cosa è introdurre una tecnologia istituzionalmente, un'altra è farla riuscire operativamente, radicarla nel terreno locale in modo che sopravviva fino a diventare routine».[11]
    In realtà - prosegue A. Calvani - l'introduzione dei media nella prassi didattica, almeno inizialmente, crea molti più problemi di quanto la semplice adozione possa far pensare: aumenta il carico di lavoro degli insegnanti, il loro timore di venire disapprovati da colleghi e dirigenti, l'ansia di non assolvere adeguatamente alle proprie finalità, la sensazione di non riuscire a trovare sufficienti raccordi con la propria disciplina. Ecco perché, con cura e determinazione, occorre predisporre le condizioni per il mantenimento delle attività, per una loro istituzionalizzazione nella programmazione e nella didattica quotidiana della scuola; occorre prevedere piani di formazione degli insegnanti costantemente aggiornati e rinvigoriti dalla pratica; occorre, insomma, andare aldilà dell'entusiasmo empirico iniziale e adoperarsi perché i media possano divenire dimensioni «naturali» del fare scuola, proprio come la penna, il libro, la voce.

    Perché insegnare i media?

    Inizialmente - siamo intorno agli anni '50 - le motivazioni che spingevano i formatori a confrontarsi con i media prendevano in considerazione l'assiduità e il grado di coinvolgimento dei soggetti, ma soprattutto l'influenza e gli effetti sui loro comportamenti e atteggiamenti. Era assai diffuso un certo senso di diffidenza (se non di opposizione aperta) verso i media, un timore «apocalittico» che i media fossero responsabili del decadimento morale e culturale dell'epoca moderna, e dei giovani in particolare. Si riteneva che la pervasività e il potere ideologico fossero motivi più che sufficienti perché si intervenisse a frapporre delle «barriere di contenimento e difesa». Nella convinzione che i media fossero esclusivamente fonte di persuasione ed informazione, si sosteneva che - studiando la televisione, per esempio - ci si dovesse concentrare su programmi come il telegiornale, i dibattiti politici, le tribune elettorali e la pubblicità nelle sue più svariate manifestazioni. Tuttavia, per quanto continui ad essere importante sapere come comportarsi anche dinanzi a questo tipo di programmi, la ricerca ha ampiamente dimostrato che in realtà non è questa l'esperienza immediata che i giovani hanno della televisione, un'esperienza che invece si forma a livello dei programmi d'intrattenimento (spettacoli musicali e sportivi, fiction, quiz, talk-show, ecc.). È su questo tipo di produzione televisiva che essi investono le loro energie e formano, nel bene e nel male, il loro universo valoriale, la loro conoscenza del mondo e del genere umano, di concetti scientifici, di politica, economia, storia e cultura in generale.
    Ma anche quando negli anni '60 si diffuse una posizione più positiva e tollerante, l'atteggiamento di fondo non cambiò più di tanto. È la posizione del cosiddetto Paradigma delle Arti Popolari che legittima come oggetto di studio solo la produzione mediale - segnatamente quella cinematografica - ritenuta capace di esprimere quella stessa valenza estetica e serietà intellettuale di solito attribuita alla cultura alta. Ignorando le specificità espressive, formali e tecnologiche dei media, questo paradigma operava due forzature: 1) applicava, in maniera assolutizzante, modelli interpretativi tipici della tradizione letteraria a testi che con la tradizione letteraria avevano poco in comune; 2) passava al setaccio i media (il cinema soprattutto) per cercare (e celebrare) i testi che meglio si pensava si avvicinassero al canone letterario ufficiale. Nelle parole di Masterman, nel Paradigma delle Arti Popolari «il tipo di materiale mediale che la classe docente tendeva a preferire – cinema d'éssai europeo proiettato nei circoli, documentari televisivi, giornali e riviste serie – era in sé e per sé buono. Il cinema di Hollywood, i rotocalchi, i quiz televisivi – il tipo di materiale preferito dagli studenti – erano scadenti».[12]
    Difendersi dall'influenza dei media, diminuirne la pervasività, saper discernere tra media «buoni» e media «scadenti»: sebbene queste motivazioni abbiano ancora ragione di esistere, oggi non sono più sufficienti. Dagli anni '70 in poi la ME si è infatti via via arricchita di nuove e più sofisticate dimensioni teoriche e strategie di analisi. La semio-pragmatica e gli studi sui contesti e i protagonisti del consumo mediale (gli audience studies) hanno contribuito al diffondersi di una nuova consapevolezza della necessità di superare sia ogni atteggiamento di rigetto tout court dei media, sia ogni posizione tendente ad operare discriminazioni parziali e riduttive tra di essi. È progressivamente prevalsa la convinzione che occorre strutturare gli interventi formativi sulla base di una maggiore comprensione del vissuto del pubblico e delle relazioni che esso instaura con i media. Si dovrebbe, cioè, partire da una concezione dei soggetti come produttori attivi di significato e dalla nozione che una tale produzione è un'attività fondamentalmente sociale e non individuale. Così, prima ancora di discutere sul valore estetico dei media o di lanciare allarmi moralistici, è necessario: entrare nella dispersa fenomenologia dei mille modi in cui essi vengono vissuti, interpretati ed usati; capire come i media funzionano in quanto industrie e quali interessi essi rispondono; scoprire le funzioni che essi assolvono nelle interazioni quotidiane delle persone. È necessario, insomma, incominciare a strutturare ogni approccio educativo ai media partendo dalle domande che Masterman si poneva durante una conferenza nel 1987: «È appropriato applicare dei criteri estetici alla maggior parte dei prodotti mediali? Anche quando riuscissimo a distinguere il buono e il cattivo della pubblicità, dei telegiornali o del giornalismo sportivo, lo vorremmo veramente? È così importante classificare i testi mediali all'interno di una qualche gerarchia qualitativa? O è forse più importante capire parte dei modi in cui questi stessi testi sono finanziati, prodotti, distribuiti e consumati?».[13]

    I concetti-chiave

    Il quadro concettuale da cui partire per condurre anche le più semplici attività di ME può essere riassunto nei seguenti punti:
    • I media costruiscono la realtà. Come abbiamo più volte ribadito, lungi dall'essere veicoli innocenti del reale, i media costruiscono versioni particolari della realtà che appaiono tanto più realistiche quanto più vengono accuratamente preparate. Saper distinguere tra realtà e rappresentazione della realtà significa essere in grado di mettere in luce i codici e le convenzioni che presiedono alla composizione del testo, codici e convenzioni che sono tanto più efficaci quanto più riescono a dissimularsi e a dare l'impressione della realtà. Interrogarsi sulle rappresentazioni mediali significa dunque problematizzare l'idea dei media come «finestre sul mondo», scoprire la loro parzialità (nel duplice senso di una parte e di parte), il loro frequente ricorso allo stereotipo come veicolo di una comunicazione tanto facile ed immediata quanto distorta e riduttiva che implica sempre un giudizio di valore.
    • Il pubblico negozia i significati proposti dai media. I fruitori dei media non sono tabulae rasae sulle quali i messaggi mediali si sedimentano senza alcun confronto dialettico e in maniera uniforme. È stata oramai ampiamente messa in discussione la nozione di pubblico come entità indifferenziata che assorbe uniformemente i significati mediali, una nozione che, da un lato, vede la comunicazione come semplice trasmissione di contenuti e non come interazione simbolica e scambio di significati, e dall'altro ignora la diversità e complessità delle interpretazioni e degli usi che gli individui fanno dei messaggi mediali sulla base del loro vissuto e delle loro coordinate esistenziali (l'età, il sesso, la razza/etnia, lo status sociale, il. grado di istruzione, ecc).
    • I media sono «un'industria delle coscienze». L'opera negoziatrice del pubblico trova tuttavia un limite nel potere «egemonizzante» dei media e nella loro impercettibile capacità di modellare la coscienza pubblica e privata delle persone. In questo senso le attività di ME hanno lo scopo di rafforzare il senso critico del pubblico non solo da un punto di vista strettamente culturale e dell'interpretazione dei significati trasmessi, ma anche da un punto di vista sociale e politico tramite un'opera di demistificazione delle rappresentazioni stereotipate, delle ideologie implicite.
    • I media sono un enorme business, e cioè una grande macchina che fa soldi. Cinema, TV, giornali (e oggi anche Internet) movimentano immensi interessi economici che vanno dall'editoria, alle vendite al botteghino, alla pubblicità, al merchandising più sofisticato per cui un film diventa un videogame, un libro, un fumetto, un cartoon televisivo, una linea di accessori per la scuola o di giocattoli, ecc. (si pensi, per esempio, a Jurassic Park o ai più recenti Pokemon).
    • I media contengono una molteplicità di forme e generi diversi strutturati secondo modalità linguistiche e potenzialità espressive specifiche.

    Le aree esplorative

    Sulla base di questi concetti-chiave i media educators inglesi hanno individuato sei aree esplorative: [14]

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    Volendo guardare in particolare al panorama scolastico italiano, non possiamo non notare che in Italia la complessità degli interventi didattici che questi concetti chiave e queste aree esplorative presuppongono si stempera all'interno di attività che, vista anche la disciplina di provenienza (Lettere) di molti insegnanti che le promuovono, si concentrano sull'analisi testuale e cioè sull'area del linguaggio dei media. Il loro obiettivo è analizzare i contenuti (che cosa dice il testo) e le forme (come lo dice), e cioè i temi, i personaggi, le scelte stilistiche, le strutture narrative, gli aspetti denotativi e connotativi, ecc.
    Molto poco viene fatto per studiare le istituzioni dei media, e cioè per riflettere sul testo mediale come prodotto industriale, frutto del lavoro di diverse figure e ruoli, e di interessi economici di enorme portata; o ancora, sulla differenza tra sistema pubblico e sistema privato; su organi istituzionali quali l'Authority delle telecomunicazioni o la Commissione Parlamentare di controllo della RAI, ecc. L'attività di ME più indicata per studiare l'aspetto istituzionale dei media è la simulazione. Per esempio, si potrebbe progettare e realizzare una campagna pubblicitaria, un talk show, un telegiornale, la prima pagina di un quotidiano, ecc. In questo modo, gli alunni, cui sono stati assegnati i diversi ruoli, possono sperimentare personalmente i problemi legati alla gestione di un certo budget di tempo e di denaro, alla disponibilità o meno di certe tecnologie, al rapporto con gli altri membri del team, alla censura o autocensura su certe cose, ecc. L'ambito relativo alle categorie dei media comporta una riflessione su come le diverse categorizzazioni dei testi implichino sempre una differenza di interpretazione. Se, per esempio, stiamo guardando un telegiornale sappiamo di doverci aspettare un programma con certe caratteristiche e saremmo molto sorpresi o disorientati se dovessimo trovarne delle altre, magari tipiche di un'altra categoria di programma. Si tratta, insomma, di studiare il genere. L'identificazione e la discussione sui generi rivela l'insieme di regole e convenzioni che stanno alla base dei testi, regole e convenzioni che in fase di produzione gli alunni possono imparare ad alterare, manipolare, giustapporre, secondo scopi e motivazioni diverse.
    Anche la tecnologia è un elemento fondamentale sia nella produzione che nel consumo dei media. Una foto o un film in bianco e nero o a colori creano un'atmosfera particolare e ci predispongono all'attribuzione di certi significati piuttosto che di altri. Certo per molti insegnanti saper fare osservazioni di tipo tecnologico può diventare una cosa alquanto complicata. Se oggi infatti può essere semplice maneggiare un videoregistratore o una macchina fotografica o parlare di lenti e obiettivi, può risultare molto più difficile maneggiare un computer o parlare di post-produzione e montaggio video, di effetti speciali, ecc. E questa difficoltà può portare alla predominanza nelle attività di ME dell'istanza critico-analitica rispetto a quella pratico-operativa. Eppure anche le più semplici esperienze di produzione mediale (scattare una banale fotografia) possono rivelare quanto certi processi produttivi e certe tecnologie siano importanti nel determinare il significato stesso dei testi, nell'offrire certe potenzialità espressive, nello stabilire certe restrizioni di accesso alla costruzione di senso.
    La quinta area, anche questa poco esplorata a scuola, si incarica di esplorare le tipologie di pubblico che i media prefigurano; come lo raggiungono; come, quando e in quali circostanze gli individui consumano e inglobano i testi mediali nelle diverse pratiche della loro vita quotidiana; a quali piaceri, bisogni, aspettative tali testi rispondono, ecc. Come già rilevato, il punto di partenza è la critica del concetto di pubblico inteso come entità indifferenziata che assorbe uniformemente i significati proposti dai testi mediali. Tradotto in termini didattici, si tratta di vedere che cosa il testo rappresenti per l'alunno e come egli ne interpreti i significati. Fare in modo che gli alunni, attraverso attività come la simulazione e l'assunzione dei ruoli (role-playing), vengano di volta in volta posizionati come membri di gruppi diversi, significa dare loro la possibilità di una duplice scoperta: 1) che il significato non risiede soltanto nel testo, ma anche in chi lo consuma, e 2) che il testo può rappresentare certe realtà in maniera stereotipata o non rappresentarle per niente.
    Qualche parola, infine, sulla sesta area della ME, e cioè come i media rappresentano e si rapportano alla realtà. La nozione teorica di base è che i media non riflettono la realtà, ma ne producono una versione particolare. Le varie attività avranno come obiettivo la ricerca di una risposta a domande come:
    • In che modo i media restringono/allargano/deformano la nostra percezione del reale?
    • Chi rappresenta che cosa e con quale interesse?
    • Chi o che cosa non viene rappresentato o viene rappresentato in maniera distorta?
    • Chi possiede il potere di parlare per sé e per gli altri e chi invece può essere solo oggetto di discussione e rappresentazione altrui?
    • È possibile produrre una versione alternativa alla versione data dai media?
    Già da questa rapida sintesi delle aree esplorative della ME si evince la necessità di andare aldilà della sola (pur importante) analisi testuale per studiare aspetti come: chi ha prodotto il testo mediale, in base a quali politiche economico-produttive e con quali tecnologie; quali significati e relazioni esso intrattiene con il suo pubblico; quali sono le coordinate esistenziali di quest'ultimo (età, sesso, classe sociale, provenienza geografica, razza, ecc.); qual è la relazione tra le situazioni rappresentate nel testo e la realtà, ovvero qual è la portata deformante dello stereotipo e del luogo comune. Solo tenendo conto della complessità di queste problematiche, e del rapporto reciproco che le lega, sarà possibile raggiungere la finalità ultima della ME,
    • cioè la comprensione e l'autonomia critica.

    Le attività fondamentali

    Un cenno, infine, ad alcune delle attività fondamentali di ME.

    ATTIVITÀ DI PRODUZIONE - Sulla base delle tecnologie, dei tempi e delle risorse economiche disponibili, si possono realizzare attività di produzione più o meno complesse: dalla trasformazione di un racconto in forma visiva attraverso una storyboard,[15[ una diapo-sequenza, un video, un Cd-rom, alla creazione di un collage audiovisivo selezionando e ritagliando immagini da diverse fonti; dalla produzione di uno spot di trenta secondi alla realizzazione di una vera e propria campagna pubblicitaria; dalla sovrapposizione di effetti sonori, musica e/o narrazione a una diapo- o video-sequenza alla messa in scena della parodia di un programma televisivo; dalla scrittura ipertestuale alla creazione del sito della scuola. È attraverso attività di questo genere che i concetti teorici appresi durante le discussioni, le letture, le ricerche, si sedimentano nella coscienza creando una reale competenza critica nei riguardi dei media.
    ANALISI DEL CONTENUTO - Si tratta di un metodo di analisi quantitativa che porta alla rilevazione di certi aspetti formali di un medium o di un testo. Per esempio, si può rilevare in un quotidiano quanta parte è dedicata alle immagini e quanta al testo o contare il numero delle inserzioni pubblicitarie rispetto alle notizie. Altri esercizi possono mirare alla definizione del tipo di figura femminile offerta da un settimanale contando le immagini di donne rappresentate in ruoli passivi e attivi. In un telegiornale si possono contare le scene di violenza. Questo tipo di attività sviluppa la capacità di leggere e raccogliere i dati in maniera selettiva, di riassumerli offrendone una lettura critica.
    ANALISI TESTUALE - Con questo metodo si cerca di individuare l'architettura contenutistico-formale di un testo. In relazione a un testo audiovisivo, per esempio, si tratterà di analizzare la composizione interna e il montaggio delle immagini, il giustapporsi di elementi sonoro-musicali, il movimento della telecamera/cinepresa e i tipi di inquadratura, l'uso delle luci, ecc. Si studieranno, inoltre, i personaggi, le situazioni, gli eventi e i temi rappresentati nel testo e il loro evolversi nel corso della storia. Lo scopo di questo tipo di attività è di attirare l'attenzione sul modo in cui la strutturazione del testo e le sue componenti interne contribuiscono alla creazione del significato.
    SIMULAZIONE - Gli esercizi di simulazione partono sempre dalla domanda «che cosa succederebbe se...?». Vanno dalla semplice adozione del. punto di vista di una data persona nel guardare, per esempio, una foto fino all'adozione di un vero e proprio ruolo nella simulazione di una redazione giornalistica o nella recitazione di una scena di una soap. Un caso tipico di simulazione è la creazione del palinsesto di una giornata (o di parti di essa) di una stazione televisiva posizionando i vari programmi alla luce del pubblico da raggiungere e della concorrenza da vincere. Lo scopo di un esercizio simile è di sviluppare la capacità di «targettizzare» i programmi, di indirizzarli cioè a un certo pubblico. Si può anche riflettere sugli «stili istituzionali» di una data rete o sulle differenze di consumo nel pubblico. Una simulazione più complessa e a lungo termine può essere quella di produrre dei materiali in vista della produzione, per esempio, di un nuovo cartone animato per bambini o dello spot di un nuovo giocattolo. In questo casi) si dovrà delineare il profilo dei personaggi e del pubblico, creare una traccia della sceneggiatura, disegnare la storyboard, preventivare i costi di produzione, ecc.
    Allo scopo di esemplificare quanto detto sinora sulla ME, i prossimi tre paragrafi intendono offrire una serie di spunti applicativi nella speranza che, con le opportune contestualizzazioni, possano tornare utili a chi si occupa di pastorale giovanile.

    L'ANALISI TESTUALE

    I livelli dell'analisi

    Come dicevamo, fra le attività fondamentali di ME quella più frequentata è l'analisi testuale. Prendendo spunto dal volume di Pier Cesare Rivoltella, L'audiovisivo e la formazione. Metodi per l'analisi,[16] possiamo distinguere tre livelli di analisi a seconda dei diversi contesti formativi entro cui si propongono le attività di ME.
    Il primo livello è di tipo asistematico e comporta l'elaborazione di interventi che, metodologicamente, implicano l'attivazione, a partire dal testo, di discussioni spontanee finalizzate al raggiungimento di obiettivi educativi non direttamente legati al mondo dei media. In realtà in questo caso non si fa una vera e propria analisi testuale in quanto la visione o la lettura del testo nasce più come pretesto per parlare d'altro. Si parla non dei media, ma di qualcos'altro tramite i media. Appartengono a questo livello di analisi tutti gli usi strumentali che si possono fare dei media in ambito scolastico, ma soprattutto extrascolastico e cioè in quei contesti educativi informali come i gruppi giovanili, i luoghi di aggregazione, l'educazione degli adulti (scuola-genitori, formazione aziendale, ecc.). Per esempio, nel caso della scuola, si pensi alla visione di un documentario sulla cellula nel corso di una lezione di biologia oppure, nel caso dell'educazione degli adulti, di un reportage o di un film sulla droga durante una conferenza su giovani e droga.
    Il secondo livello è di tipo sistematico e comporta l'elaborazione di interventi che, metodologicamente, sono molto più strutturati e finalizzati all'individuazione dell'architettura formale e contenutistica del testo. Il contesto abituale per questo tipo di analisi è quello dell'educazione formale, ovvero dell'ambito scolastico-universitario propriamente detto. In questo caso viene privilegiato un tipo di lettura che con Eco possiamo definire semantica e critica: «l'interpretazione semantica o semiosica è il risultato del processo per cui il. destinatario, di fronte alla manifestazione Lineare del testo, la riempie di significato. L'interpretazione critica o semiotica è invece quella per cui si cerca di spiegare per quali ragioni strutturali il testo possa produrre quelle (o altre alternative) interpretazioni semantiche».[17] È evidente la differenza con il precedente livello, «anzitutto perché su questo piano di analisi, il lavoro di reperimento del senso prodotto dal testo non passa solo attraverso analogie di esperienza, intuizioni sporadiche, capacità di coglierne le suggestioni, ma viene sostenuto da un apparato scientifico vero e proprio. Inoltre, e proprio per questo, in gioco non c'è quel che vogliamo far dire al testo, ma ciò che esso dice in rapporto alla propria coerenza testuale e ai sistemi di significazione cui rinvia».[18
    Infine, nel terzo livello di analisi – di tipo processuale – si passa da una prospettiva di analisi individuale, più o meno guidata e sistematica, a una prospettiva di gruppo e a un tipo di lettura fortemente contestualizzata. In questo caso risulta fondamentale il ruolo dell'animatore che deve saper essere molto creativo e capace di dare vita ad interventi molto flessibili al fine di facilitare le dinamiche relazionali e intercomunicative del gruppo a partire da una conoscenza dei media, ma soprattutto del contesto socio-culturale e delle persone con cui lavora. È un tipo di analisi tipicamente attivato in ambiti speciali come le comunità di recupero o le comunità socio-educative in genere, i carceri. L'interpretazione del testo avrà pertanto una forte valenza sociale «essendo il risultato di una cooperazione critica e attiva tra più individui che giungono a condividere un determinato punto di vista come risultato di una costruzione comune del senso».[19] L'individuazione di questi tre livelli di analisi permette di sottolineare come l'analisi testuale possa proficuamente trovare un proprio spazio anche nei più diversi contesti extrascolastici. Rivoltella ne segnala almeno quattro: la famiglia, i soggetti di disagio (sociale, psichico), la formazione degli educatori, la formazione aziendale. Nei primi due casi, L'analisi testuale ha una valenza in sé come strumento di intervento pedagogico da utilizzare, con gli opportuni adeguamenti metodologici, negli specifici ambiti educativi. Negli altri due casi, l'analisi testuale ha un ruolo certamente più marginale e strumentale in quanto funzionale al raggiungimento di certi obiettivi formativi (un talk show o un film possono essere un ottimo momento di aggregazione e riflessione in una comunità) o all'introduzione di una certa attività di formazione (si pensi alla visione di un film come L'attimo fuggente di Peter Weir in un corso di formazione sulla funzione docente, o di Impiegati di Pupi Avati in un corso di formazione aziendale).

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    Le tappe dell'analisi

    Nel condurre le attività di analisi, possiamo distinguere tre tappe principali.
    La prima tappa – smontare la rappresentazione – prevede la scomposizione del testo nelle sue parti elementari al fine di mettere in rilievo il suo essere un costrutto simbolico, ovvero il risultato di un processo di produzione del significato. Quest'opera di decostruzione va fatta attraverso la trascrizione grafica, da una parte, e la rilevazione dei codici linguistici e delle strutture narrative dall'altra. Attività di questo tipo richiedono e attivano delle «competenze (sapere) linguistiche, narratologiche e di teoria dei codici e [prescrivono] abilità (saper fare) specifiche: il riconoscimento degli elementi del linguaggio, la distinzione dei diversi codici, la capacità di rilevare le modalità del loro funzionamento, ecc.».[20]
    Nella seconda tappa – evidenziare le strategie – si passa alla «verifica del funzionamento pragmatico del testo, della sua capacità di offrirsi al lettore come terreno di scambio e di contrattazione simbolica».[21] Con l'avvento della pragmatica negli studi letterari si assiste al superamento dell'idea del testo come universo a se stante e decontestualizzato, e al riconoscimento del ruolo del lettore nel cogliere «le istruzioni per l'uso» che il testo in qualche modo gli prescrive. In altri termini, il testo non ci dice solo il che cosa (certi contenuti) ma anche il come (le strategie interpretative da adottare) e il chi (il lettore modello cui riferirsi). Scrive Eco: «Se vi è accaduto di vedere un film comico in un momento di profonda tristezza, saprete che difficilmente si riesce a divertirsi; non solo, ma potrebbe accadervi di rivedere lo stesso film anni dopo, e di non riuscire ancora a sorridere, perché ogni immagine vi ricorderà la tristezza di quella prima vostra esperienza. Evidentemente come spettatori empirici stareste "leggendo" il film in un modo sbagliato. Ma sbagliato rispetto a che cosa? Rispetto al tipo di spettatore a cui il regista aveva pensato, uno spettatore disposto appunto a sorridere, e a seguire una vicenda che non lo coinvolge direttamente. Questo tipo di spettatore (o di lettore di un libro) lo chiamo Lettore Modello – un lettore-tipo che il testo non solo prevede come collaboratore, ma che anche cerca di creare. Se un testo inizia con "C'era una volta", esso lancia un segnale che immediatamente seleziona il proprio lettore modello, che dovrebbe essere un bambino, o qualcuno che è disposto ad accettare una storia che vada aldilà del senso comune».[22] In questa fase dell'analisi si tratterà dunque di riconoscere come certi elementi del testo – per es., nel caso di un audiovisivo, un'inquadratura, un gioco di luci, un sottofondo musicale – configurino un determinato percorso interpretativo da parte dello spettatore, invitandolo a «giocare» con il testo, vuoi per accettarne i codici e le convenzioni, vuoi per rigettarle in parte o del tutto.
    La terza e ultima tappa – ricomporre l'interpretazione – prevede la ricostruzione dell'universo tematico del testo sulla base dei rilievi condotti nel corso delle fasi precedenti. Le competenze (il sapere), in questo caso, saranno di tipo storico-culturale, psico-sociologico e filosofico, mentre le abilità (il saper fare) implicano la capacità di «identificare i temi portanti del testo e di riconoscere gli sfondi mentali e i contesti socio-culturali e ideologici cui esso rinvia».[23]

    La trascrizione grafica

    Come abbiamo detto, un momento importante della fase di smontaggio della rappresentazione è la trascrizione grafica. Con la trascrizione grafica un testo audiovisivo viene dissezionato, inquadratura per inquadratura, in maniera minuziosa tanto che alcuni parlano di una vera e propria «sceneggiatura a posteriori». In altri termini, il movimento/scorrimento in rapida successione del testo filmico viene bloccato e fissato nelle sue unità elementari (le inquadrature) tramite dei segni di tipo grafico-verbale.
    Ma qual è l'utilità di un simile strumento per l'analisi del testo audiovisivo? Non basterebbe la visione o al massimo la visione reiterata? In realtà, se ci si basasse soltanto sulla visione, per quanto reiterata, si sarebbe costretti a dipendere dalla memoria e quindi dalla selezione soggettiva dei dati. L'analisi apparirebbe quindi già in partenza condizionata da una forte arbitrarietà nella ricostruzione del racconto e dei suoi particolari. Per dirla con le parole di Rivoltella, «nella misura in cui l'analisi pretende di elaborare un discorso "scientifico" sul film o sul video, essa non può basarsi su una ricostruzione soggettiva del loro contenuto, ma deve provare a restituirne il contenuto nella sua oggettività».[24]
    L'unità minima di analisi del testo audiovisivo è l'inquadratura, definita sia nei suoi margini temporali (il segmento di girato generato da una ripresa continua) che spaziali (lo spazio rappresentato). A partire da questa unità minima, è possibile operare i quattro interventi fondamentali della trascrizione grafica che sono: 1) la segmentazione del testo in segmenti ben identificabili e descrivibili, 2) la misurazione di tali segmenti mediante la registrazione della loro durata, 3) la loro identificazione mediante una semplice numerazione progressiva e infine 4) la descrizione del loro contenuto espressivo.
    Un'inquadratura si compone di elementi visivi ed elementi sonori che possono essere diegetici (se appartengono al flusso del racconto) o extra-diegetici (se si sovrappongono al flusso del racconto «dall'esterno»). Pertanto le schede della trascrizione vanno suddivise in due colonne. Nella colonna video si elencano tutti gli elementi propri dei codici visivi: la numerazione progressiva delle inquadrature, le coordinate spazio temporali (esterno/interno, giorno/notte), il tipo di colorazione (colore/bianco-nero) e di quadro (primo piano, campo lungo, mezza figura, piano americano, ecc.), ciò che si vede accadere, gli eventuali movimenti di camera, le tracce grafiche (didascalie, titoli, sottotitoli, scritte varie, ecc.). Nella colonna audio si inseriscono invece gli elementi propri dei codici sonori (voci, suoni, rumori).[25]

    L'ANALISI DELLA PUBBLICITÀ

    La pubblicità, motore dell'economia ma non solo

    La presenza della pubblicità nella nostra vita quotidiana è così pervasiva e la sua influenza così grande da richiedere un'attenzione costante e specifica. Viviamo in un ambiente nel quale veniamo esposti ad almeno 500 pubblicità al giorno, nelle forme più svariate. «In un anno il cittadino italiano assorbe in media tanta pubblicità televisiva quanto sono lunghi 30 film, tanti annunci stampa quanti ce ne potrebbero stare in un libro di 400 pagine, comunicati radiofonici pari a più di 60 ore di ascolto radio».[26]
    La pubblicità ha da sempre suscitato le più accese controversie. Da un lato, vi sono coloro che accusano l'industria pubblicitaria di manipolare i consumatori tramite l'uso calcolato di richiami emotivi e sessuali, di mezze verità e di tecniche più o meno subliminali. Dall'altro, vi sono quelli che invece sostengono che la pubblicità non solo riflette i bisogni e i valori della società contemporanea, ma soddisfa anche le esigenze di un sistema economico che cerca di velocizzare gli scambi, aumentare i consumi, creare sempre nuovi mercati, massimizzare i profitti.
    Se è vero che la pubblicità è la ragione di essere dei media (e dell'intero sistema economico, se vogliamo), senza la quale il ciclo produzione-distribuzione-consumo non potrebbe essere attivato, è anche vero che essa non funziona soltanto come mero strumento economico. La pubblicità non è mero tramite tra produttori e consumatori, ma veicolo attraverso cui passano le mode, le idee, gli stereotipi, le attitudini della società. In altri termini, essa appartiene non solo alla sfera economica dei media, ma anche a quella dei contenuti in quanto fornisce loro orientamenti ideologici più o meno precisi.
    Così come la conosciamo oggi, la pubblicità è nata solo alla fine della II guerra mondiale, quando la generale prosperità economico-industriale, l'avvento della televisione e gli studi sulle ricerche di mercato confluiscono in un'unica direzione di sviluppo. Appena 3 anni dopo l'inizio delle sue trasmissioni, e cioè nel 1957, la RAI manda in onda per la prima volta Carosello ottenendone immediati benefici economici.[27]
    E le reti commerciali, fondate per definizione sulla pubblicità? Sappiamo bene che per loro – a differenza del servizio pubblico che può contare anche sul canone – gli incassi pubblicitari sono la maggiore .fonte di finanziamento. Un dato può forse bastare a darci un'idea dell'importanza della pubblicità per le reti private: nel 1980, appena agli inizi della loro avventura, le reti commerciali incassavano dalla pubblicità 144 miliardi di lire, ma solo 6 anni dopo questi miliardi sono diventati più di 1200. È stato calcolato che alla fine degli anni '90 in Italia la pubblicità ha raggiunto un giro di affari di oltre 14 mila miliardi, corrispondenti all'1,2°/0 del prodotto interno lordo. Gli addetti al settore sono più di 6000, le agenzie iscritte all'albo professionale quasi 1000.
    Data l'efficacia della pubblicità televisiva, il costo degli spazi televisivi è ultimamente così cresciuto che spesso costa più fare uno spot di 30 secondi che un intero programma. Per esempio, negli Stati Uniti, patria della pubblicità televisiva, lo spazio per uno spot di 60 secondi trasmesso durante il. Super Bowl (la finale del campionato di football) può anche arrivare a costare oltre un milione di dollari.
    I pubblicitari comprano audience sfruttando tutta una serie di dati sui gusti, gli interessi, le propensioni, le debolezze del pubblico. Le ricerche demografiche sono fondamentali per determinare le tariffe degli spazi pubblicitari nei media, televisione in testa. Ma non si limitano a «contare» l'audience, la ricerca offre infatti ai pubblicitari misurazioni demografiche accurate che inquadrano il pubblico in base al sesso, all'età, al reddito, al grado di istruzione, alle abitudini consumistiche, agli stili di vita, ecc. A causa degli alti costi di produzione e distribuzione della pubblicità, vengono investite grandi somme di denaro per fare ricerca e rendere così la pubblicità sempre più efficace. Tra gli strumenti usati dalla ricerca ricordiamo i questionari, le interviste, i sondaggi di mercato, i pre-test di laboratorio sulle reazioni psicologiche e fisiologiche dei consumatori. Tuttavia, l'audience è più instabile di quanto si pensi e malgrado le analisi e gli strumenti di ricerca più sofisticati, molte campagne pubblicitarie possono risultare fallimentari. In effetti non bisogna mai dimenticare che, per quante misurazioni si possano fare, la pubblicità si fonda sempre sul dato emotivo, irrazionale, imprevedibile. Ed è questa in fondo la sua grande forza: la capacità di essere innanzi tutto un fatto artistico e creativo, e quindi profondamente e silenziosamente persuasivo. A chi ripone troppa fiducia nella ricerca di mercato bisognerebbe sempre rispondere con le parole inquietanti di Bernbach: «Si è tanto impegnati a studiare l'opinione pubblica da dimenticare che la si può fare».[28]

    Attività introduttive

    La pubblicità è ovunque. In genere tendiamo a non riconoscere di esserne in qualche modo influenzati. Queste attività introduttive intendono sviluppare un primo livello di consapevolezza dell'onnipresenza della pubblicità, della sua artificiosità, degli sforzi e dei costi che la sua creazione comporta e del suo immancabile impatto su ognuno di noi.
    1. Come attività preliminare (o di brainstorming), discutete sulle seguenti domande:
    • Avete delle foto pubblicitarie attaccate sulle pareti della vostra camera? Quanti dei vostri amici indossano o hanno oggetti che portano delle pubblicità o che sono frequentemente pubblicizzati? Perché?
    • Qual è la vostra pubblicità preferita? Perché? Quali dettagli vi ricordate di questa pubblicità? Quali sono gli elementi comuni delle pubblicità indirizzate ai giovani? Quali pubblicità non vi piacciono? Perché?
    • Quanta attenzione date alla pubblicità nei giornali? Vi interessa più o meno di quella televisiva?
    • Che tipo di pubblicità viene trasmessa di solito durante i programmi televisivi per bambini, le soap opera, i programmi sportivi? Qual è, secondo voi, la relazione tra questi programmi e la pubblicità trasmessa? E qual è la relazione con il pubblico?
    2. Trascrivete il numero e il tipo di pubblicità a cui venite esposti in una giornata. Ricordate di includere tutti i veicoli pubblicitari possibili: cartelloni, poster urbani, indumenti, radio-TV, stampa varia, ecc. Illustrate i risultati con grafici e statistiche.
    3. A gruppi, fate una ricerca per rispondere alle seguenti domande:
    • Quanti spot pubblicitari vengono trasmessi durante i programmi di prima serata? Quanto tempo passa in genere tra un'interruzione pubblicitaria e un'altra? Quanti minuti di pubblicità ci sono in un'ora di programmazione di seconda serata? Ci sono, nelle televisioni commerciali e nella RAI, dei programmi senza alcuna interruzione pubblicitaria? Quali? Illustrate i dati raccolti con dei grafici.
    4. Esaminate una serie di riviste e cercate di rispondere alle seguenti domande:
    Quanta pubblicità contiene un quotidiano, un settimanale, o una rivista specializzata? Quanta parte dei costi di un giornale locale viene coperta dalle inserzioni pubblicitarie e quanta dal prezzo di vendita? Come fare per scoprirlo?

    L'analisi della pubblicità nei giornali

    «Un annuncio stampa efficace deve arrivare al nocciolo della comunicazione senza tanti fronzoli, anche se questo è vero in modo diverso per i quotidiani, periodici di attualità, mensili di settore o giornali locali. Nei periodici, caratterizzati da stampa a colori e grafica spettacolare, molta importanza hanno l'immagine di richiamo (detta in gergo visual) e il titolo (headline). Infatti, prima, o invece, di leggerli il lettore di solito li sfoglia, soffermandosi solo su ciò che lo attira immediatamente. Nei mensili specializzati o monotematici (turismo, salute, eccetera), però, va ben curato anche il testo dell'annuncio (copy), oltre agli slogan. Questo perché chi sfoglia tali giornali, dalla lettura dei comunicati commerciali, che in gran parte presentano prodotti corrispondenti al taglio tematico del giornale e quindi per lui interessanti, vuole essere informato in modo esauriente. Sui quotidiani, invece, avendo l'immagine minore importanza in quanto manca il colore, "titolo" e testo devono puntare ancor di più sul carattere informativo, invece che sulla "seduzione"».[29]
    Nel lavorare con la pubblicità, si ricordi di iniziare sempre con una discussione preliminare (brainstorming) sulle impressioni e le reazioni immediate che la visione suscita. Questo perché la pubblicità nei giornali è destinata a raggiungere il proprio obiettivo in un paio di secondi e non di più. Come attività di produzione si potrebbe realizzare una foto pubblicitaria (o addirittura un'intera campagna), dando una spiegazione scritta o orale del suo funzionamento e delle sue strategie adottate.
    Dopo il brainstorming, si può passare ad un'analisi più dettagliata dei seguenti elementi:[30]
    a) Il linguaggio verbale
    • Che cosa comunica il nome del prodotto e, se ve ne sono, le altre parti verbali?
    • Qual è il tono generale della parte verbale?
    • A quali bisogni, paure e desideri viene fatto appello attraverso l'uso di certi termini? A quali preoccupazioni sulla salute, la sessualità, la famiglia, il lavoro, il benessere, la vita sociale e privata?
    • Quali affermazioni sul prodotto vengono fatte? Come sono qualificate? Ci sono parole ambigue, vaghe o irrilevanti? Ci sono parole gergali che risultano incomprensibili? Ci sono domande retoriche? Ci sono neologismi, giochi di parole, doppi sensi, espressioni colloquiali? Quali sono gli effetti di questo tipo di linguaggio?
    b) Gli elementi visivi
    • Ci sono foto, disegni, illustrazioni, ecc.?
    • Qual è l'atmosfera generale della pubblicità e come viene creata?
    • Come sono sistemati gli elementi visivi? Qual è il punto focale di interesse verso cui vengono diretti gli occhi del lettore? Attira perché è piacevole, sconvolgente o scandalosa?
    • Che tipo di carattere viene usato? Discutete sul suo impatto e sulla sua efficacia? In quale punto dell'inserzione è stato collocato l'elemento scritto? Perché? In che modo contribuisce all'impatto globale della pubblicità?
    Viene usato il colore? Qual è il suo rapporto con l'atmosfera generale che la pubblicità in questione intende evocare?
    • Come viene usata la luce?
    • Qual è la relazione tra l'elemento verbale e l'elemento visivo? Qual è il ruolo di quest'ultimo? Supporta semplicemente il contenuto verbale oppure ha un impatto specifico?
    c) Il contenuto (elementi narrativi)
    • Che cosa succede nella pubblicità? C'è una trama che presuppone un prima e un poi? Ci sono degli status symbol? Che cosa fanno i personaggi? Come sono vestiti? Che immagine evocano? Quali sono le qualità associate al prodotto? Ci sono delle persone rappresentate in maniera stereotipata? Potete ritrovare voi stessi, i vostri amici o altri, nella pubblicità?
    • Che cosa comunica l'allestimento scenografico? Quale atmosfera contribuisce a creare? Come?
    • C'è un «sottotesto» simbolico? È possibile cioè distinguere tra elementi connotativi (che rimandano a significati sottintesi) ed elementi denotativi (referenziali, descrittivi)?
    • Si ha la sensazione che qualcosa sia appena successo o che stia per succedere?
    • Cosa viene comunicato attraverso il linguaggio del corpo e la mimica gestuale/facciale dei personaggi? Qual è la loro posizione? Ci sono delle differenze di linguaggio del corpo tra i personaggi maschili e quelli femminili?
    d) Considerazioni generali
    • Come funziona la pubblicità presa in esame? Quali sono i maggiori «agganci» emotivi usati per influire sul nostro atteggiamento nei riguardi del prodotto pubblicizzato e per farcelo ricordare? Quale pensate sia la sua efficacia globale?
    • Chi è il target di pubblico di questa pubblicità? Sulla base di questo pubblico, ritenete sia stato scelto il veicolo pubblicitario più adatto? Sempre sulla base di questo pubblico, ritenete che, da un punto di vista formale e tematico, siano state fatte le scelte migliori?
    • Quali sono l'ideologia e i valori impliciti? Li condividete?
    • Che cosa ci dice questa pubblicità della società in genere? Quali atteggiamenti politici, economici e culturali riflette indirettamente? (Una pubblicità può parlare di blue jeans, ma può anche indirettamente parlare di maschilismo, alienazione, stereotipia, conformismo, conflitti generazionali, ribellione).
    • Quali sono i possibili effetti secondari di questa pubblicità?[31] In altri termini, quale impatto essa avrà sul comportamento, sullo stile di vita, sulla mentalità del pubblico?

    L'analisi della pubblicità televisiva

    Lo studio della pubblicità televisiva rappresenta una tappa fondamentale in ogni programma di ME. Come dicevamo, la pubblicità è la sola fonte di sostentamento della televisione commerciale ed è fra i «programmi» televisivi più accuratamente preparati e di maggiore impatto.
    Anche in questo caso, è opportuno iniziare con un brainstorming sull'argomento. Si potrebbe speculare sui costi di produzione in genere, sulla differenza tra la pubblicità «artigianale» di piccole reti locali e quella più sofisticata delle reti nazionali, sugli ultimi spot di maggiore interesse. In seguito si può passare all'analisi vera e propria.[32] Questi sono gli elementi su cui occorre lavorare:
    a) La durata
    • Quanto dura lo spot? Quanto influisce la durata sulla sua forma e sul contenuto?
    b) Il montaggio
    • Qual è il ritmo delle immagini? È un ritmo adatto al contenuto e al pubblico che si vuole raggiungere? Qual è l'effetto di un ritmo lento o veloce? Pensate che un ritmo veloce renda più difficile distrarsi dallo schermo? È vero, nella vostra esperienza, che gli adulti reagiscono ai ritmi veloci diversamente dai giovani? Tutte le inquadrature dello spot hanno la stessa durata?
    • Che tipo di transizioni vengono fatte tra un'inquadratura e un'altra? Si tratta di tagli, dissolvenze, sovrapposizioni?
    • Siete d'accordo con quelli che affermano che il grande vantaggio di uno spot di 15 secondi è di essere talmente veloce che la gente non ha tempo di esserne infastidita e cambiare quindi canale? E cosa pensate, invece, dell'opinione di coloro che, ritenendo questi spot troppo brevi ed effimeri e quindi di scarso impatto, sostengono la necessità di fare spot più lunghi – delle vere e proprie ministorie – che incidono di più sulla memoria dei consumatori?
    c) L'elemento audio
    • C'è nello spot in esame un qualche tipo di musica, rumore, voce, effetto sonoro speciale o una combinazione tra questi? Che tipo di musica è stata usata? E quali sono i suoi effetti? Qual è il tono e il ritmo della voce? È di un uomo, di una donna o di un bambino? Qual è l'effetto di questa voce?
    • Qual è la relazione dell'elemento audio con l'elemento video?
    d) L'uso della telecamera
    • Che tipo di inquadrature (primo piano, piano lungo, ecc.) sono state usate? E con quali effetti?
    • Quali sono gli effetti dello zoom (sia in avvicinamento che in allontanamento) e delle varie inquadrature delle persone/del prodotto da angoli di ripresa alti, bassi o normali?
    • Sono stati usati effetti luce particolari? E con quali conseguenze?
    • Sono stati usati effetti speciali o animazione al computer? Con quale efficacia?
    e) La grafica
    • Che uso viene fatto dell'elemento scritto? Che tipo di caratteri (forma, dimensioni, colori, ecc.) sono stati usati? In che punto dello schermo e in quale momento dello spot compaiono?
    • Che messaggio intende dare l'elemento scritto? È lo stesso di quello dato dalla parte verbale e visiva dello spot?
    f) Il pubblico
    • Si tratta di uno spot trasmesso da una rete locale o nazionale?
    • Che età, sesso, professione, razza/etnìa ha il suo target di pubblico?
    • Quali sono le connessioni tra lo spot, il suo target di pubblico e il programma durante il quale viene trasmesso?
    g) Considerazioni generali
    • Si tratta di uno spot che segue un andamento narrativo? Presenta un certo stile di vita? Quale?
    • Ci sono voluti molti cambi di scena per girare questo spot? Oppure è stato girato in un unico ambiente?
    • Sono stati impiegati dei personaggi famosi (testimoniai)?
    • Usa brani musicali famosi? Somiglia ad un video musicale?
    • Esiste una versione radiofonica di questo spot? Quali sono le somiglianze e le differenze tra le due versioni? Quale delle due pensate sia più efficace?
    Un'altra attività potrebbe essere quella di preparare la sceneggiatura
    • la storyboard (o entrambi) di uno spot televisivo.[33] Se sono disponibili attrezzature di videoregistrazione, questa attività potrebbe culminare nella produzione di uno spot, durante il quale i diversi ruoli coinvolti nelle varie fasi di produzione di uno spot (disegno e progettazione, produzione, regia, recitazione, scenografia, riprese, montaggio, ecc.) vengono affidati a persone (o gruppi di persone) diverse.

    La costruzione della realtà nella pubblicità

    Le attività di questa sezione aiutano a riflettere sulla cultura dei consumi e sul modo in cui la pubblicità contribuisce a creare e a rafforzare certi miti, pregiudizi, verità presunte, valori (e disvalori). Si ricordi che è molto importante tenere conto del background socioculturale, economico ed etnico delle persone con cui si lavora, un background che può essere molto lontano dal mondo rappresentato dalla pubblicità. Per esempio, certe attività si potrebbero ripetere adottando di volta in volta il punto di vista di una persona proveniente dal Terzo Mondo, di una donna, di un disoccupato, di un emarginato, di un portatore di handicap, ecc. Un'altra possibilità è quella di chiedere a uno straniero di mostrare e/o descrivere delle pubblicità fatte nel proprio paese d'origine. Lo studio comparativo della pubblicità di diversi paesi potrà sicuramente essere un'ottima occasione di confronto multietnico e culturale.
    1. Immaginate di essere un extraterrestre in missione sulla Terra e di venire esposto per qualche tempo alla cultura consumistica terrestre così come viene rappresentata dalla pubblicità. Immaginate di dover mandare sul vostro pianeta un rapporto sui terrestri, sulle loro abitudini e sul loro comportamento. Descrivete:
    • l'aspetto dei terrestri
    • quello che mangiano e bevono
    • come viene rappresentata la ricchezza e la povertà, quali sono gli standard di vita
    • come la gente si guadagna da vivere, qual è il concetto di lavoro, quali sono le necessità vitali
    • come la gente trascorre il tempo libero e qual è il suo ritmo di vita
    • le relazioni tra uomini e donne, tra adulti e bambini, tra giovani e anziani
    • come sono gli uomini e le donne e in che cosa differiscono
    • la relazione tra genitori e figli
    • che cosa significa essere attraenti
    • che cos'è la felicità per i terrestri
    • qual è l'età media
    • come vengono rappresentati gli anziani
    • se e come vengono rappresentate le persone di colore, le minoranze etniche, i portatori di handicap
    • quali sono i valori dei terrestri (quello a cui maggiormente aspirano e in cui credono).
    2. Lavorando su riviste diverse, raccogliete ed esaminate la pubblicità di vari prodotti destinati a curare l'immagine, cioè prodotti che migliorano il corpo e l'aspetto fisico dei consumatori. Riunite in liste diverse e a seconda delle parti del corpo interessate, i prodotti per donne e quelli per uomini. Discutete sui seguenti punti: il genere di pubblicità; le ragioni per cui un dato «difetto» del corpo non si può accettare; il concetto di bellezza in quanto nozione costruita artificialmente e quindi socialmente, geograficamente e storicamente variabile; la creazione di bisogni e paure.
    3. Fate una descrizione di un ipotetico uomo e un'ipotetica donna usando esclusivamente le parole della pubblicità. Le congiunzioni, gli articoli, ecc. possono essere aggiunti, ma le parole essenziali devono essere tratte dalla pubblicità. Discutete sul contenuto e sulle eventuali differenze tra le due descrizioni così ottenute.
    4. Discutete sulla seguente affermazione: «La nostra opinione su ciò che la gente fa e su come si comporta durante il tempo libero è influenzata da tutte quelle pubblicità che mostrano persone impegnate a bere bibite e alcolici vari, a guidare macchine nuove fiammanti, a prendere il sole e a spassarsela in continuazione».
    5. A gruppi, immaginate uno spot televisivo ambientato nei seguenti luoghi: uno stadio, una spiaggia, una cucina, un giardino pubblico. Fino a che punto la scena da voi immaginata è simile alla realtà? Fino a che punto se ne discosta? Ripetete lo spot, cambiando però l'ambiente circostante (per es. la pubblicità di un olio solare fatta in spiaggia ma durante un giorno di pioggia, o la pubblicità di un detersivo fatta in una cucina da quattro soldi). Quali sono gli effetti?
    Attività aggiuntive
    1. Discutete sulla seguente affermazione: «L'industria pubblicitaria può benissimo autocontrollarsi, senza bisogno di leggi particolari e di alcuna interferenza esterna» (da parte del governo, dell'opinione pubblica, o della stampa).
    2. C'è una forma di pubblicità indiretta (la «pubblicità occulta») con la quale le immagini di certi prodotti (un'automobile, una marca di sigarette, una bibita, ecc.) appaiono durante una trasmissione televisiva o un film ma al di fuori degli spazi pubblicitari previsti. Si tratta di un tipo di pubblicità estremamente efficace in quanto non viene percepita come tale dal pubblico e pertanto ciò che rappresenta appare molto realistico e vicino alla vita quotidiana. Cercate degli esempi di questa pubblicità nei film o nei programmi televisivi. Successivamente visionate un telefilm (una sitcom, per esempio) e indicate i punti in cui pensate sia possibile inserire della pubblicità indiretta.
    3. Uno spot dal ritmo veloce può arrivare a contenere più di 40 inquadrature in 30 secondi. Alcuni studiosi affermano che, qualora si dovesse tornare a un tipo di programmazione televisiva e di pubblicità dai ritmi più distesi, tutto ci apparirebbe insopportabilmente noioso. Discutete in classe sugli effetti di spot televisivi dal ritmo frenetico sulla nostra percezione di altri programmi televisivi e sulla nostra vita in genere.
    4. Alcuni studiosi hanno sottolineato la straordinaria somiglianza fra la pubblicità e i video musicali. Cercate degli esempi di come le tecniche del video musicale sono stati applicati agli spot televisivi.
    5. Fate una ricerca e discutete sui seguenti argomenti:
    • La pubblicità è un riflesso della cultura popolare e della società contemporanea. Raccogliete delle pubblicità su giornali e riviste del passato: che cosa ci dicono della società di quegli anni?
    • Il ruolo della pubblicità. Secondo voi, la pubblicità si limita a seguire le tendenze di un'epoca o contribuisce in maniera essenziale a crearle? Asseconda i nostri bisogni e desideri o li crea?
    • L'estetica e l'etica di famosi spot e foto pubblicitarie.
    • La pubblicità fa appello a desideri umani come ricchezza, autostima, avventura, sesso, potere, bellezza, gioventù, successo.
    • L'uso della comicità e della satira nella pubblicità.
    • Come vengono rappresentate di solito certe figure nella pubblicità: le mamme e i papà, i bambini, gli adolescenti e i giovani, gli atleti, gli anziani, le donne in carriera e le casalinghe. Qual è il concetto di felicità, di colpa/peccato, di tempo libero?
    • La pubblicità e i giovani.
    • La Pubblicità Progresso.
    • La pubblicità e lo stereotipo (sessuale, razziale, professionale, ecc.).
    • La storia della pubblicità.
    • La pubblicità e i bambini.

    L'ANALISI DELLA FICTION TELEVISIVA

    Le funzioni della fiction televisiva

    Negli ultimi decenni la televisione è stata letteralmente inondata dalla fiction non solo di importazione (americana) ma anche e soprattutto di produzione domestica.[34] Essa è oramai diventata uno dei generi più popolari e dunque quella che potrebbe essere più interessante sottoporre ad analisi, ma prima di procedere all'individuazione di alcuni spunti e suggerimenti per condurre l'analisi, va ricordato che qualsiasi analisi testuale della fiction televisiva non può prescindere da una conoscenza, sia pure sommaria, delle funzioni che essa svolge nella nostra vita quotidiana e del «fascino» che sa esercitare nelle categorie più diverse di individui. In particolare distinguiamo quattro funzioni:
    • La prima funzione è strettamente collegata alla natura «bardica» della televisione: la televisione è il cantastorie - il bardo - dell'era elettronica, ovvero un complesso e sofisticato sistema di narrazione e mediazione culturale attraverso il quale la società racconta e si racconta.[35] Questa «funzione bardica» è un elemento talmente caratterizzante della televisione che anche generi apparentemente estranei alla narrazione, come l'informazione e il varietà, possono essere declinati secondo le categorie narratologiche della fiction.
    • A questa funzione eminentemente narrativa si aggiungono due funzioni di ordine psicologico e sociologico: da una parte la fiction fornisce agli individui la possibilità e il piacere di viaggiare attraverso il regno dell'immaginario, della fantasia, dell'emozione (funzione affabulatoria), e dall'altra
    • contribuisce a creare un sentire comune e diffuso (e perciò rassicurante) sulle questioni valoriali (l'amore, l'odio, la morte, la famiglia, la salute, la giustizia, la violenza, ecc.) che ogni individuo si trova ad affrontare quotidianamente (funzione socializzante/familiarizzante).
    • Da ciò deriva un'ulteriore funzione, una funzione «conservatrice», attraverso la quale la fiction televisiva si incarica di custodire la cultura esistente e al tempo stesso di innovarla, salvaguardandola però dai cambiamenti troppo radicali e sconvolgenti. In altri termini, la fiction non esclude necessariamente e definitivamente l'ingresso del nuovo (nei temi, nei formati narrativi e nelle formule stilistiche, nei personaggi, ecc.), ma semmai «le visioni radicali e sussultorie del mutamento culturale».[36]

    Gli elementi fondamentali della narrazione

    Gli elementi fondamentali della narrazione sono l'ambientazione, i personaggi, le azioni e le trasformazioni così che possiamo dire che una narrazione è il concatenarsi di situazioni in cui, in certi ambienti, si verificano certe azioni, agiscono certi personaggi ed avvengono certe trasformazioni.
    L'ambientazione ha un ruolo fondamentale nello stabilire le coordinate spazio-temporali entro cui si colloca l'azione. Può fare da sfondo alla vicenda (città, campagna, mare, montagna, ecc.) oppure può contribuire a collocarla in un dato periodo storico (i film di guerra) o in un contesto fantastico (i film di fantascienza).
    Dei personaggi vanno sottolineati due aspetti: il ruolo sociale (per es., madre, padre, professionista, poliziotto, ecc.) e la funzione nel testo (protagonisti, antagonisti, minori). L'analisi dei personaggi mira a rispondere a domande come: chi sono (indicare i nomi e descrivere l'aspetto e tratti caratteriali principali)? Cosa fanno e in base a quali valori (descrivere il ruolo e la funzione)? Benché costruzioni fittizie, i personaggi si presentano come persone vere (o verosimili) in quanto incarnano sentimenti ed atteggiamenti molto vicini al pubblico. Grazie a questa vicinanza, il pubblico sarà ben disposto ad entrare nel gioco narrativo e a «sospendere l'incredulità». Tuttavia va aggiunto che per quanto realistici, i personaggi rappresentano solo alcuni tratti degli individui che nella realtà sono molto più sfaccettati e complessi. La narrazione dipende anche dalle azioni compiute dai personaggi. In questo caso ci porremo delle domande del tipo: le azioni sono volontarie o involontarie, ovvero i personaggi agiscono e subiscono? Sono azioni individuali o corali? Sono finalizzate a uno scopo? Quale?
    Infine, le trasformazioni sono i cambiamenti che si verificano nel corso della vicenda e che investono i due elementi appena descritti, e cioè personaggi e azioni. Nel caso dei personaggi le domande saranno: come è cambiato un dato personaggio? È cambiato nei comportamenti (modo di agire) e/o negli atteggiamenti (idee e modo di essere)? Quanti e quali personaggi sono cambiati? Nel caso delle azioni ci chiederemo: la situazione di partenza è cambiata? In che senso? In meglio o in peggio? Per quali cause? Il cambiamento ha avuto un andamento lineare o contorto? La risoluzione finale del film è uguale o diversa rispetto all'inizio?

    Gli aspetti specifici della fiction televisiva

    Questi elementi tradizionali della narrazione si combinano con gli aspetti specifici della fiction televisiva (cf Figura 3). Vediamone nel dettaglio alcuni.
    • La fiction televisiva porta a compimento quell'eclissi dell'autore da tempo segnalata dalla critica letteraria: in televisione, l'idea dell'atto creativo come atto «geniale», tutto solitario e privato, viene sostituita da un concetto di creazione come atto collaborativo e pubblico, soggetto a continui compromessi con le politiche e le esigenze dell'industria che lo produce, e i gusti del pubblico (o dei pubblici) che lo consuma.
    • Per fidelizzare il suo pubblico, la fiction televisiva ricorre al binomio ripetizione-innovazione: una soap ritorna puntuale – stessa ora, stesso canale – tutti i giorni, e il suo formato si ripete sostanzialmente identico giorno dopo giorno; lo stesso fa un poliziesco, il cui assassino viene puntualmente scoperto prima della fine dell'episodio. E tuttavia devono esserci anche degli elementi di novità per far sì che lo spettatore sia invogliato a ritornare.
    • I contorni dei singoli testi televisivi (siano essi di fiction o meno) si vanno sempre più stemperando all'interno di una programmazione «a flusso», il che rende opportuno esaminare anche la relazione tra il testo preso in esame e i programmi che gli sono contigui.
    • La struttura narrativa di un testo di fiction (soprattutto nei network commerciali) costruisce i suoi climax a partire dalla necessità di fare spazio alla pubblicità e soprattutto alla serialità, ovvero alla necessità di rimandare alle prossime puntate/episodi senza rischiare di mettere in discussione la fedeltà del pubblico.
    • Il testo televisivo primario acquista significato anche alla luce dei testi secondari e terziari che lo circondano.[37]
    • Non vi è (soprattutto nei serial a puntate) una chiusura definitiva. La trama narrativa rimane sostanzialmente aperta, offrendo un aggiornamento costante delle cose, un continuo ritorno al presente.
    • Lo sviluppo dei personaggi è minimo (soprattutto nelle serie a episodi): stabiliti all'inizio i loro tratti principali, ogni evoluzione caratteriale e comportamentale che possa in qualche modo compromettere la fidelizzazione del pubblico risulta superflua o controproducente. I personaggi sembrano dunque non avere memoria, non imparano mai (e noi con loro) da quello che gli è capitato nell'episodio precedente. Proprio per questo la televisione, molto più della letteratura e del cinema, si presta alla creazione di «tipi» caratteriali dai tratti ben definiti e stabili.
    • Il piacere dell'anticipazione dell'evento è di gran lunga maggiore del piacere di vedere il verificarsi dell'evento stesso. In certi polizieschi, il «whodunnit»[38] è rivelato già nelle prime scene dell'episodio. Ciò che terrà incollati gli spettatori allo schermo non sarà dunque la scoperta del colpevole, ma le manovre che il protagonista dovrà compiere per assicurarlo alla giustizia. Non il cosa, ma il come. La tensione narrativa viene così collocata non tanto (o non solo) all'interno del singolo episodio quanto lungo tutta la serie. È la serie che nel suo insieme dà unità e progressione narrativa ai singoli episodi proponendo situazioni nuove all'interno di uno schema essenzialmente ripetitivo.
    • La risoluzione si colloca su due livelli distinti eppure intimamente intrecciati. Il primo livello è quello della problematica di base che si sviluppa nell'arco dell'intera serie e di cui non si dà in effetti una risoluzione vera e propria, né alla fine del singolo episodio, né spesso alla fine dell'intera serie:[39] lo scontro tra legalità e crimine nel poliziesco o nel genere legai, lo scorrere della vita quotidiana di gruppi amicali e/o familiari nella sitcom o nella soap, la lotta tra malattia e salute nel genere medical. Il secondo livello di risoluzione è quello degli eventi presentati nel singolo episodio che vengono chiaramente e definitivamente risolti o avviati a risoluzione. Attraverso la ripetizione della problematica di base e dei suoi protagonisti, la fiction seriale offre al pubblico una sorta di unità nella differenza, garantendogli una condizione di stabilità e insieme di apertura da riconoscere (e in cui riconoscersi) di volta in volta, sia pure nella varietà e nella novità degli accadimenti offerti nei singoli episodi.

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    NOTE

    1 Per una più esaustiva trattazione della «grammatica» della comunicazione si veda U. VOLLI, Il libro della comunicazione, Bompiani, Milano 1991; E. FIORANI, Grammatica della comunicazione, Lupetti, Milano 1998; P. C. RIVOLTELLA, Teoria della comunicazione, La Scuola, Brescia 1998; F. CERETTI, La comunicazione. Dalla cultura orale alla cultura elettronica, Elledici, Leumann (To) 2000.
    2 R. BARTHES, Miti d'oggi, Einaudi, Torino 21994, p. 198.
    3 P. C. RIVOLTELLA, Come Peter Pan. Educazione, media e tecnologie oggi, Graphica Santhiatese Editrice, Santhià (VC) 1998, p. 63.
    4 Per un'accurata quanto suggestiva ricostruzione delle caratteristiche della cultura e della comunicazione orale si veda W. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986.
    5 P. C. RIVOLTELLA, Teoria... cit.
    6 F. CERERI, La comunicazione... cit., p. 25.
    7 P. C. RIVOLTELLA, Teoria... cit., p. 76.
    8 S. MARTELLI, Videosocializzazione. Processi educativi e nuovi media, Franco Angeli, Milano 2001, p. 39.
    9 Ibid.
    10 P. C. RIVOLTELLA, Media Education. Modelli, esperienze, profilo disciplinare, Carocci, Roma 2001, pp. 12-13.
    11 A. CALVANI, I nuovi media nella scuola. Perché, come, quando avvalersene, Carocci, Roma 1999, p. 35.
    12 L. MASTERMAN, A scuola di media. Educazione, media e democrazia nell'Europa degli anni '90, La Scuola, Brescia 1997, p. 56.
    13 Cit. in C. BAZALGETTE, «The Politics of Media Education», in M. ALVARADO, O. BOYD-BARRETT (edd.), Media Education. An Introduction, British Film Institute, London 1992, p. 144; la traduzione è nostra.
    14 Cf C. BAZELGETTE, Media Education, Hodder & Stoughton, London 1991.
    15 Letteralmente la «tavola della storia», la storyboard è una specie di abbozzo di fumetto che si fa prima delle riprese cinematografiche e che contiene in sequenza i disegni schematici dei quadri più significativi del futuro filmato. È uno strumento indispensabile sia per i dilettanti di videoregistrazione che per i produttori di spot pubblicitari. In quest'ultimo caso la storyboard sostituisce la sceneggiatura, prestandosi meglio a «visualizzare» forma e contenuto del breve filmato in modo che il cliente, prima di spendere dei soldi per la produzione vera e propria, possa comprenderlo nelle sue linee essenziali e, se gli piace, approvarlo.
    16 P. C. RIVOLTELLA (a cura di), L'audiovisivo e la formazione. Metodi per l'analisi, Cedam, Padova 1998.
    17 Cit. in RIVOLTELLA, L'audiovisivo e la formazione..., p. 14.
    18 pp. 14-15.
    19 Ibid., p. 15.
    20 Ibid., p. 21.
    21 Ibid., p. 23.
    22 Cit. in RIVOLTELLA, L'audiovisivo e la formazione..., p. 11.
    23 Ibid., p. 22.
    24 Ibid., 44.
    25 Per maggiori dettagli sulla costruzione delle schede di trascrizione grafica e sugli elementi da inserirvi, si veda il capitolo relativo nel già citato testo di Rivoltella. In tale volume è possibile anche ritrovare numerosi esempi di trascrizione grafica applicati a generi televisivi diversi.
    26 L. ALLORI, Dizionario dei mass media, Oscar Mondadori, Roma 1992, p. 334. Per una trattazione sintetica della pubblicità, delle sue tipologie, problematiche e procedure di analisi si veda A. ZANACCHI, Convivere con la pubblicità, Elledici, Leumann (To) 1999.
    27 Già nel primo anno, Carosello fa incassare alla televisione pubblica poco più di un miliardo e mezzo di lire, il che non è tanto se si pensa che la pubblicità radiofonica dava un gettito pari a 5 miliardi. Ma una ventina di anni dopo questa cifra ha raggiunto i 61 miliardi e sarà destinata ad aumentare quando la RAI, dopo aver chiuso Carosello nel 1977, comincia a «spalmare» la pubblicità lungo tutto il palinsesto.
    28 Ibid., p. 374.
    29 Ibid., p. 488.
    30 Si noti che molte delle considerazioni e delle attività suggerite per questo tipo di pubblicità valgono anche per la pubblicità televisiva.
    31 Aldilà di quelli direttamente legati ai risultati commerciali in termini di vendita del prodotto pubblicizzato.
    32 Si suggerisce di cominciare a partire da un'accurata trascrizione grafica dello spot. Per maggiori dettagli sulla trascrizione grafica si veda qui il paragrafo a p. 73. o anche il capitolo relativo nel citato volume di P. C. RIVOLTELLA (a cura di), L'audiovisivo e la formazione...
    33 Per la definizione di storyboard si veda la nota 15 a p. 66.
    34 Per una trattazione sistematica ed esaustiva dello sviluppo della fiction di produzione nazionale si vedano i volumi curati annualmente da M. Buonanno per le edizioni RAI-ERI nei quali sono raccolti i dati e le tendenze emerse dall'opera di monitoraggio condotta da oltre un decennio dall'OFI (Osservatorio per la Fiction Italiana).
    35 J. FISKE - J. HARTLEY, Reading Television, Metheun, London 1978.
    36 M. BUONANNO, Il reale è immaginario. La fiction italiana, l'Italia nella fiction, RAI-VQPT, n. 104, 1991, p. 18. Come e forse più di ogni altro genere della letteratura popolare (dal mito classico al feuilletton ottocentesco) - continua Buonanno la fiction televisiva attinge alla tradizione, ma nello stesso tempo «registra (e talora perfino anticipa) le tendenze e le correnti del cambiamento, inserendole però e articolandole entro i quadri di riferimento e i modelli di esperienza consolidati. Procedura o strategia di familiarizzazione soft alle trasformazioni, che fa della fiction televisiva un supporto convincente ed efficace del mutamento e, insieme, un ammortizzatore dello choc culturale che questo è sempre suscettibile di provocare».
    37 All'interno del concetto di «inter-testualità verticale», Fiske definisce «testo primario» il programma televisivo così come viene messo in onda, «testi secondari» sono quelli che appartengono alla promozione, alla critica e alla copertura giornalistica del programma – poster, promo televisivi, interviste, recensioni – la cui funzione complessiva è di disegnare e diffondere possibili percorsi semantici e chiavi di lettura, «testi terziari» sono infine quelli prodotti dal pubblico – lettere ai network, ai giornali, attività dei fan club, commenti e conversazioni informali, chat groups su Internet – di più difficile rilevazione eppure ugualmente importanti nel processo di ricezione e interpretazione del testo primario (cf J. FISKE, Television Culture, Routledge, London 1987, pp. 108-127). Un esempio di analisi inter-testuale applicata a una fiction italiana di grande successo è il volume di M. BUONANNO, La piovra. La carriera politica di una fiction popolare, Costa & Nolan, Genova 1996.
    38 Forma slang per «who's done it?» («chi è stato?») usata metonimicamente per designare le detective stai}, in genere.
    39 Lasciando così aperta la possibilità di produrre un'altra serie (un sequel), soprattutto se la prima ha riscosso un certo successo.


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