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    Introduzione a: I media per l'animazione


    Gianna Cappello - Lucio D'Abbicco, I MEDIA PER L'ANIMAZIONE, Elledici 2002

     

    «Passa tranquillamente tra il rumore e la fretta,
    e ricorda quanta pace può esserci nel silenzio»

    (dai «Desiderata» trovati nell'antica chiesa di San Paolo, Baltimora, 1692)


    IL SANTO DEL VILLAGGO GLOBALE

    Il 2 maggio del 1999 si è compiuta la beatificazione di Padre Pio (e il 16 giugno 2002 la canonizzazione), il primo santo dell'era hi-tech, a cavallo tra la religiosità popolare, un po' antica ma mai veramente tramontata, dei pellegrinaggi, dei miracoli e delle apparizioni, e la religiosità nuova e del tutto inconsueta (ma in continua ascesa) dei siti internet, delle videocassette, dei libri, dei gadgets e delle adunate oceaniche moltiplicate da schermi giganteschi e mondializzate dalle telecamere, dai collegamenti satellitari, da Internet.
    Ed è appunto in Internet che il. culto di Padre Pio è letteralmente esploso, divenendo un fenomeno multimediale a tutti gli effetti. Nei giorni della beatificazione il tutto esaurito non era solo per piazza san Pietro, ma anche per la rete. L'ultimo sito disponibile con l'espressione «padre pio» era in vendita in quei giorni al prezzo di 2500 dollari. Oggi sono migliaia le pagine Web legate al. santo di Pietrelcina, prima fra tutte quella del sito ufficiale dell'Opera di Padre Pio (www.operapadrepio.it), dove si tralasciano cautamente le apparizioni, i miracoli, le immagini abusate delle stimmate, o ancora gli scontri con la gerarchia vaticana e si parla invece della famiglia di Padre Pio, del suo noviziato, dei voti, delle opere e delle preghiere, della sua morte. Si parta anche delle tante iniziative che l'Opera ha in corso a San Giovanni Rotondo: l'ospedale, i gruppi di preghiera, le offerte per la nuova Chiesa, la più grande del mondo, progettata da Renzo Piano, che potrà ospitare ben 60 mila fedeli. Più vicini invece al culto popolare di Padre Pio, quello dei mezzi guanti che coprono le stimmate e del profumo di violetta che accompagna i prodigi del frate, sono una serie di altri siti. Il sito dei cappuccini di Foggia, www.abol.it/padrepio, è uno di questi. Qui troviamo una mailing list, e cioè un gruppo di discussione via Internet, su Padre Pio; troviamo anche una vera e propria galleria multimediale dove possiamo ascoltare l'ultima messa di Padre Pio, o assistere a una presentazione audiovisiva della nuova Chiesa. Se vogliamo poi acquistare un kit completo di immaginette sacre possiamo visitare il sito italiano www.medea.clio.it/ecclesia. Cliccando invece sul sito americano della Padre Pio Foundation (www.padrepio.com), troviamo una dettagliata biografia ricca di fotografie delle stimmate, dei miracoli più o meno ufficiali, delle apparizioni; troviamo numerose testimonianze di devoti e tutta una serie di gadgets ai prezzi più vari.
    Ma perché cominciare questo nostro libro su pastorale giovanile, animazione e media scomodando Padre Pio? Certo non è nostra intenzione discutere su Padre Pio come beato, sul suo significato spirituale, sulla devozione che lo circonda, popolare o ufficiale che sia, né vogliamo discutere sull'enorme business che gli ruota attorno, o ancora sulle nuove forme di religiosità telematica che si stanno diffondendo nell'epoca contemporanea. Sono questi tutti argomenti di grande rilievo su cui la riflessione e il dibattito sono tuttora aperti. Più semplicemente, il nostro ricorso a Padre Pio è, per così dire, pretestuoso in quanto ci consente di introdurre alcuni importanti temi che, in maniera più o meno esplicita, ricorreranno spesso nei capitoli successivi.

    MEDIA, CULTURA E SOCIETÀ

    I media tra cultura e business

    Un primo importante tema è la duplice funzione dei media come istituzione socio-culturale e come grande business. Presenti nella nostra vita in maniera pervasiva e a volte ingombrante, i moderni mezzi di comunicazione svolgono un ruolo cruciale non solo a livello socio-culturale, determinando nuove tendenze di pensiero, nuovi stili di vita e modelli di comportamento, ma anche a livello economico-industriale promuovendo nuove economie di mercato, nuovi sviluppi industriali, nuove aree di espansione commerciale.
    In quanto istituzione socio-culturale – come sottolinea giustamente Martelli – i media svolgono una funzione informativa, comunicativa, di intrattenimento/evasione, di produzione/riproduzione culturale, di socializzazione, di legittimazione/delegittimazione politica ed economica.[1] Per molti i media rappresentano un'irrinunciabile fonte di informazione e conoscenza, una finestra sempre aperta sul mondo (anche se spesso parziale e discutibile nelle sue scelte di contenuto e nei suoi modi di presentazione), uno strumento di chiarificazione e presa di coscienza dei problemi, di condivisione e partecipazione a certi fenomeni. A pensarci bene, è attraverso delle immagini – quella di uno studente che, indifeso ma indomito, si para dinanzi a un carro armato, o quella del crollo di un muro che per decenni ha attanagliato il mondo nel gelo della guerra fredda, o infine quella della giovane coppia serbo-croata uccisa su un ponte da uno dei tanti cecchini della guerra nei Balcani – che i cittadini del mondo hanno conosciuto gli orrori della repressione studentesca della Cina comunista, gli entusiasmi per la fine della guerra fredda, la tragedia di un popolo dilaniato dalla guerra civile fin nei più intimi affetti familiari. Ma la funzione culturale dei media si afferma non solo attraverso l'informazione. Anche i generi di intrattenimento fanno la loro parte: un film, un programma televisivo, la musica di un cantante rock, un rotocalco, un videogame diventano spesso l'icona di un'epoca, veri e propri fenomeni di costume che mobilitano schiere di fan più o meno accaniti e che propongono una certa immagine del mondo, un certo modo di pensare e di comportarsi.
    Oltre a funzionare come istituzione socio-culturale, i media sono anche un grande business. Ciò impone la necessità di pensarli non in ordine sparso, come entità che agiscono singolarmente e isolate dal più generale contesto socio-economico, ma come un sistema complesso e integrato. A causa del cosiddetto «processo di convergenza»,[2] si vengono infatti a formare dei mega agglomerati multimediali operanti a livello mondiale con infinite possibilità di merchandising per cui un libro diventa un film, un videogame, una videocassetta, un CD musicale... (si pensi a fenomeni come Jurassic Park o i più recenti Pokemon).
    Per tornare al nostro esempio di apertura, anche Padre Pio è entrato nei circuiti di questo sistema multimediale complesso e integrato. Ciò che sorprende maggiormente nel culto di Padre Pio non è tanto (o solo) l'industria che gli ruota attorno (come ha rilevato Messori, bancarelle e santini sono sempre stati presenti nei santuari di tutto il mondo), ma la mondialità e multimedialità del fenomeno, il fatto che esso abbia assunto dimensioni mai viste prima e che stia coinvolgendo i media più diversi. Sorprende come Padre Pio, da frate popolare e di provincia sia divenuto, con la complicità dei media e degli strateghi della comunicazione globale, anche una colossale operazione multimediale che viaggia e acquista sempre più vigore non solo attraverso i gadgets e i santini, ma anche attraverso Internet e una miriade disparata di pubblicazioni editoriali. La forza del mito di Padre Pio sta probabilmente proprio qui, nella combinazione di questi due estremi entro cui in fondo si dibatte l'intera società contemporanea: da una parte la dimensione locale del culto popolare, quella che forse si nutre un po' troppo di certo «miracolismo», giustamente denunciato dal Santo Padre e dal quale Padre Pio stesso «sempre rifuggì», sempre per citare il Pontefice; dall'altra, la dimensione globale di un culto moltiplicato e diffuso dalle tecnologie più sofisticate della comunicazione mediale.

    La «società dello spettacolo»

    Un secondo tema riguarda il rapporto tra immagini e realtà. Per quanto realistica, l'opera di mediazione culturale dei media non può che assumere i connotati di una «rappresentazione» della realtà piuttosto che di una sua restituzione fedele. Nelle tesi dei più pessimisti, Guy Debord primo fra tutti, la società contemporanea appare come la «società dello spettacolo» ovvero la società della separazione compiuta: da una parte la cosa reale, l'originale; dall'altra l'immagine, l'illusione, la copia. Quando il mondo reale si mostra solo ed esclusivamente come immagine – dice Debord – le immagini diventano l'unico mondo reale che abbiamo a disposizione.[3]
    Nella «società dello spettacolo» il rapporto tra immagini e realtà segue due logiche. La prima è la logica dell'apparire: con i media e soprattutto con le nuove tecnologie, il legame tra immagini e realtà si affievolisce, fino a scomparire del tutto. Pensiamo agli sviluppi della computer graphics o della realtà virtuale nelle quali l'immagine sintetica non è più la rappresentazione più o meno simbolica del reale, ma è la sua sostituzione/simulazione con una versione digitalizzata. La realtà virtuale in particolare sta avendo applicazioni sempre più sofisticate nei campi più diversi, dalla medicina all'addestramento militare, al cinema. Forrest Gump che stringe la mano a Kennedy non è mai esistito nella realtà, nemmeno nella realtà fittizia del set cinematografico: Tom Hanks infatti non può aver incontrato Kennedy, né ha incontrato un attore che fa la parte di Kennedy, ha solo incontrato l'immagine di Kennedy, opportunamente digitalizzata e inserita nella pellicola del film.
    Alla logica dell'apparire si affianca la logica della certificazione in base alla quale la realtà che non diventa immagine, che non entra nei flussi della comunicazione globale, non esiste. Le cose avvengono solo quando e fin tanto che ne parlano i media, dopo cadono nell'oblio più profondo. Si pensi alle tante ingiustizie esistenti in giro per il mondo di cui saremo per sempre all'oscuro o ai conflitti che come meteore ci piombano a casa sulle prime pagine dei giornali e come notizie di apertura dei tg per poi non saperne più nulla.[ 4]
    L'esempio che meglio illustra il funzionamento incrociato di queste due logiche è la guerra del Golfo, giustamente definita come «guerra della comunicazione» per eccellenza. E ciò per due motivi. Il primo motivo è, per così dire, in negativo: la guerra del Golfo è la guerra della non-comunicazione, ovvero della «comunicazione mancata». Annunciata e attesa come la guerra che tutti avremmo visto «in diretta» televisiva, in realtà è presto diventata la guerra più censurata. Infatti, memori del ruolo svolto dai media durante la guerra in Vietnam quando le case degli americani vennero sconvolte dalle immagini televisive dei bombardamenti USA sui villaggi dei contadini e dalla cronaca quotidiana di una guerra che si faceva sempre più atroce e assurda, i militari e il governo statunitense hanno cercato questa volta di tenere i media sotto stretto controllo. Solo undici squadre di giornalisti erano autorizzate a raggiungere le zone operative e per giunta sotto scorta di un ufficiale che sceglieva i reparti da intervistare, dava tutte le informazioni e le spiegazioni della giornata (il cosiddetto briefing), controllava le riprese, rivedeva i servizi e gli articoli, sopprimendo tutte le informazioni che non erano compatibili con le «esigenze di sicurezza». Questo ha sicuramente contribuito a dare della guerra un'idea asettica, distante, pulita (per quanto pulita una guerra possa mai definirsi!). A quest'opera di censura si aggiunge la palese discriminazione nella scelta delle squadre di giornalisti: fin dall'inizio del conflitto i giornalisti che non appartenevano alle grandi imprese dei media o che non erano raccomandati dai governi della coalizione anti-Saddam avevano grosse difficoltà ad ottenere i visti di ingresso da parte delle autorità saudite.
    La censura ufficiale applicata alla guerra del Golfo ripropone, come e più che in altri casi di censura, la difficoltà di individuare nella società della comunicazione globale gli scambi e gli incroci della raccolta e circolazione delle informazioni. Ci chiediamo: dove cominciano le censure? E chi le esercita? A quale titolo? E per quale motivo? Prendiamo il caso delle immagini più cruente della guerra del Golfo. Come sappiamo è la CNN a riprenderle, per poi trasmetterle via satellite e riversarle – dietro lauto compenso – nei tg di tutto il mondo. Ma è Saddam (o i vertici militari della NATO) ad autorizzare l'intervento delle telecamere, e poi sono i singoli notiziari a ridimensionare ulte-
    riormente il servizio o a decidere di non passare per niente certe immagini. Le giustificazioni oscillano tra la «volontà morale» di rispettare il riposo dei morti, o la sensibilità del pubblico a casa, o ancora il limite di una soglia sociale del pudore, e la «volontà politica» di controllare l'opera propagandistica delle parti in guerra. È qui che si rende evidente la contraddizione tra diritto all'informazione e censura, tra obiettività e propaganda, una contraddizione dai confini molto sfumati e sfuggenti anche perché – per la prima volta – sono tutti giocati sullo stesso immateriale e pervasivo terreno dell'elettronica. Ed eccoci al secondo motivo per cui la guerra del Golfo è stata definita come guerra della comunicazione per eccellenza: è la prima guerra dove le immagini prendono il posto della realtà. Come in un videogame bellico, il pilota sgancia «bombe intelligenti» (missili cruise guidati da sofisticati computer di bordo) che colpiscono obiettivi che non vede «in carne e ossa» attraverso il vetro dell'aereo, ma solo nella versione sintetica che gli dà il computer. Come in un videogame bellico, potenti satelliti ricognitori consentono ai piloti, ancora prima di salire sull'aereo, di conoscere fin nei più piccoli dettagli i luoghi dell'operazione: obiettivi militari, spostamenti dell'esercito iracheno, appostamenti, il tutto con uno scarto di pochi centimetri. Tutto questo materiale viene quindi trasmesso al Pentagono che, a migliaia di km dal fronte, provvede ad impartire strategie e ordini di attacco alle unità mobili impegnate nel deserto iracheno e dotate di computer portatili. Siamo dinanzi all'apoteosi della guerra mediatizzata e professionalizzata, una guerra che si svolge «in vitro», come l'esercitazione di un conflitto simulato, senza il contatto dei corpi e dei sensi.
    In altri termini, la guerra del Golfo è la prima guerra dei media e con i media.[5] Sia quella che combatte il pilota attraverso il monitor del computer di bordo che quella che vediamo noi attraverso lo schermo televisivo, è una guerra assolutamente reale, eppure non c'è nulla che possa garantirci che sia quella che viene effettivamente combattuta sul fronte. L'immagine è reale ma non necessariamente vera: in età pre-elettronica tutto ciò che si manifesta come reale è anche sostanzialmente vero, in età elettronica, invece, il reale, pur apparendo assolutamente tale, può dimostrarsi falso. Tutto questo rende il rapporto tra realtà delle immagini e verità molto più problematico che nel passato e impone una profonda riflessione etica.

    I media come «ambiente»

    Il terzo tema, infine, ci apre a una prospettiva storico-culturale. Come sostenuto da molti studiosi, il susseguirsi (e l'affiancarsi) nei secoli di diversi sistemi di comunicazione e cultura - dall'oralità, alla scrittura, ai media elettronici - ha comportato una vera e propria mutazione antropologica: sono cambiati il nostro modo di pensare e la nostra visione del mondo.
    Con il passare da un sistema all'altro, l'opinione pubblica si è storicamente spaccata in due: gli apocalittici da una parte e gli integrati dall'altra. I primi temono che l'introduzione di una nuova tecnologia della comunicazione (la scrittura, la stampa, i media elettronici) non avrà che effetti negativi sulla società e sugli uomini, mentre i secondi prospettano solo benefici. Tanto i primi che i secondi - sostiene Neil Postman - sono «zelanti profeti con un occhio solo» che vedono solo ciò che vogliono vedere non rendendosi conto che «ogni tecnologia è al tempo stesso un danno e una benedizione; non è l'una cosa o l'altra, ma l'una cosa e l'altra». IL sopraggiungere di un nuovo sistema di comunicazione non comporta necessariamente la scomparsa dei sistemi di comunicazione precedenti quanto piuttosto una trasformazione generale. In questo senso - dice sempre Postman - le tecnologie sono ecologiche e cioè cambiano tutto![6]
    Sarebbe quindi assai riduttivo pensare ai media come semplice mezzo/strumento di comunicazione. Più ecologicamente, occorre pensarli come «ambiente». Nel 1991 il card. Carlo Maria Martini scriveva con grande lucidità che i media «non sono più uno schermo che si guarda, una radio che si ascolta. Sono un'atmosfera, un ambiente nel quali si è immersi, che ci avvolge e ci penetra da ogni lato».[7] Come vedremo nei capitoli successivi, gli effetti di questo nuovo ambiente mediatico sono visibili - almeno nella società occidentale - nella prepotente accelerazione dei ritmi di vita e del mutamento storico-culturale, e nella frantumazione e contaminazione dell'esperienza. In effetti, a causa della diffusione e del radicamento dei media nella vita quotidiana di milioni di individui, le sfere di esperienze ed influenza non sono più soltanto quelle immediatamente prossime (la famiglia, la comunità locale, il gruppo dei pari...) in quanto si sono aggiunte nuove forme «ibridate» di scambio, di relazione, di integrazione. Paradossalmente, i media possono unire persone molto lontane (si pensi a giovani giapponesi e italiani accomunati dalla medesima passione per un gruppo rock o alle amicizie «virtuali» di una chat) e al tempo stesso dividere persone molto vicine (si pensi ai membri di una stessa famiglia divisi da gusti e abitudini televisive a volte molto diversi). Riconoscersi oggi «vicini» a qualcuno è sempre più complesso perché le identità, e le relazioni che si instaurano in virtù di tali identità, hanno confini assai più labili e mutevoli che in passato. Il nuovo ambiente mediatico può dunque contribuire a mettere in circolo idee, opinioni, culture e saperi diversi favorendo da una parte l'abbattimento di particolarismi e localismi e dall'altra l'affermazione di una società multietnica e multiculturale. Ma può al tempo stesso presentare una serie di rischi in ordine alla verità, alla libertà e alla democrazia. Come abbiamo visto, la realtà virtuale creata dai media può essere reale ma non necessariamente vera e ciò può avere effetti non solo sulla qualità delle informazioni ma anche e soprattutto sugli individui, alienandoli dalla propria esistenza e dal contatto con gli altri. In secondo luogo, il processo di globalizzazione può compromettere la libertà dei popoli in quanto le culture dei più deboli possono essere fagocitate dalle più forti mediante un processo di omologazione più o meno pilotato da interessi economici e politici. Concentrare le «chiavi di accesso» dell'informazione e della comunicazione nelle mani di pochi non può che avere riflessi anche a livello di confronto democratico, di pluralismo delle idee, di solidarietà tra i popoli.

    I MEDIA E LA FORMAZIONE

    Quanto detto sinora rende ancora più urgente l'educazione critica degli utenti e impone un supplemento di responsabilità ai comunicatori e soprattutto ai formatori. In altri termini, elaborare e realizzare interventi formativi in ordine ai media è oggi più che mai una priorità assoluta. Tali interventi non si impongono come «qualcosa di cui le agenzie educative possono o non possono occuparsi. [I media] sono un settore fondamentale di attività economiche, uno spazio di circolazione di uomini, informazioni, sapere, un insieme di pratiche sociali che costituiscono l'ambiente nel quale viviamo: abilitare i soggetti a muoversi in questo ambiente non è dunque né opportuno, né necessario, ma semplicemente naturale per chi pensi con serietà ai compiti dell'educazione [...] Nella società dell'informazione e delle tecnologie di comunicazione non si può scegliere di fare il media educator, ma ogni figura impegnata in qualsiasi contesto formativo deve possedere competenze riguardo ai media».[8] Una simile «abilitazione» coinvolge dunque non solo le istituzioni educative propriamente dette (scuola e università), ma anche tutti quei contesti extra-scolastici con i quali gli individui, a vario titolo e in fasi diverse della loro vita, possono entrare in contatto. Si pensi, per esempio, al settore dell'animazione culturale (ludoteche, musei, biblioteche, associazioni culturali, ecc.); o ancora all'ambito del non profit, ovvero di quelle organizzazioni socio-assistenziali che operano nell'area del disagio e della rieducazione/reinserimento sociale (malati psichici, ex tossicodipendenti, ex alcolisti, carcerati, minori a rischio, portatori di handicap, emarginati, ecc.).
    Infine, si pensi alla pastorale giovanile: oggetto del presente lavoro è precisamente quello di evidenziare come il punto di vista educativo sui media possa (e debba) far parte dell'orizzonte della pastorale giovanile. In fondo, quella che qui, con un'espressione che può suonare ancora nuova per taluni, viene chiamata «Media Education» si propone come corpus organico di teorie e pratiche al Magistero, nel momento in cui esso raccomanda un'attenzione pastorale ed educativa verso i media: «itinerari educativi di seria formazione all'uso delle possibilità comunicative, dei diversi linguaggi e all'uso maturo e critico dei media, sembrano indispensabili per gli operatori pastorali, cioè per coloro che, a qualsiasi livello e con i più diversi ruoli e responsabilità, animano le comunità, gli ambienti, i gruppi e le associazioni (catechisti, membri dei consigli pastorali, animatori degli oratori, prevedendo anche corsi specifici per operatori pastorali della comunicazione. Non possiamo ignorare l'importanza che gli operatori pastorali possono avere nel contatto personale e quotidiano, per mediare e ricostruire una rete di messaggi che portano individui e gruppi alle decisioni di atteggiamento, di comportamento e stile di vita».[9]
    D'altra parte crediamo che non si debba pensare il media educator come una figura distinta rispetto all'operatore/animatore pastorale: se è plausibile la prospettiva enunciata sopra – della Media Education come competenza propria di ogni educatore – è pure vero che il media educator è un animatore, perché è un mediatore rispetto al mondo di artefatti culturali rappresentato dai mezzi di comunicazione.[10] Egli – secondo lo spirito dell'animazione culturale – dà anima a questo mondo, o meglio lo colloca nel giusto dinamismo e rapporto di senso con le persone e la società. La Media Education, inoltre, fa proprio lo stile dell'animazione, nel momento in cui respinge le modalità trasmissive del sapere a favore di altre in cui vengono privilegiati il gusto della ricerca condivisa, il piacere della scoperta, la negoziazione delle interpretazioni. Nel corso del volume si cercherà di dare ragione delle presenti affermazioni.
    Il nostro percorso muove da una riflessione preliminare sulle principali incidenze che i media hanno rispetto al mondo dell'educazione in generale e della pastorale in particolare; si vedrà come il Magistero proponga di rispondere a questi «segni dei tempi» e quale possa essere l'«atteggiamento» della pastorale (primo capitolo). Successivamente si compie una focalizzazione sul nodo «comunicazione - formazione», tematizzando così la Media Education (secondo capitolo). Infine, si offrono delle linee-guida per attività e percorsi di pastorale ai media e con i media (terzo capitolo).

    Il volume è stato progettato e discusso insieme dai due autori ed è stato materialmente steso da GIANNA CAPPELLO per quanto riguarda l'Introduzione e il 2° capitolo, e da LucIo D'ABBICCO per quanto riguarda i capitoli 1° e 3° e l'Appendice.


    NOTE

    1 S. MARTELLI, Videosodalizzazione. Processi educativi e nuovi media, Franco Angeli, Milano 2001, p. 24.
    2 Con quest'espressione si intende la riunificazione sia di contenuti prodotti dalle industrie audiovisive ed editoriali, sia di infrastrutture solitamente separate (come quelle televisive e delle telecomunicazioni) in vista della distribuzione dello stesso tipo di informazioni a costi sempre più competitivi e in mercati sempre più vasti. Il processo di convergenza è strettamente legato alla rivoluzione digitate e atte infinite possibilità di memorizzazione ed elaborazione dei dati tipica delle tecnologie informatiche. Si pensi al settore televisivo, per esempio. La rivoluzione digitale sta permettendo, attraverso la compressione del segnale, un maggiore sfruttamento della capacità trasmissiva degli attuali canali (etere, satellite, cavo). Sarà possibile (e in parte lo è già) non solo aumentare il numero di canali, ma anche offrire nuovi servizi interattivi - tradizionalmente appannaggio delle imprese addette alle telecomunicazioni - facilitando la penetrabilità del territorio e i consumi.
    3 G. DEBORD, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 1997.
    4 P. C. RIVOLTELLA, Teoria della comunicazione, La Scuola, Brescia 1998, pp. 18-20.
    5 Non a caso su cento soldati americani partecipanti all'operazione Desert Shield solo 55 sono soldati veri e propri! Gli altri sono tecnici, esperti informatici e delle comunicazioni, funzionari addetti al controllo e alla censura, alle pubbliche relazioni.
    6 N. POSTMAN, Ecologia dei media. La scuola come contropotere, Armando, Roma 1981.
    7 C. M. MARTINI, Il lembo del mantello di Gesù, n. 12, Tra in C. M. MARTINI, Dialogo con il televisore, Editrice l'Unità, Roma 1993, p. 66.
    8 P. C. RIVOLTELLA, Media Education. Modelli, esperienze, profilo disciplinare, Carocci, Roma 2001, p. 140, 149.
    9 CONFERENZA EPISCOPALE LOMBARDA, Una sfida educativa. La comunicazione nella prospettiva dell'anno 2000, Centro Ambrosiano, Mano 1999, p. 31.
    10 Cf C. OTTAVIANO (a cura di), Mediare i media, Franco Angeli, Milano 2001.


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