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    La comunità dei discepoli di Gesù al servizio del regno di Dio come salvezza del mondo (cap. 6 di: Per la vita di tutti)


    Luis A. Gallo, PER LA VITA DI TUTTI. Fondamenti teologici dell'impegno educativo, Elledici 2002

     

    Una chiesa che prende sul serio i criteri scaturiti dal rinnovamento conciliare rivisitato nel capitolo precedente deve necessariamente porsi una domanda, la cui risposta è carica di conseguenze: quale servizio deve prestare al mondo?
    Ormai, dopo il percorso fatto, siamo in grado di dare con sufficiente fondamento una risposta a tale domanda: il servizio che ogni chiesa deve prestare al mondo non può essere altro che quello che Gesù stesso gli prestò, e per il quale la volle convocare. Si tratta tuttavia di una risposta generica, che va concretizzata.

    AL SERVIZIO DELLA SALVEZZA DEL MONDO

    L'intenzionalità che Gesù ebbe nel convocare uomini e donne attorno a sé, coinvolgendoli nell'attuazione del proclama da lui lanciato con l'annuncio del regno di Dio (Mt 10,5-8; Mc 3,13-15; Lc 9,1-6), venne successivamente tradotta mediante una formula equivalente: la chiesa ha come missione fondamentale la salvezza dell'umanità.
    In tale formulazione, come si vede, regno di Dio e salvezza coincidono.

    Una maniera «tradizionale» di pensare la salvezza

    Il modo di pensare la salvezza tra i cristiani ha subito profonde trasformazioni attraverso i secoli. È quindi importante, per poter orientare in maniera giusta il servizio fondamentale della chiesa, precisare in che cosa essa consista.
    Come punto di partenza riprendiamo un dato rilevato precedentemente nell'analisi del modello ecclesiologico istituzionale: esso comportava un determinato concetto di salvezza. Lo si esprimeva mediante una frase caratteristica: «andare in cielo». E «andare in cielo» significava, a sua volta, che dopo la morte avvenuta in stato di grazia di Dio, l'anima, separata ormai dal suo corpo corruttibile, superato il giudizio particolare e, se ne era il caso, anche debitamente purificata nel purgatorio, se ne andava a contemplare per sempre Dio faccia a faccia, in una «visione beatifica» che appagava ampiamente tutte le sue attese e la rendeva pienamente felice per l'eternità. Per completezza si aggiungeva che, dopo il giudizio universale, anche il corpo, risuscitato e debitamente trasformato, avrebbe raggiunto il cielo riunendosi alla sua anima per sempre. Solo allora, in realtà, la salvezza sarebbe stata conseguita completamente.
    Tale salvezza era un dono fatto da Dio per mezzo di Cristo, particolarmente tramite la sua morte in croce, e la chiesa doveva prolungarlo nel tempo cercando di portare le anime in paradiso, scopo per il quale era provvista dei mezzi necessari: la Parola, i sacramenti, l'organizzazione. All'insegna di questa concezione vissero uomini e donne di grande statura evangelica, e vennero anche intraprese ammirevole iniziative missionarie (S. Dianich).
    Questo modo di concepire la salvezza era, in realtà, il risultato di un'inculturazione del messaggio evangelico nella sensibilità ellenistica ampiamente diffusa nell'impero romano, in cui gettò radici la fede cristiana non appena sormontò l'iniziale cerchio giudaico. Una sensibilità a più registri, tra i quali prevaleva quello platonico. Riducendo le cose all'essenziale, si può dire che esso comportava tre dualismi strettamente collegati tra di loro.
    Anzitutto quello ontologico, secondo il quale la realtà era pensata come divisa in due strati, uno superiore e spirituale, ambito del bene e della verità, e l'altro inferiore e materiale, ambito del male, dell'errore e della menzogna; poi, quello antropologico, secondo il quale l'uomo era costituito da una componente spirituale (l'anima) e da una componente materiale (il corpo), che, avvolgendola, la opprimeva e le faceva come da carcere o sepolcro; infine quello soteriologico, secondo il quale la salvezza consisteva nella liberazione dalla materia e da tutti i condizionamenti da essa derivanti, nel ritorno dell'anima alla primigenia condizione spirituale, al mondo di lassù, dove la contemplazione delle realtà superiori e spirituali poteva soddisfare le sue più genuine aspirazioni.

    Caratteristiche della salvezza

    I tre dualismi menzionati, ridimensionati criticamente alla luce delle esigenze della fede, furono accolti nell'ambito del cristianesimo pensato e vissuto. Da ciò derivano anche alcune delle caratteristiche che accompagnavano la sua concezione della salvezza.
    Essa era, in primo luogo, prevalentemente spirituale. L'accento, infatti, veniva posto chiaramente sull'anima, mentre al corpo e a quanto con esso si ricollega arrivava solo indirettamente, come per estensione. Se si rivisita la storia della chiesa, si constata che, malgrado i cristiani non abbiano mai accettato teoricamente il radicale dualismo tra spirito e materia, nel loro vissuto concreto ne rimasero tuttavia notevolmente intaccati. L'influsso della sensibilità ellenistica dominante li portò spesso a svalutare, in qualche caso anche a disprezzare, quanto sapeva di materiale.
    In secondo luogo, la salvezza era accentuatamente individualistica. Il vero soggetto della salvezza era l'anima dell'individuo, di ogni singolo individuo, e la salvezza finale era la somma di tutte le salvezze individuali. Naturalmente, il cristianesimo non poteva ignorare che il comandamento evangelico fondamentale, insieme a quello dell'amore di Dio, era quello dell'amore del prossimo. Il rapporto con gli altri è stato sempre quindi presente anche nella sua preoccupazione. Tuttavia, spesso lo ebbe presente solo estrinsecamente, come un'occasione per il raggiungimento della salvezza propria.
    Oltre ad essere prevalentemente spirituale e individuale, la salvezza era anche marcatamente ultraterrena o ultramondana. C'era, infatti, nel modo di concepirla, una forte accentuazione dell'al di là, del dopo-la-morte. Si pensava che solo lì e solo allora si dava la vera e definitiva salvezza. È vero che spesso il presente era teoricamente visto come seme del futuro, ma questo modo di pensare non aveva un'eccessiva presa nella pratica.
    Conseguenza delle precedenti accentuazioni era una sua visione notevolmente avulsa dalla storia. La mentalità ellenistica che ne stava alla base era molto restia alla dimensione storica della realtà. Anzi, si potrebbe dire che per essa salvarsi era liberarsi dalla storia, dal tempo, dalla mutabilità che comporta la materia. Il cristianesimo si trovò inizialmente scomodo al suo interno, dal momento che la sua fede era eminentemente storica; eppure finì per assimilarne in gran parte le istanze. Non stupisce perciò che abbia pensato la salvezza senza quasi far riferimento a quanto avviene nel mondo. Essendo prevalentemente spirituale e ultraterrena, essa poteva venir raggiunta a prescindere da ciò che succedeva nella storia.
    Le caratteristiche finora accennate sono dovute al fattore che principalmente influì sulla comprensione tradizionale della salvezza cristiana, la sensibilità culturale ellenistica, ma ci sono stati ancora altri fattori a influenzarla.
    Anzitutto un certo modo di pensare che, come conseguenza di un'esperienza millenaria del rapporto con la natura, contribuiva a tenere l'uomo sottoposto al suo dominio. Siccome l'uomo non era arrivato a individuare razionalmente il rapporto tra causa ed effetto nella maggior parte dei fenomeni naturali, tendeva a concepirli come fatali. L'atteggiamento davanti ad essi era, di conseguenza, prevalentemente passivo.
    Inoltre, predominava nell'intera umanità un atteggiamento massicciamente religioso. Fra il concepire i fenomeni naturali come determinati da forze esterne e superiori, e il pensare tali forze come divine non c'era che un passo, e questo passo veniva dato con naturalezza. Ne scaturiva un tipo di religiosità a sfondo cosmico, segnato spesso dalla dicotomia tra il sacro e il profano. Il mondo del sacro era visto come lo spazio riservato esclusivamente per il rapporto con il divino nell'ambito del culto. Era anche, quindi, la sfera della salvezza, mentre il resto, il profano, ne era completamente avulso.
    L'influsso di tali atteggiamenti sulla concezione della salvezza cristiana si può scorgere in due tendenze riscontrabili in essa. In primo luogo, nella tendenza a enfatizzare la sua qualità di dono. Si insisteva, infatti, che essa era opera di Dio per mezzo di Cristo, e che nessun uomo poteva salvarsi da se stesso. In secondo luogo, in quella di sottolineare il suo carattere cultuale, e a volte addirittura sacrale. C'era, infatti, soprattutto a livello popolare, la tendenza a pensare che fosse nell'ambito del culto, specialmente di quello sacramentale, dove la si poteva ottenere, e perfino assicurare. Ne è una conferma, per esempio, l'importanza data al battesimo dei bambini, nella convinzione più o meno esplicita che il morire senza averlo ricevuto avrebbe impedito loro di entrare in cielo.

    Una concezione in crisi

    Questo modo di concepire la salvezza produsse dei frutti ammirevoli nei tempi passati per la vita della chiesa e del mondo. Attualmente però è in crisi. A non pochi cristiani esso non dice più niente, o quasi niente. La ragione di fondo è che sono crollati i pilastri culturali sui quali poggiava. La visione della realtà che la sorreggeva è al presente superata o in via di progressivo superamento.
    Infatti, la concezione secondo la quale il mondo vero era quello spirituale, mentre quello materiale ne era solo un'ombra o addirittura una replica negativa, non ha generalmente più posto nella mente degli uomini e delle donne d'oggi. D'altra parte, le ricerche realizzate nell'ambito della psicologia, particolarmente della psicologia del profondo, hanno contribuito al. superamento del dualismo antropologico tra anima e corpo. Perciò, continuare a fare della salvezza una questione prevalentemente spirituale è qualcosa che non ha senso. Inoltre, attualmente si è generalmente portati a non rimandare la salvezza all'al di là, al dopo-la-morte, al cielo, ma a riconoscere valenza e spessore salvifico all'al di qua, alla vita presente, alla terra. Anzi, in certi casi sembra che gli uomini e le donne siano attualmente quasi propensi a capovolgere le cose, e a dar maggior importanza agli impegni per la salvezza presente, mettendo fra parentesi quella escatologica e definitiva.
    In più, come diceva la Gaudium et Spes, hanno acquisito una visione accentuatamente dinamica ed evolutiva della realtà (n. 5c), e stanno respirando l'aria di un nuovo umanesimo, caratterizzato dalla coscienza degli stretti vincoli che intercorrono tra gli uomini e tra i gruppi umani, e di questi con la natura, in modo tale che nulla succede nel singolo che non abbia qualche ripercussione nell'insieme e viceversa (cf n. 55). Si capisce allora come e perché essi siano portati a pensare la salvezza come qualcosa che non si può raggiungere prescindendo da ciò che avviene nel mondo, nella storia.
    Il modo odierno di pensare ha ancora un altro risvolto, che non va disatteso. La presa di coscienza, favorita dal progresso scientifico-tecnico, di avere sempre più il futuro nelle proprie mani, va accompagnata da una crescita del senso di responsabilità. Se ci si può costruire da sé, se non si è fatti da altri, occorre decidere responsabilmente su ciò che si vuol fare di se stessi. Ciò acuisce la coscienza del proprio protagonismo. Il che spiega perché l'insistenza su una concezione della salvezza come dono possa trovare oggi delle resistenze.

    VERSO UNA CONCEZIONE RINNOVATA DELLA SALVEZZA CRISTIANA

    La problematica sopra accennata acuì l'urgenza di una ricomprensione della salvezza cristiana. Con una concezione come quella sopra descritta, la chiesa difficilmente poteva ripensarsi e riprogrammarsi in sintonia con tutto ciò che lo Spirito di Gesù era andato suscitando in essa negli ultimi decenni. Urgeva quindi trovare una nuova maniera di pensare la salvezza che potesse fare da perno a una maniera attualizzata di essere chiesa oggi. Lo sforzo è stato fatto tenendo presenti i criteri fondamentali che assicurassero la sua giusta comprensione.

    La salvezza secondo la Bibbia

    Per assicurare l'autenticità di questa operazione di ricomprensione era indispensabile, anzitutto, il ricorso alla fonte prima e permanente della fede, la Bibbia.
    La Scrittura non fornisce certamente delle definizioni concettuali di salvezza. Non è nel suo stile e non corrisponde all'indole culturale dei suoi autori. Non bisogna tuttavia dimenticare che essa è tutta quanta un messaggio di salvezza. Il che vuol dire che, in realtà, basterebbe approfondire qualunque delle sue pagine per cogliere quale concetto essa abbia della salvezza che annuncia e promette da parte di Dio. Un cammino più agevole è tuttavia quello di analizzare i due avvenimenti biblici centrali, che sono appunto avvenimenti salvifici per antonomasia: l'esodo del popolo ebraico dall'Egitto nell'Antico Testamento, e la Pasqua di Gesù Cristo nel Nuovo. Una tale analisi offre, infatti, dei dati fondamentali da questo punto di vista.
    Anzitutto e globalmente parlando, in tutti e due questi avvenimenti la salvezza appare come un processo, ossia come un passaggio da una situazione a un'altra: situazione negativa e di perdizione la prima, situazione positiva e di salvezza la seconda.
    Più concretamente, nell'avvenimento dell'esodo veterotestamentario il punto di partenza del processo è la condizione disperata del gruppo dei discendenti di Abramo residente in Egitto. Essa viene descritta, in modo certamente schematico e basandosi su antiche tradizioni accuratamente riorganizzate, dal libro dell'Esodo (1,8-22; 5,1-18). Si tratta di uomini e donne ridotti in schiavitù, abitanti in una terra che non è di loro proprietà, sottoposti a lavori pesanti e sempre più gravosi da parte del Faraone e dei suoi, minacciati inoltre dalla tentazione di cadere nell'idolatria delle false divinità egiziane.
    Già il loro presente può dirsi una condizione di morte per via dell'insicurezza in cui si trovano, dell'oppressione e dello sfruttamento di cui sono vittime; ma soprattutto il loro avvenire si presenta come un futuro di morte: il Faraone decide di sopprimere tutti i figli maschi, i quali costituiscono, per la mentalità dell'epoca, la vera riserva di futuro e di vita (Es 1,22).
    Il punto di arrivo del processo per questo gruppo di schiavi è la nuova condizione in cui vengono a trovarsi alla loro uscita dall'Egitto sotto la conduzione di Mosè. La Bibbia utilizza diversi generi letterari per riferirsi ad essa, ma i suoi elementi sostanziali sono facilmente identificabili: essi si scrollano di dosso la schiavitù e l'oppressione faraonica, riescono ad avere una terra propria, a costituire un popolo in comunione di alleanza con l'unico vero Dio, e vanno incontro ad un futuro di libertà e di vita.
    Nell'avvenimento della Pasqua neotestamentaria il punto di partenza è la condizione in cui gli uomini, e più concretamente i capi politici e religiosi di Israele, riducono Gesù di Nazaret, una condizione di morte molteplice: corporale, anzitutto, e per di più estremamente umiliante e violenta, ma anche psichica, sociale e addirittura religiosa. Il sepolcro in cui egli viene sbrigativamente deposto dopo il supplizio della croce, è come un emblema di tale situazione: una grande pietra viene rotolata davanti al suo ingresso (Mt 27,60), quasi a significare che tutto è finito.
    Il punto di arrivo della salvezza pasquale è la nuova situazione in cui Dio, il Padre, mediante la potenza del suo Spirito introduce per sempre Gesù, una volta strappato dal sepolcro: una pienezza definitiva di vita. Egli, infatti, diventa da quel momento «il Vivente per i secoli dei secoli» (Ap 1,18).
    Nei due avvenimenti il protagonista principale, Colui che prende l'iniziativa nel processo di salvezza, è certamente Dio; ma non ne è protagonista unico poiché gli stessi uomini salvati vi sono coinvolti attivamente. Si può dire che essi sono allo stesso tempo salvati e salvatori di se stessi. Ciò vale già per l'esodo dall'Egitto, nel quale Mosè prima, ma poi anche l'intero popolo, operano in ordine alla propria salvezza; ma vale soprattutto per la Pasqua, nella quale Gesù, mediante tutto il suo agire precedente, prepara implicitamente la propria risurrezione (Fil 2,5-8).
    Da questa elementare analisi, ma specialmente da quella dell'avvenimento pasquale neotestamentario, nel quale il pensiero biblico arriva al suo punto culminante, appare già con sufficiente chiarezza cosa intenda la Bibbia per salvezza: è il passaggio dalla Morte alla Vita o, in altre parole equivalenti, la vittoria della Vita sulla Morte. Intendendo per Morte, con l'iniziale maiuscola, tutto ciò che è negativo per l'uomo, in tutte le dimensioni del suo essere; e per Vita, pure con l'iniziale maiuscola, tutto ciò che è positivo per lui.
    Esprime molto bene quest'idea l'antica Sequenza della messa di Pasqua, che canta gioiosamente così: «La Morte e la Vita si sono affrontate [nella croce] in un duello colossale: Gesù, il Condottiero della Vita, vinto [per un momento] dalla morte, ora regna Vivo!».

    Il bisogno di una ricomprensione culturale

    Per rendere attuale la concezione della salvezza cristiana non è sufficiente, anche se indispensabile, il ricorso alla Bibbia; è necessario calare anche il modo di pensarla nella sensibilità culturale del momento attuale. Lo rileva Paolo VI nella sua Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi, segnalando che «la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca» (n. 20). Occorre, quindi, riempire tale rottura facendo dialogare il Vangelo con la cultura o le culture attuali. Nel nostro caso, l'annuncio di salvezza con la sensibilità o le sensibilità odierne.
    La concezione della salvezza che abbiamo qualificato come «tradizionale» era già, in realtà, un'interpretazione di quanto abbiamo trovato nella Bibbia, effettuata a partire da una determinata sensibilità culturale, quella tipica del mondo ellenistico.
    «Salvarsi l'anima» era, infatti, per i cristiani di quel mondo culturale, ottenere il trionfo pieno e definitivo della Vita sulla Morte, la realizzazione piena della Pasqua di Cristo in ognuno dei salvati. Vita e Morte erano interpretate da essi in un modo caratteristico, determinato appunto dai condizionamenti della cultura del tempo: se la Vita era il cielo, concepito sostanzialmente come visione beatifica di Dio, la Morte era l'inferno, inteso come perdita definitiva di tale visione, con tutto ciò che essa significava per l'uomo. Salvarsi era quindi, in poche parole, riuscire ad evitare l'inferno e andare in cielo.
    Di tale Vita-cielo e di tale Morte-inferno era possibile avere un anticipo imperfetto sulla terra, nella misura in cui l'anima viveva rispettivamente in grazia o in peccato. Uscire dal peccato (mortale) significava già in qualche modo salvarsi, benché provvisoriamente e condizionatamente, dalla perdizione.
    È evidente che, in genere, non si può oggi continuare a proporre agli uomini e alle donne di oggi questo tipo di salvezza, se non tradendo la loro sensibilità culturale. Farlo sarebbe condannare la proposta al fallimento, e forzarli a ritornare culturalmente indietro per poter confessare Cristo quale loro Salvatore. Una chiesa che agisse oggi con un concetto simile di salvezza, non potrebbe dirsi genuinamente continuatrice di Gesù Cristo nel suo servizio al regno di Dio.

    Due nuove ricomprensioni della salvezza cristiana

    Al presente, due principalmente sono le sensibilità culturali epocali che sollecitano i cristiani ad uno sforzo di ripensamento dell'intera fede, e di conseguenza anche della concezione della salvezza. La prima è di tipo esistenziale-personalistico, ed è ampiamente diffusa soprattutto nei paesi cosiddetti sviluppati dell'umanità. Tale sensibilità è il risultato di una reazione alla tendenza della cultura precedente, accentuatamente oggettivistica e razionale, reazione che sfociò in quella che è stata chiamata la «svolta antropologica» (K. Rahner). Al centro della riflessione venne posto l'uomo in quanto soggetto personale, che divenne l'ottica dalla quale venne vista l'intera realtà. Un uomo-soggetto pensato a sua volta in chiave relazionale, e definito come libertà in cerca di autorealizzazione e di autenticità, mediante il dialogo e la comunione interpersonale.
    Detta svolta si dimostrò carica di conseguenze anche per la fede cristiana che l'accolse. Per ciò che riguarda concretamente la nostra tematica, portò molti cristiani a una ricomprensione caratteristica del concetto di salvezza come trionfo della Vita sulla Morte desunto dalla Bibbia.
    Per essi, Vita significa, infatti, la piena e definitiva realizzazione della persona, il raggiungimento della sua totale autenticità, il compimento totale del senso della sua vita. Realizzazione, autenticità e compimento che si ottengono mediante la completa e definitiva comunione interpersonale con Dio e con gli altri. In ciò consiste il cielo. Per contrapposizione Morte significa il fallimento esistenziale pieno e definitivo della persona. Fallimento esistenziale che consiste a sua volta nell'impossibilità di entrare in comunione con Dio e con gli altri. È l'inferno. Sfuggire tale inferno-fallimento e raggiungere il cielo-realizzazione è raggiungere la salvezza (E. Schillebeeckx).
    Secondo questa concezione, della Vita-realizzazione-esistenziale e della Morte-fallimento-esistenziale pieni e definitivi si può avere un anticipo parziale e imperfetto già nel presente, nella misura in cui la persona è rispettivamente in grazia-comunione o in peccato-non-comunione con Dio e con gli altri. Salvarsi, in questo senso parziale, significa passare dalla non-comunione con Dio e con gli altri alla comunione con loro, uscire dalla chiusura e dal ripiegamento egoistico su se stessi e aprirsi all'amore dell'Altro e degli altri. Una salvezza vera e reale, anche se ancora imperfetta e provvisoria, capace di dare senso all'intera esistenza.
    È naturale che, rinnovata la concezione della salvezza in questo modo, anche il ruolo salvifico di Cristo venga visto sotto una luce nuova. Egli viene effettivamente confessato come Salvatore precisamente perché, nel passato, mediante la sua esistenza vissuta in intensa comunione con Dio e con gli altri, di cui la Pasqua è il vertice, restituì agli uomini la capacità di realizzarsi e di trovare la loro autenticità che il peccato del primo uomo e i successivi peccati, personali e collettivi, avevano loro sottratto. Ma è confessato come Salvatore anche perché, nel presente, agisce attraverso il suo Spirito perdonando i peccati e donando la grazia, cioè la comunione con Dio e con gli altri, e restituendo così senso alla vita.
    È questo il modo di pensare la salvezza che soggiace al modello ecclesiologico comunionale, nel quale la chiesa, come abbiamo visto precedentemente, è chiamata ad essere «sacramento, ossia segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità del genere umano» (LG 1).
    L'altra sensibilità culturale oggi predominante è di tipo prassico-storico, ed è ampiamente diffusa particolarmente nel vasto mondo della povertà. La condizione di emarginazione economica, sociale, politica e culturale in cui vivono milioni di uomini e donne, e la progressiva presa di coscienza delle cause, principalmente di tipo strutturale, che la producono, svegliarono una forte sensibilità che li portò a guardare la realtà come qualcosa da cambiare radicalmente. Molti uomini e donne arrivarono alla convinzione che la realizzazione della persona umana, anche per ciò che riguarda i suoi rapporti interpersonali, è fortemente condizionata dal modo in cui sono regolati i rapporti sociali e le strutture nelle quali essi si cristallizzano, rapporti e strutture che a loro volta dipendono dal modo di rapportarsi con i beni materiali, naturali o prodotti dal lavoro dell'uomo. Perciò conclusero che era imprescindibile intraprendere una azione storica di trasformazione che prendesse di mira tali rapporti e le loro cristallizzazioni strutturali, e li eliminasse sostituendoli con altri di segno contrario.
    L'impatto di questa sensibilità sulla fede si fece sentire largamente tra i credenti del mondo povero. Tanto più che diversi dei paesi dove la povertà massiccia è dilagante, sono ancora in prevalenza cristiani. Ne nacque un nuovo modo di comprendere e di vivere l'intera fede. A partire da tale sensibilità non pochi cristiani tentarono di ripensare la concezione della salvezza ereditata dalla rivelazione biblica. E, come nella sensibilità precedentemente accennata, tale ripensamento li portò ad una sua nuova comprensione.
    Essi, infatti, intendono per Morte la condizione di emarginazione, schiavitù, oppressione e sfruttamento in cui giacciono i milioni di uomini e donne vittime della povertà ingiusta; ma anche, di rimbalzo, la condizione emarginante, schiavizzante, oppressiva e spesso anche sfruttatrice in cui si trovano quei popoli o gruppi umani che, mediante rapporti e strutture ingiuste, creano la condizione di povertà ed emarginazione dei primi. Si tratta di una Morte collettiva, ma che congloba in sé le innumerevoli morti dei singoli individui nei diversi aspetti dell'esistenza umana: dal più elementare, quello biologico, fino al più alto, la comunione personale con Dio. Come è logico, nell'ambito di questa sensibilità l'accento viene posto principalmente sugli aspetti strutturali di questa condizione di Morte, nella convinzione che essi ne siano la causa principale (G. Gutiérrez).
    Per contrapposizione alla Morte così concepita, pensano la Vita come quella condizione dell'umanità in cui tale Morte verrà completamente eliminata. Quindi, quella condizione in cui non ci saranno più rapporti di emarginazione, schiavitù, oppressione e sfruttamento tra gli uomini. In ciò consisterà precisamente il cielo. La salvezza consiste dunque nel liberarsi come umanità da quella Morte ed entrare definitivamente in quella Vita.
    Di per sé, questa visione sembrerebbe essere esclusivamente orizzontale e intramondana. Ciò che però le conferisce verticalità e apertura alla trascendenza è il fatto, asserito chiaramente dalla fede, che il rapporto di figliolanza nei confronti di Dio trova la sua verifica in quello di fraternità con gli uomini, una fraternità che ha il suo inizio nella condivisione dei beni materiali (cf Mt 25,40.45; 1 Gv 4,20; Gc 2,15-16).
    In realtà, nell'ambito di questa rilettura, come d'altronde già in quella precedente, l'attenzione dei cristiani viene posta più sulla salvezza presente che su quella escatologica o definitiva. Essi, infatti, sono convinti che quella condizione futura di liberazione dalla Morte può e deve venir anticipata al presente. Cosa che di fatto avviene là dove, nei diversi ambiti della realtà umana, le situazioni collettive di emarginazione, oppressione e sfruttamento vengano eliminate e sostituite da altre di segno opposto. È la salvezza parziale, ma vera e reale, alla quale viene dato il nome di liberazione. Si tratta di liberazioni di innegabile portata intramondana, dal momento che hanno a che vedere con aspetti economici, sociali, politici e culturali, ma che, guardate alla luce della fede, svelano la loro densità teologale: esse anticipano realmente, anche se in maniera imperfetta e provvisoria, la salvezza piena e definitiva della fine dei tempi (Conferenza di Medellín).
    Alla luce di questa ricomprensione della salvezza questi credenti ripensano anche il ruolo salvifico di Cristo: egli è il Salvatore-liberatore (J. Sobrino). Lo è stato nel passato, al tempo della sua vicenda storica, profondamente segnata dal suo impegno per il regno di Dio, concretizzato nell'impegno per la salvezza da ogni forma di emarginazione, schiavitù e sfruttamento, anche nei loro risvolti strutturali. La sua morte segnò il vertice di tale impegno, e la sua risurrezione fu la conferma piena e definitiva da parte di Dio di quanto era avvenuto durante la sua vicenda storica. Ma è anche il Salvatore-liberatore nel presente, in quanto egli comunica agli uomini, mediante il suo Spirito, la capacità di impegnarsi seriamente nelle stesse cose per le quali egli stesso lavorò, lottò e morì.
    Questo modo di concepire la salvezza è implicitamente alla base dell'ecclesiologia di servizio al mondo proprio della Gaudium et Spes, ed esplicitamente la corrente ecclesiologica che postula una «chiesa dei poveri», di cui si è parlato precedentemente.

    Convergenze e differenze delle due ricomprensioni

    Una serie di accentuazioni, rispondenti alla sensibilità culturale in cui sono sorte le due ricomprensioni della salvezza appena esaminate, ne tratteggiano più chiaramente la concezione stessa. In alcune c'è una coincidenza fondamentale di ambedue, in alcune altre invece divergenza.
    C'è, anzitutto, in ambedue un'insistenza sull'integralità della salvezza. Tanto i cristiani che si muovono nell'ottica esistenziale-personalistica quanto quelli che lo fanno nella sensibilità prassico-storica hanno abbandonato decisamente la concezione dualistica dell'uomo e la conseguente tendenza spiritualistica. Perciò integrano in essa a pieno diritto la sua dimensione corporale. Non pensano più, quindi, ad una «salvezza dell'anima» o «delle anime», ma a una salvezza dell'uomo intero. Per tutti e due, di conseguenza, Cristo non è più semplicemente il Salvatore delle anime, ma il Salvatore dell'uomo nella sua completezza.
    Ambedue accentuano il potenziale valore salvifico dell'al di qua, di ciò che è prima della morte. La salvezza, infatti, è per loro una realtà che inizia nel presente, benché sia destinata a trovare il suo pieno compimento nel futuro. «Il cielo si costruisce sulla terra», potrebbe essere la frase che esprime il loro pensiero (M. D. Chenu). Ancora di più, vi si constata una certa tendenza a privilegiare nell'attenzione la salvezza in processo, in costruzione, anziché la salvezza in realizzazione definitiva.
    In un aspetto sembra che ci sia invece più differenza che affinità tra questi due modi di pensare la salvezza, ed è quello del rapporto tra dono e compito. Quelli che hanno abbracciato una sua concezione esistenziale-personalistica sono portati a sottolineare, proprio in ragione della loro sensibilità di fondo, il carattere di dono della salvezza, perché sanno che la comunione implica sempre un dono dell'Altro e degli altri. Quelli invece che hanno fatto loro la concezione prassico-storica accentuano più fortemente la dimensione di responsabilità nella trasformazione della realtà, e quindi mettono anche fortemente l'accento sulla dimensione di compito nella salvezza. Senza negare che Dio sia il suo autore primo e principale, ribadiscono l'idea che ciò non toglie nulla alla responsabilità dell'uomo, anzi la sollecita.

    QUALE CONCEZIONE DELLA SALVEZZA PER LA CHIESA D'OGGI?

    Da quanto siamo venuti dicendo finora, una cosa risulta chiara: la missione fondamentale della chiesa è la vita, la «vita in abbondanza» degli uomini e delle donne concreti di ogni tempo. Come Gesù di Nazaret e seguendo le sue tracce (Gv 10,10), la chiesa e i suoi membri devono concentrare tutte le loro energie principalmente su questo punto. Solo così possono essere davvero suoi discepoli e seguaci.
    Ora, come dimostra l'esperienza, il mondo ricco e sempre più avvantaggiato economicamente esprime la sua sete di vita soprattutto nella ricerca di senso e di comunione interpersonale. Il progresso scientifico-tecnico lo ha portato in gran parte alla perdita del senso e del gusto della vita, allo smarrimento delle ragioni per vivere. Svariate manifestazioni lo confermano, anche nel mondo giovanile: il dilagare della droga, il moltiplicarsi dei suicidi, la crescita della violenza di diversa indole. La Vita e la Morte si giocano sul fronte di questi bisogni, che si potrebbero dire non radicalmente elementari. L'unica uscita verso la Vita è quella dell'intersoggettività autentica, che appaghi la fame di incontro e comunione radicata nel cuore umano.
    Nel mondo invece della povertà massiccia e crescente, l'ansia di vivere si esprime a livelli ancora più elementari: nella ricerca del pane per sfamarsi, del tetto che dia sicurezza, del vestito che difenda dal freddo, dell'assistenza sanitaria che porti a superare la morte prematura dei bambini e dei giovani, dell'assetto sociale che dia possibilità di futuro agli operai e agli anziani. La Vita e la Morte si giocano sul fronte più vasto dei bisogni primari. Il superamento della Morte va cercato anzitutto nella loro soddisfazione.
    Una chiesa appassionata per «la vita in abbondanza» degli uomini non può rimanere insensibile ed indifferente davanti a queste situazioni. Come il Buon Samaritano della parabola raccontata da Gesù (Lc 10,30-37), essa si deve lasciare «commuovere fino alle viscere» da esse e si deve impegnare nel dare risposta ad esse. Se facesse come il sacerdote e il levita della parabola che, preoccupati del loro servizio al tempio passarono oltre, tradirebbe la sua ragione fondamentale d'essere. Non può, quindi, lasciarsi prendere dai suoi problemi interni in tale modo che ciò le impedisca di occuparsi di quelli del mondo nei quali si giocano la Vita e la Morte concreta delle persone concrete. Non potrebbe in questo caso dirsi seguace di Gesù Cristo, che si fece Buon Samaritano nel nome della sovranità benevola di Dio (J. Sobrino).
    In realtà, come si è visto precedentemente, in questi ultimi anni la chiesa, ripensando la sua propria identità, ha cercato di rendere molto concreta la sua passione evangelica per la Vita. Con il modello ecclesiologico comunionale è uscita all'incontro delle istanze del mondo ricco e sviluppato, e con il modello della chiesa dei poveri ha cer-
    cato di dare risposta a quelle che provengono del mondo della povertà.
    Forse c'è ancora un passo da fare al riguardo: quello di sensibilizzare l'intera chiesa al «criterio di urgenza». Infatti, non tutte le situazioni di Morte sono ugualmente gravi. Esiste una gerarchia in questo senso: lì dove la Vita si gioca ai suoi livelli più elementari, l'urgenza è certamente maggiore. Non per niente i vangeli ci fanno sapere che Gesù, nel perseguire il progetto del regno di Dio, fece delle opzioni. E le sue opzioni, come abbiamo visto, avevano sempre per oggetto i più deboli, i più piccoli, gli esclusi ed emarginati, gli ultimi della società del suo tempo.
    La gerarchia delle urgenze porterà la chiesa a fare suo questo criterio genuinamente evangelico. In tale modo, senza negare le ricchezze del modello ecclesiale comunionale, cercherà di aprire la comunione alle esigenze che vengono, anche a livello mondiale, dalla decisione di partire, nella ricerca della «vita in abbondanza», da coloro che di Vita ne hanno meno. Probabilmente questo contribuirà anche a dare ragioni per vivere a chi, in preda alla crisi del senso, le cerca disperatamente. Poiché c'è una parola di Gesù che dice: «Chi ama la propria vita, la perderà; chi invece è pronto a perdere la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25).


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