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    La Chiesa, una risposta alla chiamata di Gesù nella storia (cap. 5 di: Per la vita di tutti)


    Luis A. Gallo, PER LA VITA DI TUTTI. Fondamenti teologici dell'impegno educativo, Elledici 2002



    Dalla convocazione fatta da Gesù di Nazaret quasi duemila anni fa nacque un movimento che si fece strada nei secoli, e che cercò, tra alterne vicende, di prolungare il suo servizio all'annuncio del regno di Dio. Il movimento acquistò forma stabile nella chiesa o, per essere più precisi, nelle chiese cristiane sorte lungo la storia. Ce ne occupiamo in questo capitolo, con l'intenzione primaria di individuare la loro identità di seguaci di Gesù Cristo.

    UN SERVIZIO PROLUNGATO NEL TEMPO

    Tutti e quattro i vangeli finiscono con un riferimento alla missione affidata da Gesù risorto al gruppo iniziale dei suoi discepoli. La più solenne è quella di Matteo, secondo il quale egli, prima di sottrarsi definitivamente alla loro vista in questo mondo, disse loro:
    «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20).
    Con qualche differenza gli altri evangelisti, e anche il libro degli Atti degli Apostoli, tramandano lo stesso ordine da lui ricevuto (Mc 16,1518; Lc 24,46-49; Gv 20,21-23; At 1,8).
    Sono parole che esprimono la forte coscienza delle prime comunità credenti circa il compito affidato loro da parte di Gesù, il Signore. In forza di tale coscienza le comunità dei suoi discepoli camminarono lungo i secoli, cercando di rendere viva ed operante la sua presenza nel mondo. Si sono sforzate, con maggiore o minore coerenza, di svolgere il suo stesso servizio, comunicando lo stesso suo messaggio agli uomini e facendo funzionare, tra successi e fallimenti, la proposta in esso contenuta.
    In certi momenti esse si lasciarono sedurre da altre proposte e da altri progetti, e tradirono la loro fedeltà all'ispirazione originaria; in altri momenti invece arrivarono fino al punto di giocarsi la propria vita per mantenersi fedeli ad essa. Per riferirsi a questo misto di fedeltà e tradimento alcuni antichi cristiani (Padri della chiesa) usarono un'espressione un po' ardita ma di grande incisività: dissero che la chiesa era una casta meretrix, cioè una sposa che, finché restava fedele al vangelo, era casta, quando all'opposto diventava infedele, si prostituiva andando dietro ad altri amanti.
    Sempre, si può dire, anche nei momenti più bui della loro storia, ci sono stati nelle chiese uomini e donne che hanno cercato di vivere con coerenza il vangelo. Spiccano in questo contesto figure di uomini e di donne la cui coerenza venne riconosciuta dalla chiesa proponendoli alla venerazione degli altri. Sono i santi e le sante di ogni tempo ed estrazione che brillano come stelle nel cielo delle fede. Con il loro esempio sollecitarono le successive generazioni a vivere o a ricuperare, se c'era bisogno, la loro identità evangelica.

    ALLA RICERCA DI UN RINNOVAMENTO

    Nel XX secolo la chiesa visse uno dei suoi momenti più intensi di sensibilizzazione al bisogno di ritornare alle origini, con lo scopo però di calarsi nell'oggi del mondo. L'occasione fu la celebrazione del Concilio Vaticano II (1962-65). Come era solito dire Giovanni XXIII, il «papa buono» che lo convocò, questo concilio doveva operare un profondo «aggiornamento» della fede che la portasse a dire il Vangelo di sempre in maniera intelligibile e allettante per il mondo d'oggi, profondamente cambiato. Doveva essere «una nuova Pentecoste» per la chiesa.
    Questo concilio provocò un profonda trasformazione della coscienza ecclesiale. Ciò che in esso avvenne fu un audace processo di cambiamento che, pur mantenendo fedeltà alla sostanziale identità della chiesa, modificò a fondo il modo di concepirla. Tale processo non finì con il Vaticano II, ma proseguì nel periodo postconciliare, ed è in realtà tuttora in corso. Questo cammino, compiuto in mezzo a non poche difficoltà e tentennamenti, merita di essere rivisitato perché ciò può aiutare a comprendere le profonde novità che ne derivarono.

    L'abbandono di una certa concezione della chiesa

    Il primo passo fatto dal concilio fu quello di abbandonare un modo di concepire e di attuare la chiesa che era stato in vigore per diversi secoli, ma che molti ritenevano ormai sfasato e obsoleto dato il profondo cambiamento verificatosi nel mondo. Naturalmente, non si trattò di cambiare la sostanza della chiesa, ciò che di immutabile c'è in essa alla luce della fede, ma solo la maniera di pensarla e di attuarla. Per diversi secoli, ma soprattutto e con maggiore intensità dopo il Concilio di Trento (1545-1563), stette in vigore, nella mente e nella pratica, una concezione della chiesa secondo la quale essa era basilarmente una società o un'istituzione (R. Bellarmino).
    Le radici di tale concezione sono da cercare molto addietro nel tempo. Concretamente, nel momento in cui il cristianesimo, grazie al decreto di Costantino (313), entrò nella vita pubblica dell'impero romano. La chiesa, come si usa dire metaforicamente, uscì allora dalle catacombe all'aria aperta. Quel decreto innescò un processo di spostamento di accenti nel modo di considerare l'insieme delle componenti ecclesiologiche, che portò dalla sottolineatura dei suoi aspetti più intimi e teologali, fino ad allora prevalenti nella sua coscienza (H. Fries), verso la sottolineatura sempre più marcata dei suoi aspetti istituzionali, societari, organizzativi e giuridici (Y. Congar).
    Tale processo si andò ulteriormente consolidando, in particolare dal secolo XI in poi. Anzitutto, per via delle prese di posizione di Gregorio VII ispirate alla sua appassionata ricerca della libertà della chiesa dal dominio del potere temporale. Egli riuscì infatti a liberarla dal giogo del dominio feudale, ma la contropartita di tale liberazione fu un forte accentramento del potere nelle sue mani e un'intensificazione della concezione giuridico-societaria della chiesa (Dictatus papae). Un altro passo venne fatto dal Concilio di Trento (sec. XVI), che reagì nei confronti delle contestazioni della Riforma protestante sottolineando fortemente gli aspetti istituzionali della chiesa, per arginare l'incombente rischio di sgretolamento ecclesiale. Ancora un passo lo fece il Concilio Vaticano I (1869-70), mediante la sua definizione dogmatica del primato di giurisdizione del Vescovo di Roma e della sua infallibilità (Pastor aeternus). Praticamente, nel secolo che precedette il Vaticano II, si visse all'insegna di questa visione ecclesiale forgiata nel Vaticano I (A. Acerbi).
    Il profilo della chiesa restava così definito da un'insieme di accentuazioni fatte nell'ambito delle sue diverse componenti fondamentali.
    L'accentuazione principale, come è già stato detto, era quella posta in modo globale sui suoi aspetti istituzionali e societari. Naturalmente si trattava di accentuazione e non di esclusione. Gli altri aspetti, quelli più interiori e più genuinamente evangelici, non furono mai lasciati totalmente da parte - avrebbe significato una perdita totale d'identità -, ma furono rimandati in secondo piano.
    C'erano poi delle accentuazioni settoriali, tra le quali prendiamo in considerazione solo le più rilevanti. Anzitutto, la chiesa veniva identificata come il regno di Dio o di Cristo sulla terra. Di conseguenza si riteneva che essa possedesse tanto la verità quanto la santità, un possesso che le veniva assicurato dalla presenza e dall'azione dello Spirito promesse da Cristo (Gv 14,26; 16,13). Come contropartita, ciò che era fuori della chiesa veniva pensato come il regno dell'errore, del peccato e della corruzione, in una parola, del diavolo. Nei confronti dei quali la chiesa era vista come colei che, con la forza di Dio, li sconfiggeva. La sua vittoria le era assicurata in anticipo dalla promessa di Cristo: «Le porte degli inferi non prevarranno» (Mt 16,18). Inoltre, essa era ritenuta come il luogo esclusivo della salvezza degli uomini, come una nuova arca di Noè nella quale unicamente essi potevano salvarsi dalle acque distruttrici del diluvio. Tale convinzione si esprimeva attraverso il classico assioma «Fuori della chiesa non c'è salvezza» (S. Cipriano). Si trattava naturalmente della salvezza «delle anime», segnata da caratteristiche peculiari quali il predominio dello spirituale sul materiale e corporale, dell'individuale sul comunitario, del celeste sul terreno, e dall'assenza quasi totale della coscienza e dell'impegno storico (C. Molari). L'aspetto universalistico della salvezza, ossia la possibilità di salvare la propria anima per coloro che non erano incorporati nella chiesa, era pensato in termini di eccezione e sempre in riferimento ad essa.
    Particolarmente caratteristiche erano le accentuazioni che si riscontravano nell'ambito del rapporto tra i membri della chiesa. Si fondavano principalmente su due elementi strettamente collegati tra di loro: la struttura piramidale, e la separazione tra chierici o gerarchia e laici o secolari.
    A partire dal secolo IV, la chiesa si era andata modellando volta per volta sulle società del tempo: dell'impero prima, delle società feudali poi, e infine dei regni e degli stati autonomi. E poiché tali società erano strutturate piramidalmente, anche la chiesa si era strutturata in quel modo. Tale struttura implicava una gerarchia discendente di potere e di dignità, la quale comportava a sua volta un vertice, rappresentato concretamente dal papa, in quanto vescovo di Roma, vicario di Cristo e successore di Pietro, il quale concentrava in sé la pienezza di ambedue le cose; potere e dignità che andavano poi diminuendo per gradi fino alle basi, ossia il laicato, che ne erano praticamente prive.
    Come conseguenza ovvia di tale strutturazione, si era creata una separazione tra chierici e laici, ossia tra quelli che occupavano i gradi gerarchici e quelli che a tali gradi non appartenevano. La chiesa era pensata, quindi, come una società disuguale, costituita da alcuni che insegnavano, santificavano e governavano, e da altri che imparavano, erano santificati e obbedivano (Pio X, Vehementer Nos). È facile capire come un'esperienza ecclesiale simile potesse portare all'identificazione tra chiesa e gerarchia, e alla non identificazione dei laici o secolari con essa. Il che di fatto avvenne in più di un caso.
    Un'altra accentuazione tipica di questa concezione, insieme a quella precedente, era quella che si dava nell'ambito del rapporto della chiesa con il mondo. Era condizionata dal modo in cui veniva concepito quest'ultimo. Infatti, se per «mondo» s'intendeva ciò che non era cristiano, la tendenza era quella di vedere il rapporto con esso in termini antitetici di grazia e peccato. L'atteggiamento che si assumeva nei suoi confronti era quello della fuga o della rinuncia per non restare intaccati da esso, o quello della lotta per sconfiggerlo e sostituirsi ad esso.
    Se invece «mondo» significava semplicemente l'insieme delle realtà cosiddette temporali, la linea prevalente era quella di considerare il rapporto con esso in termini di naturale e soprannaturale. Si pensava, infatti, che mentre la chiesa era la società organizzata in ordine al fine ultimo soprannaturale dell'uomo, e cioè il suo fine eterno, definitivo e di conseguenza principale, il mondo era invece ordinato al suo fine ultimo naturale, alla sua promozione puramente temporale, e quindi secondaria. La chiesa, pertanto, doveva fare in modo che queste realtà temporali si convertissero in mezzi per il raggiungimento del fine spirituale ed eterno dell'uomo. Spesso, durante la sua lunga storia, questo rapporto fu vissuto da parte della chiesa in termini di dominio teocratico o clericale, come quando essa gestì in prima persona il potere politico (Gregorio VII, Bonifacio VIII, Innocenzo o la scienza (caso Galileo), deprivandoli della loro autonomia propria.
    All'interno di questo modo di pensare e di attuare la chiesa vissero lungo i secoli molti uomini e donne, alcuni con grande coerenza, persino fino al martirio. Tra essi spiccano indubbiamente le figure straordinarie di S. Francesco d'Assisi (1182-1226) e di S. Caterina da Siena (1347-1380). Tutti e due, in contesti differenti e a poca distanza di tempo, si sentirono chiamati a seguire da vicino Gesù Cristo, e risposero alla sua chiamata con uno slancio e una coerenza che ancora oggi destano ammirazione. Essi prestarono un grande servizio alla chiesa e alla società del tempo, e lasciarono una profonda impronta nella storia. Francesco, per parte sua, incarnò nella sua persona e nella sua vicenda la tensione, sempre presente in qualche misura nella chiesa, tra l'attuazione di una sequela libera al Vangelo, piena di slanci e di inventiva, e l'appartenenza ad una istituzione che, per forza di cose, punta maggiormente a quanto è stabilito e fissato. In altre parole, tra la profezia e l'istituzione.
    Ma il Concilio Vaticano II, pur senza ignorare tutto ciò, decise di abbandonare tale modo di pensare e di realizzare la chiesa, perché lo considerò ormai inadeguato ai tempi nuovi che si erano affacciati alla storia.

    Un primo passo verso il cambio

    Abbandonando la concezione ecclesiale preconciliare, il Vaticano II non lasciò un vuoto. Ne propose invece una nuova, che si andò aprendo strada lentamente nelle riflessioni consiliari. In essa trovarono sbocco ampi sforzi di riflessione compiuti all'interno della stessa chiesa, particolarmente attraverso i diversi movimenti sorti e sviluppati verso la fine del secolo XIX e agli inizi del XX, e cioè i movimenti liturgico, biblico-patristico, ecumenico, missionario e laicale. Ognuno di essi contribuì, a modo suo, a scuotere la coscienza ecclesiale da diversi punti di vista, e a portare alla ribalta aspetti ecclesiologici a volte in parte dimenticati in passato, a causa delle diverse circostanze storico-culturali (O. Gonzàlez Fernàndez). Ma il rinnovamento fu anche frutto dell'impatto di due grosse tendenze diffuse nella società umana da qualche decennio: quelle verso la personalizzazione e verso la socializzazione.
    Come risultato di tale insieme di fattori, la prospettiva a partire dalla quale cominciò ad essere vista la chiesa risultò profondamente cambiata. La si cominciò infatti a guardare non già dal di fuori, bensì dal di dentro, cioè a partire dal suo mistero più intimo, che la ricollega al mistero supremo del Dio trinitario (LG 1-4). Fu la costituzione dogmatica Lumen Gentium ad avviare ufficialmente questo profondo spostamento.
    Se prima, quindi, essa era pensata prioritariamente come una istituzione o una società, ora cominciò ad essere pensata soprattutto come una comunione. È questo il tratto globale e più saliente della prima ecclesiologia conciliare, un tratto dal quale derivano o con il quale si collegano tutti gli altri che configurano il suo profilo.
    Anzitutto, in questa nuova impostazione ecclesiologica si sottolineò la condizione pellegrinante e provvisoria della chiesa. Essa, infatti, venne vista non già come il regno di Dio o di Cristo sulla terra, bensì come germe e fermento di tale regno (LG 5.9b) e, per di più, come un germe portante in sé i segni dell'imperfezione propria di questo mondo provvisorio (LG 48c), e addirittura del peccato, che la rendono sempre bisognosa di conversione (LG 8c.d). Di conseguenza, venne bandito ogni atteggiamento di trionfalismo ecclesiale. La linea di separazione tra santità e peccato, si pensò, non divide la chiesa da ciò che non è chiesa, ma passa attraverso il cuore di ogni essere umano, appartenga o no ad essa. La vittoria totale del regno della santità e della verità avrà solo luogo alla fine, quando il regno di Dio, la chiesa e il mondo arriveranno alla piena realizzazione escatologica (LG 48a).
    Inoltre, il rapporto tra la chiesa e la salvezza venne impostato in un'ottica apertamente universalistica. Senza negare il ruolo imprescindibile che corrisponde alla chiesa nell'ambito soteriologico (LG 14), si allargò tuttavia la possibilità di salvezza personale fino a farla coincidere con la buona volontà perfino di chi, senza colpa propria, non crede espressamente in Dio ma agisce rettamente (LG 16). Ciò significa che la salvezza personale non venne più vincolata necessariamente all'appartenenza alla chiesa né alla fede esplicita, ma piuttosto all'amore fraterno. Di tale salvezza, intesa come comunione con Dio e con gli altri uomini, la chiesa era chiamata ad essere segno e strumento nel mondo (LG 1).
    Molto importante fu il modo di impostare il rapporto tra i membri della chiesa, nel cui ambito si registrarono gli spostamenti più vistosi e più facilmente percettibili del cambiamento operato. Vennero infatti fermamente sottolineati gli aspetti di uguaglianza fraterna e di servizio vicendevole tra di essi.
    Si riconobbe in primo luogo, come fatto ecclesiale primo, l'uguaglianza fondamentale di tutti i membri della chiesa per il fatto di costituire l'unico Popolo di Dio (LG cap. II). L'abbandono della struttura piramidale (LG 32b), e conseguentemente della separazione fra chierici e laici, trovò la sua privilegiata espressione nella rinnovata concezione dell'autorità come servizio (LG 18a), e nel riconoscimento del posto e del ruolo dei cristiani laici o secolari nella chiesa (LG cap. IV e Apostolicam Actuositatem). Questi ultimi non furono più visti quali cristiani «di seconda categoria» o quali «clienti» dei pastori, come era accaduto spesso in passato, ma come membri della chiesa a pieno titolo, con la loro responsabilità propria nella chiesa e nel mondo (LG 31a). Essi furono riconosciuti come partecipi anche del sacerdozio comune o dei fedeli (LG 10-11.34), che accomuna tutti i membri della comunità ecclesiale dal punto di vista cultuale prima di ogni ulteriore distinzione; del «sensus fidelium» (LG 12a), che esprime l'uguaglianza radicale, anteriore ad ogni diversificazione ulteriore, dal punto di vista profetico o di adesione alla Parola; e della pluralità dei carismi (LG 12b), che costituisce la base comune a tutti, dal punto di vista regale o di partecipazione alla signoria di Cristo, prima di ogni ulteriore specificazione.
    In secondo luogo si sostenne che, senza negare né oscurare l'uguaglianza fondamentale, esisteva nella chiesa una pluralità di servizi reciproci (LG 32b.c): tutti e ognuno dei suoi membri erano chiamati dallo Spirito a svolgere il loro servizio ai fratelli secondo i doni da lui distribuiti. E concretamente si distinguevano tre grossi blocchi di carismi, quello dei pastori, quello dei laici o secolari, e quello dei consacrati o religiosi, ognuno con le caratteristiche proprie che conferivano originalità alla loro identità.
    Nell'ambito del rapporto tra la chiesa universale e le chiese particolari (diocesi, parrocchie e simili) si registrò pure una grossa novità nei confronti della situazione anteriore: l'ecclesiologia di comunione riconobbe alle chiese particolari o locali una reale consistenza ecclesiale grazie alla quale, anziché essere ritenute come semplici suddivisioni amministrative della chiesa universale, venivano considerate delle autentiche chiese nel vero senso della parola. Chiese che, senza rinnegare la loro propria originalità e diversità, erano in comunione con tutte le altre del mondo, e con il loro centro di comunione universale, la chiesa di Roma e, in essa, con il suo Vescovo, il papa (cf LG 13c.26a).
    Anche per ciò che riguarda il rapporto tra la chiesa cattolica e gli altri gruppi e confessioni cristiane si produsse un cambio di impostazione, perché venne sostituito l'antico criterio integrista dell'«o tutto o niente», che era stato in vigore per secoli, con quello della gradualità nella comunione (UR 3). Si continuò certamente ad affermare la presenza della totalità delle componenti ecclesiali nella chiesa cattolica presieduta dal papa (LG 8b), ma tale affermazione non portò più alla negazione dell'esistenza di autentici elementi ecclesiali nelle altre chiese o confessioni cristiane. Con esse, quindi, la chiesa cattolica si riconobbe in comunione, benché non piena. Il movimento ecumenico era appunto chiamato a portare ad una crescita fino alla comunione totale.
    Questa nuova impostazione ecclesiale, così ricca e promettente, comportava tuttavia un punto debole. Lo si riscontra nell'ambito del rapporto tra la chiesa e il mondo.
    Si deve riconoscere anzitutto, ad un esame attento della Lumen Gentium, mirata principalmente a delineare l'essere della chiesa, che tale rapporto restò notevolmente disatteso in tale identificazione. La chiesa vi appare, infatti, come concentrata soprattutto e principalmente su problemi d'indole intraecclesiale: la sua natura, la sua vita di fede, la sua celebrazione liturgica, il ruolo della Parola di Dio nei suoi confronti, la sua organizzazione interna, la sua condizione o indole escatologica, il suo radicamento tra i popoli ancora non evangelizzati...
    E senza dubbio pregio della Costituzione aver riconosciuto la consistenza e autonomia proprie del mondo (LG 36), il che le diede la possibilità di superare certe impostazioni dualistiche o sacralizzanti del passato. Tuttavia, questo mondo consistente e autonomo restò in essa come esterno e sovrapposto a una chiesa già sostanzialmente costituita in se stessa. La chiesa della Lumen Gentium non diede segni di avere bisogno del mondo per autodefinirsi; era già definita costitutivamente – si potrebbe dire ontologicamente – prima di andare verso di esso, soprattutto mediante l'azione dei cristiani laici o secolari, a portare la propria testimonianza. In definitiva, la missione della chiesa al mondo non era costitutiva del suo essere; era, caso mai, un'aggiunta etica; importante certamente, ma sempre accidentale ed estrinseca.

    La maturità del processo conciliare

    Mentre la concezione della chiesa come comunione acquistava sempre più spazio e consistenza nella dinamica conciliare e si esprimeva nei suoi diversi documenti, all'interno dello stesso concilio si andava aprendo lentamente strada un'altra che, senza rifiutare le acquisizioni fatte dalla precedente, le superava aprendole in una nuova direzione.
    La sua genesi era collegata alle inquietudini di alcuni partecipanti al concilio più sensibili ai più gravi problemi dell'umanità del momento. Essi trovavano inaccettabile che un concilio ecumenico della portata del Vaticano II, celebrato in pieno secolo XX e in un mondo fortemente segnato da profondi cambiamenti, si riducesse ad affrontare delle problematiche quasi esclusivamente intraecclesiali (M. D. Chenu).
    Tali inquietudini trovarono sbocco nel Messaggio iniziale rivolto dal Concilio a tutti gli uomini di buona volontà. In esso erano già presenti, come in germe, sia la futura costituzione pastorale Gaudium et Spes, sia la nuova concezione ecclesiologica emergente. Ma fu in realtà durante la elaborazione di tale Costituzione che la concezione poté emergere con maggior chiarezza e precisione. Nel suo Proemio, infatti, si leggono queste parole cariche di prospettive:
    «Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito» (n. 3d).
    Paolo VI poi, alla vigilia della chiusura del concilio, sintetizzò magistralmente la nuova impostazione con questa solenne affermazione programmatica: «La chiesa si dichiara serva dell'umanità». In tale concezione l'essere della chiesa veniva fatto coincidere con la sua missione. Si pensava che la chiesa di Gesù Cristo, non solo aveva una missione, ma era missione. E questa sua missione veniva concepita in termini di servizio (GS 3b). Un servizio che a sua volta restava specificato anzitutto dal suo destinatario, che non era la chiesa stessa né i suoi membri in quanto tali, bensì il mondo, visto per di più in una prospettiva storica, cioè dinamica ed evolutiva (GS 5g), e quindi in cammino verso il suo proprio futuro; poi dal suo obiettivo, che era la salvezza del mondo, concepita pure in modo rinnovato, in quanto incorporava in sé tutte le dimensioni dell'uomo, anche quelle sociali (GS 3b); e infine dalla sua modalità, che era l'ispirazione evangelica nella quale la chiesa trovava la propria identità e la propria originalità. In breve, la chiesa veniva pensata come servizio evangelico di salvezza all'umanità.
    Un tratto che caratterizzò globalmente, quindi, tale concezione fu il posto che in essa venne riservato al rapporto tra la chiesa e il mondo. A tale rapporto, che nella concezione della Lumen Gentium era rimasto quasi completamente disatteso, venne ora riconosciuto un posto centrale e decisivo. Infatti, si pensò la chiesa non come una realtà esistente fuori del mondo – sia sopra, sia accanto, sia addirittura contro di esso, come in altri tempi , ma nel mondo e per il. mondo.
    Si può parlare, in questo senso, di una vera «svolta copernicana» operata dal Vaticano nel momento più alto della sua maturazione ecclesiologica, il momento in cui la chiesa si riconobbe come «una chiesa estroversa» (S. Dianich).
    Conseguenza logica di tale cambiamento d'ottica fu l'accentuato orientamento transecclesiale della concezione in questione. Le grandi istanze dell'umanità, quelle in cui erano prevalentemente in gioco la vita e la crescita in umanità degli esseri umani, singolarmente e collettivamente presi, e che di conseguenza coinvolgevano anche la comunità ecclesiale, passavano in primo piano nell'attenzione e nella preoccupazione della chiesa e dei suoi membri. Invece le istanze intraecclesiali, pur non ignorate né trascurate, restavano in un secondo piano ed erano ripensate e ridimensionate alla luce di ciò che ora costituiva la loro preoccupazione principale.
    Da quest'impostazione transecclesiale derivò pure una caratterizzazione ecclesiale che diventò realmente determinante: l'importanza data alla dimensione profetica dell'esistenza cristiana. Il testo di GS 11a costituisce un vero programma sostanziale di tale funzione. In esso si dice che è compito di tutto il popolo di Dio cercare di discernere i segni del progetto di Dio negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni degli uomini del tempo presente (M. D. Chenu).
    Inoltre, venne dato rilievo particolare ad uno dei modi caratteristici di realizzare il servizio al mondo, quello del dialogo (GS 3a). Per collaborare nella salvezza del mondo in cammino verso il futuro voluto da Dio per mezzo di Cristo, la chiesa doveva dialogare con esso, apportando le luci che le forniva il Vangelo di Gesù Cristo e aprendosi a quelle offerte dal genere umano, nella sua crescita ed evoluzione.
    Un'ulteriore ripercussione della nuova impostazione si ebbe nell'ambito del rapporto tra la chiesa e la salvezza. Accettando fondamentalmente quanto aveva già evidenziato la Lumen Gentium sulla portata universale della salvezza, si fece ancora un passo avanti rilevando soprattutto i suoi aspetti di storicità e di responsabilità. La concezione della salvezza venne infatti fondata sul superamento del dualismo tra storia sacra e storia profana. Si sostenne cioè l'esistenza di una sola storia, quella fatta dagli uomini mediante le loro libere decisioni, la quale era in se stessa storia di salvezza o storia di perdizione, nella misura in cui camminava verso la realizzazione del piano di Dio o si opponeva ad essa (GS 11a). Questo presupposto conferiva alla salvezza la sua dimensione di storicità, e metteva anche in evidenza il suo carattere di compito. Chi salva in ultima istanza è certamente Dio, si pensò, ma salvatori sono allo stesso tempo gli uomini nella loro libera cooperazione, consapevole o meno, al suo disegno.
    Come si è già detto, questa concezione fece sue le accentuazioni rilevate in quella comunionale, ma dando loro quei ritocchi che la sua propria impostazione transecclesiale richiedeva. Così, per ciò che riguarda il rapporto tra i diversi membri della chiesa, non solo si diede per supposta l'affermazione dell'uguaglianza fraterna e il servizio reciproco di tutti i membri della comunità ecclesiale (GS 32b), ma si riconobbe inoltre espressamente ai laici il posto di avanguardia nella stessa chiesa (GS 43).
    Per quel che riguarda il rapporto tra la chiesa universale e le chiese particolari, si insistette sul bisogno di calare gli orientamenti della Gaudium et Spes riguardanti il nuovo modo di rapportarsi con il mondo, nella «immensa varietà delle situazioni e delle forme di civiltà» nella quali si trovano immersi in cristiani (GS 91c). Era un modo concreto di appellarsi alla responsabilità delle singole chiese particolari affinché facessero proprio, tenendo presente tale varietà, quanto il concilio proponeva al riguardo.
    Finalmente, nell'ambito del rapporto con gli altri cristiani, oltre ad auspicare una cooperazione fattiva ed efficace «con i fratelli separati che fanno pure professione di carità evangelica» nella ricerca della pace universale (GS 90), alla fine della Costituzione pastorale si tornò a ribadire che, nello sforzo della costruzione della fraternità universale, la chiesa era unita «ai fratelli che non vivono in piena comunione con noi e alle loro comunità» (n. 91). Si trattava, come si vede, di un ecumenismo veramente transecclesiale, che puntava prevalentemente a «cooperare fraternamente al servizio della famiglia umana che è chiamata a diventare in Cristo Gesù la famiglia dei figli di Dio» (ibid.).

    Nel periodo postconciliare

    Negli anni che seguirono il. Concilio Vaticano II si moltiplicarono le prese di posizione ecclesiologiche.
    Alcuni rimasero individualmente o come gruppo ancorati all'ecclesiologia preconciliare, di tipo accentuatamente istituzionale e societario, vivendo nostalgicamente di un passato che il Vaticano II aveva deciso di abbandonare. Non pochi, invece, specialmente nei paesi più sviluppati dell'umanità, accolsero con decisione ed entusiasmo la proposta comunionale della Lumen Gentium, una proposta che veniva a soddisfare le attese in essi create dal profondo cambiamento culturale degli ultimi decenni. Altri poi fecero propria la proposta ecclesiologica dell'ultima fase conciliare, quella della Gaudium et Spes, e si proposero di fare della chiesa un reale strumento di crescita del mondo all'insegna del Vangelo.
    Nel contesto di quest'ultima presa di posizione si verificò un fatto singolare. Appena due anni dopo la conclusione del concilio, lo stesso Paolo VI che aveva proclamato davanti al mondo la volontà della chiesa di essere «serva dell'umanità», diede un deciso colpo di timone a tale orientamento mediante la pubblicazione dell'Enciclica Populorum Progressio. In essa descrisse l'umanità come profondamente divisa in due: da una parte, i popoli sviluppati, in processo di crescente benessere e di sempre maggiore abbondanza; dall'altra, i popoli in via di sviluppo, in preda ad una sempre maggiore povertà. Con l'aggravante di un tipo di rapporto tra di loro in forza del quale la povertà crescente degli ultimi risultava essere principalmente conseguenza del crescente benessere dei primi (nn. 56-61).
    L'Enciclica offrì ad alcune chiese dei paesi poveri del mondo la possibilità di effettuare una originale ricezione dell'ultima proposta ecclesiologica conciliare (G. Gutiérrez). Concretamente, la Seconda Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano, radunata appena pochi mesi dopo a Medellín (Colombia 1968), aprì la strada con le sue deliberazioni ad una nuova prospettiva. In essa la chiesa si proclamò «chiesa dei poveri».
    Come nell'impostazione ecclesiologica della Gaudium et Spes, anche in questa del postconcilio il rapporto tra la chiesa e il mondo venne ad occupare un posto egemone. La chiesa risultò perciò segnata radicalmente dalla sua tendenza transecclesiale. Essa venne pensata come interamente orientata al servizio evangelico dell'umanità, ma non astrattamente presa, bensì come appariva concretamente ai suoi occhi, e cioè, come profondamente marchiata da quel «conflitto strutturale grave» (Puebla 1209) che generava, a livello mondiale, continentale e nazionale, una situazione nella quale i ricchi erano sempre più ricchi a spese dei poveri sempre più poveri (Giovanni Paolo II).
    Davanti a un simile conflitto la chiesa si sentì chiamata a non rimanere indifferente o asettica. Volle perciò impegnarsi nel collaborare a superarlo facendo un'opzione per i poveri concreti, quelli cioè che in realtà erano ridotti alla condizione di «non-uomini», dal momento che venivano spogliati della loro più elementare dignità umana (G. Gutiérrez).
    Alla base di tale opzione c'era l'ispirazione evangelica. La cristologia sviluppata in tale contesto ecclesiale, infatti, poneva fortemente l'accento sul Gesù storico e sulla sua opzione per i poveri ed emarginati (J. Sobrino). Conseguentemente, si concludeva, la chiesa, chiamata a seguirlo, non poteva lasciar di fare altrettanto (DP 1141).
    Per ciò che riguarda il rapporto tra la chiesa e il regno di Dio, un rapporto al quale questa ecclesiologia si dimostrò molto sensibile proprio in forza della sua matrice cristologica, oltre a ribadire la non coincidenza attuale tra i due e la totale relatività della prima al secondo, essa sottolineò anche la priorità dei poveri quali primi e privilegiati destinatari del regno annunciato e promesso da Cristo (Puebla 1141). Nell'ambito del rapporto tra la chiesa e la salvezza venne ancora ulteriormente specificata l'istanza collettiva e storica di quest'ultima, già sostanzialmente presente nella Gaudium et Spes. Date poi le circostanze storiche in cui si trovavano i poveri concreti per i quali optava la chiesa, circostanze che configuravano una condizione di schiavitù a carattere strutturale, la salvezza venne pensata come liberazione integrale (G. Gutiérrez). Naturalmente non intendendo con ciò identificare semplicemente la salvezza offerta da Dio in Gesù Cristo e la liberazione storica o intramondana, ma sottolineando piuttosto le ineluttabili implicazioni concrete che essa comportava.
    Molto caratteristico fu il modo di impostare il rapporto tra i membri della comunità ecclesiale. Vennero infatti accentuate fortemente le istanze di uguaglianza e di servizio fraterno fra essi, ereditate dall'ecclesiologia di comunione, ma si insistette inoltre e soprattutto sul protagonismo ecclesiale dei poveri. Si precisò perciò che una chiesa dei poveri era costituita anzitutto dai poveri reali, che ne erano membri per diritto particolare, e poi anche da coloro che, pur non essendo tali, facevano propria la causa di questi poveri. In questo senso, essa non solo era una chiesa per i poveri o che stava con i poveri, ma era una chiesa dei poveri (I. Ellacuría).
    In essa i poveri avevano riconosciuto, quindi, un vero protagonismo. Protagonismo, in primo luogo, nei confronti della Parola, mediante una «riappropriazione» della sua lettura e del suo approfondimento a partire dalla sensibilità creata in loro dalla situazione storica di povertà ingiusta che soffrivano (G. Gutiérrez), diventando così espressione concreta di quel «potenziale evangelizzatore dei poveri» di cui parlò il Documento di Puebla (n. 1147); protagonismo anche nell'ambito della liturgia e dell'attività cultuale in genere, mediante una partecipazione viva ed attiva nelle celebrazioni sacramentali e di altro tipo, e con l'esercizio in esse di svariati servizi; protagonismo, infine, nei confronti dell'organizzazione e della stessa gestione della comunità, con l'assunzione responsabile di diversi ministeri, anche specificamente laicali (Puebla 804-805).
    Infine, per ciò che si riferisce al rapporto con gli altri cristiani, l'ecumenismo venne pensato principalmente in chiave di impegno nella liberazione dei poveri ed emarginati (DP 1096-1117). Non doveva essere quindi l'ortodossia dottrinale ad occupare il primo posto nelle preoccupazioni della Chiesa, quanto piuttosto l'ortoprassi in ordine alla salvezza dei poveri del mondo.
    Questa prospettiva ecclesiologica fu resa operativa in un primo momento nello stesso continente latinoamericano, ma ebbe poi anche un'ampia diffusione nel mondo intero, specialmente nei popoli più poveri dell'umanità.
    Naturalmente, essa venne calata nel contesto delle diverse zone in cui essi si trovavano. Così, nell'Africa, oltre a rendersi sensibili ai problemi di natura economica, prese seriamente in considerazione la sensibilità culturale dei popoli del continente e la loro storia fatta spesso di dolori e sopraffazioni, mentre nell'Asia s'impegnò nel dialogo rispettoso e aperto con le antiche culture e religioni esistenti, aprendo delle nuove strade all'attuazione della fede e alla riflessione su di essa.

    I CRITERI PER UN'OPZIONE

    Il cammino conciliare e postconciliare rivisitato fornisce dei criteri decisivi per le opzioni da fare in ambito ecclesiologico in ordine ad un rinnovato servizio rispondente alla convocazione di Gesù Cristo. Esso richiede, anzitutto, di abbandonare un modo di pensare e di attuare la chiesa che si ispiri alla concezione di tipo piramidale e clericale delineata a grandi tratti più sopra. E non perché lo si consideri sbagliato in se stesso, ma perché lo si ritiene superato e inadeguato al momento storico attuale. Non è che si rifiuta e abbandona la chiesa, ma un modo di essere chiesa appartenente ad un determinato contesto storico-culturale che, pur avendo dato anche dei buoni frutti in altri tempi, attualmente non li può continuare a dare. Inoltre, il cammino conciliare porta anche a concludere che l'accoglienza della proposta di una ecclesiologia all'insegna della comunione pur essendo indispensabile, non è sufficiente. Il Vaticano II, infatti, non si fermò ad essa, ma andò oltre, aprendo la comunione ecclesiale alla dimensione di servizio al mondo. Solo se si accoglie questa «svolta copernicana» si può essere in linea con ciò che essa maturò, dietro l'impulso dello Spirito, nel lavoro conciliare.
    Per di più, occorre tener presente che il dinamismo impresso dal concilio alla riflessione ecclesiale ebbe come effetto, dopo la sua celebrazione, la specificazione di tale servizio al mondo con la forte sottolineatura dell'attenzione privilegiata verso i più poveri, ispirata al modo di agire di Gesù stesso. Solo camminando per tale strada la chiesa può assomigliare di più e più profondamente a colui che l'ha convocata (J. Sobrino).
    Tutto ciò porta a concludere che, per ritrovare la sua identità originale, quella che le viene dalla convocazione iniziale, la chiesa deve necessariamente raccogliere questi elementi e riconoscerli come criteri decisivi del suo essere e del suo agire, pena l'infedeltà allo
    Spirito.


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