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    Sono "religiosi" i giovani oggi?


     

    Riccardo Tonelli

    (NPG 2009-03-54)


    Oggi ci chiediamo spesso: sono «religiosi» i nostri giovani? Sono «tornati» ad essere religiosi, come lo erano una volta o i molti segnali di «ritorno al religioso» vanno interpretati in termini diversi?

    La risposta è importante. In qualche modo pregiudica il lavoro fatto in questi anni. È servito a migliore un poco le cose o le ha solo peggiorate? Dobbiamo essere grati a coloro che hanno conservato con i denti l’esistente se oggi le cose vanno un poco meglio degli ultimi 10-15 anni?
    Per rispondere (e per confrontarci sulla eventuali risposte), dobbiamo metterci d’accorso sul significato di «religioso» e su che cosa possa misurare la persistenza o la perdita.
    Non credo proprio che gli elementi da verificare siano quelli relativi alla pratica, alla frequenza di gesti religiosi, alla conoscenza dei contenuti religiosi. Preferisco aprire un confronto sulla «esperienza religiosa», per valutare se e come è presente tra i giovani di oggi.
    Evidentemente mi servo delle ricerche realizzate. Ne faccio però una lettura trasversale – e un poco critica – proprio per misurare l’esperienza religiosa e non le pratiche religiose.

    Esperienza religiosa

    Considero come «esperienza religiosa» l’insieme dei comportamenti (a prevalente natura «rituale») e degli atteggiamenti con cui una persona vive, in termini sufficientemente riflessi, la consapevolezza che ciò che dà senso alla vita e consistenza alla speranza è collocato «oltre» la propria esistenza, un dono sperato e almeno inizialmente sperimentato. Nasce all’interno del proprio mondo soggettivo, perché si tratta di sperimentare un fondamento alla propria esistenza e alle esigenze (per esempio di natura etica) che l’attraversano. Si sporge però oltre la propria soggettività, perché si è sperimentato quanto sia insufficiente fondare senso e responsabilità solo all’interno del proprio quotidiano vissuto.
    L’accentuazione del riferimento ai comportamenti e agli atteggiamenti che li sostengono, non esclude affatto l’attenzione ad un fascio di conoscenze. Esse, al contrario, sono la ragione dei comportamenti e degli atteggiamenti e la loro formalizzazione linguistica.
    L’esperienza religiosa si esprime dentro un ambiente culturale religioso molto preciso. Per questo è già connotata (nel nostro caso cristianamente) e, in qualche modo, è resa possibile e sostenuta dalla presenza di testimoni che vivono la stessa ricerca e esperienza.
    Il punto centrale del processo che conduce ad una matura esperienza religiosa, secondo l’ipotesi appena tracciata, è determinato dalla «capacità di invocazione». Essa rappresenta la meta del cammino di maturazione dell’esperienza religiosa e, nello stesso tempo, la condizione che lo rende possibile e praticabile. Sulla frontiera dell’invocazione si incontrano e dialogano i processi che riguardano l’educazione e quelli che riguardano l’educazione alla fede.
    L’espressione «invocazione» è utilizzata qui con un significato preciso. Indica uno stile di esistenza: il superamento del limite, riconosciuto e accolto, per immergersi, in modo più o meno consapevole, nell’abisso del mistero di Qualcuno o Qualcosa che sta oltre, di cui ci si fida e a cui ci si affida. Spesso questa realtà non è stata ancora incontrata in modo esplicito, ma essa è implicitamente riconosciuta capace di sostenere la personale domanda di vita e di felicità, e di fondare le esigenze per una qualità autentica di vita.
    L’invocazione è, di conseguenza, un grande gesto di vita che cerca ragioni di vita, perché chi lo pone si sente immerso nella morte.
    L’esistenza quotidiana è nel­la verità esistenza cristiana solo quando la maturazione di personalità è orientata verso atteggiamenti umani, sul­la linea e nel­lo stile del­la fede, speranza, carità. In caso contrario, il significato espres­so in forme tematizzate (e cioè l’orientamento cristiano esplicito e for­male e la pratica stessa) resta un fatto vuoto, perché non trova la corrispondenza di una vita che dia consistenza a quanto è espresso.

    I DATI DELLE RICERCHE

    I dati interessanti dal punto di vista pastorale che le ricerche presentano (soprattutto quella IARD «Giovani, religione e vita quotidiana») e propongono a chi è impegnato nell’ambito della pastorale giovanile, sono molti e davvero stimolanti. Su molti di essi ritornerò nelle riflessioni che seguono.
    Devo però dichiarare subito una perplessità. Mi chiedo, dal punto di vista teologico-pastorale (la prospettiva che qualifica radicalmente la pastorale), se gli indicatori scelti sono adeguati e/o sufficienti per dare una fotografia attendibile della religiosità dei giovani. O, con altre parole, che figura di esperienza religiosa fa da riferimento generale alle ricerche. Sono stati analizzati comportamenti e atteggiamenti dei giovani italiani verso la religione, e indicati criteri attraverso cui sono state elaborate le tipologie: l’intensità dell’appartenenza religiosa dei giovani italiani, l’importanza che essa assume nella propria vita, l’influenza esercitata dall’intorno familiare, la frequenza delle pratiche di culto, la partecipazione ad attività e iniziative promosse da istituzioni di tipo religioso.
    Per evidenti ragioni funzionali ogni ricerca distingue tra vissuto religioso misurabile (sulle variabili soprattutto esteriori) e «qualità di vita» nella quotidianità personale e collettiva (elementi che identificano la «cultura» dei soggetti).
    Il tipo di approccio che privilegia le variabili esteriori è, in fondo, quello più facile da indagare e quantificare. Per questo, forse, è anche il più utilizzato.
    La pastorale giovanile non considera l’esperienza religiosa una delle tante esperienze che attraversano l’esistenza di una persona. Per questo, per verificare fino a che punto essa è presente nel vissuto personale e come essa si esprime in concreto, contesta l’abitudine diffusa di limitarsi alla recensione degli atteggiamenti e dei comportamenti formalmente religiosi, valutando eventualmente l’indice di significatività con cui sono vissuti o desiderati.
    Certamente, in questa modalità, è possibile definire la presenza o l’assenza attraverso una scala di manifestazioni esteriori. Dal punto di vista della pastorale e delle sue attese un approccio come questo è però parziale e non sufficientemente espressivo, per fare progetti di educazione religiosa. Alla pastorale giovanile interessa maggiormente lo stile generale di vita, le scelte che la caratterizzano, le attese che la orientano e le prospettive che la ispirano, e relativamente meno i concreti comportamenti qualificabili come «religiosi», perché rispondono ai modelli di pratica religiosa.
    Sono convinto quindi che i risultati sarebbero più attendibili e soprattutto potrebbero diventare più significativi per la figura di pastorale giovanile in cui mi riconosco, se entrassero in gioco soprattutto (o almeno «anche») altre dimensioni.
    La lettura pastorale dei risultati della ricerca IARD mi ha portato a raccogliere, nel notevole e interessante materiale analizzato, alcune constatazioni che desidero rilanciare, convinto che non possiamo elaborare seri progetti pastorali, ignorando o misconoscendo questa situazione di fatto.

    L’esperienza religiosa come esito di una storia di incontri

    Un primo dato conferma decisamente una serie di constatazioni frequenti tra gli operatori di pastorale giovanile: la presenza, la consistenza, la permanenza di una esperienza religiosa nel vissuto giovanile sono legate, quasi come esito, ad una storia intessuta di incontri con persone, avvenimenti, eventi. Essi hanno segnato il vissuto e scatenato quell’attenzione che difficilmente oggi può essere frutto solo di collocazione sociale e culturale.
    Già questa prima constatazione offre molti stimoli operativi a chi è impegnato nella pastorale giovanile.
    Due li voglio ricordare, anche per rileggere, in modo trasversale, la ricerca.
    La ricerca documenta l’esistenza e l’incidenza di molti interventi fattibili… anche nell’attesa di risolvere la crisi dei luoghi tradizionali della formazione religiosa. Basta pensare all’influsso di esperienze forti e di eventi significativi. La ricerca documenta infatti uno spaccato interessante della storia della pastorale giovanile italiana, intessuta delle mille brillanti iniziative di questi anni. Forse i risultati non sono quelli che la fatica e l’entusiasmo poteva far prevedere… ma non sappiamo come sarebbero andate le cose se tutto questo non fosse stato messo in cantiere.
    La seconda nota riguarda il volto non… esposto della constatazione. Sono convinto che i fatti documentati rappresentino una linea di tendenza da cui non si può sfuggire tanto facilmente. Anche i luoghi educativi protetti e quelli dove il contesto culturale sembra reggere, con tutta probabilità saranno attraversati da quegli influssi che hanno messo in crisi molti degli approcci tradizionali. Se è vero che gli esiti positivi sull’esperienza religiosa dei giovani sono legati ad esperienze e incontri speciali, la loro assenza porrà presto problemi dalla difficile soluzione.

    Il peso della soggettività nelle espressioni religiose concrete

    Un’altra conferma ci offre la ricerca: il peso della soggettività personale sul modo di comprendere e vivere la propria religiosità e di manifestarla attraverso le conseguenti espressioni religiose.
    La constatazione può dare da pensare ai non pochi educatori e operatori di pastorale giovanile che considerano l’influsso della soggettività un grave problema, da affrontare e risolvere con tutte le strumentazioni disponibili.
    In questo modo di fare, il confronto con la realtà (che documenta la soggettivizzazione) serve a manifestare la distanza tra l’esistente e il dover-essere. E se invece questa ricerca ci aiutasse a cogliere un dato da accogliere, contestualizzare e interpretare ambiguo, come tutti i dati di fatto? Non è sufficiente segnare con sicurezza i limiti, immaginandoli insuperabili. Forse l’urgenza è davvero un’altra.
    Chi pensa ad una pastorale giovanile che sa incarnarsi disponibilmente e criticamente nel vissuto concreto dei giovani e nei processi culturali in atto, fa di tutto per ripensare le prospettive operative in un confronto che ridimensiona, con la stessa intensità, quello che ci viene dalla tradizione e quello che constatiamo nella realtà attuale…
    In questi anni, questo modo di fare è stato classificato con una espressione che può suonare strana e complessa: «approccio ermeneutico». Possiamo trovare altre formule… ma il dato resta, radicato nella ricomprensione più matura della fede stessa dalla prospettiva dell’evento dell’Incarnazione.

    Il nodo dell’appartenenza

    Un punto di riferimento frequente è quello che riconosce l’appartenenza alla comunità ecclesiale come condizione fondamentale per l’esperienza e la maturazione della fede cristiana.
    I risultati della ricerca sembrano dare poche chance in ordine all’appartenenza alla comunità ecclesiale ufficiale (nelle sue espressioni istituzionali) e alla relativa educazione…
    La pastorale giovanile è convinta – e non potrebbe essere diversamente – che senza una forte appartenenza alla comunità ecclesiale sia difficile la trasmissione della fede e la sua interiorizzazione. E in questi anni, quando ormai la constatazione del dato era di dominio comune, la pastorale giovanile si è abituata a progettare elementi di sostegno verso questa appartenenza. Basta pensare all’enfasi sulla funzione del gruppo giovanile a questo proposito.
    I dati della ricerca mettono in evidenza alcuni elementi che provocano e sollecitano a ripensare constatazioni che spesso sono date come pacifiche:
    – la religiosità giovanile percorre riferimenti più ampi di quelli strettamente legati alla comunità ecclesiale in senso stretto: in situazione di sincretismo e di pluralismo… sembra quasi che il bisogno di appartenenza sia risolto alla carta, con conseguente riduzione della appartenenza istituzionale ad una questione poco rilevante;
    – nei confronti della istituzione ecclesiale ufficiale permangono difficoltà di valutazione. Si può assicurare appartenenza ad una «struttura» ecclesiale (istituzioni, persone, avvenimenti) valutata significativa, ma c’è davvero interesse scarso ad allargare verso altri ambiti;
    – la partecipazione a iniziative risente e risuona sull’indice della soggettivizzazione: un peso notevole è gestito dall’emotività.
    Si può discutere sulla rappresentatività di questi fatti e sulla quantità di giovani che ne sono segnati; la ricerca non ci permette però di dormire sogni tranquilli e ci sollecita a guardare in avanti, verso prospettive di futuro che sono soprattutto da immaginare e sperimentare.

    Un processo aperto

    L’ultima constatazione attraversa tutti i dati della ricerca: la religiosità giovanile (sul piano dei comportamenti, degli atteggiamenti e, in qualche modo, della riorganizzazione di personalità, come appare dalle tipologie) si colloca all’interno di un processo «aperto» sul piano dell’elemento scatenante, degli influssi e delle manifestazioni, dell’esito.
    È interessante constatare l’influsso che la famiglia di appartenenza esercita sulla qualità di questo processo.
    E questo fatto sembra sconfessare alcuni luoghi comuni.
    Non mi compete la verifica e neppure mi accontento della rilevazione del fatto.
    Mi piace sottolinearlo, a consolazione e a rilancio di responsabilità.
    Va comunque sottolineato, come appare dalla ricerca stessa, che l’influsso dell’ambiente famigliare non rappresenta né l’unico fattore né forse nemmeno il determinante.
    Ed è interessante annotarlo nell’attuale situazione dove si gioca spesso tra i rilanci alla funzione determinante della famiglia e la constatazione sofferta della sua crisi.

    SFIDE E PROSPETTIVE

    Una lettura pastorale della realtà difficilmente riesce a mettere in evidenza «fatti» tanto sicuri e convincenti da rappresentare il punto di partenza obbligato di un buon progetto.
    L’ho affermato precisando il senso e il limite della mia riflessione e lo constato cercando di rendere eloquenti i dati riscontrati.
    Qualcosa però di fortemente significativo i dati consegnano alla pastorale giovanile, con una risonanza che dipende moltissimo dalla sensibilità di chi li analizza. Per questo preferisco parlare di «sfide», nel senso che l’attuale situazione giovanile, accolta, compresa, interpretata e contestualizzata provoca la pastorale ecclesiale a fare i conti e a confrontarsi seriamente con alcuni dati di fatto.
    Quali siano in concreto è da ricercare assieme, in un approccio che dovrà essere decisamente interdisciplinare. Ed è quello che ci ripromettiamo di fare.
    Inizio la fatica, reagendo sulla mia sensibilità.

    Al primo posto la qualità della vita

    La ricerca propone materiale abbondante e pregevole sulla «cultura» giovanile attuale.
    In genere serve a misurare l’influsso della religiosità sulla qualità della vita.
    E se provassimo a capovolgere la prospettiva: procedendo dalla qualità della vita alla religiosità?
    Come ricordavo sopra, colloco infatti l’esperienza religiosa e le sue manifestazioni sul piano soprattutto degli atteggiamenti fondamentali della vita, quelli che riguardano il suo senso, le prospettive in cui realizzarla, la speranza e il suo fondamento.
    Posso concludere sulla persistenza o sulla carenza di una matura religiosità soprattutto su questi indicatori.
    Ci sono a livello giovanile, oggi?
    Non mi è facile trovare nella ricerca indicazioni che mi abilitino ad una risposta motivata e documentata.
    Due constatazioni mi hanno particolarmente provocato.
    Mi ha inquietato notevolmente la constatazione che la variabile «religiosità» influenza poco o nulla le dimensioni qualificanti per la qualità della vita (per esempio: l’immagine del futuro, la fiducia nel prossimo, il livello di soddisfazione, la percezione di sé…). E purtroppo, la ricerca e il supporto di molti fatti di cronaca documentano che l’omologazione non avviene sugli indicatori alti.
    Dove va a finire il notevole lavoro educativo e pastorale fatto in questi anni di grandi e coraggiosi impegni?
    La seconda constatazione nasce dall’impressione che sono molte, a livello giovanile, le incertezze relative al «futuro» e alle decisioni che esso comporta. Se ragionassimo a fil di logica, si potrebbe parlare di incoerenza (nella ricerca o nella realtà?). Credo invece che questo dato di apparente incoerenza può far parte di quella diffusa dimensione di soggettivizzazione, anche sugli orientamenti di fondo dell’esistenza, che caratterizza l’essere giovani in questo tempo e con cui è chiamata a fare i conti l’attuale pastorale giovanile, ancora eccessivamente prigioniera delle categorie tradizionali di coerenza.
    Il dato poi, letto dall’indicatore della qualità della vita, può davvero spalancare un notevole spazio educativo per un rilancio della stessa esperienza religiosa.
    In un quadro come questo c’è spazio per l’ulteriore e lo sfondamento del proprio vissuto, c’è posto, insomma, per una speranza capace di andare oltre il posseduto? Penso proprio di sì, nella passione di educatori sapienti, capaci di cogliere il positivo dell’esistente, per consolidarlo e spalancarlo verso livelli più alti, restituendo ali al trascendente.

    Ricostruire una nuova scansione temporale

    La ricerca conferma, almeno indirettamente, la diffusa crisi della sequenza temporale. Chiamo «sequenza temporale» il tipo di rapporto che viene instaurato, condiviso teoricamente e sperimentato praticamente, tra passato, presente, futuro, e cioè tra le tre dimensioni fondamentali del tempo.
    Questa crisi pone gravi problemi educativi e pastorali, perché la questione del tempo e della ricostruzione di una sua corretta scansione nei modelli di personalità, è centrale rispetto alla qualità della vita, del suo senso e della possibilità di viverla in modo autentico e maturo.
    Questa crisi rimbalza violentemente sulla esperienza cristiana. Viene dal passato (simboli, linguaggio, celebrazioni…); si proietta decisamente verso il futuro, e in qualche modo tende a dare poca o punta attenzione al presente.
    Qualcosa andrà progettato, se non vogliamo parlare lingue incomunicabili o se la pastorale giovanile non si rassegna ad accontentarsi di dialogare con quei giovani che sono solo casualmente di questo nostro tempo. Sulla frattura della scansione temporale si colloca, di conseguenza, anche il nodo del «linguaggio».
    La religiosità ufficiale utilizza sistemi simbolici di altre stagioni, che lasciano l’impressione, a chi vive questa stagione, di trovarsi in un continente sconosciuto che pretende di avere cose da dire alla vita quotidiana, ignorando poi tutto (o quasi) di essa.

    Il nodo della spiritualità

    Ho provato a verificare se e fino a che punto è documentabile, sui dati della ricerca, quel luogo comune che torna frequentemente tra gli addetti ai lavori, di un ritorno ad esigenze di spiritualità e alle sue manifestazioni.
    Non sono giunto a conclusioni sicure, soprattutto se lo sguardo si allarga dalla tipologia dei giovani più impegnati a tutto l’universo giovanile.
    Una cosa è certa: non possiamo dire, sulla forza dei dati, che se ritrovassimo il coraggio di proporre qualcosa di impegnativo, vedremmo i risultati. Non so se i risultati, abbastanza scarsi – se è vero che predomina l’emotività e la soggettivizzazione – dipendono solo dalla scarsità di proposte o dalla loro qualità, in rapporto alla stagione culturale attuale.
    Due convinzioni le ho recuperate:
    – da una parte c’è attesa, almeno implicita, di qualcosa di diverso rispetto a quanto si trova sul mercato attuale del senso;
    – dall’altra però ci penserei due volte a dichiarare che questa attesa ha come oggetto le proposte della comunità ecclesiale attuale, vista almeno la scarsa incidenza che essa riscuote. Le due convinzioni sono importanti per la pastorale giovanile.
    Se risolveremo la proposta di vita cristiana e di spiritualità nel gioco riduttivo tra domande e risposte, il respiro di futuro appare scarso o, al più, ristretto ad un giro di referenti che va progressivamente restringendosi. Se invece ritroviamo il coraggio e la gioia di fare proposte alte, con la fatica di renderle significative rispetto all’evento, vicine al mondo giovanile attuale, e soprattutto se riusciremo a consolidare quell’indice di riflessività che sa controllare l’emotività, gli esiti attuali – innegabili anche se non generalizzabili – si potranno certamente approfondire in qualità e in quantità.

    Il cammino dell’esperienza religiosa

    Mi ha colpito quella specie di processo logico che la ricerca documenta in merito al fatto religioso con cui molti giovani si incontrano.
    – La costatazione più diffusa sottolinea la poca rilevanza soggettiva per la vita quotidiana.
    – Qualcosa di imprevisto funziona come elemento scatenante l’attenzione: un incontro, un contatto, la partecipazione ad avvenimenti forti. Rinasce una certa disponibilità e interesse.
    – Risulta però in genere scarsa la fatica di assicurare approfondimento in vista dell’interiorizzazione dei significati dell’evento per la vita quotidiana.
    – Quello che è stato vissuto, anche con entusiasmo, resta quindi a livello superficiale o esteriore: non riesce a problematizzare la vita quotidiana.
    – La tentazione ad emarginare l’esperienza è facile, anche se consola un poco la constatazione, ben documentata nella ricerca, di «ritorni ad una certa età».

    I giovani sono «religiosi»?

    I giovani italiani sono religiosi?
    La domanda è molto precisa. A qualcuno piacerebbe rispondere, con la stessa precisione: sì oppure no.
    La ricerca non ci permette di soddisfare attese simili. L’unica risposta possibile è quella che nasce da distinzioni e interpretazioni.
    Nel valutare la presenza e la consistenza di una esperienza religiosa tra i giovani di oggi, è importante prendere atto dei modelli nuovi in cui essa viene vissuta. Questa novità è così caratteristica e qualificante, da risultare una specie di criterio di giudizio: se prevalgono i parametri tradizionali la risposta si colloca a livelli molti diversi da quella che può nascere quando sono utilizzati altri riferimenti.
    Questa constatazione spinge a studiare quello che capita nel mondo giovanile con uno sguardo attentissimo ai modelli culturali dominanti.
    Una vecchia e consolidata abitudine conduce molti educatori a pensare agli adole­scenti e ai giovani come un soggetto in fase evolutiva, segnato prevalentemente dai tratti psicologici di questa situazione. In fondo, si dice, i giovani sono sempre gli stessi, fragili e in­certi, inquieti e un po’ contestatori, poco riflessivi e molto sognatori, proprio perché sono giovani. Bisogna solo avere un po­co di amorevole pazienza e insistere quel tanto che è necessario e questi difetti congeniti spariranno con il tempo.
    Purtroppo le cose non vanno solo in questa logica. Molti tratti di personalità sono indubbiamente legati all’essere giovani. Essi però risuonano in modo particolare sulla lunghezza d’onda del tempo in cui viviamo.
    L’essere giovani risulta fortemente segnato dall’esserlo in questo tempo. L’influsso sociale e culturale del­la stagione e dell’ambiente in cui si vive, condiziona quello che è legato ai processi di crescita.
    Questo punto di prospettiva aiuta ad esprimere un giudizio, abbastanza generale, sulla situazione religiosa dei giovani: i giovani cercano e vivono la loro esperienza religiosa in un modo diverso da quello presente qualche decennio fa. Coloro che contestano l’importanza della dimensione religiosa della vita, lo fanno adducendo come ragione, almeno implicita, il recupero della loro soggettività. Coloro che si riconoscono nei modelli ufficiali di religiosità, lo fanno senza rinunciare affatto alle esigenze della loro soggettività. In fondo, i giovani sono… religiosi ad alto indice di soggettivizzazione.


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