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    Gesù è il vero pane

    Bruno Maggioni

     

    6,1. Poi Gesù passò all'altra riva del mare di Galilea, detto anche di Tiberiade.
    2. Lo seguiva molta folla, vedendo i segni che egli operava sugli infermi.
    3. Gesù salì sopra un'altura e là sedette con i suoi discepoli.
    4. Era vicina la pasqua, la festa dei Giudei.
    5. Alzando lo sguardo, Gesù vide molta folla che veniva verso di lui e disse a Filippo: Dove possiamo comperare del pane per dar loro da mangiare?
    6. Parlava così per mettere alla prova la sua fede. Egli già sapeva ciò che avrebbe fatto.
    7. Gli rispose Filippo: Duecento denari di pane non basterebbero neppure per darne un pezzetto a ciascuno.
    8. Soggiunse uno dei discepoli, Andrea, il fratello di Simone: C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci, ma che cosa sono per tutta questa gente?
    10. Disse Gesù: Fateli sedere. C'era molta erba. Si sedettero: erano quasi cinquemila uomini.
    11. Allora Gesù prese i pani, recitò la preghiera del ringraziamento e li distribuì alla gente seduta. Lo stesso fece dei pesci, quanti ne vollero.
    12. Quando ebbero mangiato, ordinò ai discepoli: Raccogliete le porzioni avanzate perché nulla vada perduto.
    13. Le raccolsero e con l'avanzo di quei cinque pani d'orzo – e dopo che tutti ne avevano mangiato – riempirono ben dodici canestri.
    14. Quanti avevano assistito al miracolo dicevano: Costui è davvero il profeta che deve venire nel mondo.
    15. Ma Gesù, accortosi che volevano rapirlo per farlo re, si ritirò di nuovo, solo, sulla montagna.
    16. Venuta la sera, i discepoli scesero al mare.
    17. Salirono su una barca e salparono per l'altra riva, in direzione di Cafarnao. Era già buio e Gesù non li aveva ancora raggiunti.
    18. Si sollevò un forte vento e il mare si ingrossò.
    19. Avevano già remato per alcune miglia, quando scorsero Gesù camminare sul mare e accostarsi alla barca. Ne ebbero paura.
    20. Ma Egli disse: Sono io, non temete.
    21. Allora lo volevano prendere sulla barca, ma questa subito toccò la riva alla quale erano diretti.
    22. Il giorno seguente la folla rimasta sull'altra riva si accorse che c'era là una sola barca e che Gesù non era partito in barca con i discepoli, ma questi erano partiti soli.
    23. Con altre barche, partite da Tiberiade, si avvicinarono al luogo sul quale, dopo che Gesù ebbe recitato la preghiera di benedizione, essi avevano mangiato il pane.
    24. Quando videro che non c'erano né Gesù né i suoi discepoli, risalirono in barca e si diressero verso Cafarnao in cerca di Gesù.
    25. Lo trovarono sull'altra riva e gli dissero: Maestro, quando sei giunto qui?
    26. Rispose: In verità in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete veduto dei segni, ma perché avete mangiato i pani e vi siete saziati.
    27. Impegnatevi non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura per la vita eterna, quella che il Figlio dell'uomo vi darà, perché Dio Padre ha segnato proprio lui col suo sigillo.
    28. Chiesero: Cosa dobbiamo fare per impegnarci nelle opere di Dio?
    29. Rispose Gesù: Questa è l'opera di Dio: credere in Colui che Egli ha mandato.
    30. Replicarono: Ma tu che segno fai perché noi possiamo vedere e credere in te? Qual è la tua opera?
    31. I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: ho dato loro da mangiare un pane disceso dal cielo.
    32. Disse Gesù: In verità in verità vi dico: non è Mosé che vi ha dato il pane venuto dal cielo, è il Padre mio che vi dà il vero pane venuto dal cielo:
    33. Il pane di Dio è infatti Colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo.
    34. Ed essi: Signore, dacci sempre di questo pane.
    35. Gesù precisò: Sono io il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete.
    36. Ma ve lo dissi: Voi mi avete veduto e tuttavia non imi credete.
    37. Tutti coloro che il Padre mi dà verranno a me, e chi viene a me io non lo respingerò,
    38. poiché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato.
    39. Ora è questa la volontà di Colui che mi ha mandato, che io non perda nessuno di coloro che Egli mi ha dato, ma lo resusciti nell'ultimo giorno.
    40. Questa è infatti la volontà del Padre mio: Che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna e io lo risusciti nell'ultimo giorno.
    41. I Giudei mormoravano perché Egli aveva detto: Io sono il pane disceso dal cielo.
    42. E dicevano: Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Non conosciamo suo padre e sua madre? Come ora dice di essere disceso dal cielo?
    43. Gesù disse loro: Non mormorate tra di voi.
    44. Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato. E io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
    45. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui viene a me.
    46. Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo Colui che viene da Dio ha visto il Padre.
    47. In verità in verità vi dico, chi crede ha la vita eterna.
    48. Io sono il pane della vita.
    49. I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto eppure sono morti.
    50. Questo è il pane disceso dal cielo: chi ne mangia non muore.
    51. Sono io il pane disceso dal cielo. Il pane che io vi darò è la carne per la vita del mondo.
    52. I Giudei si misero a dibattere fra di loro: Come può darci la sua carne da mangiare?
    53. Rispose Gesù: Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi.
    54. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
    55. Poiché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda.
    56. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me e io in lui.
    57. Come il Padre, il Vivente, ha mandato me e io vivo grazie al Padre, così chi mangia di me vivrà grazie a me.
    58. Questo è il pane disceso dal cielo. Non quello che mangiarono i vostri padri e sono morti. Chi mangia di questo pane vivrà in eterno.
    59. Gesù insegnò queste cose nella sinagoga di Cafarnao.
    60. Molti dei discepoli che lo avevano ascoltato dicevano: Questo è un linguaggio duro, come possiamo accettarlo?
    61. E Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano, disse loro: Questo vi scandalizza?
    62. E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima?
    63. È lo Spirito che vivifica, la carne non giova a nulla. Le mie parole sono Spirito e Vita.
    64. Ma vi sono tra voi alcuni che non credono. Gesù infatti sapeva fin dal principio chi erano coloro che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito.
    65. Soggiunse: Ecco perché vi ho detto che nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre.
    66. Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
    67. Allora Gesù disse ai dodici: Volete forse andarvene anche voi?
    68. Simon Pietro gli rispose: Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna.
    69. Noi abbiamo creduto e sappiamo che tu sei il Santo di Dio.
    70. Rispose Gesù: Non sono forse stato io a scegliere voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo.
    71. Alludeva a Giuda, figlio di Simone Iscariota, il quale stava per tradirlo, lui, uno dei dodici.


    Il lungo capitolo 6 del quarto vangelo si apre con due miracoli (la moltiplicazione dei pani e il cammino di Gesù sulle acque), prosegue con un discorso di Gesù ampio e articolato, e si conclude con un episodio in cui si racconta che molti dei discepoli si tirarono indietro e soltanto i dodici rimasero.
    Noi leggiamo questa lunga pagina sottolineandone gli aspetti dialogici. E difatti il capitolo è un vivacissimo dibattito, nel quale intervengono diversi interlocutori che si dispiegano a cerchi che sempre più si restringono: la folla, i Giudei, i discepoli, i dodici. Oggetto del dibattito è l'identità di Gesù. Tutti pongono domande, non comprendono o comprendono in modo superficiale, e si scandalizzano. Di fronte a queste posizioni Gesù reagisce con fermezza. E tanto più la fede dell'interlocutore si fa fragile e dubbiosa, quanto più la rivelazione di Gesù si fa profonda e decisa. È il motivo costante che Giovanni persegue nel suo intero vangelo, fin dall'inizio, ma che qui sembra affacciarsi con chiarezza particolare: da una parte, la rivelazione di Gesù che diventa sempre più chiara, dall'altra l'uomo che è costretto a manifestare sempre più scopertamente la sua adesione o il suo rifiuto. La crisi non è provocata dall'oscurità della rivelazione, ma dalla sua chiarezza. Gesù mette alla prova rivelando se stesso.
    Giovanni non teme la ripetizione: tutte le sue pagine trattano il tema della rivelazione e la sorte che essa incontra nel cuore dell'uomo. Ma si tratta di una ripetitività che affascina il lettore, costringendolo costantemente a interrogarsi.
    Il dibattito si svolge, poi, all'interno di uno schema tipico della concezione giovannea della rivelazione: il gesto, la parola che spiega il gesto, la fede o l'incredulità. Il segno (o il gesto) avvicina chi lo scorge, ma la parola che lo spiega lo allontana. Il segno ha sempre una sua ambiguità che permette all'osservatore di interpretarlo a modo proprio. La parola che lo spiega costringe, invece, a interpretarlo in relazione alla persona di Gesù. Per questo la crisi avviene di fronte al segno spiegato. Di fronte ai segni non si deve frettolosamente concludere, come hanno fatto Nicodemo e i molti di Gerusalemme. Occorre che fra la constatazione del segno e la sua comprensione intervenga un incontro con la Parola.

    Il segno

    Il miracolo della moltiplicazione dei pani è stato considerato particolarmente importante da tutta la tradizione evangelica, tanto che tutti gli evangelisti lo ricordano, cosa che non accade per nessun altro miracolo. Senza dire, poi, che Marco e Matteo lo raccontano addirittura due volte. E Giovanni, da parte sua, non si accontenta di raccontarlo, ma lo fa seguire da un ampio discorso che lo commenta.
    La narrazione di Giovanni (6,1-15) assomiglia molto a quella di Marco (6,35-44). Tuttavia ci sono alcune differenze non prive di significato. Per esempio: non sono i discepoli che attirano l'attenzione di Gesù sul bisogno della folla, ma è Gesù che attira l'attenzione dei discepoli. Ed è Gesù stesso, non i discepoli, che distribuisce i pani e i pesci alla folla seduta. Piccole novità che però tradiscono una intenzione: porre al centro Gesù, non i discepoli.
    Tipico di Giovanni è anche il dialogo – garbatamente ironico – di Gesù con Filippo e poi con Andrea. Il suo scopo è di mettere in luce l'incapacità dell'uomo a risolvere il caso, la situazione di radicale impossibilità nella quale l'uomo si trova. E questo non solo per far risaltare poi la grandezza del miracolo e la potenza di Gesù, ma per far risaltare che la salvezza è dono, viene da Dio e non dall'uomo.
    Il racconto è punteggiato di allusioni all'eucaristia. Così l'annotazione che Gesù prese i pani e li distribuì è una chiara allusione al gesto dell'ultima cena. L'espressione di Gesù «pronunciò la preghiera del ringraziamento», suona letteralmente: «fece eucaristia». E anche il comando di raccogliere gli avanzi perché nulla andasse perduto, sembra essere un gesto che apparteneva al rituale eucaristico antico.
    Ma il tratto più tipico è un altro, e cioè il contrasto tra le folle che cercano Gesù per farlo re e Gesù che si sottrae alla loro ricerca ritirandosi, solo, sulla montagna. Gesù assumerà lo stesso atteggiamento anche a conclusione del suo intero ministero pubblico: «Egli disse queste cose, poi se ne andò e si nascose da loro» (12,36).
    La religiosità popolare attendeva per il tempo messianico il rinnovamento del miracolo della manna. Per questo, di fronte al miracolo dei pani, la folla subito vede in Gesù il profeta atteso (Dt 18,15). La gente vuole farlo re. Ma Gesù delude totalmente l'entusiasmo popolare. Il suo messianismo è diverso, la strada che egli intende percorrere è diversa. Eppure di fronte a Pilato riconoscerà di essere re, e la sua regalità sarà scritta sulla Croce in tre lingue. Ma allora, nel contesto della passione, gli equivoci non saranno più possibili. L'errore della folla è di aver letto frettolosamente il segno, alla luce di uno schema già noto, senza aspettare la rivelazione della novità di Gesù.

    Io sono

    Il racconto di Gesù che cammina sul mare (6,16-21) dà l'impressione di essere incompiuto. L'evangelista annota che il mare si era ingrossato (6,18) e il lettore si aspetterebbe che Gesù cammini sul mare per aiutare i discepoli in difficoltà e che il miracolo consista nel placare il mare in burrasca. E invece nulla di tutto questo [1]. Al posto di una tempesta placata si parla – sembrerebbe – di uno sbarco miracoloso (6,21). Ma neppure questo interessa più di tanto all'evangelista. Non sta parlando di Gesù che viene in soccorso dei discepoli, ma di Gesù che è il Signore maestoso, sottratto ai limiti della natura. Tutto è racchiuso nell'affermazione «Io sono» (6,20), che è l'equivalente del nome divino [2].
    Visto così, l'episodio appare un correttivo al fraintendimento della folla. Gesù non è semplicemente un profeta, tanto meno un re politico, ma è la presenza maestosa e salvifica di Dio fra gli uomini [3].

    Quando sei venuto qui?

    Il quadro narrativo di 6,22-25 è ritenuto da molti una costruzione artificiosa, una sorta di sommario stilisticamente duro e non senza strappi, segno forse che lo scrittore non è riuscito ad armonizzare perfettamente nel suo contesto le tradizioni di cui disponeva. In realtà per il nostro tipo di lettura le annotazioni di questo quadro narrativo svolgono funzioni essenziali. Costruiscono un uditorio attorno a Gesù. Sono il ponte che unisce il segno della moltiplicazione dei pani al discorso di Gesù che lo spiega. Sostituendo il singolare «pane» al plurale «pani» del racconto della moltiplicazione orientano in direzione dell'intero discorso: Gesù è il vero e unico pane.
    Soprattutto ripropongono il contrasto tra ciò che la gente cerca e ciò che Gesù è pronto a darle. Ciò che la gente pensa e ciò che Gesù è veramente sono due realtà diverse su due piani differenti. Le folle si dirigono verso Cafarnao «in cerca di Gesù» e lui si lascia trovare (6,24-26), ma per criticare la loro ricerca. Cercare (zetein) e trovare sono due verbi che appartengono al vocabolario dell'incontro col Signore. Ma la domanda che le folle rivolgono a Gesù («Maestro, quando sei venuto qui?») svela tutta la superficialità del loro cercare e l'illusione del loro trovare.
    Gesù non risponde all'interrogativo, lo ignora come totalmente irrilevante, una curiosità più che un vero desiderio di scoprire il senso del suo cammino. La questione importante non è di sapere quando Egli è venuto, ma di interrogarsi sulle vere motivazioni per cui lo si cerca (6,26).
    Nello sforzo di Gesù di spostare l'attenzione della folla è già racchiuso un importante insegnamento: spesso le esplicite domande che l'uomo pone non sono le più importanti e il primo compito di Gesù è di orientarle nella giusta direzione. Per poter rispondere Gesù cambia le domande.
    Alla inutile curiosità della folla, Gesù contrappone un rimprovero formulato con particolare solennità: «In verità in verità vi dico: Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato i pani e vi siete saziati» (6,26). Strano in apparenza, ma in realtà significativo il plurale «i segni». Quali segni? La folla ha assistito al miracolo dei pani, ma non al cammino sulle acque. Probabilmente il plurale fa riferimento alla notizia riportata in 6,2 e, più in generale, a tutta l'opera di Gesù. Il suo rimprovero non vale soltanto in quel caso e per quella folla: è più generale.
    La contrapposizione è tra vedere i segni e mangiare i pani. In realtà ciò che Gesù ha compiuto è stato proprio una moltiplicazione dei pani per dar da mangiare alla gente e per saziarla. Ma il miracolo avrebbe dovuto essere letto come un segnale rinviante. La ragione dell'incomprensione è, dunque, la cecità dell'uomo di fronte alla forza rinviante del segno. I segni di Gesù – anche se raggiungono l'uomo nei suoi bisogni più elementari – rinviano sempre al centro del mistero della sua persona.
    Gesù chiarisce, poi, il suo pensiero ricorrendo al contrasto fra il cibo che perisce e il cibo che non perisce (6,27). La gente cerca una salvezza terrena, non quella che Gesù è venuto a portare. Cerca la soluzione di problemi immediati, che però lasciano del tutto irrisolto il problema più profondo. Spesso la gente cerca cose che poi deludono. Bisogna invece darsi da fare (ergazein: lavorare) per un cibo duraturo, che non delude: il pane che viene dal mondo di Dio e che sarà dato dal Figlio dell'uomo. Ciò che non delude non può essere che un dono di Dio, non il frutto dello sforzo dell'uomo. È dunque una salvezza da cercare nella direzione del dono e della gratuità, non della conquista.

    Che cosa dobbiamo fare?

    Tuttavia gli uomini sono spesso convinti che la salvezza sia proprio una conquista, un lavoro da fare, come appunto chiedono a Gesù equivocando il verbo (ergazein) da lui stesso usato: «Che cosa dobbiamo fare per compiere (ergazein) le opere (erga) di Dio?» (6,28). Questa domanda della gente mostra un'altra ragione di profondo contrasto fra il modo dell'uomo di pensare la propria salvezza e il modo di Gesù.
    Nel botta e risposta fra Gesù e i suoi interlocutori (6,28-29) si nota un passaggio da opere a opera, dal plurale al singolare. Le opere sono i precetti, i comandamenti, le prescrizioni da eseguire. Per Gesù una sola è l'opera (il termine è intenzionalmente usato per far risaltare il contrasto), cioè la fede. Cercare Dio con tutto il cuore non è compiere le opere della legge, non è osservare una serie di pratiche, ma la fede. Questa precisazione di Gesù (o questo secondo contrasto fra le due ricerche) mostra ancora che il cibo che Gesù offre come vero oggetto della ricerca non è frutto della propria fatica, ma è un dono di Dio, come è indicato dalla presenza del verbo didomi (donare). La vera ricerca non è un'ascesa dall'uomo verso Dio, ma l'accoglienza di un dono che discende. Questo è chiaramente indicato, lungo il discorso, anche da altre due affermazioni: «Nessuno può venire a me se il Padre non lo attira» (6,44) e «Nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre» (6,65).
    Credere in Gesù è l'opera che sostituisce le opere. Il vangelo di Giovanni è un costante appello alla fede. Ma quale fede? Nel quarto vangelo non ricorre mai il sostantivo astratto «fede» (pistis), ma sempre il verbo «credere» (pisteuein). La fede è una realtà dinamica, un cammino, non uno stato immobile. Giovanni usa molto frequentemente –come anche qui (6,29) – la forma pisteuein eis (credere in) seguita dall'accusativo, come un moto a luogo. Nella quasi totalità dei casi, come anche qui nel nostro, il termine verso cui la fede si protende è la persona di Gesù. «Credere in» è lo slancio del cuore, l'adesione di tutta la persona. Crede in Gesù colui che lo ascolta e insieme lo ama.
    La gente chiede un segno per poter credere in Gesù (ma non ne hanno appena visto uno?) e fa riferimento alla manna e a Mosè (6,31), mostrando in tal modo di essere volta al passato. Gesù invece (6,32) scorge nel miracolo della manna la prefigurazione del vero pane che è la sua Parola e la sua Persona. La vera ricerca è ancorata a Lui, non al passato. È una novità non una riedizione.
    «Ma tu che segno fai?»: la folla chiede sempre segni e vorrebbe essere lei stessa a decidere quali. Ma Gesù non ne fa, perché sa che non è questione di segni più o meno numerosi, più o meno splendidi. Non è questo che porta alla fede. Si tratta, invece, di leggere diversamente i segni che già ci sono e che Dio – a modo suo e nella sua libertà – decide di offrire. In ogni caso, il vero segno non è più la manna, ma Gesù, la sua persona e la sua vita, il suo modo nuovo e autentico di parlare del Padre, la sua totale e disinteressata dedizione. Il grande segno è Gesù: «Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: mostraci il Padre?» (14,9). Nessun altro segno riuscirà mai a mostrare con più chiarezza il volto del Padre.
    Il fossato tra la folla e Gesù si è progressivamente allargato sempre maggiormente. Le folle cercano la ripetizione della moltiplicazione dei pani, un salvatore terreno, una salvezza attraverso le opere. E trovano invece Gesù da riconoscere e accogliere nella fede. È un ritrovamento che disorienta e scandalizza, e tuttavia è proprio ciò che l'uomo dovrebbe cercare, l'unico vero pane che sazia.

    Io sono il pane

    Di fronte all'insistenza con cui Gesù parla del pane che dà la vita, la gente alla fine chiede: «Signore, dacci sempre di questo pane» (6,34). È una domanda simile a quella della samaritana: «Signore, dammi di quest'acqua» (4,15). Nel caso della donna, però, il desiderio, pur sincero, è ancora sopraffatto dall'incomprensione («così non verrò più ad attingere»). Qui, invece, ciò non è detto. Un desiderio sincero o una domanda ironica? Hanno capito qualcosa del discorso di Gesù o ancora nulla? L'evangelista non precisa e noi rispettiamo il suo silenzio.
    A quest'ultimo intervento della folla (poi si parlerà dei Giudei, non più della folla) Gesù risponde, ma a modo suo, come sempre. Precisa che il pane di vita è Lui stesso (6,35); ricorda le condizioni per riconoscerlo e riceverlo (6,36); spiega la natura della vita che è venuto ad offrire (6,38-40).

    «Io sono il pane della vita» (6,35): questa esplicita affermazione di Gesù si inserisce in una serie di rivelazioni – dapprima velate poi sempre più chiare – che hanno per oggetto la sua persona. Penso sia utile leggerle insieme: «Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che il Figlio dell'uomo vi darà» (6,27); «Il pane di Dio è Colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (6,33); «Io sono il pane di vita» (6,35); «Io sono il pane della vita» (6,48); «Io sono il pane vivo disceso dal cielo» (6,51); «Questo è il pane disceso dal cielo» (6,58). Dalle affermazioni elencate appaiono con grande chiarezza le due coordinate che delineano l'identità di Gesù. Egli è il pane venuto dal cielo: ecco la sua origine divina, il suo essere Figlio che egli ha manifestato con la sua totale obbedienza al Padre. Gesù è il pane per la vita del mondo: ecco la seconda coordinata, la direzione costante della sua esistenza, la sua totale dedizione agli uomini.
    Dichiarando di essere il pane, Gesù avanza una pretesa non priva di una punta polemica, come sempre nelle formulazioni con «Io sono». Gesù afferma di essere il pane di cui ogni uomo ha bisogno, l'approdo di ogni ricerca, la realizzazione del progetto per cui ogni uomo è stato pensato. Nel contempo Gesù prende le distanze da ogni altra ricerca e da ogni altra pretesa di salvezza: è lui il pane, non altri.

    La condizione per ricevere in dono il pane della vita è la fede: «Chi viene a me... chi crede in me» (6,35). Ma non tutti credono: «Voi mi avete veduto e tuttavia non credete» (6,36). Vedere e credere: nel vangelo di Giovanni il rap-
    porto fra i due verbi è complesso. C'è un vedere credente, che penetra nella persona e nella storia di Gesù (la «carne») scoprendovi la «gloria» dell'Unigenito. C'è un vedere che non scorge nulla, incapace di andare oltre il velo della realtà fenomenica. Difatti molti hanno visto lo svolgersi della storia di Gesù, ma hanno visto dall'esterno, come uno spettatore che si pone a lato: hanno visto e non hanno creduto. C'è, infine, la beatitudine di coloro che crederanno senza aver veduto (20,29). Come e perché avviene che alcuni credono e altri no è ultimamente il mistero della libera grazia del Padre: «Tutti coloro che il Padre mi dà verranno a me» (6,37).

    Nelle ultime battute (6,38-40) indirizzate direttamente alle folle, Gesù sembra voler determinare meglio il concetto di vita già più volte accennato e - soprattutto – chiarire e approfondire il suo rapporto col Padre.
    Gesù parla di «vita eterna» e di «risurrezione nell'ultimo giorno» (6,40; cfr. 6,39.54). Vita eterna è espressione già incontrata nei dialoghi con Nicodemo (3,14-16) e con la Samaritana (4,14.36). In questo discorso del pane l'espressione ricorre più di dieci volte. Vita è la metafora che Giovanni preferisce per dire il disegno salvifico di Dio nella sua complessità. In diciassette casi il termine vita è seguita dall'aggettivo eterna, ma solo quando si tratta della vita che il Figlio dona agli uomini, mai per la vita posseduta dal Figlio stesso [4]. Eterna esprime la durata della vita e soprattutto la sua qualità. E una vita senza fine in contrapposizione alla caducità della vita dell'uomo (6,39.40.54). Ed è una vita che appartiene al mondo di Dio, non a questo mondo terreno: una vita donata da Dio e con Dio, la stessa vita divina partecipata ai credenti. Giovanni non dimentica mai di ricordare che questa vita che il cristiano riceve ha la forza di vincere la morte (6,39.40.54). Tuttavia ama sottolineare che la nuova vita è una realtà già presente nel cristiano, capace già ora di trasformarne l'esistenza (3.15.16.36; 5,24; 6,40a). Gesù non parla di vita senza riferirsi al Padre. È il Padre che dà la vita al mondo, ma lo fa tramite il Figlio. Il cammino della vita va dal Padre al Figlio e dal Figlio agli uomini. In questo cammino gli uomini non compaiono mai da protagonisti, ma semplicemente come destinatari.
    E Gesù il pane di vita ed è in Lui che occorre credere, questo è ripetutamente detto. Il vangelo di Giovanni è cristologico in tutte le sue parti. Ma altrettanto ripetutamente viene affermato – come già nei dialoghi con Nicodemo e con la Samaritana – che la centralità di Cristo è uno spazio che si apre sul Padre. Qualsiasi cosa dica o faccia, Gesù si pone sempre all'ombra del Padre: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia propria volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato» (6,38). Nel suo dono vuole che si scorga il dono del Padre (6,39). Anche Gesù – come il discepolo – sembra tirarsi da parte per non rubare spazio alla gloria del Padre. La sorgente della vita è il Padre, che però dona la vita solo tramite il Figlio.

    La mormorazione dei Giudei

    Di fronte all'affermazione di Gesù («Sono disceso dal cielo»: 6,38), i Giudei reagiscono protestando e mormorando. Il verbo «mormorare» è usato già nel libro dell'Esodo a proposito degli israeliti che nel deserto protestano contro Mosè e Aronne: «Era meglio morire nel paese d'Egitto, dove per lo meno avevamo pentole di carne e pane a sazietà! Voi invece ci avete condotti nel deserto per farci morire di fame» (16,3). Lo stesso verbo è ripreso da Paolo (1Cor 10,10) per ricordare il comportamento dei Giudei nel deserto e per invitare i cristiani a non fare altrettanto: «Non mormorate, come alcuni di essi mormorarono, e furono distrutti dallo sterminatore». Mormorare è dunque la protesta dell'uomo nei confronti del piano di Dio, una reazione fatta di delusione, sconcerto, insofferenza e rivolta. La salvezza di Dio è un cammino di liberazione che passa attraverso il deserto, mentre l'uomo vorrebbe subito la libertà senza pagarne il prezzo e il rischio, e durante la fatica del cammino ha spesso la nostalgia della schiavitù.
    Nel nostro passo (6,41) la ragione della mormorazione dei Giudei è la stessa persona di Gesù. Di fronte al miracolo del pane le folle non hanno compreso. Ora i Giudei vanno più in profondità: non riescono a convincersi dell'origine divina di Gesù. Il suo aspetto terreno,, fenomenico (è il figlio di Giuseppe e se ne conoscono il padre e la madre: 6,42) sembra loro inconciliabile con la sua proclamata origine divina («Sono il pane disceso dal cielo»). È lo scandalo che nasce dal contrasto tra la pretesa di Gesù da una parte e la sua realtà storica e umana dall'altra. I Giudei non sanno vedere «la gloria dell'Unigenito» nella «carne» dell'uomo Gesù. Le folle si sono scontrate con un diverso schema messianico: non un re politico e liberatore, ma un profeta che offre la Parola. I Giudei, più profondamente, si scontrano con una diversa teologia: una presenza divina che, anziché assumere i tratti dello splendore e della potenza, assume quelli di una storia che pare così comune! È uno scontro fra due modi opposti di pensare l'epifania di Dio.

    Di fronte alle mormorazioni dei Giudei, Gesù non discute, ma afferma. Non si sottrae allo scandalo né lo attenua. Lo ribadisce: «Sono io il pane di vita» (6,48), «Sono io il pane disceso dal cielo» (6,51). Gesù ha tutte le fattezze dell'uomo, dell'uomo comune, e tuttavia è proprio in questo uomo che si è manifestato l'Assoluto, che qui e non altrove è apparso, e qui e non altrove va cercato. C'è un'insistenza in questo «non altrove». Non è il pane di Mosè che dà la vita, dice Gesù: «I vostri padri mangiarono la manna nel deserto, eppure sono morti» (6,49). Non è più in quella direzione che va cercata la salvezza. E aggiunge: «Nessuno ha visto il Padre, tranne colui che viene da Dio» (6,46). Il libro dell'Esodo racconta che Mosè chiese a Dio di vedere il suo volto, ma il Signore rispose: «Tu non puoi vedere il mio volto e restare vivo» (33,20). A Mosè fu concesso di vedere il Signore di striscio, ma non faccia a faccia. Gesù invece contempia direttamente il volto del Padre. Perciò Lui solo può dire di essere il vero pane, cioè la rivelazione, la Parola e la sapienza, la presenza di Dio di cui l'uomo ha fame.
    L'Antico Testamento è tutto percorso da un'ansiosa ricerca della Parola di Dio («Non di solo pane vive l'uomo!») che rischiara il cammino della vita e ne rivela il senso. Si legge nel profeta Amos (8, 11-12): «Verranno giorni in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare la Parola del Signore». Nella tradizione giudaica la manna era divenuto il simbolo della Parola. E i Giudei l'attendevano di nuovo in dono, abbondantemente. Gesù afferma che proprio lui, il figlio del falegname, riassume in sé tutta questa attesa e la porta a compimento.
    Di fronte al rifiuto dei Giudei Gesù non si limita a denunciare l'incredulità. Riprende il discorso sulle condizioni
    della fede. Il pensiero è tanto importante che Gesù lo ripete due volte: «Nessuno viene a me se il Padre non lo attira» (6,44); «Chi ascolta il Padre e si lascia da lui istruire viene a me» (6,45). L'origine della fede è l'iniziativa del Padre (la fede è dono), e la condizione richiesta da parte dell'uomo è la docilità (ascoltare e lasciarsi istruire). Nessuno può far sorgere dentro di sé il movimento della fede senza l'attrazione del Padre. Credere in Gesù non è in potere dell'uomo. All'uomo è unicamente richiesto – ma proprio questo è il punto critico – di acconsentire alla Parola che gli viene offerta.

    La mia carne per la vita del mondo

    Dopo aver scandalizzato i Giudei affermando di essere il pane disceso dal cielo, Gesù ora li scandalizza ancora di più proclamando che il pane che egli darà è «la sua carne per (uper) a favore della vita del mondo» (6,51). Scandalizzati da questa affermazione, i Giudei discutono fra loro animatamente (il verbo greco machomai significa addirittura lottare, duellare, opporsi): «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (6,52). La domanda può assumere due accentuazioni: come è possibile mangiare la sua carne? Come è possibile che la sua carne diventi vita per il mondo? Nell'un caso come nell'altro l'incomprensione dei Giudei è totale.
    A questo punto Gesù non discute più neppure con i Giudei. Il dialogo c'è stato e anche la sua pazienza, ma ora tutto è ormai detto. C'è spazio soltanto per il sì e per il no. E difatti Gesù non discute, ma ribadisce: «La mia carne è vero cibo e la mia carne è vera bevanda» (6,55). La tradizione cattolica ha sempre compreso, e a ragione, che qui Gesù passa dal pane che è la sua Parola al pane che è l'Eucaristia. Un autore del primo secolo non avrebbe potuto intendere le espressioni contenute in 6,51-58 senza pensare all'Eucaristia. E nessun lettore del tempo le avrebbe intese diversamente. Secondo diversi studiosi si tratterebbe di espressioni inserite nel discorso in un secondo momento: dal pane, che è la parola di Gesù da accogliere nella fede, si sarebbe così passati alla carne e al sangue da mangiare e bere. L'opinione può avere dalla sua parte qualche ragione. Sta di fatto, però, che ora queste affermazioni fanno parte integrante del discorso. E si deve riconoscere che con la sua inserzione (ammesso che l'ipotesi sia vera) il redattore ha compiuto un lavoro intelligente. Ora infatti tutto il discorso si muove attorno a una felice ambiguità: leggendo le prime battute si pensa già al sacramento, e leggendo le ultime si pensa ancora alla Parola. In altri termini, il discorso sviluppa parallelamente il tema della Parola e il tema del sacramento. Due realtà talmente congiunte che non si vede dove termina l'una e dove inizia l'altra.

    È come se Gesù avesse voluto combattere simultaneamente su due fronti. Contro coloro (in qualche modo rappresentati dalle correnti giudaizzanti) che erano alla ricerca di gesti materiali a scapito dell'unica opera che è la fede: a costoro il discorso ricorda l'ascolto e la Parola, ricorda che il sacramento può divenire un gesto magico profondamente incompreso, se non avviene all'interno di un incontro vivo e personale con il Signore. E contro gli spirituali, gli illuminati, portati a svuotare di ogni senso il gesto, il sacramento e, alla fine, la stessa incarnazione, con il pretesto che ciò che conta è l'ascolto della Parola e la vita: contro costoro il discorso parla con estremo rilievo di carne e di sangue, di mangiare e bere.
    Inserita nel complesso del discorso come parte integrante, l'Eucaristia non corre più il pericolo di essere considerata una realtà isolabile, un sacramento a se stante. Diventa, invece, il punto riassuntivo, il più panoramico, dell'intera esistenza di Gesù e del suo significato di salvezza. Carne e sangue è l'esistenza di Gesù dall'incarnazione (1,14) al martirio. I testi eucaristici dei sinottici e di Paolo parlano di «corpo», Giovanni preferisce invece la parola «carne» (sei volte in pochi versetti), probabilmente per sottolineare il realismo dell'incarnazione contro opinioni che, al contrario, negavano al Figlio di Dio la possibilità di assumere una vera e propria umanità. Lo scontro tra Gesù e i Giudei assume così i contorni delle diatribe che hanno travagliato la comunità cristiana successiva.

    Gesù e i discepoli

    L'incredulità non è soltanto della folla e dei Giudei. Coinvolge anche la cerchia dei discepoli. Questi mormorano (6,61) esattamente come Israele nel deserto e come i Giudei di fronte alla pretesa di Gesù di essere disceso dal cielo. La ragione della mormorazione è la durezza del discorso di Gesù: «Questo discorso è duro, come possiamo accettarlo?» (6,60). L'aggettivo duro (sclerotico, duro come una pietra) è nei vangeli abitualmente adoperato per descrivere il cuore dell'ascoltatore, il cuore indurito che non comprende. Qui è invece adoperato per il discorso stesso. Frequentemente si pensa che il discorso duro si riferisca soprattutto all'Eucaristia, cioè alla presenza del Cristo nel pane e nel vino, una presenza giudicata impossibile. In realtà il discorso duro si riferisce a tutto il contenuto del capitolo 6, non a un punto soltanto: l'offerta di una salvezza che supera le attese dell'uomo, l'origine divina di Gesù, la necessità di condividere la sua esistenza, l'accoglienza della rivelazione, soprattutto la Croce.
    La vera durezza del discorso è la Croce, come le espressioni corpo e sangue chiaramente suggeriscono. "É stata la prova di Gesù ed è la prova per ogni discepolo. Con una precisazione importante: la Croce non è soltanto l'icona di un uomo che muore per il suo Dio, ma l'icona di un Figlio di Dio che dona la vita per l'uomo. È questo il capovolgimento che scandalizza: uno scandalo teologico, una durezza teologica. Dare la vita per Dio è un discorso certamente duro, ma che si può anche comprendere. Che Dio abbia dato la sua vita per l'uomo è invece un discorso teologicamente scandaloso (anche se per il cristiano costituisce l'affascinante novità del suo Dio). Ma è una prova, questa, che Dio non può evitarci. Se lo facesse, ci ingannerebbe. Fosse sceso dalla Croce (come scribi e sacerdoti chiedevano), avrebbe nascosto la novità del suo volto, non ci avrebbe rivelato la profondità di se stesso.
    Tutto questo è il discorso duro: duro da capire, non soltanto da praticare (così il doppio significato di akouein). «Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro» (6,66), si legge. Tirarsi indietro è proprio il contrario della sequela che è un movimento in avanti, proteso verso una condivisione sempre più profonda.

    Di fronte all'incredulità che ha ormai raggiunto il cuore della sua comunità, Gesù non cambia nulla: non muta le sue parole né le rispiega: sarebbe stato inutile. Spinge invece la riflessione alla radice della fede, in quella misteriosa profondità in cui la grazia del Padre e la responsabilità dell'uomo sono chiamate a incontrarsi. È lì che avviene l'accettazione o il rifiuto. «E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dove era prima?» (6,62): è questa una prima risposta di Gesù, che però è incompleta e rimane, perciò, oscura. Alcuni esegeti la completano così: se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dove era prima, cioè ritornare al Padre passando per la Croce e la risurrezione, allora il vostro scandalo sarebbe eliminato. Altri invece: se vedeste il Figlio dell'uomo ritornare là dove era prima, allora sì che il vostro scandalo sarebbe ancora più grande.
    Più chiare e più importanti sono altre affermazioni di Gesù (6,63)): «E lo Spirito che vivifica, la carne non giova a nulla»; «Le mie parole sono Spirito e vita»; «Nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre» (6,65). È la riproposta del motivo della grazia. L'uomo è impotente («la carne non giova a nulla»), soltanto lo Spirito di Dio può far rinascere l'uomo e aprirlo a nuovi orizzonti («Lo Spirito vivifica»). L'uomo non può ottenere la vita da se stesso. Soltanto se rinuncia alla pretesa di fare da sé e riconosce la sua povertà, si pone in condizione di aprirsi alle parole di Gesù.

    Di fronte all'incredulità che ha raggiunto anche «i molti discepoli», Gesù costringe i dodici - la cerchia più ristretta e più amata della sua comunità - a non sfuggire il problema: «Volete andarvene anche voi?» (6,67). A nome dell'intero gruppo Pietro risponde con parole che esprimono la fede di ogni discepolo: «Tu solo hai parole di verità» (6,68). E così, lo stesso discorso, che ha allontanato molti, ha confermato la fede di altri. La rivelazione di Dio costituisce una crisi. Con questa nota - insieme triste (molti si tirarono indietro) e consolante (i dodici rimasero) - Giovanni conclude la prima parte del ministero di Gesù. All'inizio molti lo hanno seguito, ma una volta arrivati al punto lo hanno abbandonato. Soltanto un piccolo gruppo é rimasto.
    Ma si osservino con attenzione le parole di Pietro: «Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo di Dio» (6,69). Secondo un modo comune di pensare Pietro ha invertito l'ordine dei verbi. Non dice: ti abbiamo conosciuto e, avendoti conosciuto, noi abbiamo fiducia in te, noi crediamo in te. Bensì: prima la fiducia e poi la conoscenza. Invertendo l'ordine dei verbi, Pietro dice una cosa profondamente vera. È credendo in Gesù che si percepisce la verità delle sue parole. Per affacciarsi al mistero di Dio - come al mistero della vita - occorre una disponibilità previa alla fiducia.
    L'ultima battuta di Gesù è una parola di consolazione che però si volge in avvertimento: «Non sono forse stato io a scegliere voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo» (6,70). Parola consolante, questa, perché ricorda ancora una volta la gratuità della scelta di Dio. Ma anche severo avvertimento perché ricorda che nulla - neppure la condizione di chi è stato scelto - è sottratto alla possibilità della crisi. La negazione può raggiungere anche il gruppo dei dodici: «Alludeva a Giuda, figlio di Simone Iscariota, il quale stava per tradirlo, lui, uno dei dodici» (6,70).

    Concludiamo l'analisi di questo lungo episodio con un confronto con il racconto della Samaritana e il precedente episodio della chiamata dei primi discepoli. I Galilei cercano il pane che li sazia, e non vanno oltre: di fronte al tentativo di Gesù di orientare la loro ricerca vengono meno. Anche la Samaritana è interessata all'acqua del pozzo e tenta ripetutamente di rinchiudere il dono di Gesù entro i suoi schemi. Ma alla fine, si lascia condurre, e ciò che prima le interessava poi non l'ha interessata più («dimenticata la brocca, corse...»).
    I discepoli - interrogati sulla loro ricerca - chiesero di rimanere: trovarono e rimasero. Ma ora - giunti al capitolo 6 -il discepolo appare in una luce più concreta e drammatica: molti non rimasero. La ricerca è un cammino disseminato di crisi.

     

    NOTE

    1 Oltre ai commentari già citati, vedi G. Segalla, Gesù pane del cielo, Padova 1976; G. Ghiberti, Il capitolo 6 di Giovanni e la presenza dell'Eucaristia nel IV Vangelo, «Parole di Vita», 14 (1969), pp.105-125; M. Laconi, I discorsi di Gesù nel vangelo di Giovanni, Roma 1967, pp.99-119; G. Ferraro, Lo Spirito di Cristo nel vangelo di Giovanni, Brescia 1984, pp.107-132
    2 Cfr. R.E. Brown, Giovanni, Cittadella, p. 225.
    3 Cfr. C.H. Dodd, L'interpretazione del quarto vangelo, Paideia 1974, p.424.
    4 Cfr. B. Maggioni, La vita nel vangelo di Giovanni, «Parola Spirito e Vita», 5 (1982), pp. 127-146.

    (da: La brocca dimenticata, Vita e Pensiero 1999, pp. 65-85)


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