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    La grazia è nella Chiesa e nel mondo (cap. 6 di: Il dono della grazia)


    Luis A. Gallo: IL DONO DELLA GRAZIA. Vita che sconfigge la morte, Elledici 1995



    Da quanto veniamo dicendo, appare ormai chiaro che la grazia di Dio ha nella Chiesa il suo spazio umano connaturale - la sua «casa», potremmo dire -, dal momento che essa è la comunità di coloro che credono in Gesù risorto, colui che del dono di Dio fu il mediatore per eccellenza e allo stesso tempo il primo e più grande destinatario. Fondata su questa certezza di fede, la comunità ecclesiale si sforza, in mezzo alle tante difficoltà della vita, di vivere il dono che ha ricevuto, di celebrarlo nella gioia e nella festa, e di proclamarlo al mondo intero.

    1. Una Chiesa nella logica della grazia

    Vivere nella logica del grande dono di Dio significa, per coloro che sono membri della Chiesa, coltivare rapporti vivificanti con Dio, tra di loro e con il mondo, e cercare di eliminare invece quei rapporti che sono fonte di Morte.

    La Chiesa, luogo della figliolanza

    L'abbiamo messo in risalto precedentemente: solo i rapporti di figliolanza con Dio sono vivificanti, tutti gli altri sono in un modo o nell'altro mortificanti. La comunità ecclesiale sa, anche in base a certe affermazioni neotestamentarie, di essere «famiglia di Dio» (Ef 2,19; Gal 6,10), e lo dice a se stessa più di una volta nelle celebrazioni liturgiche. Sa di essere una famiglia nella quale tutti i membri sono ugualmente figli dell'unico Padre, Dio, perché sono diventati fratelli e sorelle del Figlio per eccellenza, Gesù Cristo, grazie alla presenza viva dello Spirito nei loro cuori (Rm 5,5). Tutti, quindi, secondo quanto diceva san Paolo, sono «figli nel Figlio» (Rm 8,16).
    Il Concilio Vaticano II affermò con solennità nella costituzione Lumen Gentium che la Chiesa, in quanto nuovo Popolo di Dio e di Cristo, ha «per condizione, la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio» (n. 9c). Questo bel testo programmatico mette in risalto una delle caratteristiche fondamentali del nuovo Popolo di Dio, quella della «libertà dei figli di Dio». Effettivamente, figliolanza e libertà sono due componenti correlative dell'esistenza cristiana, perché hanno come fonte unica lo Spirito Santo di Dio.
    Si tratta di un tema molto caro a san Paolo, che lo fece oggetto frequente delle sue riflessioni, proprio perché fu la grande scoperta che egli stesso fece incontrandosi con Gesù risorto sul cammino di Damasco (A t 9,1-9), scoperta che mise a soqquadro la sua vita di fervente osservante della Legge di Mosè (Fil 3,6). Secondo lui, lo Spirito di Dio, che è il suo stesso amore, è stato riversato nei cuori dei credenti e dimora in essi come nella sua casa (Rm 5,5). Si tratta - ci tiene a sottolinearlo - non di uno spirito da schiavi, che farebbe ricadere nella paura verso Dio,ma di uno Spirito di figliolanza, per mezzo del quale essi gridano, come Gesù: Abbà (Babbo)! (Rm 8,15).
    La contrapposizione tra l'atteggiamento pauroso e servile, proprio degli schiavi davanti ai loro padroni, e quello libero e sereno proprio dei figli che si sanno amati dai loro genitori, è molto netta in diversi testi paolini, e specialmente nelle lettere ai Ga-lati e ai Romani. Essi riecheggiano in fondo ciò che i primi discepoli avevano colto in Gesù stesso, vivendo a gomito a gomito con lui durante la sua esistenza terrena. Lo avevano percepito, infatti, come un uomo sovranamente libero davanti a Dio, come un uomo che vive da figlio, allo stesso tempo tenero e responsabile nei suoi confronti, e perciò anche come pienamente libero nei confronti di tutti e di tutto: prestigio, potere, denaro, istituzioni... Erano così arrivati alla conclusione che in lui abitava uno Spirito di figliolanza nei riguardi di Dio, il quale era la fonte della sua impareggiabile libertà.
    C'è un testo paolino che merita speciale attenzione da questo punto di vista. È quello di 2 Cor 3,17 nel quale l'Apostolo afferma, quasi come lanciando un grido di vittoria: «Dove c'è lo Spirito del Signore, lì c'è la libertà». L'Apostolo sostiene così con nitida chiarezza che questo Spirito, quello di Gesù risuscitato (il Signore), è la fonte e allo stesso tempo l'indice e la garanzia della libertà.
    Da tutto ciò segue una chiara conclusione: la Chiesa, in quanto comunità di figli di Dio, è la casa della libertà. In essa non c'è spazio per il timore servile davanti a Dio, ma solo per l'amore libero e gioioso verso di Lui. Perché, come sostiene la prima lettera di Giovanni, «nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore» (1 Gv 4,18). E questo amore filiale verso Dio è a sua volta fonte di libertà nei confronti di tutti e di tutto. Ciò che genera paura e senso di schiavitù davanti a Dio, e di conseguenza anche davanti a qualunque altra cosa, è fuori posto nella comunità ecclesiale. Creerebbe un'aria rarefatta che avrebbe effetti veramente asfissianti nei suoi membri.
    Risulta molto illuminante a questo riguardo una affermazione di san Tommaso d'Aquino. Egli sostiene, in un suo commento al testo di 2 Cor 3,17, che chiunque evita il male perché è proibito, sia pure da Dio, è uno schiavo, e, viceversa, chiunque evita il male perché ha coscienza che è un male, questi è libero. Sono parole cariche di un senso profondamente evangelico, che fanno capire in che cosa consista la vera libertà dei figli di Dio, i quali non vivono né agiscono davanti a imposizioni o a proibizioni, siano esse pure divine, ma davanti a ciò che è bene o ciò che è male. Potremmo dire, stando nella logica di quanto veniamo esponendo: davanti a ciò che genera Vita o ciò che genera Morte.
    Che poi nella realtà concreta la comunità ecclesiale non viva sempre in questa logica della figliolanza, e si lasci invece prendere da altre logiche, fa parte della sua condizione di peccatrice (LG 8). La storia documenta che in certi periodi la Chiesa, anziché la casa della libertà, è stata la casa della paura, producendo asfissie di diverso genere nei suoi membri. Ma, per fortuna, lo Spirito del Figlio che dimora in essa è più forte, e periodicamente la scuote per risvegliare in essa la logica vivificante del Vangelo. Il Concilio Vaticano II è stato certamente una di queste scosse. Papa Giovanni XXIII, che lo convocò, ne parlò come di una «nuova Pentecoste».

    La Chiesa, uno spazio di vera fraternità

    Dalla figliolanza deriva anche la fraternità: poiché sono figli e figlie nel Figlio, tutti i membri della Chiesa sono anche fratelli e sorelle tra di loro. Dal momento che vuole vivere nella logica del dono vivificante di Dio, la comunità ecclesiale coltiva rapporti di comunione fraterna al suo interno, cercando di realizzare quelle parole di Gesù riportate dal Vangelo di Matteo: «Non fatevi chiamare "rabbì", perché uno solo è il vostro maestro, e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8).
    Il testo della Lumen Gentium sopra citato parlava, oltre che della libertà, anche della «dignità dei figli di Dio» quale condizione di tutti i membri della Chiesa. Non è l'unica occasione in cui il Concilio fa riferimento ad essa. In certi testi, proprio in ragione di tale dignità, mette in evidenza uno degli aspetti fondamentali della relazione fraterna: tutti i membri della comunità ecclesiale sono fondamentalmente uguali, e non esiste tra di essi nessuna differenza né in ragione della stirpe o della nazione, né della condizione sociale o del sesso (LG 32). Solo dopo aver ribadito con forza tale uguaglianza di base, fondata nella comune figliolanza divina e nella comune appartenenza a Cristo, parla della diversità di servizi reciproci che i fratelli devono rendersi a vicenda. Questa seconda affermazione non nega ovviamente né oscura quella precedente, ma solo la precisa dandole un maggior realismo evangelico, poiché riafferma l'idea che essere fratelli significa farsi corresponsabili della Vita e della Morte degli altri.
    È indubitabile che se, lungo la storia, nella Chiesa si fosse tenuto più presente questo dato primordiale, le cose sarebbero andate un po' diversamente da come sono andate in alcuni momenti. Un certo modo di impostare i rapporti tra i suoi membri, ispirato più alle gerarchizzazioni sociali che al Vangelo dei figli, tenne in condizione di inferiorità buona parte dei suoi membri. Se i rapporti si fossero modellati più nitidamente sulle indicazioni evangeliche, i cristiani-laici, per esempio, non sarebbero stati considerati quali cristiani «di secondo ordine», come è avvenuto così spesso. Tutto ciò fa parte della condizione peccatrice della Chiesa, e non si muove nella logica della fraternità. Vivere davvero nella logica del dono di Dio vuole dire, invece, rispettare la dignità di figli di tutti i membri della comunità, uomini o donne che siano.

    La Chiesa, spazio del giusto rapporto con il mondo materiale

    Come tutti gli altri esseri umani, gli uomini e le donne che formano la Chiesa sono in rapporto con le cose di questo mondo, quelle che offre loro generosamente la natura e quelle che sono frutto del loro lavoro.
    Nel testo degli Atti degli Apostoli che abbiamo commentato nel capitolo precedente, trovavamo tratteggiato l'ideale di una comunità ecclesiale. Vi si leggeva che tutti i credenti in Gesù risorto cercavano di vivere formando «un cuor solo e un'anima sola». Si metteva così in risalto la profonda comunione interpersonale che li univa tra di loro. Ma si aggiungeva ancora che «nessuno considerava come esclusivamente sue le cose che possedeva, ma tutto quello che avevano lo mettevano insieme» (At 4,32). È da osservare che, come fanno notare gli studiosi del testo, al suo autore interessa soprattutto rilevare quanto afferma al v. 34: «Nessuno tra loro era bisognoso». Questa breve frase, che si ritrova per la prima volta in Dt 15,4, era andata caricandosi lungo la storia del popolo della Bibbia di una valenza profetica. Diventò, a poco a poco, come una promessa per gli ultimi tempi. Nell'usarla qui, l'autore degli Atti intende evidenziare il fatto che la comunità da lui descritta è la realizzazione dell'ideale della pienezza umana non solo dal punto di vista dei rapporti interpersonali di amicizia, ma anche dal punto di vista del rapporto con i beni materiali. In essa, infatti, «nessuno soffriva la mancanza del necessario». Così si realizzava la promessa di abbondanza per tutti riservata agli ultimi tempi.
    Il mezzo per ottenere il raggiungimento di questo ideale è appunto la messa in comune dei beni che si possiedono. Non si tratta, ovviamente, di una questione giuridica. Non è qui in gioco il diritto di proprietà privata, un problema che non poteva porsi allora, data la mentalità dell'epoca. Si tratta piuttosto di qualcosa d'altro, e cioè del fatto che, in forza di quella stessa comunione esistente tra le persone, nasce anche il bisogno di una comunione dei beni. Quest'ultima è come la proiezione naturale di quella. Segnala, quindi, un modo tipico di rapportarsi con tali beni: quello di subordinarli alla comunione tra le persone. Lo avevano constatato gli stessi greci nell'antichità quando dicevano, per bocca di Aristotele: «È proprio degli amici avere tutto in comune». Anche da questo punto di vista, pertanto, la comunità ecclesiale, secondo il testo, realizzava l'ideale greco dell'amicizia, benché a un livello molto più profondo e radicata in motivi molto più alti.
    Questo modo di vedere il rapporto con i beni materiali viene confermato da altri testi del Nuovo Testamento. Da quello, per esempio, della 1 Gv 3,17 che dice: «Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come può dimorare in lui l'amore di Dio?»; o da quello di Gc 2,15-16 che denuncia: «Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova?».
    La stessa logica nel modo di rapportarsi ai beni materiali tra le persone viene proposta da Paolo per il rapporto tra le diverse comunità ecclesiali. Così, per esempio, in occasione di una grande carestia che crea problemi nella comunità di Gerusalemme, egli stimola le altre comunità a condividere i loro beni con essa: «Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza» (2 Cor 8,14). Come si vede, l'ideale di questa comunione è arrivare all'uguaglianza tra tutti. Non però a un'uguaglianza matematica, bensì a quella per la quale a ciascuno viene dato, di ciò che si ha, secondo il suo bisogno.
    Tutto ciò ci dice che, se la comunione tra le persone all'interno della comunità ecclesiale non sfocia anche in una certa condivisione dei beni materiali, corre il rischio di convertirsi in un mero romanticismo. Accaparrare qualcosa egoisticamente per sé quando gli altri ne patiscono il bisogno, è una netta negazione della comunione. È far prevalere l'interesse proprio su quello comune, il che contraddice radicalmente un principio fondamentale del Vangelo (Fil 2,4; 1 Cor 10,24). Una comunità ecclesiale nella quale uno o alcuni fossero nella sazietà e nella sovrabbondanza mentre altri patiscono la fame (1 Cor 11,21), rinnegherebbe l'ideale proposto dagli Atti, secondo il quale non ci sono al suo interno dei bisognosi perché l'amore dei fratelli viene in loro aiuto.
    La realizzazione concreta di tale comunione è condizionata dalle circostanze storiche in cui viene a trovarsi la Chiesa. La comunità di Gerusalemme, mossa dall'entusiasmo evangelico iniziale, cercò di viverla in quel determinato modo che si è ricordato poco sopra. Ci sono oggi comunità cristiane che cercano di realizzarlo in maniera radicale e quasi letterale. L'importante è che ogni epoca crei la sua modalità propria. Ma l'istanza di base resta in piedi, perché scaturisce dalla sostanza stessa del Vangelo.
    A questo proposito è importante aggiungere ancora un rilievo: la comunione dei beni non può chiudersi nel cerchio della comunità ecclesiale, in nessuna delle sue realizzazioni. Anzi, è imprescindibile che i cristiani cerchino di condividere ciò che hanno con coloro che, pur non appartenendo alla loro comunità, o alla Chiesa in genere, ne sono privi. E a cominciare dai più bisognosi. Le parole di Gesù riguardanti il cosiddetto giudizio finale (Mt 25,34-46) hanno in tale senso implicanze molto incalzanti.

    2. Nella Chiesa si festeggia il dono di Dio

    Oltre a vivere nella logica del dono di Dio, la comunità ecclesiale lo fa oggetto di celebrazione. Celebrare è fare in forma festiva, e quindi anche comunitaria, un'azione che di per sé è comune e corrente. Un esempio della comune esperienza umana può aiutare a capirlo: quello del banchetto festivo. Mangiare è un'azione che si fa con una certa frequenza per nutrirsi e ricuperare le energie consumate; ma ci sono occasioni in cui il mangiare umano acquista un altro senso, un senso che va al di là di questa esigenza naturale: l'anniversario di una data cara, uno sposalizio, un trionfo sportivo o professionale ... In tali occasioni l'azione di mangiare cessa di essere qualcosa di comune, per acquistare la tonalità della celebrazione. Si utilizzano fondamentalmente le stesse cose, si fanno anche sostanzialmente le stesse azioni, ma in un'altra tonalità. Tutto acquista una qualità diversa.
    La Chiesa, come comunità credente in Gesù Cristo, sente anche il bisogno di celebrare, e lo fa soprattutto mediante i suoi atti cultuali, dei quali i più importanti sono i sacramenti. Essi sono sempre celebrazioni del grande dono di Dio, ossia del trionfo della Vita sulla Morte. Perciò hanno sempre anche un carattere pasquale.
    Siccome poi questo dono di Dio ha molte sfaccettature, si spiega perché ci siano nella Chiesa atti celebrativi diversi. I sacramenti ritenuti tali da essa sono sette, secondo quanto venne a suo tempo solennemente confermato dal Concilio di Trento, e ognuno di essi celebra un aspetto particolare della grazia di Dio.
    Così, nel Battesimo la comunità celebra gioiosamente l'incorporazione di un suo nuovo membro, immergendo il candidato nella morte e risurrezione di Cristo mediante il simbolo fondamentale dell'acqua. Nella Cresima invece viene celebrato comunitariamente l'impegno più adulto preso dai cristiani nell'ambito dell'appartenenza alla comunità ecclesiale, un impegno che è frutto dell'azione vivificante dello Spirito Santo. La Penitenza o Riconciliazione è celebrazione ecclesiale della conversione e del perdono di quei membri della comunità che riconoscono di aver peccato, rifiutando il dono di Dio nella vita concreta. L'Unzione degli infermi è celebrazione del senso evangelico che i membri della comunità, seriamente ammalati, danno alla loro sofferenza e alla stessa loro morte. Nel sacramento dell'Ordine la Chiesa celebra l'opzione di alcuni cristiani di mettersi definitivamente al servizio pastorale dei loro fratelli. Nel Matrimonio viene ecclesialmente celebrato l'amore sponsale che, quale grazia di Dio, è germogliato e cresciuto nel cuore di un uomo e una donna, fino a maturare in loro la decisione di essere definitivamente l'uno per l'altra, e ambedue per gli eventuali figli. Infine, mediante la più importante delle celebrazioni, l'Eucaristia, la comunità ecclesiale celebra festivamente ciò che costituisce come la sostanza viva della Chiesa stessa: l'amore fraterno, l'unità della comunità, il fatto di essere «un cuor solo e un'anima sola» (At 4,32). Perciò, quello del banchetto festivo è il suo segno primordiale.
    Ognuno dei sacramenti è anche fonte di ciò che è stato chiamato dai teologi la «grazia attuale», ossia gli aiuti concreti necessari per vivere secondo la proposta di Gesù, in ordine alla vittoria pasquale sulla Morte, nei diversi momenti della vita.
    Naturalmente, per poter celebrare questi diversi aspetti della vita di fede occorre che essi esistano realmente nella comunità che li celebra. Se invece mancano, il culto si riduce a pura apparenza, a culto «vano», come quello che denunciava Gesù ai suoi tempi (Mc 7,7), e corre il rischio di convertirsi in un atto di magia o di ipocrisia.
    A questo riguardo è molto illuminante l'avvertimento che fa Paolo alla comunità di Corinto (1 Cor 11,17-34). Ai membri di quella giovane Chiesa che si radunavano per celebrare l'Eucaristia, egli scriveva tassativamente: «Ciò che voi fate non è mangiare la Cena del Signore». La loro celebrazione era vuota, non aveva contenuto, perché essi non vivevano ciò che pretendevano di celebrare, cioè l'amore fraterno fatto realtà nella vita. Paolo adduceva due motivi per i quali il loro gesto rituale risultava vuoto: «Fra di voi ci sono divisioni», e «mentre uno è sazio fino all'eccesso l'altro ha fame». E metteva ancora in evidenza davanti ai loro occhi l'effetto negativo della loro celebrazione: «Vi fa più male che bene».
    Troviamo in queste parole, lette in positivo, un criterio fondamentale per giudicare dell'autenticità delle celebrazioni nelle comunità ecclesiali di tutti i tempi: la loro vincolazione con il culto a Dio nella vita concreta di ogni giorno, con lo sforzo previo fatto dalla comunità per vivere secondo la logica del dono della grazia. È questo sforzo previo che viene portato a livello di celebrazione negli atti liturgici e rituali della comunità. Dove esso è morto, o nella misura in cui non esiste, i partecipanti celebrano veramente nel vuoto. Come diceva un antico Padre della Chiesa, «se non volete celebrare invano, dovete cercare di essere ciò che celebrate» (san Giovanni Crisostomo).

    3. Ma il dono di Dio non finisce nella Chiesa

    Finora abbiamo messo in evidenza il collegamento della grazia con la Chiesa, quale suo spazio «connaturale». È tuttavia importante chiarire a questo punto che il grande dono di Dio non può e non deve venir pensato in modo restrittivo, come se avesse posto solo in essa e non esistesse per niente al suo esterno. Viceversa, esso va pensato in dimensioni molto larghe, ossia come una realtà che, pur trovando nella Chiesa «la sua casa», la trascende appunto perché coincide con la Vita vincitrice della Morte. La vera fede riconosce, quindi, che lì dove la Vita trionfa sulla Morte negli individui, nei gruppi sociali, nei rapporti tra di loro, nelle strutture in cui essi si esprimono, lì si può parlare di grazia.
    Si tratta di una grazia che può essere chiamata «anonima» nel senso che, in coloro che ne sono i soggetti, non c'è consapevolezza né di Colui che ne è la fonte ultima (Dio Padre), né di Colui che ne è il Mediatore (Gesù Cristo), né di Colui che ne è la causa immediata (lo Spirito); ma essa non è meno reale di quella di coloro che di tutto ciò sono consapevoli grazie alla fede che fornisce loro la luce per conoscerlo.
    Il Vaticano II, ricollegandosi al pensiero di molti antichi Padri della Chiesa, ha affermato questa presenza anonima della grazia in due testi di grande importanza. Il primo è quello della Lumen Gentium, nel quale descrive il modo in cui, a modo di cerchi concentrici, si rapportano i diversi gruppi umani con la comunità ecclesiale. In tale contesto riconosce un'ampia presenza della grazia, sino ad ammetterla perfino in coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, e si sforzano di raggiungere una vita retta (n. 16). In parole più brevi: negli atei di buona volontà.
    Il secondo testo, ancora più ricco ed esplicito, è quello della Gaudium et Spes nel quale, alla fine del capitolo dedicato alla persona umana, presenta Cristo come l'Uomo nuovo. Dopo aver esposto la realtà e il senso di tale novità, aggiunge ancora alcuni paragrafi al cristiano come «uomo nuovo» per il fatto di essere stato reso conforme all'immagine del Figlio e di aver ricevuto nel suo cuore lo Spirito d'amore. Poco dopo, inaspettatamente, il testo afferma: «E ciò non vale solo per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia [...]. Perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale» (n. 22). L'affermazione è tassativa: nel cuore di tutti gli uomini di buona volontà lavora invisibilmente la grazia. È logico che sia così, se si pensa che ogni uomo è oggetto dell'amore gratuito e irremovibile di Dio, il quale l'ha creato perché possa vivere della sua stessa Vita, e possa godere della sua stessa felicità.
    Nessun senso di trionfalismo o di privilegio può, di conseguenza, annidarsi nel cuore dei cristiani da questo punto di vista. Essi sanno che il dono di Dio non è destinato solo a loro stessi, ma ad ogni essere umano senza eccezione, e che molti uomini e donne, che non sono con loro e come loro membri della comunità credente in Cristo, si portano dentro il tesoro della grazia, sia pure «invisibilmente», come dice il testo citato. Anzi, potrebbe succedere qualcosa di paradossale: che cioè in alcuni membri della Chiesa non ci sia la grazia, per via della loro peccaminosa libertà che fa trionfare nella loro esistenza la Morte sulla Vita, mentre c'è invece nel cuore di uomini e donne che non appartengono ad essa; oppure, che questi ultimi siano più pieni del dono di Dio di alcuni cristiani.

    4. Eppure, la Chiesa annuncia gioiosa il dono di Dio

    L'esistenza della grazia anche al di fuori della Chiesa potrebbe far pensare ad una inutilità dell'annuncio del dono a coloro che non appartengono ad essa. Invece non è così.
    Troviamo nella conclusione del Vangelo di Marco un solenne invito di Gesù ai suoi discepoli prima di lasciarli per andarsene in cielo: «Andate per tutto il mondo e annunziate la buona novella a tutti gli uomini» (Mc 16,15). E nel libro degli Atti degli Apostoli l'attività dei primi discepoli in ordine all'annunzio occupa uno spazio larghissimo; anzi, si potrebbe dire che l'intero libro non è altro che la narrazione del diffondersi dell'annunzio in sempre più vasti cerchi concentrici, prima a Gerusalemme, poi nella Galilea e nella Samaria, e infine «sino ai confini del mondo» (At 1,8). Ormai essi, una volta fatta l'esperienza della risurrezione di Gesù e della presenza viva e dinamica dello Spirito, si lanciano ad annunziare il grande dono di Dio quale trionfo della Vita sulla Morte nella persona di Gesù, come promessa per tutti. Fare questo annunzio è, per loro, comunicare agli altri la più «bella e gioiosa notizia» (evangelo) che possano dare, perché è la notizia della speranza che può riempire di senso l'intera esistenza.
    Di questo tema si è occupato in forma del tutto particolare, dopo il Vaticano II, il Sinodo dei Vescovi del 1974. Il papa Paolo VI, e con lui tanti altri Pastori della Chiesa, preoccupati per le nuove condizioni in cui versa il mondo e per le loro ripercussioni sulla fede, celebrarono quel Sinodo per affrontarne la problematiche e le sfide. Finita la celebrazione sinodale, il Papa ne raccolse magistralmente le conclusioni nella esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, che costituisce come una specie di «magna charta» dell'impegno della Chiesa odierna nell'annuncio evangelico.
    Uno dei temi affrontati nell'esortazione è quello del contenuto dell'evangelizzazione. È, importante, per la Chiesa intera e per ognuno dei suoi membri, riproporsi spesso la domanda decisiva sul «che cosa» annunciare. Non è difficile, infatti, sbagliare al riguardo, dando importanza a ciò che importante non è, e viceversa. Il rimprovero che Gesù rivolgeva ai farisei del suo tempo potrebbe farlo più di una volta a chi dice di evangelizzare oggi: «Voi filtrate i moscerini e ingoiate il cammello!» (Mt 23,24). Il paradosso rende bene l'idea: non ci si può impegnare in questioni senza rilievo trascurando quelle che sono realmente importanti.
    L'Evangelii Nuntiandi chiarisce al riguardo che «nel messaggio che la Chiesa annunzia, ci sono certamente molti elementi secondari [...]; ma c'è pure il contenuto essenziale, la sostanza viva, che non si può modificare né passare sotto silenzio, senza snaturare gravemente la stessa evangelizzazione» (n. 25a). E quale sarà questo «contenuto essenziale»? quale questa «sostanza viva»? Per logica di cose non può essere altro che ciò che stava al centro delle preoccupazioni di Gesù stesso e dei suoi primi seguaci: il gioioso annuncio del dono di Dio all'umanità. Questa lieta novella è, in definitiva, come si vede chiaramente nell'azione evangelizzatrice di Gesù, l'annuncio dell'intervento meraviglioso di Dio, per mezzo suo, affinché ci possa essere nel mondo «Vita in abbondanza» per tutti, a cominciare da quelli che ne hanno di meno. In questo modo, esso viene a dare risposta alla più profonda domanda umana di tutti i tempi: la domanda sulla pienezza della Vita. Diceva Paolo VI nella esortazione apostolica citata che, nella ricchezza dell'annuncio, «l'umanità può trovare, in una pienezza insospettabile, tutto ciò che essa cerca a tentoni su Dio, sull'uomo e sul suo destino, sulla vita e sulla morte, sulla verità» (n. 53).
    Ecco la ragione ultima dell'annuncio da parte dei cristiani: essi vogliono far conoscere il dono di Dio per venire incontro all'attesa più radicale che si annida nel cuore del mondo, l'attesa della Vita. Vogliono che tale attesa lì dove è già appagata, ma in maniera «anonima», diventi consapevole di ciò che essa implica perché acquisti ancora maggior forza e vitalità, e che lì dove essa non è appagata, possa esserlo mediante l'accoglienza della grazia.


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    Il senso nei frammenti
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    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

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