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    Un dono che raggiunge l'essere umano nella sua integralità (cap. 3 di: Il dono della grazia)


    Luis A. Gallo: IL DONO DELLA GRAZIA. Vita che sconfigge la morte, Elledici 1995



    Da quanto è stato detto nei due capitoli precedenti appare già con sufficiente chiarezza quale concetto di grazia scaturisca dall'analisi delle fonti bibliche. Lo si può esprimere stringatamente in questi termini: la grazia è il dono della Vita vincitrice della Morte fatto dall'amore di Dio all'umanità. È, in parole più esplicite, lo sbocco positivo della lotta tra la Vita e la Morte nell'uomo, ad opera del Dio Vivente, per mezzo di Gesù Cristo e con la collaborazione dell'uomo stesso. Uno sbocco pasquale che riproduce, in qualche modo e misura, ciò che è avvenuto in Gesù Cristo, mediante la potenza vivificante dello Spirito Santo di Dio, nel momento apice della sua esistenza, la risurrezione.

    1. Una dilatazione necessaria

    Come si può facilmente intuire, questo concetto di grazia è molto ricco e denso, e interessa tutte le componenti dell'essere umano. Ora, rivisitando le riflessioni fatte dai cristiani e dai teologi nel passato, si può facilmente scorgere che in esse è stata ampiamente privilegiata una di tali componenti, quella del rapporto dell'uomo con Dio. Si potrebbe dire, con altre parole, che è stata privilegiata la dimensione «verticale» del dono. Anzi, si constata che in certi casi la grazia è stata circoscritta a tale dimensione, dimenticando le altre.

    Motivi storici di un restringimento

    Diversi fattori hanno influito perché si arrivasse a questo modo di vedere le cose. Anzitutto le stesse riflessioni di san Paolo, a cui la teologia occidentale si è ispirata di preferenza, a differenza di quella orientale, che ha attinto invece prevalentemente agli scritti giovannei. Infatti, se confrontiamo ciò che Paolo dice sul dono di Dio con ciò che è emerso nel capitolo precedente dalla rivisitazione dell'annuncio di Gesù sul regno, e anche con ciò che emerge dall'analisi dell’avvenimento pasquale, vi troveremo certamente una continuità sostanziale, ma anche una certa diversità. La diversità è data dalle accentuazioni proprie dell'Apostolo.
    Come abbiamo visto, per Gesù il dono del regno di Dio da lui proclamato è semplicemente la Vita, in quanto restituita all'uomo, incapace di riaverla da se stesso, dalla potenza amorosa e sollecita di Dio. Oppure, in termini equivalenti, è lo «stare bene» (o almeno meglio), reso possibile dall'amore di Dio a chi sta male e non è capace di uscirne. Intendendo, logicamente, la Vita (lo «stare bene») in tutta l'estensione del termine, ossia in tutte le sue dimensioni, a cominciare da quella biologico-corporale fino alla più alta di tutte, la comunione con Dio; e in tutte le sue componenti, a cominciare da quella individuale fino a quella sociale e anche a quella strutturale.
    Nella Pasqua, poi, il trionfo pieno e definitivo della Vita sulla Morte avvenuto in Gesù abbraccia la totalità del suo essere umano, senza lasciarne fuori nulla. Con lui, infatti, da quel momento la Morte non ha più alcun potere (Rm 6,9-10); egli è solo Vivente (Ap 1,17) in tutte le dimensioni del suo essere.
    Paolo, invece, pur senza ignorare questa integrale estensione del dono di Dio a cui fa più di una volta riferimento nelle sue lettere, in forza delle circostanze storiche nelle quali si è venuto a trovare concentrò prevalentemente la sua attenzione su uno dei suoi risvolti, quello del superamento del peccato quale sconvolgimento del giusto rapporto dell'uomo con Dio.
    Le circostanze che lo portarono a tale concentrazione furono le sue aspre polemiche con coloro che, provenendo dal più rigido giudaismo, riponevano tutta la loro speranza di salvezza nell'osservanza della Legge di Mosè. Essi, pur essendo cristiani, pensavano che non la fede in Gesù Cristo ma tale osservanza rendeva l'uomo giusto e gradito agli occhi di Dio. Paolo era stato un fervido osservante della Legge, ma ebbe poi l'esperienza del cammino di Damasco che trasformò completamente il suo modo di pensare (At 9,1-19; Fil 3,4-11). Per lui, il grande dono di Dio all'uomo consiste soprattutto nel fatto che Dio stesso trionfi per mezzo di Gesù Cristo sul peccato che si annida nel cuore umano causandogli la Morte; nel fatto cioè che Dio, grazie alla fede che l'uomo ha in Gesù Cristo morto e risorto, lo trasferisca da un rapporto sbagliato con Lui che gli provoca Morte, a un giusto rapporto che gli dia Vita (Rm 3,21-24; 5,1-2; 8,1-4).
    Questo dono viene quindi visto da Paolo principalmente nella sua dimensione verticale, pur senza misconoscerne le altre componenti.

    L'influsso di sant'Agostino

    Nella storia posteriore della fede questa visione fu ripresa e ulteriormente rinforzata. Una figura spicca in modo del tutto particolare in questo contesto, quella di sant'Agostino (354-430). Egli passò alla storia della Chiesa come il «Dottore della grazia» per eccellenza, precisamente perché fu il primo a elaborare, con grande potenza e profondità teologica, una riflessione su di essa. E, come successe anche con Paolo, lo fece all'insegna della sua propria esperienza personale.
    Come è risaputo, Aurelio Agostino, nato a Tagaste da madre cristiana e padre pagano, visse un lungo e travagliato processo di conversione che lo portò finalmente, nel 396, a ricevere il Battesimo dalle mani del grande vescovo di Milano sant'Ambrogio, e ad iniziare così una vita nuova. Egli fece quindi un'esperienza molto forte del dono di Dio, un dono che per lui consistette soprattutto nel riuscire a svincolarsi dalle catene dei suoi peccati, per iniziare una vita tutta piena di ardore evangelico. Fu posteriormente vescovo zelante di Ippona, nel nord dell'Africa, e iniziatore di una nuova forma di vita monastica.
    Chi conosce questi antecedenti può facilmente capire perché Agostino abbia reagito con tanta forza e determinazione contro alcuni monaci del suo tempo. Questi, intensamente dediti alla ricerca della perfezione evangelica sotto la guida del loro maestro Pelagio, sostenevano che l'uomo, senza bisogno della grazia di Dio, era capace di arrivare da solo alla santità, purché si impegnasse seriamente nella via della fede cristiana. Si trattava di uomini e donne che avevano assimilato in maniera non sufficientemente critica le tesi dello stoicismo, il quale riponeva l'ideale di perfezione nella conquista del proprio equilibrio e della propria impassibilità mediante gli sforzi fatti nel controllare e gestire le passioni. Pelagio, seguito con entusiasmo dal suo discepolo Celestio, insegnava convinto e zelante queste cose anche a Roma, e le notizie di detto insegnamento arrivarono agli orecchi di Agostino, il quale iniziò da allora una serrata lotta di opposizione mediante numerosi scritti di confutazione.
    Diversi concili regionali della fiorente Chiesa del nord africano, e soprattutto il Concilio di Cartagine del 418, presero posizione nella controversia condannando la dottrina pelagiana e dando ragione ad Agostino. Anche il papa Zosimo appoggiò le sue tesi. Essi intendevano ribadire così l'idea, sin dagli inizi sostenuta dalla fede, che la vita, proprio perché sempre vita salvata dal peccato che è morte, è anche sempre e totalmente un dono di Dio per mezzo di Gesù Cristo.

    Ancora polemiche circa la grazia

    Nei secoli seguenti sorsero numerose altre discussioni su questioni rimaste insolute da Agostino nei suoi scritti, e sorsero soprattutto negli ambienti monastici, segnati in qualche misura da quelle tendenze stoiche sopra segnalate.
    Tra tali questioni ci furono quelle sollevate dai cosiddetti «semipelagiani», i quali, in maggioranza monaci, negavano la necessità della grazia di Dio per il momento iniziale della conversione dal peccato, da essi chiamato «l'inizio della fede». Secondo loro, l'uomo poteva farcela da solo a iniziare il processo che lo avrebbe portato poi, con l'aiuto di Dio, al Battesimo. La loro dottrina venne condannata nel concilio regionale di Orange, in Francia, nel 529. Furono ancora gli scritti di Agostino a dare luce e orientamento alle decisioni ivi prese.
    Parecchi secoli più tardi, e precisamente nel secolo XVI, Lutero, un monaco agostiniano e quindi molto legato alla tradizione del grande Vescovo d'Ippona, scatenò discussioni accesissime in questo campo. Anche lui, come già prima Agostino, a cui si ispirava per molte prese di posizione, proiettò sulle sue riflessioni di fede la sua intensa e sofferta esperienza personale. Soprattutto la sua difficoltà nel superare l'attrattiva del piacere proibito e la forza del peccato, malgrado i numerosi sforzi fatti.
    Nella sua giovinezza Lutero si era consacrato con ardore alla ricerca della perfezione evangelica entrando in convento, ma il suo fervore si era spesso infranto contro l'esperienza della sua debolezza e della sua fragilità umana. Diventato poi insegnante di Sacra Scrittura, trovò soprattutto nello studio della Lettera ai Romani le risposte sconvolgenti alle grandi domande che gli poneva la sua vita personale di fede, risposte che comunicò con entusiasmo ai suoi uditori. In particolare mise in chiara luce la sconfinata misericordia di Dio verso l'uomo peccatore, misericordia che si manifesta specialmente nel comunicargli la sua propria santità quando egli si decide a credere in Cristo. Forte di queste scoperte, arrivò ad affermazioni molto azzardate riguardo al tema della grazia come giustificazione o santificazione del peccatore. Tra l'altro postulò una corruzione intrinseca, e quindi insuperabile, della libertà nell'uomo, causata dall'eredità del primo peccato di Adamo. Il che vuole dire che, secondo lui, l'uomo lasciato a se stesso non può volere veramente il bene che lo porterebbe alla salvezza.
    Lutero arrivò perfino ad affermare la permanenza di tale corruzione dopo il dono della giustificazione da parte di Dio. In concreto l'uomo, anche quello già battezzato, è «allo stesso tempo giusto e peccatore» davanti a Dio. L'importante è che creda fermamente alla misericordia di Dio che, in ragione di questa fiducia sconfinata nella sua misericordia, lo tiene per giusto ai suoi occhi. Ciò è sufficiente per la sua salvezza.
    Per arginare le idee dilaganti del monaco «ribelle», idee che poi si proiettavano su tante altre componenti della fede, fu convocato, sotto la pressione dell'imperatore Carlo V e ad opera del papa Paolo III, il Concilio di Trento (1545-1563). Centrale e decisiva in esso fu la sessione sesta, del 1547, dedicata a esaminare il tema della grazia. In tale sessione vennero ribadite le condanne dei Concili dell'antichità riguardanti la tematica in questione, e fu dichiarata eretica la posizione di Lutero. Si tornò così ad affermare solennemente, con l'autorità che comporta un Concilio ecumenico, la dottrina tradizionale sulla grazia, concentrandosi prevalentemente, come si può osservare, sul suo aspetto di rapporto verticale con Dio.
    Oggi, spente ormai le polemiche del passato che portarono a concentrare l'attenzione su detto rapporto, siamo in grado di capire che, se tale concentrazione portasse a circoscrivere il dono di Dio solo in quell'ambito, ci troveremmo davanti a concezioni che non sono pienamente in linea con quanto abbiamo colto nell'annuncio di Gesù e nell'avvenimento della Pasqua. Tali concezioni devono venire superate mediante un'adeguata dilatazione del concetto di grazia, quello che pensa il trionfo della Vita sulla Morte in maniera così ampia da abbracciare l'integrale totalità dell'uomo.

    Una visione integrale dell'uomo

    Orbene, l'essere umano totale, come mette in evidenza con acuto intuito la rivelazione biblica sin dalle sue prime pagine (Gn 1-3), è un'essere essenzialmente relazionale, e questa sua relazionalità essenziale si apre in tre direzioni fondamentali: il rapporto con Dio, il rapporto con gli altri esseri umani, e il rapporto con il mondo, ossia con gli altri esseri non-umani (natura e cose in genere). La rivelazione biblica segnala ancora che è sul vasto fronte di questi tre rapporti che si giocano per l'uomo la Vita e la Morte. Di conseguenza, anche il dono di Dio.
    Allo scopo quindi di avere una visione integrale della grazia esaminiamo ora ognuno di questi rapporti. Nei capitoli successivi riprenderemo alcuni di essi per esplicitarne determinate implicanze.

    2. Il rapporto con Dio come grazia

    Vita e Morte dipendono, anzitutto, per gli esseri umani, dal giusto rapporto che essi hanno con Dio. L'esperienza attesta che ci sono certi modi di rapportarsi con il mondo del divino - lo si chiami Dio o con qualunque altro nome - che generano Morte nell'umanità. Invece di fare sì che gli uomini e le donne stiano bene, essi contribuiscono a farli star male. La paura nei confronti di Dio, per esempio, che è un atteggiamento molto diffuso, mortifica aspetti positivi della vita individuale e sociale e paralizza il loro sviluppo. I sacrifici cruenti di vite umane offerte anticamente per placare gli dèi o per conquistarseli e renderseli benevoli, ne costituisce un caso limite. Ma anche le attuali forme di paura di Dio, manifestate attraverso le diverse espressioni di tabù, magia, legalismo, nevrotizzazione ossessiva, commercializzazione della religione e simili, hanno conseguenze molto negative su coloro che le praticano. Esse sono, in definitiva, fonti non di grazia ma di dis-grazia per gli esseri umani.

    Indicazioni bibliche fondamentali

    La rivelazione biblica, a partire dai testi dei primi capitoli di Gn (1-3) che forniscono elementi decisivi sulla concezione dell'uomo, fa capire, attraverso un linguaggio altamente simbolico, che l'unico modo di rapportarsi con Dio generatore di vita per l'essere umano è quello della comunione filiale. Lo si ricava già dalla prima narrazione della creazione, nella quale si afferma che l'uomo è creato «a immagine somigliantissima di Dio» (Gn 1,26-27). L'idea di «immagine» include, secondo gli studiosi del testo, quella della parentela, per il fatto che il figlio porta in sé l'immagine di suo padre. Ma anche dalla seconda narrazione si ricava la stessa concezione. In essa l'uomo, modellato da Dio dal fango della terra, viene ospitato nella sua stessa casa (il giardino) ed è posto ad abitare in esso (Gn 2,15), il che equivale a considerarlo membro della sua famiglia.
    La controprova di tutto ciò, stando sempre ai racconti biblici, si ritrova nel fatto che, quando l'uomo interrompe, a causa della trasgressione «originale», il suo rapporto filiale con Dio, cade nella paura (Gn 3, 10), deve abbandonare il giardino (Gn 3,23) e, soprattutto, imbocca il cammino della disgrazia e della morte (Gn 3,16-19).

    Gesù Cristo, il Figlio in pienezza

    Di questa comunione filiale e vivificante dell'uomo con Dio, prefigurata nelle pagine dell'Antico Testamento, troviamo il paradigma supremo e la più alta realizzazione in colui che attua in pienezza l'ideale dell'uomo vivente, Gesù Cristo.
    Nei testi del Nuovo Testamento, infatti, egli appare, già durante la prima tappa della sua esistenza, e cioè prima ancora della Pasqua, come un uomo profondamente radicato in Dio e unito a Lui con uno strettissimo rapporto di comunione filiale. Questa sua comunione è senz'altro affettiva. Lo si coglie in maniera del tutto particolare nel singolare appellativo «Abbà» (babbo) con cui egli, utilizzando il termine con il quale i figli, specialmente piccoli, si dirigevano al loro genitore nell'intimità familiare, si rivolge a Dio (Mc 14,36). Ma la sua comunione con il Dio abbà non è solo affettiva, è anche e spiccatamente operativa. Essa si concretizza nel suo appassionato impegno di portare a realizzazione la sua volontà (Gv 4,24; Fil 2,8), nel suo farsi corresponsabile ad ogni momento con Lui della Vita e della Morte degli uomini e delle donne che incontra sulla sua strada.
    I testi neotestamentari forniscono ancora un altro dato sull'esperienza di Gesù durante la sua esistenza storica: questa sua duplice comunione filiale con Dio (affettiva e operativa) non gli fu sempre facile e scontata; anzi, alle volte gli diventò ardua e difficile, come si coglie dai racconti delle tentazioni (Mt 4,1-11), e perfino dolorosa, come appare nelle narrazioni della preghiera nell'orto degli ulivi e della morte in croce (Mc 11,32-39; Mt 27,46). Egli era certamente figlio e viveva come tale; ma, secondo quanto afferma la Lettera agli Ebrei, era un figlio che umanamente viveva «in processo di apprendimento» della sua figliolanza (Eb 5,9).
    Nella Pasqua, invece, quando Gesù entra nella nuova e definitiva esistenza di uomo pienamente maturo e realizzato, questo suo rapporto filiale con Dio arriva anche alla pienezza della sua manifestazione. Secondo un discorso di Paolo riportato dagli Atti, è precisamente nell'avvenimento pasquale che egli si sente dire da Dio: «Tu sei il mio figlio, io oggi ti ho generato» (At 13,33). In quel momento, infatti, la figliolanza che egli aveva vissuto nella debolezza e nella limitatezza propria di ogni essere umano, si manifesta come una figliolanza «nella gloria», senza i limiti «della condizione umana» (Rm 1,4; Eb 5,9).
    Ormai lo Spirito di figliolanza, che aveva riempito il suo cuore durante la sua vita terrena, trova in esso la sua totale espressione.
    Gesù risorto è quindi il Figlio per eccellenza, il pienamente-Figlio-di-Dio. A lui, come uomo, è stato fatto il dono incomparabile della figliolanza senza limiti nei confronti di Dio, il Padre. Egli è, in questo senso, l'anticipo e il modello del dono che Dio vuole fare a ogni essere umano. Guardando a lui capiamo che la grazia è anzitutto comunione filiale con Dio, rapporto di comunione stretta con Lui, come quello che era stato prefigurato nell'alleanza dell'Antico Testamento, ma portato a un grado incomparabilmente superiore, secondo quanto mettono in evidenza nei loro scritti sia san Giovanni che san Paolo.

    3. Il rapporto con gli altri come grazia

    L'uomo non è solo in rapporto con Dio. Egli vive nel mondo con altri uomini e donne, coinvolto nelle molteplici e svariate forme che acquista la convivenza ad ogni livello, e da tale convivenza trae Vita e Morte. Come attesta ancora l'esperienza, ci sono dei modi di rapportarsi tra le persone e tra i gruppi umani che fanno crescere in vera umanità e che aiutano a «stare bene», e ci sono invece altri modi che diventano mortificanti, che fanno «stare male» e non permettono alle persone e ai gruppi di crescere, o li fanno perfino regredire. Un rapporto, per esempio, di odio e di rancore tra i membri di una famiglia si riflette in maniera pesantemente negativa sul loro stare-bene-insieme, così come un rapporto di inimicizia tra i popoli genera guerra, e perciò Morte, nella convivenza internazionale.

    La parola della Bibbia

    Le già ricordate narrazioni di Gn 1-3 mettono bene in rilievo il fatto che il giusto rapporto dell'uomo con gli altri esseri umani, quello che può generare Vita e debellare la Morte, è la comunione fraterna. Infatti, nella prima narrazione della creazione la frase in cui si dice, riferendosi all'uomo, che Dio «lo creò maschio e femmina» (Gn 1,27), indica, secondo gli studiosi del testo, l'uguaglianza in dignità e l'intimità comunionale a cui egli è chiamato a vivere con l'altro da sé (in questo caso la donna); intimità che si vede ancora maggiormente evidenziata nel testo della seconda narrazione, che introduce la creazione della donna con le parole: «Non è bene che l'uomo sia solo» (Gn 2,18).
    Anche da questo punto di vista si ha una controprova nei testi a cui ci riferiamo. Essi fanno toccare con mano il fatto che, se il rapporto con l'altro non è quello della comunione fraterna che rende gli esseri umani corresponsabili della Vita e della Morte degli altri, il risultato è la morte. Nel racconto dell'uccisione di Abele ad opera del suo fratello Caino, ciò acquista un'evidenza tragica (Gn 4,9-10).

    Gesù Cristo, il Fratello universale

    Anche di questa maniera di attuare i rapporti con gli altri uomini e donne adombrata nell'Antico Testamento il modello supremo è l'uomo pienamente umano (GS 22), Gesù Cristo.
    In una lettura pur veloce dei Vangeli lo si coglie, durante la sua vicenda storica, come un uomo che vive rapporti d'intensa comunione fraterna verso tutti. Non è difficile scorgere in lui, anzitutto, sentimenti e atteggiamenti di profonda fraternità. La sua capacità di compassione, specialmente verso i più piccoli e bisognosi (Mc 2,12-17 e par.), è ricordata quasi ad ogni passo dai testi. Egli è tutt'altro che un uomo freddo e distaccato; lo si vede invece visceralmente coinvolto nelle situazioni, dolorose o liete, degli altri. Ma oltre ad avere sentimenti e atteggiamenti fraterni, egli agisce anche fraternamente. Un agire fraterno che si manifesta nei suoi molteplici interventi di guarigioni, di liberazione da spiriti cattivi, di illuminazione della vera immagine di Dio e dell'uomo, di perdono dei peccati. Le indicazioni poi che dà in ordine alla convivenza fraterna sono tutte improntate all'amore (Gv 15,17), alla compassione (Lc 10,19-37), alla non-violenza (Mt 5,21-22.38-42), al perdono vicendevole (Mt 18,23-35). L'apice in questo senso si ritrova nella sua esortazione ad amare i propri nemici (Mt 5,43-44).
    Negli stessi Vangeli si può tuttavia scorgere un altro dato: gli atteggiamenti fraterni di Gesù e il suo agire in favore di coloro che considera fratelli e sorelle trovano spesso molte limitazioni. Ci sono, anzitutto, limitazioni nell'estensione effettiva della sua fraternità, dal momento che egli può raggiungere un numero di persone relativamente ridotto nel suo intento fraterno e vivificante. Concretamente, solo una parte del suo popolo e qualche raro straniero. Ma ci sono anche limitazioni che riguardano l'intensità di tale fraternità, nel senso che, come ogni essere umano, egli non può intrattenere rapporti ugualmente impegnativi con tutti e ognuno di coloro con cui è a contatto.
    La Pasqua è invece il momento in cui egli raggiunge il suo stato definitivo di Fratello universale, senza limitazione alcuna. La sua morte in croce portò infatti il suo atteggiamento e il suo agire fraterno alla loro espressione più alta. Si avverarono in quel momento quelle sue importanti e programmatiche parole riportate da Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la sua vita per coloro che ama» (Gv 15,12). E la risurrezione rese stabile e definitiva questa situazione, liberandolo da tutti i limiti che la condizione precedente gli imponeva.
    Il dono di Dio, quindi, la Vita trionfatrice sulla Morte, implica, come si vede chiaramente in lui, l'eliminazione degli atteggiamenti non fraterni tra gli esseri umani, quei rapporti, cioè, che generano Morte, e la loro sostituzione con rapporti di comunione generatori di Vita.

    4. Il rapporto con il mondo come grazia

    Oltre ad essere in rapporto con Dio e con gli altri esseri umani, gli uomini sono anche in stretto rapporto con il mondo degli esseri non-umani che popolano l'universo. Con quelli che costituiscono l'ambito della natura, ossia quelli che, come gli animali, le piante, i mari, gli astri e via dicendo, esistono in ragione della creazione di Dio; e con quelli che invece sono il risultato dell'attività umana a partire dalla natura, e che costituiscono il vasto mondo della cultura nel senso più largo della parola. E anche questo rapporto è per gli uomini fonte di Vita e di Morte, come dimostra la più svariata esperienza quotidiana. Ne consegue che anche tutto questo mondo non-umano ha relazione con la grazia come Vita vincitrice della Morte.
    Ci sono infatti certi modi di rapportarsi con il mondo che generano Morte anziché Vita. Bastano due esempi del momento storico attuale per averne una conferma. Il primo è il fenomeno dell'accaparramento dei beni naturali e di quelli prodotti dall'attività umana ad opera di una relativamente piccola parte dell'umanità. È un modo di rapportarsi coi beni materiali che produce, come conseguenza naturale, l'emarginazione della maggior parte della medesima umanità, la quale resta immersa nelle mille forme di povertà che sconfinano con la Morte. Tant'è vero che i morti letteralmente di fame si contano per decine di milioni all'anno, come attestano le statistiche degli organismi competenti in materia. Il secondo esempio è il problema ecologico, che si è andato creando e aggravando in questi ultimi anni in ragione dello sfruttamento smisurato delle risorse della natura, e che minaccia di portare l'umanità intera e lo stesso pianeta terra alla sparizione.

    Orientamenti biblici

    La rivelazione biblica, e soprattutto la vicenda di Gesù Cristo, prospettano l'ideale di una gestione amicale della natura e delle cose che vengono prodotte a partire da essa affinché ci sia Vita e non Morte nel mondo.
    Per cominciare, il testo di Gn 1,26.28 racconta poeticamente che l'uomo, creato da Dio a sua immagine e somiglianza, riceve da Lui il mandato di esercitare il «dominio» su tutti gli altri esseri non-umani con i quali deve convivere sulla terra. Si tratta di un'affermazione che viene ripresa più volte nelle prime pagine della Bibbia. Secondo il testo della seconda narrazione della creazione, a sua volta, l'uomo è posto nel giardino, creato da Dio e di cui Egli è il Signore, per custodirlo e coltivarlo (Gn 2,15). Questo secondo testo chiarisce meglio il senso del primo. Esso mette in evidenza, da una parte, che il rapporto dell'uomo con il creato deve essere un rapporto di libertà (essere signori e non schiavi), ma, dall'altra, sostiene anche che deve essere un rapporto di responsabilità nei suoi confronti. Esserne custode significa, anzitutto, non guastarlo, e poi darsi da fare per mantenerlo in vita e migliorarlo.

    Gesù Cristo, Signore del mondo

    Ma, ancora una volta, troviamo in Gesù Cristo, il vero Uomo pienamente tale, il paradigma supremo di questo modo di rapportarsi col mondo non-umano. Ciò che i testi dell'Antico Testamento tratteggiano in maniera ancora generica trova in lui piena e concreta realizzazione. Infatti, nei testi evangelici che parlano della sua vita prepasquale egli appare, anzitutto, come un uomo sovranamente libero, tanto negli atteggiamenti verso le cose quanto nell'uso che fa di esse, e specialmente per ciò che riguarda le ricchezze e le strutture, anche religiose (Mc 2,23-28; 3,1-5; ecc.), create dagli uomini. Il suo modo di comportarsi davanti all'istituzione sacra del sabato ne è una dimostrazione lampante. Ma appare anche come un uomo che sa intrattenere rapporti sereni e amicali con gli animali, le piante, i fiori (Mt 6,26-30). 11 Vangelo di Marco dice che, dopo i quaranta giorni di digiuno vissuti nel deserto in preparazione alla sua missione, «egli stava con le fiere e gli angeli lo servivano» (Mc 1,12-13). Una reminiscenza, senz'altro, della situazione paradisiaca dell'uomo in pace con tutto il creato.
    Allo stesso tempo, i testi evangelici non nascondono i limiti ai quali Gesù soggiace durante la sua vita nell'ambito di questo rapporto. Lo presentano, infatti, in più di un momento come oppresso dalla necessità della natura (fame, stanchezza: Mc 11,12; Gv 4,6), e come schiacciato dalle strutture create dagli uomini, di cui è un emblema la legge del sabato. In definitiva, se egli muore è perché le istituzioni religiose e politiche del suo popolo, servendosi degli strumenti creati a partire dalla natura, pongono fine alla sua attività e alla sua vita inchiodandolo alla croce.
    Gli stessi scritti del Nuovo Testamento ci tengono tuttavia a proclamare Gesù, dopo la Pasqua, come Signore. Come rilevano gli studiosi del Nuovo Testamento, benché questo titolo abbia una tale ampiezza da abbracciare l'intera nuova condizione del Risorto, esso fa tuttavia anche speciale riferimento al suo rapporto con il mondo. Vuole dire che egli ormai ne è il Signore, e tutto gli è sottomesso.
    Il dono divino della Vita vittoriosa, quindi, interessa anche questo rapporto, in modo tale che ciò che nel suo ambito vi può essere di Morte venga eliminato e sostituito dalla Vita. Malgrado la sua concentrazione sul primo dei rapporti che caratterizzano l'essere umano, Paolo ha tenuto presente anche quest'ultimo parlando dei «dolori del parto» che soffre la creazione nell'attesa della sua liberazione dalla schiavitù alla «vanità», ossia dall'essere vittima della distorsione, da parte dell'uomo, della finalità per cui fu posta da Dio in esistenza (Rm 8,19-22). Si potrebbe parlare, da questo punto di vista, di una autentica dis-grazia del mondo nella misura in cui si trova in tale condizione.

    5. La «centralità» di un rapporto

    È chiaro, allora, che il grande dono di Dio - la Vita vincitrice della Morte - si estende all'uomo nella sua integrale totalità, senza lasciare fuori nessuna delle sue componenti essenziali. Occorre però aggiungere al riguardo un'osservazione di rilievo. Nel focalizzare i tre rapporti fondamentali dell'essere umano evidenziando il loro risvolto vivificante, abbiamo seguito un certo ordine. Abbiamo cioè preso in considerazione in primo luogo il rapporto con Dio, perché Dio è la Realtà suprema e il Mistero ultimo di tutto ciò che esiste, quella che, oggettivamente parlando, occupa indubbiamente il primo posto nella scala degli esseri e anche dei valori; poi, in secondo luogo, il rapporto con gli altri esseri umani, in quanto, essendo esseri personali, occupano un posto di primato nei confronti degli altri esseri che non lo sono; infine, in terzo luogo, il rapporto con il mondo non-umano.
    Tuttavia, certi testi neotestamentari, come ad esempio quello di Mt 25,31-41 secondo il quale l'incontro salvifico con Dio in Cristo avviene nella disponibilità concreta a soccorrere «i fratelli più piccoli», o quello della Prima Lettera di Giovanni nel quale si afferma che non si può amare Dio che non si vede se non si ama il fratello che si vede (1 Gv 4,20), ci portano ad affermare che, fintanto che la Vita non avrà ottenuto il suo trionfo totale e definitivo sulla Morte, e fintanto che il regno di Dio non si sarà manifestato nella sua completezza, il rapporto centrale è quello della comunione fraterna. Esso si pone come il crocevia degli altri due.
    È infatti nella fraternità vera e reale che trova la sua verifica il rapporto di comunione con Dio, come fanno capire diversi testi tanto dell'Antico quanto del Nuovo Testamento che abbiamo ricordato nei capitoli precedenti. Solo chi ama il fratello è veramente in comunione con Dio, e senza tale amore la comunione filiale con Lui è un'illusione (1 Gv 3,17; 4,7-8). Ma è pure l'amore fraterno quello che esige una gestione amicale del mondo non-umano, perché tale gestione fa parte della corresponsabilità nella Vita e nella Morte degli altri. Dare senso umano e vivificante alle realtà non-umane, strapparle dalla «vanità», come diceva Paolo (Rm 8,20), è in definitiva coinvolgerle nel trionfo della Vita sulla Morte.
    Questo dato non può non essere tenuto presente in una riflessione sulla grazia, perché altrimenti si corre il rischio di confinarla nell'astrattezza e di non farla abitare realmente in questo mondo.


    T e r z a
    p a g i n A


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