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    La Pasqua di Cristo, il grande e definitivo dono di Dio all'umanità (cap. 2 di: Il dono della grazia)


    Luis A. Gallo: IL DONO DELLA GRAZIA. Vita che sconfigge la morte, Elledici 1995



    Nel capitolo precedente abbiamo preso in considerazione il grande dono che, secondo gli scritti dell'Antico Testamento, Dio fece al popolo d'Israele liberandolo dalla schiavitù d'Egitto e stringendolo a sé con vincoli del tutto particolari mediante l'alleanza; ora invece vedremo come pensano il dono di Dio gli scritti del Nuovo Testamento. Questo perché, come cristiani, siamo convinti che il più grande regalo, la più grande grazia che Dio ha fatto all'umanità è Gesù Cristo e, più precisamente, Gesù Cristo risorto.

    1. Gesù di Nazaret, annuncio e presenza del grande dono di Dio agli uomini

    Nel Nuovo Testamento, e soprattutto nei Vangeli, Gesù di Nazaret viene presentato come colui che, venendo da Dio, porta al suo popolo, e più in là ancora al mondo intero, un grande dono. Questo dono viene chiamato «regno di Dio», «vita eterna». La prima formulazione è più tipica dei Vangeli sinottici, la seconda del Vangelo di Giovanni.

    Il regno di Dio

    Ciò che concentra tutte le preoccupazioni di Gesù, secondo i primi tre Vangeli, è l'avvento del regno di Dio nel mondo. Egli proclama che quel Dio che nell'Antico Testamento si era manifestato pieno di sollecitudine per la vita e la libertà del popolo d'Israele, e che aveva anche annunziato più di una volta, per bocca dei profeti, di voler realizzare in futuro qualcosa di ancora più grande e meraviglioso in favore dell'intera umanità, ora iniziava a portare a compimento la sua promessa. Iniziava cioè a regnare definitivamente nel mondo.

    L'attesa febbrile del regno

    Al tempo in cui Gesù incominciò a fare un tale annuncio, il popolo d'Israele viveva in uno stato di attesa molto febbrile. La situazione in cui si trovava, sia al suo interno che al suo esterno, contribuiva ad acuire tale attesa. Al suo esterno ciò che lo faceva soffrire era specialmente il fatto della sua sottomissione all'impero romano. Una sottomissione che non solo lo privava della sua autonomia (una specie di nuova schiavitù), ma lo costringeva anche a pagare grossi tributi che gravavano pesantemente sulla sorte della maggioranza della gente. Suscitava una profonda umiliazione il veder regnare, al posto del suo Dio, un pagano, considerato automaticamente come impuro: il popolo santo sottomesso a gente peccatrice!
    All'interno poi c'erano diversi fattori che gettavano legna sul fuoco dell'attesa impaziente. La situazione economica della maggioranza del popolo era molto precaria. C'era certamente un ristretto gruppo di persone e di famiglie che stava molto bene. Il re Erode e la sua corte, per esempio, che vivevano nel lusso e nella sontuosità, insensibili alle necessità degli altri, e specialmente dei poveri; o le famiglie dei sommi sacerdoti del Tempio, che si arricchivano grazie specialmente alle offerte che il popolo faceva per il culto, secondo le prescrizioni della legge di Mosè; o ancora gli «anziani» del sinedrio, i «latifondisti» di allora, coloro cioè che avevano la proprietà delle terre dalle quali traevano la loro ricchezza, frequentemente a spese degli altri. Il resto del popolo era invece afflitto da grande povertà. Non proprio dalla miseria, ma da una accentuata precarietà e insicurezza. Viveva praticamente alla giornata, aspettando, come quel Lazzaro della parabola raccontata da Gesù (Lc 16,19-31), le briciole che cadevano dalla tavola dei ricchi. Briciole che raramente erano lasciate cadere per saziare la loro fame.
    Dal punto di vista religioso, un fatto soprattutto contribuiva a tenere il popolo in situazione di angoscia: il peso della legge che, ad opera dei farisei e dei maestri di essa, gravava sulle sue spalle. La legge di Mosè, dono di Dio al popolo per la sua vita e felicità, si era andata appesantendo lungo i secoli a causa del groviglio degli innumerevoli precetti e usi creati dagli uomini, in modo tale che, al tempo di Gesù, la gente semplice del popolo non sapeva nemmeno cosa fosse più importante in essa e cosa secondario. I farisei e i maestri della legge la conoscevano invece molto bene e, anche se non sempre la osservavano, volevano che gli altri la osservassero pienamente. Ora, non osservare la legge equivaleva a peccare, e il peccato costituiva un debito con Dio. Un debito che doveva venire saldato mediante gli atti rituali stabiliti dalla stessa legge; cosa che la gente povera non era in grado di fare, e si trascinava dietro di conseguenza un perenne e schiacciante senso di colpa. Quando Gesù diceva: «Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28), si riferiva proprio a questa gente, che poi era la maggioranza del popolo.
    Dal punto di vista sociale rileviamo solo alcuni aspetti che costituivano altrettante invocazioni, tacite ma non per questo meno sentite, verso Dio per un suo intervento. Ci riferiamo a due forme di emarginazione che facevano sentire pesantemente i loro effetti sulla convivenza sociale, soprattutto su coloro che ne erano le vittime. Anzitutto, l'emarginazione delle donne. La società d'Israele era infatti fortemente patriarcale e maschilista, come lo erano d'altronde in genere tutte le società di quel tempo. La donna, benché trattata probabilmente meglio che presso altri popoli, era in realtà ridotta alla condizione di un oggetto. Oggetto delle decisioni dell'uomo-maschio specialmente per la sua sopravvivenza. Se ne ha un indizio nell'episodio narrato dai Vangeli in cui un gruppo di sadducei, che non credevano nella risurrezione finale, si avvicinano a Gesù per metterlo alla prova (Mt 22,23-33). Pur essendo mirata a rilevare altri aspetti del messaggio evangelico, questa narrazione fa vedere tra le righe quale era la condizione della donna: uno strumento a mercé dell'uomo. La sua dignità fondamentale non veniva rispettata. Anzi, veniva praticamente negata, perché alle donne era preclusa la possibilità di essere veramente soggetti all'interno del popolo. Soffrivano le conseguenze di una sorta di cosificazione, che in alcuni casi, come in quello delle prostitute, era pesantemente raddoppiata.
    Un'altra emarginazione sociale era quella che teneva i peccatori al di fuori della convivenza sociale in molti dei suoi aspetti, in quelli cioè più importanti. Tra i peccatori venivano automaticamente elencate molte categorie del popolo. Senz'altro i pubblicani, che riscuotevano le tasse per l'impero romano, e le prostitute, che facevano vita pubblica di peccato. Ma poi anche, per diversi motivi, i ciechi, gli zoppi, i pastori, i figli illegittimi fino alla nona e decima generazione, e infine tutto il popolino che, ignorando la legge come si è già detto, si trovava nell'incapacità di osservarla. Tutta questa gente, che costituiva la maggioranza del popolo, veniva emarginata dai cosiddetti giusti, gli osservanti della legge, che li ritenevano oggetto della maledizione di Dio, esclusi dall'eredità del regno futuro a causa dei loro peccati e indegni di partecipare agli atti principali del culto.
    Questo insieme di fattori, e ancora altri che non abbiamo preso in considerazione, accendevano nel popolo un ardente e impaziente desiderio di cambiamento. Si attendeva che venisse finalmente Dio, mediante il suo Messia annunciato dai profeti, a prendere le redini della situazione per modellarla secondo le sue promesse. Che Dio facesse al popolo il dono della sua presenza trasformatrice e liberante, che venisse a regnare veramente sul suo popolo.

    Gesù proclama il regno

    In mezzo a questa grande e frenetica attesa, Gesù iniziò la sua attività lanciando questo proclama: «Il Regno di Dio è arrivato: convertitevi e credete a questa buona notizia» (Mc 1,14-15). Cosa intendesse lui con l'espressione «regno di Dio» lo desumiamo, più ancora che dai suoi discorsi, dall'attività da lui stesso svolta. Da buon semita che era, si esprimeva infatti meglio mediante l'azione che mediante i ragionamenti.
    Dai dati che raccogliamo nei Vangeli si scorge che questa sua attività in ordine alla sovranità di Dio nel mondo ha come destinatari sia i singoli individui sia la società del suo popolo. Sono come due fronti sui quali si gioca il regno annunciato. Verso gli individui egli agisce in diversissimi modi, ma soprattutto guarendo gli ammalati, liberando coloro che sono posseduti da spiriti cattivi e perdonando i peccati. Le testimonianze evangeliche che lo confermano sono moltissime. In questo contesto egli appare, come dirà Pietro in un suo discorso postpasquale, come un uomo che, «unto dallo Spirito di Dio, passa beneficando e sanando tutti quelli che sono sotto il dominio del diavolo» (At 10,38). Ognuno dei suoi interventi è un dono di Dio che, nel suo amore e nella sua tenerezza, produce come una piccola risurrezione negli individui da lui avvicinati. Coloro che, sia a causa della malattia corporale o psichica, sia per i peccati commessi, sono sotto il dominio della sofferenza e quindi in qualche misura della morte, vengono strappati da quelle loro condizioni e fatti passare a nuove situazioni di vita. Dove prima regnava il male in forma di malattia o di peccato, ora invece regna Dio.
    Ma l'azione di Gesù in ordine al regno di Dio non si esaurisce nell'ambito individuale; prende di mira anche la convivenza sociale. Lo si vede nel modo in cui denuncia i rapporti sbagliati tra le persone o i gruppi, negli orientamenti che propone per uno stare insieme che sia fonte di gioia e serenità e non di tristezza, ma forse con ancora maggiore chiarezza nel modo in cui affronta i principali conflitti che turbano la stessa convivenza: tra i giusti e i peccatori, tra i ricchi e i poveri, tra gli uomini e le donne. Davanti a tali conflitti egli reagisce sempre sostanzialmente allo stesso modo, cercando cioè di risolverli, mettendosi a questo scopo dalla prospettiva di chi ne soffre più pesantemente le conseguenze. Li affronta quindi dalla prospettiva dei peccatori (Mt 9,10-13; Lc 15,1-3), dei poveri (Mt 5,3), delle donne (Mt 19,1-9). t il modo in cui egli vuole fare sì che lo stare insieme degli uomini, anche a livello collettivo, anziché produrre emarginazione, tristezza o qualunque altra forma di male, si converta in fonte di condivisione, di gioia e di vita per tutti, particolarmente per coloro che di vita ne hanno di meno.

    Il dono della sovranità di Dio nel mondo

    Da questa succinta rivisitazione dell'attività svolta da Gesù possiamo già cogliere come egli intenda questo regnare vittorioso di Dio facendo valere la sua signoria nel mondo. Si tratta anzitutto di qualcosa che non riguarda solo Dio, malgrado quel che la formulazione potrebbe far pensare, anche se Lui ne è il protagonista primo e fontale. Il regno di Dio riguarda anche e direttamente gli uomini e le donne concreti con cui Gesù è a contatto, soprattutto quel- li che sono più poveri e deboli, quelli che sono più intensamente sotto il dominio del male. Che Dio abbia iniziato a regnare nel mondo significa per Gesù che la loro condizione umana viene trasformata, e trasformata in modo tale che essa si modella realmente su ciò che Dio vuole; e cioè che la presenza del male sia debellata perché tutti e ognuno stiano bene, pienamente bene in tutta la pregnanza della parola.
    Il regno di Dio non è, di conseguenza, qualcosa di puramente spirituale, interiore, che riguarda solo le anime o i cuori degli uomini e delle donne, ma qualcosa che li riguarda integralmente. Quindi, anche nella loro dimensione corporale. Come abbiamo visto esaminando l'attività di Gesù, proprio in ragione della venuta di questo regno di Dio egli fa scomparire dai corpi le malattie che non permettono agli uomini e alle donne di stare sostanzialmente bene. Egli trasforma cioè la loro condizione, segnata dalla presenza di fattori corporali che li fanno soffrire, in una situazione nuova e positiva. E questo suo intervento rende visibile la venuta del regno.
    Per Gesù, inoltre, il regno di Dio non è neppure qualcosa di puramente individuale, bensì anche sociale. Interessa cioè la convivenza sociale ai suoi diversi livelli. Il vivere insieme che fa stare bene tutti e ognuno di coloro che sono in esso coinvolti, sia che si tratti di persone singole che di gruppi piccoli o gran- di, è una chiara manifestazione della signoria di Dio. Ciò avviene quando i rapporti tra di loro sono positivi, fecondi, apportatori di vita e di felicità, e non viceversa. Un segno del tutto particolare della venuta del regno è che in questa convivenza coloro che stanno peggio sono fatti oggetto di speciale attenzione e sollecitudine da parte degli altri.
    Oltre a interessare gli individui e la convivenza sociale ad ogni livello, il regno di Dio interessa anche le strutture e le istituzioni, siano esse religiose o di altro ordine, in cui i rapporti tra i singoli e tra i gruppi si cristallizzano. E ciò perché le strutture e le istituzioni condizionano anche, e spesso in modo notevole e perfino decisivo, lo stare bene o male degli esseri umani. Dove strutture e istituzioni non sono espressioni e fattori di male, ma favoriscono lo stare veramente bene delle persone e della società, lì certamente Dio regna perché la realtà si adegua al suo volere.
    Infine, questo regno di Dio non è per Gesù solo un qualcosa di futuro, di «escatologico» come si usa dire, ma è anche presente: è già qui e ora, nella misura in cui egli agisce per modellare la realtà secondo Dio. La realizzazione totale del regno è riservata per «la fine dei tempi» quando, come dirà più tardi san Paolo, «Dio sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,28), e il suo regno di vita e di gioia sarà pienamente compiuto; ma ciò non toglie realtà e consistenza alle realizzazioni parziali e imperfette che egli va compiendo.
    In sintesi, quindi, si potrebbe dire che il regno di Dio annunciato da Gesù quale grande dono al mondo, è la presenza trasformante di Dio stesso nell'intera realtà, il cui effetto è l'eliminazione da essa del male in tutte le sue forme. Volendo dirlo in maniera positiva, il regno di Dio è la realizzazione della grande benedizione pronunciata da Dio sin dall'inizio sull'uomo e sull'intera creazione (Gn 3,15): che, sperata ogni forma di male, tutto e tutti siano pieni di vita, di gioia, di pace, che partecipino pienamente alla sua stessa vita e felicità.

    Il dono come vita, o vita eterna

    L'evangelista Giovanni parla di questo dono di Dio, portato da Gesù al mondo, in termini diversi da quelli adoperati dai sinottici. Sono termini oggi probabilmente più comprensibili che la formula «regno di Dio», perché meno legati alla cultura biblica e più vicini alla sensibilità odierna.
    Un testo che mette bene in evidenza da questo punto di vista il senso dell'intera attività svolta da Gesù stesso è il discorso del Buon Pastore fatto da lui dopo aver aperto gli occhi a un cieco dalla nascita (Gv 9,1-7). In esso dice solennemente: «Io sono venuto perché abbiano la poche parole esprimono molto stringatamente ciò che gli sta a cuore sopra ogni cosa: che gli uomini, e specialmente quelli che ne hanno più bisogno perché ne sono più privi, come l'uomo che ha guarito dalla cecità, siano vivi, abbiano più vita di quanta ne hanno ora.
    È significativo il fatto che nel Vangelo di Giovanni la persona e l'attività di Gesù siano spesso vincolate con la vita. In esso, infatti, egli viene presentato come l'acqua viva (Gv 4,10), come il pane vivo disceso da cielo (Gv 6,48-51), come la luce di vita (Gv 8,14), dal come la vite che comunica la linfa vitale ai tralci (Gv 15,1-11). Ma dietro a Gesù c'è ancora la fonte ultima della vita: il Padre, dal quale egli stesso, e per mezzo di Lui tutti gli uomini, la ricevono (Gv 5,26).
    Giovanni affianca spesso l'aggettivo «eterna» al sostantivo «vita». La cosa può trarre in inganno se non si tiene presente ciò che Gesù fece e cercò durante tutta la sua attività. Si può infatti pensare che la «vita eterna» sia il cielo, ossia il dono definitivo che Dio farà, al di là di «questa» vita temporale, a coloro che avranno accolto la sua Parola e l'avranno messa in pratica. Stando al Vangelo, per Gesù la «vita eterna» comincia invece già qui, in questo mondo, perché già fin d'ora gli uomini e le donne possono passare dalla morte alla vita (Gv 5,24-29). Essa avrà certamente la sua realizzazione piena nell'aldilà, ma ciò non toglie che sia una realtà già nel presente. In questo senso, benché con una terminologia diversa, Giovanni dice la stessa cosa che dicevano i sinottici parlando del regno.
    Un'altra caratteristica di Giovanni è quella di avere messo in rilievo, con una certa insistenza, una delle dimensioni proprie del dono della vita, quella che riguarda il rapporto dell'uomo con Dio. Egli parla spesso di una figliolanza acquisita per dono di Dio (Gv 5,21; 17,6), conseguenza del fatto di essere stati generati o rigenerati da Lui (1 Gv 3,9; 4,7; 5,18), e di avere quindi dei rapporti molto stretti di comunione con Lui. A questo rapporto di figliolanza si accede, secondo l'evangelista, mediante la fede in Gesù, che è il Figlio per eccellenza venuto nel mondo proprio per dare agli uomini la possibilità di diventare figli di Dio (Gv 1,12-13; 20,31).
    Ma questo Vangelo, e anche gli altri scritti detti giovannei, insistono pure sul fatto che la figliolanza nei confronti di Dio è indissolubilmente unita a un rapporto di fraternità con gli altri. Uno dei testi più espressivi al riguardo è quello della prima lettera di Giovanni, dove si leggono queste solenni parole: «Chiunque ama (il fratello) è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama (il fratello) non ha conosciuto Dio... Se uno dicesse "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (1 Gv 3,7-21).

    2. La Pasqua, il dono pieno e definitivo di Dio

    Il dono del regno o della vita che Gesù annunciò e fece vedere attivamente presente nel mondo durante la sua esistenza terrena, arrivò alla sua piena manifestazione, secondo i testi neotestamentari, nel momento culminante della sua esistenza, la Pasqua. Come l'esodo venne considerato dal popolo dell'Antico Testamento quale avvenimento di grazia per eccellenza da parte di Dio in suo favore, in modo analogo la Pasqua di Gesù, con tutto ciò che essa comporta, venne ritenuta, da parte delle comunità del Nuovo Testamento, come il dono più grande fatto da Dio all'umanità.
    Lo rivisitiamo ora brevemente, per cogliervi con maggiore ricchezza la sua portata. Dobbiamo tener presente anche, riguardo ai testi che parlano della Pasqua, ciò che dicevamo nel capitolo precedente sulle narrazioni bibliche dell'esodo: esse non pretendono di tramandare una cronaca di ciò che è avvenuto in quell'occasione, quanto piuttosto il profondo significato che la fede riuscì a scoprirci dentro. Sono quindi narrazioni di fede e, come fanno notare in genere gli esegeti, sono di solito ri-letture fatte al servizio della fede concreta delle diverse comunità dei credenti. Tuttavia, alla base dei loro racconti c'è qualcosa di realmente avvenuto. E questo qualcosa viene espresso mediante formulazioni molto svariate, che vanno dal kerigma o proclamazione iniziale alle confessioni più dettagliate di fede, e dalle narrazioni delle apparizioni del Risuscitato a quelle della constatazione del sepolcro vuoto.

    La Pasqua di Gesù

    Cosa dicono quindi i testi del Nuovo Testamento sulla Pasqua? È chiaro che in essi l'avvenimento pasquale riguarda in primo luogo Gesù di Nazaret in persona. Ossia, è qualcosa di estremamente straordinario che concerne anzitutto lui stesso. Ridotto all'essenziale, si tratta del fatto che, per un intervento potente di Dio, viene radicalmente rovesciata la situazione in cui egli è venuto a trovarsi alla conclusione della sua vicenda storica.
    Nel suo insieme i testi lo descrivono, quindi, come un passaggio dalla Morte alla Vita, con la V maiuscola. Il punto di partenza di questo nuovo esodo è appunto la Morte, ossia la condizione da diversi punti di vista negativa in cui è andato a finire Gesù di Nazaret dopo aver annunziato con entusiasmo e passione il regno di Dio. A motivo del suo modo di comportarsi e di agire in ordine ad esso, egli morì sulla croce perché gli uomini del suo popolo - in concreto i suoi capi politici e religiosi - vollero sbarazzarsi di lui estromettendolo dalla società d'Israele (At 2,23; 3,13b-15, ecc.). La compassionevole sollecitudine di qualche amico trovò un posto per il suo corpo martoriato in un sepolcro nuovo, dove venne deposto frettolosamente prima che iniziasse la grande festa della pasqua ebraica (Mt 27,59-61).
    Ma non finì tutto lì, secondo la confessione di fede dei discepoli. Essi affermano infatti con convinzione e con gioia che Dio, il «Dio dei padri», è intervenuto con la sua «straordinaria potenza» (Ef 1,19-20), mediante la forza del suo Spirito vivificante (Rm 1,4), per strappare Gesù dai lacci della morte (At 2,24). Sono svariate le formulazioni con cui essi esprimono questo intervento: Gesù è stato risuscitato dai morti (At 2,24.32), è stato esaltato alla destra di Dio (At 2,33), è stato glorificato (At 3,13), è stato costituito quale Cristo e Signore (At 2,36).
    Lo sbocco finale di questa azione straordinaria di Dio è la nuova situazione in cui si trova Gesù a partire da allora e per sempre: egli è «vivo» (At 1,3), anzi è «il Vivente per i secoli dei secoli» (Ap 1,17), egli stesso è «Spirito vivificante» (1 Cor 15,45), e su di lui la morte non ha più nessun potere (Rm 6,20).
    È nella Pasqua, quindi, che Gesù diventa il destinatario della suprema grazia di Dio, proprio nel fatto di venir strappato, mediante la forza vivificatrice dello Spirito Santo, dai lacci della morte e introdotto pienamente e definitivamente nella Vita. La sua risurrezione è perciò l'atto di grazia per eccellenza, misura ed emblema di tutti gli altri.

    Portata universale della Pasqua

    Ma se la Pasqua è vista dai credenti come avvenimento di grazia e di salvezza, anzi come l'avvenimento di grazia e di salvezza per eccellenza, è perché essa non concerne solo Gesù di Nazaret, ma anche loro stessi e, più in là ancora, tutti gli uomini, l'umanità e il mondo intero. I membri delle comunità neotestamentarie esprimono una tale convinzione in diverse maniere.
    Anzitutto, essi proclamano gioiosamente che la grande Promessa di benedizione fatta da Dio all'umanità dopo il peccato di Adamo (Gn 3,15), e portata in grembo, come una grande speranza, dal popolo d'Israele lungo i secoli della sua storia, si è finalmente avverata: Dio ha fatto all'umanità il grande dono che essa, consciamente o inconsciamente, attendeva da sempre (At 3,25-26). Inoltre, dichiarano che Gesù risorto è «la primizia» (1 Cor 15,22-23) e lo chiamano «primogenito tra i morti» (Col 1,18b), e con questo esprimono la certezza che lo straordinario dono fatto a lui da Dio sia destinato all'intera umanità. Ancora: si sanno e si sentono ripieni di quello Spirito di Dio la cui effusione era stata promessa per i tempi messianici (At 2,1-4), uno Spirito che li rende capaci di vivere in un modo nuovo, cercando di avere tra di loro «un cuor solo e un'anima sola» e «mettendo tutto in comune» affinché tra loro «non ci sia nessun bisognoso» (At 4,32-35), e che li riempie della gioia propria dei tempi escatologici (At passim). Infine, si impegnano attivamente, grazie alla forza che viene loro dallo stesso Spirito, nel realizzare la salvezza concreta degli uomini e delle donne con cui vengono a contatto, annunciando loro la buona novella, guarendoli dalle loro malattie, liberandoli dagli spiriti cattivi (At 3,1-9; 5,15-16; ecc.).
    Quindi, come si vede, la Pasqua è la massima manifestazione del regnare sovrano di Dio nel mondo. In essa la sua vittoria sulle forze del male acquista la più intensa trasparenza perché, come dice un antico inno liturgico pasquale, sulla croce di Cristo «la Vita e la Morte si sono affrontate in un prodigioso duello», ma dopo di esso «il Signore della Vita, che era morto, ora, vivo, trionfa».

    3. Le implicanze del dono pasquale

    Tra gli scrittori del Nuovo Testamento chi ha messo più chiaramente in evidenza e in qualche modo sviscerato le ricchezze del dono di Dio all'umanità mediante Gesù Cristo è Paolo. Lo ha fatto un po' in tutte le sue lettere, alle volte in contesti alquanto polemici per via delle circostanze in cui si trovò ad annunciare la fede; ma il testo più importante, dal punto di vista della nostra tematica, è indubbiamente la Lettera ai Romani. Il tema centrale che egli affronta in essa è quello della giustificazione, ossia del passaggio dell'uomo dallo stato di peccato, di inimicizia con Dio, in definitiva di morte, a quello di grazia, di amicizia con Dio e di vita. In altre parole, dal dominio del male a quello di Dio. Una giustificazione che avviene, secondo lui, non grazie all'osservanza della legge di Mosè, come pensavano i suoi avversari provenienti dal giudaismo più stretto e rigoroso, ma grazie al dono fatto da Dio in virtù della fede in Gesù Cristo morto e risorto (Rm 5,1).
    Il filo conduttore dell'intera lettera è l'antitesi tra la Morte e la Vita. La facciamo ora oggetto di analisi, per cogliere cosa Paolo pensi del grande «dono» dato da Dio a chi crede in Cristo.

    La condizione di Morte

    Paolo riconosce anzitutto l'onnipresenza dominante della Morte nel mondo, e ne mette in rilievo anzitutto l'origine. Secondo lui, erede in ciò della tradizione dell'Antico Testamento, l'ha introdotta nel mondo il primo uomo, Adamo, con il suo peccato, cioè con quella «trasgressione» del precetto dato da Dio di non mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male (Rm 5,18). Si tratta di quello che poi la teologia chiamerà «peccato originale originante», in quanto è la fonte di tutti i peccati dell'umanità.
    L'Apostolo evidenzia anche la conseguenza di quella trasgressione o caduta originale: è il peccato (quello che la teologia chiamerà il «peccato originale originato»). Si tratta di una forza malefica che opera da allora nel mondo. Essa agisce all'interno di ogni uomo (Rm 7,20) e ne provoca in definitiva la Morte, poiché genera in lui una condizione umanamente disastrosa che si concretizza soprattutto nel fatto di avere un rapporto sostanzialmente negativo con Dio fino a porsi come suo nemico, e trova la sua massima manifestazione nella morte corporale.
    Paolo sostiene, inoltre, che da tale condizione non si può uscire mediante l'osservanza della Legge, come sostenevano i suoi avversari; anzi, egli arriva ad affermare che la Legge, malgrado sia buona in se stessa perché ha Dio per autore, contribuisce di fatto ad aggravarla perché, proibendo di fare certe cose, ne acuisce il desiderio nell'uomo (Rm 7,7-11) e provoca la sua ulteriore caduta. Così l'uomo vive in situazione di asservimento al peccato e al male, un asservimento dal quale non può liberarsi da sé, ma solo mediante l'intervento gratuito e misericordioso di Dio.

    Il dono della Vita

    Con gioia Paolo nella lettera afferma anche che, pur senza eliminare completamente dal mondo la presenza della Morte, esiste tuttavia in esso, quale grande dono di Dio, la Vita. E ne evidenzia anzitutto la fonte: è il nuovo Adamo, Cristo risorto (Rm 5,15-17). In questo modo egli contrappone due modi di essere uomini: il primo, quello dell'Adamo del libro della Genesi, che con il suo peccato ha causato la rovina dell'umanità e la sua Morte, e quello del Cristo risorto che, mediante la sua morte, è causa della salvezza e della Vita di tutti.
    Di questa Vita apportata da Cristo la lettera rileva inoltre due componenti, che sono complementari tra di loro come le due facce di una stessa medaglia. Anzitutto una componente negativa: per poter irrompere nell'uomo la Vita deve prima sgomberare ciò che le si oppone. Quest'azione di rimozione viene da lui chiamata «redenzione» o «liberazione» (Rm 3,21-26). Essa consiste nello scioglimento dell'uomo da una serie di legami che lo tengono in situazione di schiavitù: dalla colpa e dalla condanna che ne segue (Rm 8,1; 5,19); dal peccato come forza malvagia che opera in lui (Rm 6,22; 7,24); dalla Legge che lo rende schiavo (Rm 7,1-7); e perfino, quale promessa futura, dalla morte corporale, conseguenza ultima del peccato (Rm 8,23). In certi momenti questa liberazione viene estesa dall'Apostolo anche alla creazione intera. Essa non interessa quindi solo l'uomo, ma l'intera natura, perché anch'essa è soggetta al dominio del male, e geme e soffre nell'attesa impaziente della liberazione dalla schiavitù della corruzione (Rm 8,19-22).
    La componente positiva viene tratteggiata in maniera molto complessa e ricca. Essa consiste anzitutto nella presenza personale, stabile e dinamica, dello Spirito Santo di Dio nel cuore (Rm 5,5; 8,9). Ma consiste anche in una relazione d'intimità profonda dell'uomo, liberato dal peccato e dalle sue conseguenze, con lo stesso Cristo; relazione che lo converte in figlio di Dio (Rm 8,14), e perciò anche in coerede con Cristo. Si tratta del tema della figliolanza divina al quale, come abbiamo visto, Giovanni dà molto rilievo nel suo Vangelo e che lo stesso Paolo riprende spesso nelle altre sue lettere. Questa figliolanza divina è una realtà che si rivelerà pienamente alla fine dei tempi (Rm 8,18), ma che già nel presente fa dell'uomo una «nuova creatura» (2 Cor 5,17; Gal 6,15), un «uomo nuovo» (Ef 4,20-24; Col 3,9-10) che vive la Vita stessa di Cristo (Gai 2,20), in quanto membro del suo Corpo (Col 1,18; Ef 4,11-26; ecc.), e lo rende partecipe del piano di predestinazione di Dio (Rm 8,29-30; Ef 1,1ss), un piano di amore e di salvezza universale (Rm 11,32; 1 Tm 2,4; 4,10).

    Una condizione fondamentale: la fede in Cristo

    Paolo ci tiene a ribadire ancora, nella sua lettera, che questa Vita viene comunicata all'uomo a un'unica condizione: la fede in Cristo risorto (Rm 10,10). Si tratta di una fede che non è mera adesione a certe dottrine, ma che deve essere viva e dinamica, in quanto «agisce nella e per la carità» (Gal 5,6).
    Questa fede a sua volta trova la sua espressione rituale nel Battesimo, il quale fa partecipare simbolicamente, ma realmente, il credente alla morte e risurrezione di Cristo (Rm 6,3-11). Immergendosi infatti nell'acqua, colui che crede partecipa alla morte e sepoltura di Cristo, ed emergendo da essa diventa partecipe del suo trionfo sulla Morte.

    Diventare ciò che si è, esigenza della grazia

    Bisogna rilevare, infine, che per Paolo l'adempimento della legge morale, che egli, seguendo l'orientamento dello stesso Gesù, condensa nell'amore fraterno (Rm 13,9b-10), è più una conseguenza che una condizione di questa nuova Vita. Poiché è una nuova creatura (2 Cor 3,17), chi crede in Cristo può e deve condurre anche una Vita nuova; deve cioè cercare di comportarsi in un modo qualitativamente diverso da come si comportava prima (Rm 6,4), quando era sotto il dominio del peccato e poneva perfino le membra del suo corpo a servizio del peccato. Ora tutto il suo essere è a servizio della «giustizia di Dio», ossia del modo in cui Gesù stesso si è comportato.


    T e r z a
    p a g i n A


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