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    Intervista a Riccardo Tonelli

    a cura di Giancarlo De Nicolò 

    (NPG 2009-05-38)



    3. Un poco di doverosa verifica critica

    Domanda. Il cammino di questi anni è stato segnato da molti consensi. Non sono però mancate le reazioni critiche e le contestazioni. Certamente si è chiesta la ragione di questa situazione. Qualche polemica è normale, soprattutto quando riguarda aspetti particolari di una proposta. Qualcuno, invece, ha l’impressione che i contrasti siano sulle scelte di fondo. Che ne pensa?

    Risposta. È molto vero. E sarei contento di confrontarmi proprio su queste scelte di fondo. Devo però, prima di tutto, giustificare la prospettiva globale: essa dà origine a differenze concrete non piccole.
    La indico con una metafora.
    Chi si mette in viaggio, quando deve scegliere il ritmo dei suoi passi, prima di tutto deve orientarsi sui compagni di viaggio con cui vuole fare strada. Se sceglie la strada migliore e i mezzi più potenti, a scapito dei compagni di viaggio con cui vuole procedere, fa una operazione scorretta. L’errore non consiste nell’aver abbandonato il meglio, ma di averlo fatto discriminando inesorabilmente quelli con cui vuole fare strada. Una strada in compagnia è sempre la scelta del possibile, lasciando l’ottimo e la perfezione a coloro che sono felici di camminare da soli o si entusiasmano, contando quelli che vanno loro dietro e ignorando i moltissimi che sono costretti a restare ai margini della strada.
    Esco dalla metafora per tornare alle riflessioni sulla pastorale giovanile.
    Don Bosco ci ha insegnato a non rinunciare mai alla pretesa di amare e servire tutti i giovani. Ci ha rassicurato che questa carità globale si realizza in modo sicuro quando vengono privilegiati i più poveri, gli ultimi, quelli che fanno fatica a tenere il passo dei primi della classe.
    Ce lo siamo detti tante volte e credo debba essere ripetuto con decisione anche oggi: nei tempi di crisi la tentazione di correre in compagnia dei pochi che ci stanno – e ci danno consolazioni – riaffiora facilmente.
    Nella scelta delle linee portanti del progetto di pastorale giovanile il criterio era l’autenticità e la validità. Ma non solo. Tra le diverse ipotesi, ho sempre cercato di privilegiare quella che potesse assicurare meglio la compagnia, sincera e gioiosa, con tutti i giovani, e con i più poveri soprattutto. Lo so che le vie possibile erano anche altre. La forza stimolatrice di tante esperienze poteva sollecitare verso altre scelte. Ma la preoccupazione di camminare in compagnia dei giovani della vita quotidiana ha rappresentato un criterio decisivo. Mi sembrava un modo irrinunciabile per essere fedele, con i fatti, alla mia vocazione salesiana.
    Certo: i rischi non mancavano. Esistono però scelte prive di rischi? Non possiamo assolutamente affermare che le vie tradizionali della pastorale giovanile, quelle di un tempo e quelle che qualcuno vorrebbe rilanciare oggi, sono esenti da rischi. Sarebbe troppo bello e saremmo sciocchi se abbandonassimo la via sicura per correre in quella incerta. Il rischio più preoccupante è quello di elaborare un progetto che funziona per pochi fortunati o solo per quelli che ci stanno. I giovani più poveri – di sensibilità, di esperienze, di attese – a chi li affidiamo?
    La teologia pastorale si colloca sul piano della riflessione: lì la chiarezza è d’obbligo. La pastorale privilegia la prassi, ed essa ha le sue regole, più funzionali e meno sicure.
    L’unico controllo al rischio sta nel confronto, disponibile e critico. Solo il confronto arricchisce, fa pensare, costringe a cambiare. L’ho sperimentato in prima persona. E sono molto grato a tutti coloro che hanno offerto la loro contestazione sincera. Se non ho saputo comprenderla e accoglierla, ne sono dispiaciuto: non per me, ma per i giovani che avrei voluto servire in modo più autentico, verso l’incontro personale con Gesù.

    D. Dobbiamo andare maggiormente verso il concreto, perché sulla linea teorica l’accordo è facile. Oggi si alza con frequenza il richiamo di voci autorevoli che sollecitano ad andare all’essenziale, proponendo, senza mezzi termini, l’annuncio di Cristo e la sua sequela. È d’accordo?

    R. La questione è certamente fondamentale.
    Può essere espressa con le parole usate nella domanda o può essere detta con altre parole, forse più concrete e verificabili: il progetto di pastorale giovanile in una forte attenzione alle esigenze dell’educazione è stata ed è una scelta corretta, o essa sta alla radice dei molti limiti, riconosciuti e denunciati? Serve a rallentare il cammino o rappresenta una via obbligata?
    Con espressioni ancora più concrete, possiamo chiederci: in un progetto di pastorale giovanile esiste un rapporto tra educazione e evangelizzazione? E quale? Moltissime questioni pratiche sono riconducibili a questo interrogativo.
    La risposta non è facile e non può essere risolta in quattro battute.

    IL CONFRONTO SERIO CON L’INCARNAZIONE

    Come per tutte le scelte di fondo, a me piace ricordare il riferimento fondamentale di tutto il progetto: il confronto con l’evento dell’Incarna­zione. Non poche difficoltà sono nate da una cattiva comprensione di questo orientamento. Se l’Incarna­zione è considerata come uno dei momenti della vita di Gesù, a cui essere fedeli, allora le posizioni possono essere davvero diverse. Di conseguenza, un modello di pastorale giovanile che dà fiducia alla vita e alla educazione può aprire a molti e pericolosi rischi. Ci si può dimenticare del peccato e della grazia, dell’urgenza di fare proposte forti e chiare, dei modelli di spiritualità e di vita sacramentale che ci sono stati consegnati.
    Ho cercato però di precisare che l’evento dell’Incarnazione va considerato non come una dimensione alternativa alle altre dell’esistenza cristiana, ma come la prospettiva da cui considerarle tutte. Mi rendo conto – oggi in modo speciale – di non essere sempre stato capace di dire questo in modo chiaro o di non aver aiutato a pensare in profondità a questa visione teologica, tipica del Vangelo e del Concilio. Va anche ricordato che la tradizione pastorale classica utilizzava prospettive diverse e qualche volta persino le raccomandazioni ufficiali sembravano muoversi su altre prospettive.
    Sarebbe bello, oggi soprattutto, fermarci con calma a ripensare a queste scelte. Le conseguenze sono enormi, nell’ambito della spiritualità e, di conseguenza, della pastorale. Ho avuto la fortuna di partecipare al Capitolo generale XXVI della Congregazione salesiana. Su questi temi ci siamo confrontati e accalorati, sotto l’urgenza dei problemi. Sono convinto che la scelta di assumere la prospettiva dell’Incarnazione come criterio orientativo ha permesso di ritrovare convergenza e armonia e, soprattutto, ha assicurato un forte rilancio delle esigenze della evangelizzazione in uno stile attento alle persone, ai giovani, alle esigenze dell’educazione.
    Cito una delle indicazioni conclusive più forti e chiare, risuonate nel nostro Capitolo:
    «L’evangelizzazione richiede di salvaguardare insieme l’integralità dell’annuncio e la gradualità della proposta. Don Bosco assunse questa doppia attenzione per poter proporre a tutti i giovani una profonda esperienza di Dio, tenendo conto della loro situazione concreta. Nella tradizione salesiana abbiamo espresso tale rapporto in modi diversi: ad esempio «onesti cittadini e buoni cristiani» oppure «evangelizzare educando ed educare evangelizzando». Avvertiamo l’esigenza di proseguire la riflessione su questo delicato rapporto. In ogni caso siamo convinti che l’evangelizzazione propone all’educazione un modello di umanità pienamente riuscita e che l’educazione, quando giunge a toccare il cuore dei giovani e sviluppa il senso religioso della vita, favorisce e accompagna il processo di evangelizzazione: ‘senza educazione, in effetti, non c’è evangelizzazione duratura e profonda, non c’è crescita e maturazione, non si dà cambio di mentalità e di cultura’ (Benedetto XVI, Messaggio al CG 26, n. 4)» (n. 25).
    Non posso utilizzare una citazione del 2008 per giustificare il cammino degli anni passati. Sinceramente però sono convinto che lo spirito del documento ha implicitamente ispirato le nostre scelte. Provo ad esplicitarle, per sollecitare a comprenderle meglio e, soprattutto, a confrontarle criticamente con lo spirito dell’importante dichiarazione del nostro Capitolo, che misura la mia fedeltà vocazionale.

    L’incontro personale con Gesù: il dono e il cammino

    La preoccupazione fondamentale – e, veramente, unica – di ogni progetto di pastorale giovanile è l’incontro personale con Gesù, per radicare sulla roccia sicura la vita e la speranza. Questo incontro nasce solo da un pieno e coraggioso annuncio: senza evangelizzazione non possiamo né scoprire né incontrare il Signore Gesù. Per questo, la passione per la vita e la speranza dei giovani non può assolutamente rinunciare all’evangelizzazione. Non ci sono soluzioni alternative né rimedi suppletivi.
    L’esito è la fede e la sua maturazione.
    Questa consapevolezza porta ad una prima decisa indicazione: la fede è dono e nasce solo dall’offerta del Vangelo.
    A questo livello, l’educazione – anche la più raffinata e appassionata – è inadeguata. Essa è orientata a produrre cultura, mettendo in esercizio libertà e responsabilità. La fede viene dell’esperienza del mistero e si comunica per condivisione di esperienze.
    L’insistenza di tanti amici, che in questi anni hanno alzato la voce contro i rischi del silenzio e della eccessiva fiducia verso l’educazione, rappresenta davvero un contributo prezioso, di cui essere tutti molto grati.
    Educare vuol dire le tante cose che riusciamo ad immaginare in una passione educativa unita ad un pizzico di fantasia: studiare realisticamente i segni di morte da trasformare in esperienze di vita, andando alle cause e alla trama violenta delle connessioni; restituire alle parole quello spessore culturale e storico che ci permette un uso collettivo e socialmente rilevante; ricostruire un tessuto di libertà e di responsabilità al cui interno le parole pronunciate e i gesti compiuti risuonino come impegni seri e solenni; ridare parola a coloro cui è stata sottratta per spalancare le vie al mistero e ridare spessore alle parole per far camminare veramente verso il mistero.
    Fa parte dell’approccio educativo anche il coraggio di misurarci con una verità, consistente e data, nel cui grembo possiamo crescere verso eventi più grandi delle loro formulazioni.
    Diventa importante momento educativo anche quello sforzo che sa ricostruire la capacità logico-speculativa, per dare a sé e agli altri le buone ragioni della propria fede.
    Anche la maturazione della fede richiede «educazione», anche se l’educazione non basta certamente a sostenere la fede.
    Per educare alla fede possiamo intervenire ai diversi livelli in cui si esprime la maturazione personale. Si tratta di abilitare i giovani a cercare una esperienza di senso oltre il già posseduto e consolidato. E questo è frutto di educazione.
    Si tratta di restituire alla proposta della fede una sua risonanza culturale che la renda comprensibile e significativa. E anche questo chiama in causa l’educazione.
    È urgente dare visibilità alla vita cristiana, in modo che si parli di essa all’interno di una comunità, significativa e affascinante, che funzioni come principio di riferimento prezioso e sostegno.
    Soprattutto credo sia urgente costruire risposte alla domanda che implicitamente si pone chi sente parlare di Gesù: se dico di sì alla sua persona… cosa capiterà alla mia vita? Tutto il lavoro vissuto in questi anni attorno alla spiritualità tendeva a ricostruire un modello di esistenza nello Spirito, capace di restituire all’evangelizzazione la forza di bella notizia.
    E anche questo è tema educativo. Tutto questo è importante. Ma non è sufficiente.
    Uno dei limiti del lavoro di questi anni è stato… il gioco del «prima» e del «dopo». Qualcuno diceva: prima l’educazione e poi l’annuncio. Qualche altro preferiva invertire i tempi. Oggi sono convinto che tutto questo – al di là della buona volontà – sia stato un grave errore. Tra il prima e il dopo abbiamo perso il tempo dell’uno e dell’altro, e ci siamo fermati per strada.
    La distinzione tra educazione e evangelizzazione non va quindi tradotta in una sequenza temporale rigida. Non si può cioè dire: prima una cosa e poi l’altra. Ci vogliono i due momenti. In quale ordine? Non possiamo stabilire un calendario.
    Di solito, l’educazione precede l’evangelizzazione. Sempre l’accompagna. Spesso ritorna con forza dopo le prime esperienze di immersione nel mistero.
    Il calendario è fissato dalle esigenze dei giovani e dall’amore premuroso e operoso dell’educatore, capace di imitare, in una competenza e una passione mai spenta, il saggio del Vangelo che sa ricavare dal suo tesoro «cose antiche e cose nuove».
    Per far scoprire che Dio è Padre, devo permettere alle persone di capire il senso dell’affermazione e devo restituire l’esperienza e il bisogno di avere un padre. Per affidare a Dio il desiderio di paternità, devo aiutare le persone a buttarsi in Dio, con la fiducia di chi si affida ad un mistero grande.
    Il primo compito è assolto dall’educazione. Per il secondo non c’è educazione che basti. L’unica via praticabile è narrare ad altri un pezzo della propria vita.
    Chi fa pastorale giovanile si impegna su tutti e due i compiti. Restituisce al giovane il senso della propria vita attraverso interventi educativi; cerca modelli di evangelizzazione che permettano di dare parola al mistero e di coinvolgere in un gioco di libertà e di amore.

    D. Tra i nodi più discussi e criticati nel progetto di pastorale giovanile elaborato in questi anni, c’è il riferimento all’animazione in ordine ai processi di educazione alla fede. Ci vuole proprio l’animazione nell’educazione alla fede? Non è un modo riduttivo e pericoloso di affrontare la questione centrale?

    R. Quante cose ci siamo detti in questi anni a proposito di animazione! Ho l’impressione che essa abbia rappresentato uno dei terreni di scontro più contesi.
    Con lo sguardo decantato dalla distanza, preferisco chiarire quale era la posizione suggerita. È ancora possibile recuperare e ricostruire. Non si tratta di vedere chi ha ragione o dove sta il torto. È più urgente pensare a come servire meglio i giovani, ritrovando la grazia di unità tra educazione ed evangelizzazione, proprio attorno al nodo dell’animazione.

    Il senso dell’animazione del cammino di fede

    Va detto forte e ripetuto con decisione: l’animazione, come ogni processo educativo, non può assicurare l’incontro personale con Gesù. Non è la sua ragione d’essere ed è sciocco pretendere ciò che non le compete. Può, in compenso, offrire un contributo prezioso alla completezza del processo, dalla parte dell’educazione.
    Provo a spiegarmi.
    La pastorale deve e vuole rispettare l’autonomia delle scienze dell’educazione nella definizione di una figura di educazione. Non può però ridursi ad una funzione subalterna, proprio nel momento in cui essa stessa cerca di superare la tentazione di trattare in questo modo le altre discipline.
    Come scegliere nel pluralismo di proposte, rispettando, nello stesso tempo, l’autonomia scientifica delle discipline con cui la pastorale vuole dialogare e il peso condizionante che queste discipline possono esercitare rispetto all’esercizio specifico dell’azione pastorale? Sembra un problema solo teorico, per gli addetti ai lavori, e invece ha risvolti concreti notevolissimi.
    In questi anni si è progressivamente fatta strada una convinzione che aiuta ad affrontare bene la questione.
    Il confronto tra le scienze dell’educazione e le discipline teologiche è possibile solo se esiste un principio regolatore del confronto stesso, che funzioni come sede unificante del dialogo.
    Nella pastorale questo principio è l’attenzione all’uomo, come evento integrale e indivisibile, in vista della compenetrazione nella sua struttura di personalità della maturità umana e cristiana: l’uomo, cioè, che ricerca ragioni per vivere e sperare e cui la comunità ecclesiale vuole testimoniare il progetto definitivo di salvezza in Gesù Cristo.
    La teologia e le scienze dell’uomo, pur nella diversità degli approcci, possono riconoscere la maturazione dell’uomo verso la sua pienezza di vita, come un punto comune di convergenza, teorica e pratica. In esso, i problemi relativi all’educabilità e alla riferibilità a Dio, provenienti da direzioni diverse e tendenti verso direzioni diverse, si attraversano e si coinvolgono. Su questo principio unificatore, ogni disciplina può suggerire il suo specifico contributo, verso la soluzione del problema. In parte, è problema comune perché centrato sull’uomo e sulla sua promozione in umanità. In parte, è specifico della riflessione e progettazione pastorale perché riguarda esplicitamente la sua salvezza nel Dio di Gesù Cristo.
    Per questa convinzione, la pastorale giovanile, tra i molti modelli di educazione con cui si confronta, sceglie e assume quel modello in cui ha l’impressione che siano rispettati e riaffermati i riferimenti che, nella fede, riconosce irrinunciabili per la qualità della vita e per il consolidamento della speranza. Di qui nasce la scelta dell’animazione come modello globale di educazione, da integrare nei processi di educazione alla fede.
    La pastorale non ha bisogno di uno strumento in più, da aggiungere a quelli che già possiede e che le vengono dalla tradizione ecclesiale. Ha invece bisogno di una proposta globale di educazione in cui ripensarsi e da cui qualificare il suo servizio.
    L’esperienza di molti educatori, in questi anni, ha portato a scoprire che l’animazione non è né una tecnica né uno strumento. Essa è una scommessa globale sull’uomo e un progetto complessivo per la sua maturazione. Essa è, in altre parole, un progetto di educazione, uno fra i tanti, con una sua precisa organicità e articolazione. La pastorale ha scoperto di potersi riconoscere bene nelle sue linee di fondo. Convergendo attorno all’uomo e alla sua maturazione, anche da preoccupazioni diverse, si è trovata interpretata bene e aiutata a scoprire esigenze e dimensioni a cui non può rinunciare per la qualità del suo servizio.
    Per questo, la pastorale si è messa in dialogo con l’animazione e ha riconosciuto quanto sia preziosa per essa «la scuola dell’animazione», per assumere in modo pieno quel rapporto con l’educazione che fa parte della sua natura.
    L’animazione, come modo globale di realizzare l’educazione, diventa il luogo in cui si ripensano e si concretizzano i problemi, le prospettive e le scelte tipiche dell’educazione alla fede. E, nello stesso tempo, attraverso il dialogo con le esigenze irrinunciabili dei processi che riguardano la trasmissione della fede, l’animazione può comprendersi meglio e riformularsi in termini più adeguati, pur restando un processo autonomo, orientato ad altre finalità e ad altre dimensioni della vita dell’uomo.

    «Sacramentalità» della vita quotidiana e sacramenti...

    D. Quelli ricordati non sono certamente gli unici temi che hanno suscitato problemi e perplessità. Ce ne sono altri: l’aspetto sacramentale con la relativa proposta di una «sacramentalità diffusa», una certa sottovalutazione del ruolo della grazia, un certo silenzio sul tema della famiglia e della comunità a vantaggio del tema del gruppo di pari. Che ne dice? Non ha l’impressione che proprio attorno a questi temi pastorali sia possibile riscontrare la ragione della difficoltà della sua proposta di pastorale giovanile?

    R. Condivido l’elenco. Lo riformulo con le mie parole, aggiungendo altri temi che riconosco non sufficientemente sviluppati: la funzione dei sacramenti, il riconoscimento del gioco misterioso tra peccato e grazia, tra tradimenti personali e amore accogliente e inquietante di Dio, il mistero della morte e resurrezione di Gesù, cioè della sua Pasqua, che potrebbe essere messo pericolosamente tra parentesi quando si accentua l’evento dell’Incarnazione, le esigenze irrinunciabili di una vita cristiana secondo la proposta che la comunità ecclesiale mette davanti al nostro sguardo. All’interno di questi temi, anche se non sono stati ricordati in modo esplicito nella domanda, vanno pensati altri temi tipici del servizio di pastorale giovanile: la crescita verso una vita cristiana adulta, la preghiera e la «pratica sacramentale», la capacità di introdurre nei processi della propria formazione esigenze che la tradizione cristiana ha sempre considerato irrinunciabili, come la mortificazione, la capacità di rinuncia, l’obbedienza e la fedeltà alla legge…
    L’elenco risulta facile, per i continui esami di verifica interni, e per gli stimoli critici provenienti dall’esterno, a diversi livelli.
    Il lettore si rende conto che se dovessi affrontare questi temi con lo sviluppo minimo che ciascuno di essi richiederebbe, dovrei scrivere un libro. A consolazione dei possibili lettori, dichiaro di non farlo, perché tra l’altro non ne sarei capace.
    Anticipo la conclusione a cui arriverò dopo aver percorso un po’ di strada: sono sinceramente convinto che tante cose avrebbero dovuto essere dette in modo diverso, più corretto, più completo, più rispettoso del cammino tradizionale della Chiesa. Se non lo so fare io, proviamo a realizzarlo almeno assieme.
    Spesso, infatti, su queste questioni importanti, nel nostro progetto di pastorale giovanile, siamo rimasti solo alle premesse. Si richiedeva, allora e oggi soprattutto, un lungo e approfondito lavoro di riflessione per portare a sviluppo, a compimento, a operatività le prime iniziali intuizioni.
    Questo è il limite più grave del lavoro fatto in questi anni. Non sto cercando dei colpevoli. Sto solo cercando di dire che di lavoro da fare ce n’è ancora molto. Sarebbe triste sprecare le energie per ritornare al passato, quando invece le poche energie che abbiamo andrebbero giocate tutte per riscrivere il passato nel presente verso un futuro che restituisca al Vangelo di Gesù la sua forza di salvezza e di buona notizia.
    Dopo questa premessa, affronto almeno qualcuno dei temi suggeriti.
    Il primo è quella della cosiddetta «sacramentalità diffusa».
    La riflessione che ci ha permesso di costruire un progetto di spiritualità giovanile ha portato, come facile e immediata conseguenza, l’indicazione, un poco dissueta, di una sacramentalità diffusa nella vita quotidiana. La funzione sacramentale, che abitualmente si riserva solo ai sette sacramenti tradizionali, è stata allargata a tutta la vita.
    Qualcuno si è giustamente preoccupato che questo allargamento potesse significare uno svilimento dei sette sacramenti tradizionali della Chiesa.
    Nella mia riflessione non c’è mai stata la voglia di contrapporre sacramentalità ufficiale, quella dei sette sacramenti, a sacramentalità diffusa.
    Mi piace parlare di sacramentalità diffusa nella vita quotidiana a partire dalla scoperta di Gesù, volto e parola di Dio per noi. Gesù, come la fede della Chiesa ci ricorda, è volto e parola di Dio nella grazia della sua umanità. Chi viveva vicino a lui vedeva la sua umanità, sentiva le parole che lui diceva, si misurava con i gesti che faceva. Se voleva essere nella verità non poteva accontentarsi di constatare questi dati visibili, ma era impegnato ad arrivare, attraverso essi, al Dio misterioso e inaccessibile, che Gesù rendeva vicino e incontrabile. Per questo, Gesù è il sacramento di Dio: in lui c’è qualcosa che si vede e che ci permette di arrivare al mistero che non si vede.
    In Gesù abbiamo parlato tante volte di sacramentalità della vita quotidiana perché anche nella nostra vita c’è qualcosa che vediamo, di cui ci sentiamo responsabili, per cui sentiamo il bisogno di chiedere perdono. Tutto questo ha un senso in sé ma nello stesso tempo spalanca verso un senso più grande. Ce l’ha ricordato Gaudium et spes quando ci diceva che quello che abbiamo vissuto e costruito qui, avremo la gioia di ritrovarlo poi nella casa del Padre. Per questo, dire che la vita è un sacramento è, in fondo, dire una cosa persino banale… se non facesse riferimento al mistero di Dio in cui nulla può essere accolto come banale.
    Quando abbiamo parlato di sacramentalità diffusa abbiamo cercato di constatare come nella nostra vita quotidiana rendiamo visibile e incontrabile Gesù e di conseguenza il Dio di Gesù. Questo è un segno efficace della salvezza, dunque è un sacramento. Dentro questa visione in cui cogliamo la centralità di Gesù e la funzione della nostra umanità, dobbiamo riscoprire i «sette sacramenti» (i sacramenti in senso stretto e specifico) e non solo essi perché, come c’insegna la Chiesa, i sacramenti vanno oltre i sette delle espressioni tradizionali.
    Dire le cose in questo modo non significa svalutare i sacramenti. Significa ritrovarne il valore grande: trovare quello che gli antichi teologi chiamavano la «res» (sostanza del «sacramentum»). La «cosa» permette di arrivare al sacramento solo se nella vita quotidiana è presente una disponibilità alla condivisione, all’accoglienza, al perdono, al bisogno di riconciliazione. Purtroppo, se celebro l’eucaristia o partecipo al sacramento della riconciliazione, senza un minimo di qualità di vita (la «res» rispetto al «sacramentum»), il gesto che compio è un gesto soltanto formale: ciò che faceva dire a Paolo, scrivendo agli abitanti di Corinto: «Il pane che voi condividete è un pane di morte, perché mentre celebrate l’Eucaristia il vostro cuore è pieno di egoismo e di sopraffazione».
    Questa riflessione tocca contemporaneamente i due poli del processo: da una parte chiama in causa l’educazione, l’impegno quotidiano per dare spessore alla «res», e il mondo del mistero di Dio. Siamo, ancora una volta, nel cuore del rapporto tra educazione e evangelizzazione.

    La grazia

    Il rapporto tra sacramentalità diffusa e sacramentalità specifica dei sette sacramenti mi ha aiutato a immaginare un modo di comprendere e di parlare della «grazia».
    Il termine è della tradizione ecclesiale, ma oggi risuona come poco espressivo, sul piano formale e sostanziale, se non viene ben compreso.
    Confesso sinceramente di essere rimasto soltanto ai primissimi passi di una riflessione che invece avrebbe richiesto un lavoro molto più meditato e approfondito. Non sono stato capace di farlo e me ne scuso. Sarei felice se mettessimo in gioco tutte le risorse per poter riprendere questo tema e riformularlo.
    Dico in due battute dove si è collocato il mio pensiero.
    Come su altri temi, la partenza è stata critica. Mi rendevo conto che un certo modo di parlare della grazia si portava inesorabilmente dentro il rischio di un sopranaturalismo eccessivo, che avrebbe messo in crisi l’attenzione verso l’educazione nella pastorale giovanile. Il modello, purtroppo diffuso, attraverso cui si comprendeva la grazia di Dio, faceva poco spazio alla responsabilità personale e quindi all’educazione.
    Per farmi capire, qualche volta ho utilizzato un paragone scherzoso. Lo ripropongo: se mi siedo in macchina vicino a uno che fa da autista e come prima cosa mi chiede di incominciare il viaggio dicendo una preghiera per invocare la grazia di Dio, io preferisco chiedergli di guidare per 10 minuti; dopo questo esercizio posso valutare se mi conviene scendere perché il suo modo di guidare dimostra una pericolosa inettitudine, o se invece, pieno di fiducia in lui, sono felice di pregare. Nella preghiera non affido a Dio la mia incompetenza, ma il limite che attraversa ogni competenza umana. Riconosco che senza la presenza misteriosa di Dio non c’è competenza che tenga.
    Questo modo di fare denota mancanza di fiducia nella grazia? A me sembra che invece ne dichiari la fiducia, matura e totale. Dio ci chiede la responsabilità. È presente con la potenza del suo Spirito nell’esercizio della nostra responsabilità. Possiamo vivere nel suo amore perché siamo stati resi capaci di amarlo dallo Spirito che c’ha regalato.
    Nel progetto di spiritualità di cui ho già parlato, tutto questo si è espresso attraverso la reinterpretazione di una formula del Vangelo, frequentemente ripetuta, ma purtroppo malamente compresa.
    Gesù dice ai suoi discepoli di impegnarsi a fare tutto quello che sono capaci di fare. Chiede loro di essere competenti. Li ha educati ad essere competenti. Ma conclude: quando avete fatto tutto quello che eravate capaci di fare, dovete riconoscere di essere «soltanto servi». Non dice «servi inutili», come una cattiva traduzione ha abilitato i cristiani a valutare le cose. Servi perché colui che dà la vita, la sostiene, la ama più di noi e prima di noi, è Dio. Lui ci chiede collaborazione, ci chiede disponibilità, ci chiede la capacità di affidarci a lui come un bimbo nell’abbraccio della madre. Per questo, riconosciamo che in ogni impegno la grazia di Dio ci sostiene, ci incoraggia, ci abilita.

    La qualità della vita cristiana

    Un altro tema discusso riguarda la qualità della vita cristiana.
    A questo proposito, l’unica cosa che posso dire… è che questo è un tema tutto da studiare. Non possiamo proporre ai giovani di oggi, in modo troppo tranquillo, i modelli di esistenza cristiana che sono stati consegnati a noi. In ogni parola, nella parola di Dio e nelle nostre parole, si realizza sempre un intreccio profondo tra esigenze irrinunciabili, rivelazione e mistero, e i tratti culturali. Senza questa lettura ermeneutica corriamo il rischio di rifiutare tutto, come sta capitando purtroppo oggi, o, al contrario, di assumere tutto come fosse oro colato.
    Gli educatori dei giovani sanno che su questa frontiera stiamo giocando il futuro dell’esistenza cristiana. Se non riusciamo a proporre ai giovani un modo di vivere la loro vita quotidiana che sia ispirato radicalmente al Vangelo di Gesù, non li aiutiamo a crescere come uomini e come cristiani. E così la fede non fa servizio all’umanità, non fa quel servizio di cui oggi abbiamo un bisogno sconfinato. Senza l’annuncio del Vangelo la vita viene trascinata tra disperazione, disimpegno, crisi di futuro. La morte fa paura a chi non ha futuro, anche se ormai troppi giovani hanno imparato a scherzare con la morte, perché l’hanno trasformata in un esercizio di coraggio.
    Sul tema della attenzione alla comunità ecclesiale e alla famiglia… mi devo difendere. Spero che mi si perdoni l’esercizio di questo diritto.
    Della famiglia ho parlato poco: forse quasi niente. Ed è vero.
    Il problema è un altro.
    Purtroppo la letteratura pastorale sulla famiglia è abbondantissima e le indicazioni sono davvero molte. Ma c’è un «però» che va ricordato. Mi serve come giustificazione. Di solito, le riflessioni sulla famiglia percorrono due strade parallele. Da una parte, viene dichiarata la crisi della famiglia attuale, spesso con toni persino eccessivamente foschi, guardando più le eccezioni negative, che gli abbondanti segnali positivi. Dall’altra parte sono ripetute le affermazioni di principio sulla importanza della famiglia, sui suoi irrinunciabili contributi all’azione educativa e pastorale.
    Come possiamo mettere d’accordo, sul piano operativo, crisi e affermazioni di principio? Questo mi ha inquietato. Ho provato ad immaginare un percorso vivibile per educare i giovani alla famiglia, in una stagione di crisi dell’appartenenza famigliare. Mi sarebbe piaciuto che anche i difensori della famiglia tentassero una via educativa realistica e incidente.
    A proposito della comunità ecclesiale, non me la sento sinceramente di confessare il silenzio. Credo che non sia vero. Certo, personalmente e in «Note di pastorale giovanile» abbiamo insistito molto sul gruppo. Ma tutto nasceva dalla necessità di proporre modelli e realizzazioni di esperienze ecclesiali, capaci di ricostruire il senso di appartenenza, entrato violentemente in crisi nella nostra stagione. Va riconosciuto l’apprezzamento, diffuso e consolidato a livello ecclesiale e non solo italiano, a proposito del servizio ecclesiale offerto, grazie al grande lavoro, riflessivo e sperimentale, che soprattutto «Note di pastorale giovanile» ha saputo offrire in questi anni.

    D. Queste riflessione ci aiutano a costruire una sintesi delle linee centrali del progetto. Tutto questo è prezioso, per confrontarsi maggiormente sull’insieme, integrando le eventuali carenze, quelle che lei stesso ha denunciato e altre eventuali che è possibile riscontrare. Possiamo ricordare altri temi che, secondo lei, richiederebbero di essere ripresi e approfonditi in un lavoro successivo?

    R. Sono d’accordo. Questa intervista è stata un’occasione provvidenziale per riflettere con più calma. La riflessione mi ha aiutato a scoprire alcune dimensioni di pastorale giovanile che andrebbero decisamente colmate. I limiti vanno superati e corretti; i vuoti vanno colmati.

    Temi da riprendere

    La prima carenza riguarda una dimensione qualificante della pastorale giovanile: l’impegno vocazionale. Ripensando il cammino percorso, credo sia corretto riconoscere che una certa insistenza attorno a un generale impegno vocazionale è stata presente nel progetto. Non poteva non essere così: un progetto orientato a sostenere la vita e la speranza non poteva non chiamare tutti ad una rinnovata corresponsabilità vocazionale.
    Parlare di vocazione però significa almeno tre esigenze irrinunciabili.
    Prima esigenza: scoprire che non posso amare la mia vita se non sono disposto a perderla per permettere a tutti di viverla in pienezza.
    Seconda esigenza: scoprire che la dimensione vocazionale al servizio della vita non può essere vissuta in modo pieno e autentico se non attraverso un incontro personale e misterioso con il Signore Gesù, che dà prospettiva alle scelte, speranza nelle delusioni, coraggio apostolico negli scoraggiamenti.
    Come terza esigenza, infine, riconosco che non è possibile parlare di dimensione vocazionale seria se non spalancando ogni proposta vocazionale verso vocazioni di speciale consacrazione, nel sacerdozio e nella vita religiosa, attraverso proposte coraggiose, esplicite, sostenute da una testimonianza convinta.
    Il mio progetto di pastorale giovanile ha detto qualcosa a questi tre livelli ma troppo poco e abbastanza male. Soprattutto ho l’impressione che la loro integrazione sia rimasta carente. E si tratta di una carenza davvero grave.
    Questa è la prima carenza. Ma ce n’è una seconda, non meno inquietante della prima.
    Posso dire sinceramente che tutto il progetto di pastorale giovanile è stato attraversato dalla preoccupazione di risultare una buona notizia, concreta, sperimentabile, per i giovani di oggi: di questo sono felice e non me la sento di ritornare indietro.
    La teoria elaborata per costruire questo adattamento in uno stile ermeneutico, capace cioè di far dialogare sul concreto le esigenze normative della vita cristiana e le dimensioni culturali, ha in qualche modo corretto il rischio contenuto in ogni preoccupazione di adattamento. Ripensando al vissuto, credo però che avrei dovuto non dimenticare mai, nell’impianto teorico e nelle proposte pratiche, che la croce di Gesù rappresenta qualcosa che contesta inesorabilmente e radicalmente questa stessa preoccupazione. Non la rifiuta, ma la riscrive in una logica nuova, profetica. In questi ultimi anni ho meditato molto su quanto Paolo dice di sé, verbalizzando il suo stile di evangelizzazione.
    Nel suo discorso ad Atene, Paolo ha fatto di tutto per essere accolto dai suoi interlocutori. In parte c’è riuscito. Ma l’esito non è stato certamente quello che lui si sarebbe aspettato. Il livello più alto del suo annuncio, quello che ha costretto i suoi ascoltatori a schierarsi, è stato l’annuncio della croce di Gesù. Senza la croce nessun tentativo di farsi accogliere corrisponde al progetto che Gesù ci ha consegnato. Scrivendo agli abitanti di Corinto, ha affrontato in modo esplicito il rapporto tra sapienza e croce. E ci costringe a pensare.
    Ha utilizzato tutto quello che poteva utilizzare della cultura, della scienza, della sapienza del suo tempo, ma alla fine afferma, con una radicalità che spaventa, che solo nella croce di Gesù la sua parola può diventare parola di Vangelo. Significa che va riconosciuta la debolezza come dimensione irrinunciabile della forza.
    Ripensando il lungo cammino percorso, sono consapevole di non aver preso troppo sul serio questa dimensione misteriosa. Raffinando troppo i progetti, forse ho confessato una fiducia troppo debole della potenza dello Spirito di Gesù.
    Un altro elemento carente è costituito dal riferimento alla Parola di Dio.
    Sono felice del cammino percorso nella riscoperta della narrazione come modo autentico di condividere la Parola di Dio. Questa mia gioia è confortata e sostenuta dalla risonanza che tutta la proposta ha suscitato in tante persone impegnate nella pastorale giovanile. Eppure temo che il richiamo alla Parola di Dio sia stato troppo personalizzato, troppo elaborato in una logica di sapienza, rischiando di ridimensionare ingiustamente la potenza della Parola. Essa è in grado di penetrare nel cuore delle persone, quando è fatta risuonare in tutta la sua dimensione di provocazione.
    Non credo sia necessario immaginare un percorso a ritroso, che sconfessi l’orientamento costruito attorno alla narrazione. È necessario continuare coraggiosamente in questa linea, ma lasciandomi e lasciandoci inquietare da una forza che proviene dalla parola stessa, al cui servizio siamo sollecitati tutti a porci con piena disponibilità.

    IL NODO DELLE QUESTIONI: PERCHÉ ANNUNCIARE GESÙ

    D. Non andiamo avanti con esempi concreti di punti problematici. Veramente, non serve molto guardare all’indietro, né con rassegnazione né con presunzione. I germi seminati vanno portati a compimento, collaborando assieme con lo Spirito, che ci chiama e ci sostiene; quelli che richiedono coraggiose inversioni di rotta possono indicare linee di futuro su cui scommettere. Preferisco andare maggiormente al centro del progetto: in una situazione di pluralismo culturale e interreligioso, come è quello che stiamo vivendo oggi anche in Italia, ha senso ancora fare proposte esplicite del Vangelo di Gesù?

    R. Grazie per la domanda. Può essere espressa in termini ancora più provocanti: se a qualcuno non interessa scoprire chi è Gesù per noi, devo rispettare la sua libertà e sensibilità, scegliendo la strada del silenzio?

    Proposte esplicite di Vangelo?

    La domanda affronta una delle questioni più sofferte nella mia esperienza personale e in quella di tanti amici. Non mi piace la risposta, troppo facile: ognuno ha diritto di dire quello che gli pare, visto che ormai questo diritto sembra inalienabile a tutti i livelli. Dunque: anche i cristiani hanno il diritto di dire forte quello a cui credono. La risposta non mi piace perché riduce il Vangelo di Gesù ad una delle tante proposte pubblicitarie, svuotandolo radicalmente della sua dimensione più costitutiva, che è quella della morte come strada alla vita, della debolezza come manifestazione di forza, della testimonianza personale come espressione più inquietante.
    Vorrei, invece, essere capace di dire bene quanto, in questi anni, ho meditato e sofferto nella stanza segreta della mia interiorità.
    Spesso sono stato sollecitato a scegliere e a proporre gli annunci forti, decisi, radicali del Vangelo di Gesù: da amici che si trovavano d’accordo con il modo di vedere le cose e avrebbero voluto portarlo ad una pienezza più matura, da altri amici che non erano d’accordo con la mia prospettiva, da esigenze che nascevano in me a partire da una verifica del modo con cui in questi anni ho suggerito di realizzare la pastorale giovanile. Tutto questo mi ha sollecitato a ripensare seriamente la logica sottostante al modello.
    Varie volte ho avuto l’occasione di cercare di chiarire il perché di certe scelte. Ho constatato con gioia che, chiarite le cose, si trovava d’accordo anche quando prima della chiarificazione era forte il disaccordo. Mi auguro che questo sia l’esito delle rapide cose che vorrei mettere in evidenza, per accogliere il senso e la provocazione di questa importante questione.
    Procedo attraverso indicazioni successive. Chiedo al lettore di analizzarle con calma e soprattutto di considerarle veramente complementari, nel senso che solo dall’insieme di questi elementi può prendere consistenza la proposta e soprattutto la sua ragione d’essere.
    Parto da una affermazione centrale: l’annuncio del Vangelo è un gesto di amore, totalmente gratuito e radicalmente decentrato verso gli altri. Non può mai diventare un processo di proselitismo, e nemmeno qualcosa che assomigli al bisogno di esternare i pregi della squadra per cui faccio tifo.
    Mi piace pensare all’apertura della prima Lettera di Giovanni, tante volte citata:
    «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta».
    Chi esamina la questione dal punto di vista del servizio di amore che intende fare, è continuamente diviso tra la necessità di dire qualcosa, di dirlo con coraggio e con fermezza, e la contemporanea necessità di tacere qualcosa.
    Ho davanti al mio sguardo un esempio concreto. Una mamma si trova quotidianamente divisa tra l’urgenza di alzare la voce con il figlio che ama o di preferire il silenzio. In teoria è facile dire quale delle due scelte è la migliore. Dopo il gesto, dopo la parola forte o dopo il silenzio, è abbastanza facile concludere che la prima scelta sarebbe stata migliore della seconda, o viceversa. La difficoltà invece affiora prepotente nel momento in cui siamo chiamati a scegliere. Lo stesso amore può spingere ad una parola di rimprovero o a un silenzio che diventa espressione di una accoglienza sulla cui forza trasformatrice l’amore è disposto a scommettere.
    Anche l’annuncio esplicito e diretto di Gesù viene quotidianamente giocato dentro questa alternativa. Quando voglio bene ad una persona, posso inondarla della mia esperienza, parlandogli con entusiasmo delle mie scelte di vita. Ma posso anche rispettare il livello di maturazione che questa persona ha raggiunto, il bisogno che essa ha di costruirsi dentro quella attesa profonda che la costringa ad alzare le mani, invocando una parola che venga dal mistero dell’esistenza. Non posso sapere in anticipo quale delle due scelte manifesta più intensamente l’amore concreto che porto a questa persona.
    L’evangelizzatore vive quotidianamente questa esperienza. In teoria riconosce tutto quello che molte raccomandazioni ci consegnano. Condivide le urgenze che in queste raccomandazioni sono contenute. Ma è costretto, dal concreto delle scelte, a scegliere tra la parola e il silenzio, tra l’annuncio esplicito e una vicinanza quotidiana di vita che faccia sorgere quelle domande a cui l’annuncio diventa preziosa e gradita risposta.
    Una seconda indicazione va detto subito, però. Nella proposta che in questi anni ho cercato di sperimentare e motivare, essa ha un peso determinante.
    Voler bene ad una persona significa volere profondamente il suo bene, permettere ad una persona di scoprire che la profonda attesa di speranza e di senso che percorre la sua esistenza, ha bisogno di trovare risposte, che non posso continuare a spostare il tempo dell’incontro con queste risposte, che non posso per nessuna ragione mandare deluse queste attese. Per questo, proprio a partire dall’amore che ognuno di noi porta ai fratelli che ha la gioia di incontrare, scopriamo che non possiamo rassegnarci a non parlare di Gesù. Il silenzio, in questo caso, diventerebbe una scelta che tradisce l’amore.
    L’amore chiede di aiutare ogni persona a diventare sempre di più signore della propria vita. Sono convinto che siamo signori della nostra vita solo quando riusciamo a sperimentarne il senso, siamo capaci di collocarla dentro un progetto più grande che riguarda anche il futuro della nostra esistenza, riusciamo a ritrovare una ragione gioiosa anche di fronte al dolore e alla morte, scopriamo che siamo pienamente noi stessi solo quando riusciamo a morire, come il chicco di grano, perché tutti abbiano la gioia di raccogliere il pane cresciuto nel terreno del mio piccolo servizio.
    Per questo l’annuncio di Gesù è sempre e comunque un gesto di amore concreto nei confronti delle persone che ho la fortuna di incontrare. Gli parlo di lui non solo perché lo considero il Signore della mia vita, un amico importante di cui sento la gioia di regalare a tutti la stessa amicizia; parlo di Gesù e vorrei che tutti lo potessero incontrare nel cuore della loro esistenza, perché solo in lui possiamo scoprire che, nonostante tutto, siamo e restiamo signori della nostra vita. Davvero il nome di Gesù è il regalo più grande che posso fare a tutti, per restituire a tutti la gioia di vivere e la libertà di sperare.
    In questa prospettiva mi ha fatto pensare molto quello che Pietro, secondo il racconto degli «Atti degli Apostoli», dice nel sinedrio per giustificare la guarigione dello zoppo alla porta bella del tempio: lo zoppo cammina, ha ritrovato cioè la gioia di potere vivere nella speranza e a testa alta, perché tutti sappiano che solo in Gesù possiamo essere pienamente nella vita. Lo zoppo ha incontrato Gesù e in lui ha ritrovato la gioia di cantare, saltare, ballare, entrando nel tempio. Questo evento però non riguarda solo lui, riguarda tutti. Solo incontrando pienamente e personalmente il nome di Gesù possiamo anche noi cantare, saltare, ballare, entrando nel tempio.
    L’annuncio di Gesù diventa così il più grande gesto d’amore che posso fare ai giovani. Non mi rassegno se ad essi il suo nome non interessa. Non mi rassegno se davanti all’annuncio essi restano indifferenti, preoccupati di molte altre cose. Sto ad essi vicino, li inquieto e li interpello, perché solo quando essi hanno incontrato Gesù, possono veramente restare in quella gioia e in quella speranza che vanno cercando, purtroppo tante volte come l’assetato che cerca un sorso d’acqua tra le pietre e il fango dei pozzi aridi.
    La terza indicazione che aiuta a comprendere il senso della proposta, la esprimo in quel servizio globale che ho chiamato, già ripetutamente, il servizio dell’educazione.
    Posso annunciare Gesù come una bella notizia, che dà vita e speranza – dunque come un gesto d’amore – solo a coloro che sono stati aiutati ad alzare le braccia per invocare un nome che non possono ricostruire solo dentro la loro esperienza. Aiutandoli a maturare la loro umanità in autenticità, in piena capacità di invocazione, io esprimo ad essi l’amore che loro porto nel nome di Gesù.
    Esprimo ancora l’amore che loro porto quando mi impegno coraggiosamente a parlare di Gesù in modo tale che questa parola risuoni come bella notizia. Risuona come bella notizia quando è espressa dentro la lingua dei miei interlocutori, quando essi avvertono, almeno come iniziale esperienza, che le gambe rattrappite incominciano a consolidarsi, come è capitato allo zoppo che ha incontrato Pietro. La fatica – ed è stata davvero una grande fatica – di pensare il Vangelo rispettando totalmente la fedeltà all’evento e la fedeltà a coloro a cui lo voglio regalare, manifesta concretamente l’amore con cui voglio servire ai giovani. Mi sono reso conto che proporre il Vangelo fuori da questa preoccupazione, non è mai un gesto d’amore. Può diventare una rischiosa forma di proselitismo.
    Ancora una volta, non possiamo analizzare il processo in modo cronologico, dicendo prima si fa questo e dopo si fa quest’altro. Purtroppo l’abbiamo fatto. Purtroppo, forse, anche il mio modo di pensare può aver dato l’impressione di legittimare questa logica. Me ne scuso. E sono felice dell’occasione per dichiarare con forza la necessità di superare questo schematismo rassegnato. L’amore non ha un prima e un dopo.
    Aggiungo ancora una indicazione, per offrire un quadro abbastanza completo e organico della mia prospettiva.
    È fuori discussione che esistono persone e movimenti che esprimono pienamente l’amore che portano ai giovani attraverso un annuncio forte, chiaro, deciso, o facendo fare ad essi delle esperienze molto forti, che li rendono attenti e interessati a questo stesso annuncio. È facile dire: sarebbe meglio impostare un progetto di pastorale giovanile confrontandosi con maggiore disponibilità con queste esperienze significative.
    Di fronte a queste situazioni, sono spesso entrato in crisi. Mi hanno fatto pensare molto, perché sembrano fatte apposta per contestare la dichiarazione che il silenzio e i tempi lunghi possono esprimere adeguatamente un servizio d’amore.
    C’è una differenza sostanziale tra la proposta che nasce da queste esperienze e quella che io condivido e che vorrei affidare agli amici impegnati nella pastorale giovanile. La differenza non sta nella presenza o nella mancanza di quell’amore (l’amore a Gesù e l’amore verso i giovani) su cui tutti dobbiamo misurare il nostro servizio. La differenza sta altrove. In quelle esperienze, interlocutore è colui che ci sta. Esse sono una proposta: ad alcuni giovani la proposta risulta affascinante, ad altri invece risulta eccessivamente dura. In altri casi il fascino dell’esperienza diventa decisamente convincente. Ma poi capita, come Gesù ci ricorda nella parabola del seminatore, che la semente, caduta in terreni sassosi, non ha messo radici sufficienti e, di conseguenza, è stata troppo facilmente dimenticata.
    Tutto questo non mi consola ma mi inquieta.
    Ritorna, anche a questo livello, quell’indicazione che tante volte ho già annotato nelle righe precedenti. Ho cercato di pensare ad un progetto di pastorale giovanile che possa funzionare soprattutto per i giovani meno sensibili, per quelli che hanno bisogno di un intenso lavoro educativo per poter diventare più attenti e disponibili alla proposta. Per i giovani «poveri» il tempo della semina è diverso, richiede un ritmo differente. Non posso contrapporre il ritmo del primo caso con quello del secondo. E neppure posso utilizzare l’esito come criterio di verifica. Questa non mi sembra la logica del Vangelo. Il criterio di verifica sta nella capacità di interpretare bene, ancora una volta nella logica dell’amore, ciò di cui in concreto i giovani hanno più bisogno.
    Posso assicurare che è facile dichiarare la validità di questo criterio ma è molto difficile praticarlo. Produce sofferenza in colui che cerca di essergli fedele. Troppe volte la gioia di dire un’esperienza vissuta deve spegnersi nel segreto della propria esistenza, nell’attesa, trepida e anticipata con tutti i mezzi, di poterla dichiarare a voce piena.

    (continua)


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