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    PASTORALE GIOVANILE /4

    Intervista a Riccardo Tonelli

    a cura di Giancarlo De Nicolò 

    (NPG 2009-05-55)



    4. Giovani oggi e domani e pastorale giovanile

    Domanda. Può indicare i tratti della sua lettura del mondo giovanile, per coglierne le sfide più urgenti?

    Risposta. Sono invitato a dire qualcosa sui giovani di oggi. Lo faccio con molta trepidazione e dall’unica prospettiva in cui immagino di poter interpretare la domanda.
    Don Bosco ci ha consegnato una raccomandazione che rappresenta uno dei punti di riferimento della mia vocazione salesiana: bisogna amare i giovani e fare in modo che essi possano toccar con mano di essere amati. Una delle espressioni più concrete dell’amore, certamente la più determinante, è costituita dal giudizio che viene espresso su di essi.
    Per fedeltà all’evento dell’Incar­nazione e per coerenza carismatica non posso immaginare nessun progetto di pastorale giovanile che non sia costruito su una conoscenza, matura e amorevole sui giovani.
    Accetto quindi di parlare dei giovani solo da questa prospettiva. Per questo suggerisco unicamente alcune linee generali di tendenza, che vanno oltre i singoli casi concreti e cercano di privilegiare quella attenzione educativa che è costitutiva di ogni progetto di pastorale giovanile.
    In questo orizzonte finalmente parlo dei giovani.
    La prima cosa da ricordare riguarda l’atteggiamento globale con cui noi adulti siamo invitati a confrontarci con i giovani.
    In un tempo diverso dal nostro era abituale riservare la parola sui giovani a coloro che potevano parlarci della situazione psicologica, caratteristica della giovinezza. Venivano di conseguenza messe in evidenza le caratteristiche tipiche dell’essere giovane. Non si trattava di elencare le virtù o di ricordare i difetti, ma di constatare che l’essere giovane comporta uno stile generale di esistenza, che progressivamente si può consolidare o può essere modificato, utilizzando soprattutto gli strumenti tipici dell’educazione. Una battuta, frequente tra gli educatori che si riconoscevano in questo modello di lettura, era: sono stato giovane anch’io, so bene cosa vuol dire essere giovani; e poi la giovinezza è una malattia che si cura da sola, con il tempo: basta avere un po’ di pazienza e da questa malattia si guarisce molto facilmente.
    La conclusione era evidente: della malattia della giovinezza ho sofferto anch’io, come hanno sofferto tanti, ma con un po’ di pazienza e un po’ di rassegnazione ne sono felicemente uscito.

    I GIOVANI DI QUESTO TEMPO

    Rifiuto questo modo di leggere la realtà, perché lo considero astratto e inadeguato. L’influsso del contesto culturale e sociale sulla nostra esistenza condiziona fortemente l’essere giovane. Per questo, è più decisivo l’essere giovane in un certo tempo e in un preciso ambiente, del fatto dell’essere giovane dal punto di vista cronologico. Per comprendere i giovani è perciò irrinunciabile fare la fatica di comprendere il tempo in cui stiamo vivendo, l’influsso che i modelli culturali dominanti esercitano sulla strutturazione di personalità, in modo speciale nei confronti di quelle persone che sono più fragili proprio perché giovani.
    Le conseguenze saltano facilmente agli occhi.
    I giovani di questo tempo sono molto diversi dai loro coetanei di altri tempi, e non è possibile un riconoscimento adeguato solo a partire dai contributi delle discipline normalmente incaricate di offrirci descrizioni sui dati solo evolutivi. Sono diversi perché la stagione che stiamo vivendo è diversa dalle precedenti.
    Va ricordata poi una seconda conseguenza.
    L’influsso del contesto culturale e sociale condiziona pesantemente tutti giovani. Ci sono delle eccezioni, la cosa è fuori discussione: alcuni giovani privilegiati sono riusciti ad elaborare sapientemente questo influsso e altri ne sono vittime più dolorose. Ma qualche traccia dei modelli culturali dominanti attraversa notevolmente l’essere giovane in questo tempo. Al di là delle differenze esiste una specie di denominatore comune. Esso caratterizza il modo di vivere, di esprimersi, di progettare il futuro, di prendere decisioni e di soffrirne le conseguenze.
    Voglio solo fare un esempio per dire dove vanno a finire, secondo me, le cose che sto dicendo. E così dico la mia su un tema oggi ricorrente.
    Si parla molto di ritorno dei giovani all’esperienza religiosa. Questo è innegabilmente un fatto. Non sono convinto però che il ritorno all’esperienza religiosa di molti giovani rappresenti il ritorno tranquillo a quei modelli di esperienza religiosa in cui siamo vissuti noi. Non si tratta del ritorno a qualche cosa che è stato abbandonato. Si tratta invece di un ritorno che è invenzione: non ritrovamento, ma novità.
    L’attuale presenta un modo di vivere l’esperienza religiosa, tipico di una stagione di incertezze, di soggettivizzazione, di pluralismo, di ricerca affannosa di emozioni e di esperienze forti, di capacità di esprimersi più attraverso immagini che mediante parole riflesse, di bisogno di solidarietà che riscrive persino la qualità dell’interiorità personale.
    Sono convinto che affermare che lo stato attuale segni il ritorno dello stato tipico del passato, grazie a sforzi educativi e a raccomandazioni, significhi capire poco quello che sta capitando, lasciandosi sedurre dalle apparenze, ed è triste che questa seduzione colpisca coloro che sono impegnati nell’educazione.

    Una stagione di «orfanità» ma di speranza

    All’interno di questo quadro, suggerisco qualche caratteristica dell’essere giovani in questo tempo.
    Viviamo in una stagione di profonda, diffusa situazione di «orfanità».
    È orfano chi è privo del padre o della madre. In molte nazioni, devastate dalla guerra, sono davvero molti i giovani senza genitori. Da noi, per fortuna, non è così. Da noi c’è una orfanità per eccesso di genitori. Cambia persino il numero fisico dei padri e delle madri. Ma soprattutto siamo circondati da proposte che fanno di tutto per prendere il posto dei nostri genitori nella pretesa di darci ragioni di futuro e di speranza. Persino per vendere le cose più banali o solo funzionali, viene chiamata in causa la qualità e il senso della vita: qualcuno entra con violenza nella nostra esistenza e pretende di dirci chi siamo e come dobbiamo vivere.
    Non possiamo però vivere senza padri e madri autorevoli e significativi. Dovendo scegliere nella confusione, troppi giovani preferiscono l’autonomia o si rassegnano a vivere da orfani. In questa situazione il futuro si fa incerto e la speranza va in profonda crisi. Alla disperazione si reagisce in mille e differenti modi: con la ricerca affannosa di ragioni di speranza, con il disimpegno e la disillusione, con la scelta di esperienze forti capaci di addormentare, con il superamento coraggioso e immotivato della paura del rischio, con quel livello disperato di scoraggiamento che apre la porta anche alla scelta del suicidio.
    Questa situazione mi preoccupa: e la constato diffusa, quando mi guardo d’attorno come educatore credente.
    I discepoli di colui che ha dichiarato senza mezzi termini di essere venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza, non possono rimanere indifferenti constatando quanti giovani oggi rischiano la vita, anche fisicamente, per trovare ragioni sufficienti per viverla in un modo maturo e sensato.
    Pensando ai giovani, ai giovani di questo tempo, mi piace constatare che viviamo in una stagione felice e impegnativa per la pastorale giovanile. Sono passati i tempi della contestazione, i tempi tristi in cui l’adulto per poter dire qualcosa ai giovani era costretto a pagare la tassa della credibilità. Oggi c’è una grande attesa di presenze e di parole. Per questo la stagione attuale per me è una stagione felice: l’adulto è compagno di viaggio, atteso e ricercato, proprio in quanto adulto.
    Ma è una stagione drammaticamente impegnativa. Se alla ricerca di adulti con cui camminare, in una condivisione di senso e di speranza, diamo risposte negative, i giovani sono costretti a correre dietro ai suonatori di piffero – e ce ne sono tanti sul mercato – ma la folla che corre dietro a questi incantatori di serpenti, presto o tardi, farà la fine dei topi secondo la favola famosa dei fratelli Grimm: tutti affogati nel fiume. E i giornali riferiscono quotidianamente fatti in questa direzione.
    A me piace utilizzare un’immagine per dire la situazione dei giovani di questo tempo, dal punto di vista della pastorale giovanile: quella del gioco del trapezio.
    Molti giovani sono come l’atleta che si è staccato dal supporto di sicurezza e sta facendo salti mortali alla ricerca delle braccia robuste di chi sa mettere tra parentesi le sue incertezze e le sue crisi, per giocare tutte le sue risorse nel tentativo di afferrare.
    Nel gioco del trapezio la legge richiede la presenza di una rete di soccorso. Se l’incontro tra chi alza le braccia e chi afferra non avviene, non ci si sfracella al suolo, perché la rete di sostegno attutisce la caduta. Ma nella vita, purtroppo, questo gioco avviene sempre senza rete. Se le braccia robuste dell’adulto non sono tempestive e sincronizzate per afferrare, i giovani che cercano speranza affogano nella loro disperazione.

    D. Quale immagine di giovane cristiano ha in mente come obiettivo finale della pastorale giovanile? Ogni buon progetto di pastorale giovanile devo porsi come orizzonte una immagine ideale di giovane cristiano. Una volta c’erano i santi. E oggi?

    R. Non mi piace affrontare le diverse questioni, distinguendo tra una prospettiva «soltanto umana» (come si dice con un’espressione certamente non felice) e una prospettiva invece cristiana. Gesù ci propone una qualità piena e matura di vita, e nello stesso tempo ci ricorda che possiamo essere pienamente nella vita solo quando corriamo il rischio di consegnarci totalmente a lui, impegnandoci con tutte le risorse di cui disponiamo, a incontrarlo come il signore unico della nostra vita.

    Un’immagine di giovane cristiano

    Il giovane cristiano è un giovane fortemente segnato dal fatto di vivere in questo tempo, che ha cercato di elaborare i suoi orientamenti di vita e l’influsso, positivo e negativo, della stagione che stiamo vivendo, facendo riferimento esplicito e consapevole a Gesù, al suo messaggio di vita e di speranza, così come lo possiamo incontrare oggi nella Chiesa.
    In altre parole, il giovane cristiano è colui che, come ci siamo detti tante volte in questi anni assumendo una delle indicazioni più felici de «Il rinnovamento della catechesi», vive sapendo integrare la sua fede e la sua vita.
    Il giovane cristiano è colui che cerca di unificare nella sua persona le sollecitazioni: che provengono dalla sua voglia di vivere, dalla sua ricerca di felicità in una solidarietà gioiosa con il suo tempo, e l’incontro appassionato con Gesù, l’unico nome in cui essere pieno di vita. L’integrazione fra queste istanze avviene in un modo tutto speciale. Non si può fare ordine nella propria vita buttando fuori dalla finestra i suggerimenti e le attese che non riusciamo ad organizzare. Questo modo di fare non è esperienza educativa matura, ma soltanto rinuncia, alienazione, riduzione delle scelte sulla variabile dei luoghi e dei tempi. Si fa invece ordine selezionando tutto quello che dentro di me e fuori di me mi sollecita a una scelta, utilizzando come criterio decisivo, unico e fondamentale per vedere che cosa è importante e per decidere cosa assumere e come reagire, la persona di Gesù e il suo messaggio.
    Il confronto con Gesù costringe ad accogliere certe cose con gioia e a rifiutarne altre con lo stesso entusiasmo. Tutto questo non è «rinunciare», ma portare a pienezza la propria umanità. Gesù stesso ci ha consegnato le parole adeguate e l’esempio convincente: se il chicco di grano, caduto sotto terra, non muore, non potrà mai diventare spiga.
    Come si può notare, ritorna con forza quel modello di spiritualità che ha rappresentato una delle prospettive più belle, su cui abbiamo lavorato in questi anni.
    Il criterio non è fornito da indicazioni teoriche e nemmeno da un manuale di buoni consigli. È una persona, Gesù di Nazareth e il suo progetto di esistenza: il criterio non viene prima di tutto dalla conoscenza, ma dall’innamoramento.
    Penso ancora a Don Bosco, per dire le cose da un concreto vissuto.
    Don Bosco diceva, con grande coraggio e con forza innovativa rispetto al suo tempo: basta che siate giovani e io vi voglio bene. Il criterio che permetteva a Don Bosco di guardare la realtà e di decidere da che parte stare e come intervenire, era l’amore che portava ai giovani nell’amore che portava a Gesù. Essi erano il suo tesoro, il luogo in cui si posava il suo cuore. E questo per la sua fede in Gesù. Vedeva la realtà da questo punto di vista, valutava i fatti da questo punto di vista, decideva come intervenire da questo punto di vista.
    Questo è il giovane cristiano per la cui maturazione impegniamo tutte le risorse: un giovane capace di vedere la realtà, di giudicarla, di intervenire per trasformarla, in modo tale che percezione, reazione, a­zione abbiano come fonte unica e decisiva lo sguardo di fede, cioè il riferimento a Gesù e al suo messaggio.
    Mi rendo conto che questo è un sogno. Ma se non abbiamo sogni di alto profilo, non riusciremo mai a fare gli educatori e, men che meno, gli educatori cristiani, impegnati nella pastorale giovanile.

    COLLABORAZIONE NEL PROGETTO

    D. Diverse volte, nel corso dell’intervista, ha ricordato gli «amici» con cui ha confrontato e maturato le scelte tipiche del progetto di pastorale giovanile. Fa certamente pensare la constatazione della loro «collaborazione» nella elaborazione del progetto di pastorale giovanile. È anche bello il riconoscimento di quanto essi sono stati preziosi sia nel momento di elaborare gli orientamenti che quando essi hanno espresso posizioni diverse dalle sue, per assicurare un vero confronto critico. Non li ha mai chiamati per nome. È un atto di curiosità indebita cercare informazioni più dettagliate?

    R. Conosco persone che hanno bisogno di chiudere porte e finestre per pensare meglio, convinti che il rumore – il brusio della vita – diventa un disturbo alla concentrazione. Io la penso in un modo molto diverso, anche perché la mia ricerca è di natura pastorale: mette cioè al centro una prassi che fa problema e riflette per immaginare linee di azione trasformativa.
    Veramente, la vita quotidiana provoca e sfida i discepoli di Gesù nella comunità ecclesiale. E si tratta della vita vera, autentica, non quella immaginata nell’isolamento o nei pregiudizi. Su questa provocazione dobbiamo pensare, per scoprire il progetto di Dio tra le pieghe della storia e lasciarci guidare dallo Spirito di Gesù per operare trasformazioni in direzione di futuro.
    Questa prospettiva, quasi epistemologica, esige la solidarietà e il confronto. Senza quell’ascolto che nasce dalla molteplicità dei soggetti, riesce difficile cogliere la vita quotidiana e il mistero che l’attraversa.
    L’ho scoperto nel confronto con le persone con cui condividevo la stessa passione per i giovani e per la loro evangelizzazione. Poi ho teorizzato la constatazione e ne ho fatto una specie di principio di non ritorno.
    Ci tengo a dire, come giustamente è stato colto, che questi amici, suggeritori di prospettive, erano prima di tutto coloro che ponevano problemi seri, a cui cercare rapidamente risposte; erano poi i molti che, intuendo le linee verso cui stavamo orientando le soluzioni, dichiaravano accordo e condivisione e suggerivano ulteriori contributi; ed erano anche coloro che non si trovano d’accordo né sul modo di interpretare i problemi né sulle linee di soluzione. A tutti sono debitore nella mia riflessione di pastorale giovanile. Il confronto accogliente ha confortato la ricerca; la critica, anche forte, ha sollecitato a verificare, approfondire, modificare.
    Chi sono questi «amici» a cui dichiaro la mia riconoscenza?
    Non posso fare nomi: correi il rischio di dimenticarne troppi per strada. Preferisco ricordare categorie.
    Una prima schiera – di conoscenza indiretta – è costituita da alcuni grandi teologi che hanno rilanciato gli orientamenti del Concilio. Come ho ricordato, i primi passi sono stati vissuti nell’entusiasmo del Concilio. Avevamo tra le mani pubblicazioni di grande risonanza, che hanno permesso ai giovani in formazione (come ero io a quei tempi) di respirare l’aria di Pentecoste che vibrava nella comunità ecclesiale.
    Voglio poi ricordare, come ho già fatto, gli incontri redazionali della rivista «Note di pastorale giovanile». Si trattava di intere giornate di studio, sui temi più caldi del momento ecclesiale e sociale, animate da uno scambio di informazioni e di prospettive, tra persone la cui competenza ed esperienza lasciava veramente il segno.
    Un’altra preziosa schiera di amici è rappresentata dai delegati e delegate di pastorale giovanile, diocesani, Sale­siani e Figlie di Maria Ausiliatrice. Ci si trovava due o tre volte all’anno, per affrontare questioni attuali. In quegli incontri sono nati i progetti sugli «itinerari», sulla spiritualità giovanile, gli approfondimenti sui gruppi ecclesiali, le linee di educazione alla preghiera e alla vita sacramentale, Questi incontri erano molto stimolanti, perché tutti i partecipanti mordevano sul concreto e i punti di vista erano assai diversi, con discussioni accalorate, come capita quando all’ordine del giorno c’è qualcosa che sta molto a cuore.
    Nella rassegna degli amici voglio poi ricordare i tantissimi giovani, incontrati in giro per l’Italia, in occasioni di «giornate» e di convegni. La loro presenza soprattutto si è rivelata decisamente suggerente, quando, con loro, seduti allo stesso tavolo, cercavamo linee di prospettiva. Essi frenavano le polemiche di scuola, e costringevano a guardare più attentamente la realtà e gli altri giovani, più poveri e meno sensibili di loro.
    Un nome lo voglio fare, per la grande riconoscenza che gli devo, sperando un suo sorriso dal paradiso: don J. Vecchi, responsabile del Dicastero di pastorale giovanile della Congregazione salesiana, sotto la cui guida, competente e profetica, sono state pensate e progettate le grandi linee della pastorale giovanile salesiana. Non posso poi dimenticare gli altri miei superiori religiosi e moltissimi vescovi con cui ho avuto l’onore di collaborare: con autorevolezza e competenza hanno aiutato a pensare con il conforto della influenza, necessaria per ogni ricerca ecclesiale.
    Ho ripreso la domanda sugli «amici», per ringraziare, delegando la paternità di molte indicazioni ai titolari veri, anche se anonimi; e per ricordare che questo potrebbe rappresentare il modo più serio di realizzare una riflessione pastorale, anche oggi.

    LA PASTORALE GIOVANILE NELLA CHIESA ITALIANA

    D. In spirito di piena parresia, può dare un giudizio sulle linee di pastorale giovanile in Italia? Alcuni ritengono che le modalità in cui oggi si esprime la pastorale giovanile siano maggiormente calibrate sugli «eventi», soprattutto di tipo eccezionale, le grandi convocazioni dei giovani soprattutto attorno al Papa. Può esprimere un giudizio su questo e offrire qualche indicazione perché il vissuto quotidiano dell’azione pastorale riceva linfa da queste esperienze «straordinarie»?

    R. Questa è una richiesta che non mi sento di accettare. Preferisco concentrarmi sui progetti. Certamente, non è possibile evitare di esprimere dei giudizi. Essi sono però eccessivamente condizionati dal mio modo di vedere e da quella tentazione, frequente in chi ha dedicato parti importanti della sua esistenza attorno a questioni, di dichiarare che sarebbe meglio fare in un altro modo.

    Le sfide alla PG

    Preferisco utilizzare una espressione, provocante anche se meno sicura: guardandomi d’attorno, con amore sincero e critico, raccolgo e metto in evidenza delle «sfide».
    Sfida è una parola di moda. Spunta da tutte le parti e quando qualcuno, stretto da problemi e da preoccupazioni, non sa più cosa fare, se la cava chiamando una «sfida» questi fatti inquietanti.
    Non pretendo di essere originale per forza. Non ci riesco e non serve. Quando i fatti sono sotto gli occhi di tutti, constatarli, in modo attento e critico, è la prima cosa che dobbiamo fare.
    Mi piace però fare un passo in avanti, dando alla voce «sfida» una connotazione più ampia del semplice disappunto che proviamo quando quello che sta capitando ci mette in crisi e riconosciamo di essere incapaci di trasformarlo. Con l’espressione «sfida» in questo contesto intendo una interpretazione riflessa del vissuto culturale attuale per cogliere i segni di novità presenti e quei dati di fatto che provocano il progetto di esistenza diffuso e generalmente consolidato. La «sfida» è, di conseguenza, un contributo e una provocazione: una provocazione che regala contributi preziosi, proprio mentre sollecita ad intervenire coraggiosamente.
    È evidente che lo sguardo, da cui faccio scaturire le sfide, prende in considerazione la prassi attuale di pastorale giovanile.
    La pastorale giovanile attraversa oggi una stagione un poco stanca e, come capita in stagioni simili, piena di tentazioni involutive.
    In questi anni, ne abbiamo sperimentato tante e, purtroppo, alla luce dei fatti (soprattutto se lo sguardo si allarga dai giovani bravi che ci girano vicini, ai tanti più o meno «lontani») i frutti delle nostre fatiche non sono poi esaltanti.
    Basta pensare, per fare un esempio concreto, ad alcuni grandi eventi ecclesiali. Suscitano entusiasmo, attenzione, sembrano aprire a disponibilità insperate… e poi per la stragrande maggioranza dei giovani passano come un fulmine a ciel sereno. Qualcuno arriva a contestarli proprio per questa ragione. Qualche altro va alla ricerca disperata di responsabilità per non rassegnarsi ad incolpare solo il clima che stiamo respirando un poco tutti. Qualche altro sembra orientato ormai verso decisioni nuove: rilancio dell’oggettività sicura, cura più consolidata delle esigenze della verità, annuncio più forte e chiaro, spiritualità più esigente, meno incertezze più coraggio e cose simili.
    Anch’io mi sono chiesto tante volte: che possiamo fare, visto che rassegnarsi è sempre la peggiore soluzione, soprattutto quando c’è di mezzo la vita e la speranza di coloro che Dio ama fino a donare il proprio Figlio?
    Da tempo sta pensando alla necessità di riscoprire la Chiesa (oltre l’esperienza rassicurante del piccolo gruppo a misura personale e oltre i grandi eventi), restituendole la funzione fondamentale di «grembo materno» soprattutto per una generazione segnata da una grande orfanità culturale.
    Parlo di «riscoprire» la Chiesa, perché questa esigenza non coincide con l’esperienza di Chiesa che facciamo nel piccolo gruppo degli amici o nell’entusiasmo di un evento straordinario. Penso quindi alla necessità di riscoprirla come compagnia affidabile, cui consegnare sostegno, verifica, direzione del nostro cammino di maturazione nella vita cristiana.
    E lo voglio dire forte: credo sia il compito impegnativo che ci può far transitare verso il futuro.
    Dio parla all’uomo in parole d’uomo. Quello che si vede, si constata, si ode, si porta dentro un mistero, altrimenti indicibile, che è la presenza e la parola di Dio.
    È importante constatare che questo intreccio misterioso riguarda, in modo radicale, l’evento della Rivelazione. Riguarda però anche la sua traduzione sul piano concreto e quotidiano della vita della comunità ecclesiale: l’evangelizzazione. Come ha fatto Gesù, così anche oggi i discepoli di Gesù continuano a parlare di Dio agli uomini, pronunciando parole umane per dare volto e parola al mistero ineffabile di Dio.
    Anche la risposta che l’uomo dà all’appello contenuto nella Rivelazione ripete lo stesso schema comunicativo.
    La comunità ecclesiale è consapevole che nella parola di Dio, nella riproposta di questa parola attraverso l’evangelizzazione e nella risposta dell’uomo, la presenza di Dio e la decisione di accogliere questa presenza d’amore, si esprime e si realizza rivestendo quell’evento misterioso di libertà e di amore, che è il dono di Dio e la risposta dell’uomo, della propria cultura e della cultura del contesto in cui siamo inseriti. Per questa ragione siamo spinti a dire il Vangelo di Gesù in una fedeltà che sa rinnovarsi, sotto le provocazioni dei cambi culturali. Non si tratta infatti di ripetere passivamente l’esperienza cristiana, ma di renderla vitalmente e comprensibilmente presente in altre culture.
    Riconosciamo che la potenza dello Spirito rende la nostra «parola» capace di suscitare ed esprimere la fede. Lo fa sempre nella trama delle logiche umane quotidiane cui ha deciso di non sfuggire neppure la parola di Dio.
    Questa consapevolezza mi porta a legare intensamente la funzione della comunità ecclesiale in ordine alla salvezza con la categoria dell’appartenenza e con il suo indice di intensità.
    La ragione è presto detta, almeno a livello di sintesi.
    La comunità ecclesiale funziona come mediazione in ordine alla proposta del dono di Dio e alla sua accoglienza. Essa sostiene e incoraggia, orienta e guida la nostra decisione di riconoscere come dono prezioso per la vita la vicinanza di Dio alla nostra esistenza e di accogliere con entusiasmo, riflesso e creduto, questo dono.
    Il dato (e cioè la funzione di mediazione) non scatta mai in modo automatico, almeno nel ritmo normale della vita cristiana. Ha invece bisogno di una dimensione esperienziale. La Chiesa diventa mediazione quando esercita in concreto una funzione di sostegno e di guida.
    Tutto questo va detto con categorie verificabili: è troppo rilevante la questione per accontentarsi di parole ad effetto. L’appartenenza – categoria verificabile, misurabile, educabile – può rappresentare la misura concreta della funzione di mediazione salvifica esercitata dalla comunità ecclesiale, nel concreto di persone e tempi.
    Su questa convinzione si fonda la mia proposta: quel sostegno alla vita di fede che sentiamo il bisogno di assicurare e, di conseguenza, la sfida alla pastorale giovanile attuale, passano attraverso la ricostruzione di un maturo senso di appartenenza ecclesiale.
    Dire cosa significa appartenenza nel clima culturale attuale e cosa possiamo fare per consolidarla in una stagione di soggettività aprirebbe un discorso eccessivamente lungo. Lo rimando ad una prossima intervista, se ci sarà tempo e voglia di farla.

    Un sogno per la PG

    D. Non vuole dare un giudizio sul presente anche perché è facile trovarsi d’accordo nel constatare che moltissime delle riflessioni appena condivise sono già un giudizio preciso e concreto sull’esistente.
    Può allora, in conclusione, proporre un sogno sulla pastorale giovanile del futuro?

    R. Questo mi piace molto di più.
    Preferisco guadare in avanti. E per questo parlo di un sogno per la pastorale giovanile del terzo millennio.
    Assicuro di non aver nessun titolo di merito speciale per affrontare la questione. Non voglio però tirarmi indietro.
    Incomincio dall’atteggiamento di fondo: sogno una pastorale giovanile capace di confrontarsi con i problemi, quelli veri, quelli che ci inquietano e a cui vogliamo trovare risposte adeguate.
    Spesso i problemi che ci premono addosso sono problemi veri e reali.
    Qualche volta, purtroppo, sono problemi falsi.
    Possono essere falsi per differenti ragioni: o perché ce li siamo proprio inventati, forse per eccesso di zelo; o perché rappresentano qualcosa che non ha radici solide; o perché sono solo di una fetta di gente, alle prese con i propri problemi per non accorgersi di quelli gravissimi che attraversano l’esistenza dei più.
    L’aggettivo «falsi» va preso quindi con beneficio d’inventario. Ma non può certo tranquillizzare.
    Per stabilire quali sono i problemi «veri», propongo di misurarsi con il vangelo.
    Gesù si proclama per la vita. In genere, non si preoccupa di precisarla con aggettivi, che possono avere sapore riduttivo. Quelli che usa sono «piena» e «abbondante». Ci suggerisce invece un criterio concreto: la vita, per tutti, sul ritmo della quotidianità.
    Per individuare quali problemi sono veri e quali sono «falsi», il referente non può essere che «tutti». Non basta rifarsi a coloro che ci stanno, a coloro che ci preoccupano, a coloro che interpretiamo con quel po’ di presunzione che nasce dall’amore. Tutti... è un dato serio: vuol dire la gente che vive nelle nostre città, che prende l’autobus al mattino, costretta a svegliarsi alle prime luci per riuscire a salire e arrivare a tempo al lavoro, che si affanna e spera, con mille progetti in testa.
    La comunità ecclesiale italiana ha ricordato che, per misurarsi davvero con tutti, dobbiamo ripartire dal confronto con gli ultimi, i più poveri, quelli che stanno ai margini per mille e differenti ragioni. Ogni tanto, presi dall’entusiasmo, ce lo dimentichiamo. Ma da questo punto… nascono i guai.
    I problemi nascono attorno alla vita. Ma di quale vita si tratta? Il vangelo ci riporta alla quotidianità: la vita è quella di tutti i giorni, dove la donna perde una moneta preziosa e la pecora scappa dall’ovile come il ragazzo, assetato di libertà e di avventura, dove la festa sta per finire per mancanza di vino o il ritorno verso casa si fa triste per il tormento della fame.
    Nell’esistenza quotidiana il confronto tra morte e vita si fa serrato e gli opposti schieramenti si fronteggiano, come il grano cresce frammisto a zizzania.
    Certamente, dobbiamo annunciare il Dio di Gesù: è il nostro compito, la nostra gioia, il cuore del nostro servizio.
    In un mondo minacciato come è il nostro, possiamo proclamare ancora la bella notizia della salvezza, restando nel concreto del quotidiano, dove si alza il grido della disperazione e della morte, o dobbiamo imparare a tacere, collocando magari la nostra speranza fuori dalla vita e dalla storia?
    Non basta davvero riconoscere l’ipotesi migliore da perseguire.
    Parliamo di Dio in parole d’uomo, come Dio stesso ha voluto fare per essere parola per l’uomo.
    Quali possiamo assumere?
    Troppo spesso abbiamo parlato di Dio dentro categorie antropologiche discriminanti e oppressive.
    Dio assume così il volto del signorotto rinascimentale, tutto proteso a difendere i suoi diritti. Diventa lontano e impassibile, sprofondato nella sua gloria, insensibile al rumore della lotta e della morte. Svela la sua verità a pochi fortunati, affidando loro un potere discriminante sulle parole degli uomini. Si lascia commuovere solo dai sacrifici e dalle rinunce, fino ad accettare prezzi durissimi per accondiscendere benignamente.
    Gesù ci rivela un volto di Dio molto diverso. Nella sua testimonianza, Dio è il Dio della vita, disposto a morire perché tutti abbiano vita, quella vera e abbondante che sognano. Si schiera dalla parte della vita, senza essere pregato. E fa passare da morte a vita, in una passione vittoriosa mai spenta.
    Certo, resta un Dio misterioso e ineffabile, le cui parole ci giungono solo dentro le nostre parole umane. Non cerca la convergenza sulle parole e non discrimina i figli suoi sulle parole che essi pronunciano a suo nome.
    Come dire Dio a tanti giovani, che cercano disperatamente ragioni per vivere e per sperare e che si trovano invece a contatto quotidiano con esperienze di morte? Ai troppi giovani che non sanno più bene dove radicare la loro speranza, perché hanno mille proposte; e appena ne prendono qualcuna per buona, se la vedono scoppiare tra le mani, come se la morte ci prendesse gusto a far esplodere i palloncini colorati che allietano la festa della vita?
    Qui sta la sfida. Non è facile.
    In un tempo di secolarizzazione montante risulta terribilmente stretto il rapporto tra domanda e risposta: chi cerca possibilità di vita, la vuole concretamente; chi cerca senso, lo vuole sperimentabile subito, magari dentro attese che non accetta di mettere in discussione.
    Chi cerca felicità ha l’impressione che trattare con la croce di Gesù significhi rinunciare ai troppi desideri, infilarsi con le proprie mani un bastone tra le ruote.
    Su questa sfide, la pastorale giovanile è oggi chiamata a misurarsi. Molti lo stanno facendo. Moltissime esperienze indicano sapienti direzioni di futuro.
    Oggi abbiamo informazioni e sensibilità da vendere, possiamo confrontarci con tanti testimoni qualificati e inquietanti. Si tratta di provare con coraggio, scegliendo veramente di misurarsi con i problemi, quelli veri.


    T e r z a
    p a g i n A


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