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    Le città... la sicurezza... i giovani



    Domenico Ricca

    (NPG 2000-02-02)


    Il binomio città-insicurezza pare essere l’unico, conosciuto dai media, capace di descrivere la multiformità e complessità della vita delle nostre città trasformatesi troppo rapidamente, nella semplificazione giornalistica, in quell’«inferno dei viventi» di calviniana memoria. Inchieste, quasi quotidiane, fanno richiamo al vissuto di disagio dei cittadini che si sentono insicuri, non difesi di fronte alle emergenze di piccola e grande criminalità a tutta prima ascrivibili a personaggi, con fattezze da straniero, oppure a tossicodipendenti. Operando così una rappresentazione della realtà che molte volte non coincide per nulla coi fatti. Ci sono poi periodi dell’anno – con una cadenzialità quasi studiata ad arte – nei quali l’unico problema dei cittadini sembra essere quello della sicurezza. Scrivo queste riflessioni da una città come Torino che si misura quotidianamente sia con l’insicurezza reale, ma più ancora con quella gridata. Qualcuno la chiama «isteria securitaria» con sintomi ormai noti: esasperazioni irragionevoli, semplificazioni al limite della rozzezza, azzeramento dei riferimenti culturali e storici, appiattimento sulle posizioni più gridate, obnubilamento delle facoltà di analisi globale delle situazioni. E poi ancora la paura dello straniero, degli stranieri che arrivando nei nostri territori si insediano e concentrano in zone particolari della città trasformandole in «nicchie etniche», dove però trovano maggior accoglienza e disponibilità da quegli stessi che vi sono arrivati prima di loro. Preoccupa la loro visibilità forte, il loro modo di vivere all’aperto sulle strade, sui marciapiedi, forse perché non hanno case accoglienti o famiglie come noi, o forse perché è il modo di stare insieme in uso nel loro paese. Una concentrazione che crea diffidenza e irritazione negli altri.
    Un’inchiesta del Censis fa emergere che si ha più paura del ladro che del mafioso. La microcriminalità è ritenuta una delle emergenze del paese, è questa ad incutere paura. E al Sud dell’Italia fa più paura questa che Cosa Nostra. Ancora il rapporto Censis evidenzia il senso di insicurezza e di forte allarme sociale dei cittadini che si sentono maggiormente minacciati dalla delinquenza, che colpisce chiunque indistintamente, che dalla mafia, ritenuta selettiva nella scelta delle vittime e operante solo in certi ambienti. Non solo di paura, ma di angoscia si deve parlare perché la mancata individuazione delle cause da rimuovere rende illeggibile il fenomeno e poco credibile il rimedio. L’angoscia è quell’ansia parossistica che investe chi si sente in pericolo, ma, non sapendolo individuare, non è in grado di organizzare una difesa (Galimberti). E allora l’angoscia diventa quello stato d’animo permanente che si diffonde in quei microcomportamenti per cui si evita di prendere la metropolitana dopo le nove di sera, non si esce di notte se non per il breve tragitto da una casa all’altra su automobili con la sicura bloccata, si riforniscono i figli di telefonini per la loro reperibilità, si riducono i prelievi agli sportelli bancomat per non avere sorprese, si passa vicino al prossimo come si passa vicino ai muri, con l’occhio circospetto e il passo veloce, per cui, se non si conosce la via, si ha qualche problema a chiedere un’informazione. C’è perfino chi è pronto a «farsi giustizia da sé».
    Si celebrano i «security day» o i «crime day». Si chiedono misure restrittive. Una nuova deriva repressiva riempie gli animi di molti. Oppure si urla «fuori lo straniero», salvo poi invocarli e averne bisogno nelle campagne del Nord (gli albanesi), in quelle del Sud (i marocchini) e nelle fabbriche del Nord-Est, ad ammettere che sono indispensabili perché la nostra manodopera è insufficiente o non si adegua più a certi tipi di lavoro, ma senza lo straniero si chiude.
    Almeno noi proviamo, accogliendo le emozioni, a ragionare insieme con chi si sente più vulnerabile, a chi taglia corto le questioni con soluzioni del tutto illusorie e ci si vorrebbe proteggere dal rischio criminale come ci si difende da un qualunque rischio fisico o chimico (la pioggia, il vento, il caldo, il freddo...) e ci si scorda che si è, invece, di fronte a un rischio umano, come tale imprevedibile e sempre un po’ irrazionale. Va anche detto che siamo solo all’inizio di quel processo irreversibile che traduce le grandi città in agglomerati disconosciuti, senza più quel tessuto sociale che creava quel rapporto fiduciario tra le gente. Un processo che – ascoltiamo l’allarme dei demografi! – porterà nei prossimi decenni a concentrare i quattro quinti dell’umanità in trenta città. E vedrà le città perdere i loro connotati e diventare pure estensioni di uomini, concentrati l’uno a fianco dell’altro, con l’unico vincolo che è il procacciamento del denaro. Un denaro non prodotto dalle arti e dai mestieri del territorio, ma un denaro da tutto sradicato, che ha nei confini del territorio il suo maggior ostacolo.
    In questa paura gridata, urlata, in questa angoscia che si propaga e si trasmette, c’è ancora da porre attenzione alla distanza tra realtà virtuale e realtà concreta, ovvero nel nostro caso – come giustamente in una serie di articoli sulla rivista Narcomafie sta denunciando Duccio Scatolero – tra insicurezza rappresentata e insicurezza vissuta. Il sindaco di Torino richiama a un senso di responsabilità i media di fronte al fatto che i torinesi definiscono sicuro il loro quartiere (che conoscono e in cui sono riconosciuti) e insicura la loro città (che conoscono solo più nelle rappresentazioni virtuali che di essa vengono date). È ancora lo stesso sindaco a denunciare il sensazionalismo che nell’informazione è diventato una specie d’obbligo, per il timore – altrimenti – di non vendere. Ogni divergenza di opinione è scontro: e se non c’è scontro non ha senso la notizia. È vero, continua il primo cittadino torinese: la convivenza fra diversi, tra etnie e culture diverse è faticosa, richiede impegno, non foss’altro per conoscersi. Ma quando si presenta un problema non può sempre essere connotato di problema razziale, perché così si corre il rischio di non riconoscere il razzismo quando realmente c’è.
    È agevole vedere come ci siano diversi modi di affrontare le questioni. Vi è, tra la gente, anche chi invoca sindaci sceriffi e città a tolleranza zero.
    E i giovani? Qui il terreno si fa più arduo, insicuro, quasi a dire che entriamo nella totale incertezza o meglio ambivalenza. Quella stessa dei giovani che sposano le profonde emozioni dell’amicizia, dell’amore con la crudeltà di gesti a volte efferati e freddi. Che spendono le energie migliori dietro a grandi leaders e nel volontariato, epperò incapaci di tradurle in ragioni politiche e in analisi culturali adeguate. Ambivalenti come i loro sogni di mondialità e desiderio di conoscere popoli oltre ogni frontiera che mal si sposano con le chiusure, i localismi e le grettezze di fronte allo straniero che trovano sotto i portici o alla stazione ferroviaria.
    E la pastorale giovanile? Abbisogna di una traduzione per queste nuove urgenze. Che abiliti il giovane a rappresentazioni corrette della realtà, che, facendo leva sulla sua voglia di relazione, gli rappresenti come un’impresa forte, degna di essere giocata, la ricostruzione del proprio territorio e del tessuto sociale che lo compone. Ai giovani non andrà gridata la paura, ma sussurrata e condivisa la dimensione relazionale. Usciamo, noi adulti, per primi dall’ambiguità, da quell’accontentarci di gridare, di puntare il dito, di chiedere che ci venga tolto di mezzo il problema piuttosto che tornare a star dentro ai problemi, vicino ai bisogni, a ricostruire spezzoni di società frantumati. Rendiamo possibile il binomio legalità-solidarietà, questo sì capace di riportare fiducia, serenità, di prevenire derive repressive inutili, dispendiose, il più delle volte segno di inciviltà come il fenomeno che si vuole osteggiare. Sarà anche questo un modo di far cultura, di educare, che credo rientri nell’ambito della pastorale.


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