Domenico Sigalini
(NPG 2001-07-7)
È sempre stata una grande aspirazione dell’uomo quella di potersi incontrare con Dio: «Mostraci, Signore il tuo volto...»; «Le lacrime sono il mio pane, mentre dicono a me: Dove è il tuo Dio?...».
Nell’Antico Testamento il sacerdozio è stato «inventato» per trovare una risposta a questa ricerca. C’era una casta apposita per il servizio del tempio. La religione antica era fondata sulla distinzione sacro-profano, sacerdoti-laici, culto-vita. Il culto era organizzato attraverso un sistema articolato di separazioni rituali. L’uomo per arrivare a Dio doveva essere santificato, passare dalla profanità alla santificazione, e questo avveniva solo attraverso molteplici separazioni rituali (cf Ebr 9). Doveva in un certo modo abbandonare i luoghi della vita, la profanità, e portarsi in un luogo separato dalla vita, sacro. Non solo, ma occorreva anche il sangue di una vittima.
Il risultato era di mantenere rigida la separazione tra il culto, l’incontro con Dio, la visione del suo volto e la vita. Era certo una posizione religiosa non cervellotica, sicuramente entro un progetto pedagogico di Dio nei confronti dell’uomo, ma il suo piano di salvezza attendeva un «colpo d’ala» definitivo: la vita, la morte, la risurrezione di Gesù.
Infatti con Gesù inizia un modo completamente nuovo di incontrarsi con Dio. Intanto Gesù è un laico. Non è un separato. Non è da quella parte. Ha sostituito il concetto antico di santificazione come separazione, col concetto nuovo di santificazione come solidarietà e comunione (cf le molteplici frasi del Vangelo: per partecipare al culto riconciliati col fratello, misericordia voglio, non sacrifici…).
Tra i due modi di servire Dio con riti e separazioni o con la solidarietà umana, ha scelto quest’ultimo. La morte di Gesù non è stato un sacrificio rituale, nel senso antico del termine, ma lo spingere all’estremo la comunione con Dio e la solidarietà con gli uomini. Non sacrificio rituale, ma decisione radicale, che ha segnato il passaggio dal culto esterno, convenzionale a quello personale-esistenziale. Cristo è diventato sacerdote non perché ha compiuto alcuni riti separati dalla realtà dell’esistenza, ma perché ha preso la realtà stessa dell’esistenza, l’ha trasformata dall’interno sotto l’impulso dello Spirito e l’ha fatta diventare obbedienza filiale verso Dio e solidarietà fraterna con gli uomini. Tutti i cristiani vivono questa dimensione. Sono tutti sacerdoti, non perché assistono alle funzioni liturgiche, ma perché trasformano l’esistenza per mezzo della carità divina data dallo Spirito. Essere laici significa soprattutto questo.
Il sacerdozio, che è di tutti i battezzati, è questa docilità filiale verso Dio e solidarietà con i fratelli. Il vero sacrificio non è accanto all’esistenza, ma nell’esistenza stessa. È mettersi a disposizione dello Spirito per la propagazione della comunione nel mondo. Due sposi cristiani che si amano sono sacerdoti che stanno esercitando questo culto fondamentale. Il sacerdozio non è in contrasto con la laicità, ma ne è la determinazione.
Lo scopo del sacrificio di Cristo è stato quello di «inventare», dare vita, origine al sacerdozio comune. Il sacerdozio dei preti è un mezzo stabilito da Cristo perché ogni cristiano potesse vivere il sacerdozio di tutti, quello fondamentale, quello guadagnato da Cristo con la morte e la risurrezione.
Perché una lunga predica così nella pastorale giovanile? Perché occorre scoprire la laicità cristiana vera. I giovani che lavorano nella pastorale giovanile non sono un aiuto al prete per costruire la chiesa, ma sono i costruttori veri della comunione nella vita, aiutati in questo dal prete.
C’è una responsabilità nativa precedente a qualsiasi voglia o no di prestarsi in parrocchia o nella pastorale giovanile. Chi è che educa a questa dimensione? Sono soprattutto le associazioni, che non sono una riserva di organizzatori o di mano d’opera, ma una scuola di vita laicale. Purtroppo spesso i presbiteri si sostituiscono ai laici e non offrono loro gli strumenti per crescere da responsabili. Non bastano i principi, occorrono tirocini severi di corresponsabilità. Le associazioni lo sono, e se non lo fanno tradiscono ciò per cui sono nate. Allora ne deriva che devono essere progettate in ogni pastorale giovanile, ancor prima di pensare agli strumenti, proprio ancora nel definirne la natura, la figura di giovane credente, l’obiettivo. Il Concilio ecumenico Vaticano II quando parla di Azione Cattolica con le iniziali minuscole, parla proprio di questa assoluta necessità nella chiesa di avere scuole di laicità, questi spazi di crescita del laico cristiano.