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    3. I modelli (cap. 3 di: Andate oltre)


     Juan E. Vecchi, «ANDATE OLTRE». Temi di spiritualità giovanile, Elledici 2002

     

     

    1. Un itinerario spirituale con Maria

    Attraverso sei quadri, viene ripercorso l’itinerario di fede e di sequela di Maria, ispiratrice e modello di un’autentica spiritualità. In ognuno dei sei Maria è sempre presentata in stretto riferimento a Gesù. La meditazione degli avvenimenti principali della vita della Madonna è occasione per cogliere alcuni atteggiamenti fondamentali che devono accompagnare anche il nostro cammino di fede e di sequela.

    1.1. L'annunciazione: appello e risposta

    «Il racconto dell'annunciazione a Maria (Lc 1,26-38) è tra i più belli del Vangelo di San Luca. Riporta un fatto reale e allo stesso tempo ne propone il significato per noi e per la storia dell'umanità. Non riguarda solo il passato, ma è una chiave per leggere il presente. Il Vangelo infatti non è solo storia, ma è sempre annuncio.
    La narrazione è costruita con accenni della Bibbia che richiamano antiche speranze, esprimono attese attuali e anticipano i sogni di salvezza dell'uomo. Maria, che impersona l'umanità, risente in sé tutto ciò ed è chiamata a mettersi a disposizione di Dio per realizzarlo.
    C'è, nell'Annunciazione, un'immagine di Dio. Un discusso film ha cercato di esplorarla. E un Dio “personale” che segue le vicende dell'uomo e lo salva con il suo amore attraverso interventi riconoscibili. E interessante vedere se abbiamo qualche immagine di Dio anche noi, formatasi attraverso il dialogo vocazionale e se coincide con quella dell'annunciazione. O se non ne abbiamo proprio nessuna!
    Dio manda un angelo: cioè si comunica con noi e ci fa conoscere i suoi disegni, non solo, e forse non principalmente, in momenti solenni o con modalità vistose, ma nella vita ordinaria: l'annunciazione avviene a Nazaret, in una casa privata, a una giovane fidanzata, che fa l'esperienza umana dell'amore, della famiglia e della responsabilità.
    Sentiremo Dio in noi stessi nello scorrere della vita e nello snodarsi degli impegni. Vedendo attorno a noi ragazzi e ragazze, dovremo pensare che una comunicazione con Dio sta avvenendo nel loro cuore. Non solo Dio si comunica, ma attende il nostro ascolto e la nostra risposta.
    Dio ha la misteriosa potenza di rendere fecondo quello che, ad occhio umano, è sterile, limitato o perduto. E si tratta di una fecondità non comune, ma pregiata, da cui hanno origine i figli di Dio.
    E questo un invito a rivedere la nostra fede nell'azione e nell'energia dello Spirito. Proprio come una vergine può concepire un figlio, così il nostro mondo apparentemente sterile, è fecondo per lo Spirito, di possibilità che non oseremmo sognare.
    In ogni vita c'è un'annunciazione, anzi parecchie e collegate: propongono una novità, danno una luce per comprendere e invitano ad aprirsi ad una speranza.
    Annunciazione è stata la nostra vocazione. Annunciazione è stata l'ispirazione a fare la professione. Annunciazione sono state le chiamate a responsabilità nelle quali bisogna affidarsi a Dio e attendere con fiducia il futuro. Il principio, la condizione ed il criterio di ogni cammino spirituale è: accogliere, affidarsi, partire.
    L'annunciazione ci ricorda che la nostra risposta a Dio, docile, fiduciosa e continua, è personale. Niente l'uomo o la donna producono che non sia stato concepito e maturato interiormente. Pensieri, sentimenti, desideri, progetti, avvenimenti vengono elaborati nel nostro cuore. Ivi c'è il santuario di Dio. Da quel santuario Maria confessa il suo proposito di verginità, la sua disponibilità, il suo affidarsi.
    Lì operano la grazia e lo Spirito che rendono Maria interiormente Madre del Verbo. Questo viene concepito nell'anima prima che nel grembo. E bella quella rappresentazione dell'annunciazione che presenta Maria con la scrittura sulle ginocchia come in attenta lettura. Lei, serenamente concentrata, assorbe la parola. Si vede nel volto che la accoglie e ne gode.
    La nostra vita attiva, consacrata o laicale, si porta una tensione: rapporto personale con Dio, vale a dire, attenzione, dialogo, accoglienza affettuosa e grata del Signore; e, d'altra parte, preoccupazione per i risultati della nostra attività. Quest'ultima ci sfida e sovente ci tenta. Vogliamo fare sempre di più; e un po' alla volta mettiamo talmente la nostra fiducia nei mezzi e nelle attività, che queste finiscono per svuotarci, a meno che li colleghiamo continuamente al punto dal quale prendono energia e significato: l'invito di Dio a collaborare con lui».

    1.2. La visitazione: un servizio generoso

    «La visita di Maria a Elisabetta (Lc 1,39-56) sembra un'istantanea di vita quotidiana: il gesto di solidarietà e finezza femminile di tutti i tempi. Maria si mette in viaggio per offrire i servizi che una giovane donna può prestare ad una parente anziana in attesa di un figlio.
    La partenza pronta, il lungo viaggio, l'assistenza sollecita ed affettuosa, sono gesti che la Chiesa ha conservato nella memoria e ha offerto come modello. San Francesco di Sales ha messo la Visitazione come icona della sua fondazione: una carità che va all'incontro, entra in casa e assiste con premurosa sollecitudine.
    Era ed è poi comune che in questi incontri le future mamme parlino delle loro attese, dei loro timori e dei loro segreti. Maria ed Elisabetta ne avevano da raccontare! L'una per via dell'esperienza singolare del suo concepimento, l'altra per la lunga attesa di un figlio.
    E un quadro delicato di intensa umanità che scrittori e pittori ci hanno fatto gustare, completandolo, per nostro diletto, con dettagli pittoreschi dell'ambiente domestico.
    Tutto ciò non è marginale nell'esperienza di Maria e nella nostra spiritualità. Questi tratti domestici e popolari liberano l'immagine della Madre di Gesù da quegli attributi extraumani e portentosi con cui la concepisce la fantasia, ma che sono lontani dalla narrazione evangelica.
    Pure per noi è un'indicazione: la chiamata ci inserisce nella vita della gente secondo i suoi bisogni e domande, anche elementari e naturali, lette in una nuova chiave: l'amore, il servizio, la compassione.
    Il “Magnificat” è il cantico con cui Maria raccoglie l'esperienza vissuta da lei e la rilancia verso tutte le generazioni. E tutt'altro che una poesia di cornice per coronare l'episodio. Al contrario, è un “credo”, la professione personale di fede di Maria che assume in sé l'intero popolo messianico; di questo popolo Maria diventa voce e cuore. E l'inno dell'umanità credente di tutti i tempi.
    Non dà una spiegazione razionale su Dio, ma contempla le sue opere salvifiche nella storia degli uomini, iniziando dalla sua concezione verginale e dall'annuncio della venuta del Salvatore: “Ha fatto in me cose grandi”
    Egli interviene oggi in forma inaspettatamente efficace e fa sorgere un mondo nuovo dove sono sconvolti gli schemi consueti della storia mondana: coloro che contano per Dio, coloro che portano avanti il progetto di giustizia non sono gli orgogliosi e i potenti, ma gli umili, gli affamati, che coincidono con quanti sentono bisogno di Dio e degli altri.
    Questo è il mistero gaudioso della Visitazione.
    La Chiesa lo rivive come un fatto che si attualizza oggi nella comunità ecclesiale e in tutti coloro che attendono, cercano o hanno accolto Cristo.
    Maria parte, ignara dell'avvenimento che sarebbe esploso nella casa di Elisabetta. In quella partenza, apparentemente spontanea, c'era l'ispirazione di Dio che preparava la sua manifestazione. La carità predispone alla manifestazione di Dio, la esprime e la illumina: è preparazione, via, segno ed effetto dell'annuncio. E diffusa nel nostro cuore dallo Spirito Santo e si mette a disposizione degli altri secondo le loro urgenze umane: come beneficenza, assistenza, educazione, accompagnamento verso Dio».

    1.3. La nascita di Gesù: accoglienza e contemplazione

    «Siamo abituati ad ascoltare il racconto della nascita nel clima del Natale. San Luca l'ha scritto quando ancora non esistevano i presepi. E non avrebbe immaginato che le pecorelle, le casette, le luci, le stelle potessero diminuire l'attenzione verso i tre personaggi – Gesù, Maria, i pastori – attorno ai quali egli costruisce la sua meditazione.
    Maria nel Vangelo, oltre ad essere la Madre di Gesù, rappresenta sempre anche la Figlia di Sion, cioè il popolo eletto che genera il Messia nella storia umana. E pure figura della Chiesa che porta Gesù nel proprio seno, lo fa nascere nei popoli, lo fa crescere fino a renderlo visibile attraverso la vita e testimonianza delle comunità. E il modello dell'essere cristiano proposto ai discepoli di Gesù.
    “Maria, da parte sua, conserva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,51). Maria non deve venire, come i pastori, al luogo dove accade l'incarnazione. Essa è già lì, è parte dell'avvenimento. Non deve sentire da altri come sono andate le cose e quale significato hanno. Essa conserva memoria di tutte le promesse fatte all'umanità, come dimostra il Magnificat, ed è consapevole che colui che è cresciuto nel suo seno viene dallo Spirito Santo.
    Una volta visto il bambino, Maria non si allontana come i pastori, dal luogo dell'avvenimento. Rimane. Non può allontanarsi. Dovunque Gesù si incarna, lei è indispensabile. Non capisce ancora tutti i significati che si sprigionano, né può enumerare tutte le energie che scaturiscono dall'incarnazione.
    Significati ed energie si riveleranno lungo la vita di Cristo e lungo tutti i secoli. Però Maria conserva nel cuore il ricordo dell'avvenimento, lo tiene caro, lo medita, ne è attenta e all'occasione lo sa ripensare per estrarne nuove conseguenze.
    Noi non possiamo essere solo visitatori, turisti della Parola e del mistero di Cristo. Sant’Agostino, paragonando i tre atteggiamenti di cui abbiamo parlato, domanda al cristiano: A chi assomigli? A coloro che sentono l'annuncio e soltanto si stupiscono? Ai pastori che vengono alla grotta, prendono qualche notizia e partono per annunciarla, o a Maria che coglie tutta la verità di Cristo, la serba nella mente e la medita continuamente? L'ammirazione dei primi si diluisce presto; l'informazione dei pastori, pur dettata dalla fede, è imperfetta e germinale. Soltanto chi ricontempla e interiorizza il mistero di Cristo può estrarne nuova luce e significati per i tempi e per i popoli».

    1.4. Le nozze di Cana: Maria ci indica Gesù come maestro e salvatore

    «“Gesù manifestò la sua gloria e i discepoli credettero in Lui” (Gv 2,11). Così si conclude il racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-11). Sia San Giovanni che la Liturgia collocano queste nozze tra le principali manifestazioni di Gesù: prima ai Magi, poi il Battesimo, ora le nozze di Cana.
    Questa manifestazione ha però una particolarità riguardo alle precedenti. Non avviene in un contesto miracoloso o in una circostanza religiosa, come la nascita o il battesimo. Non ci sono testimoni celesti: angeli, stelle, cantici misteriosi o voci dal cielo. Non ci sono nemmeno predicatori o profeti.
    Avviene in una festa di famiglia, nel contesto di una celebrazione popolare, nel cuore di un avvenimento gioioso: l'amore tra due giovani, il loro desiderio di felicità, la loro promessa di fedeltà, la loro volontà o istinto di prolungarsi attraverso i figli, la partecipazione gioiosa dei loro congiunti e compaesani: una mensa in cui si sono fatti tutti gli sforzi per soddisfare i commensali.
    Ciò ci suggerisce già un pensiero: Gesù, Dio, si manifesta certamente nei momenti di culto e di preghiera, ma non soltanto: è presente in ogni nostra esperienza autentica di vita, gioiosa o dolorosa. Accanto alle nozze di Cana possiamo mettere l'esperienza dell'amicizia, del lavoro, dello sforzo di realizzare qualche cosa.
    E ciò perché il Verbo si è fatto carne: è entrato nel cuore delle nostre esperienze, assumendole e rendendosene partecipe e solidale. Gesù è nelle nostre feste e nelle nostre tristezze. L'amore che viene presentato a Cana è la principale delle esperienze umane e come il prototipo di tutte le altre.
    Abbiamo un'indicazione per la Chiesa e per ogni singolo cristiano: essere solidali e compartecipi delle gioie e speranze dei propri simili; non staccarsi, ma assumere le loro preoccupazioni e angosce; e non da “curiosi” o ricercatori; ma “compatendo” e “gioendo con” loro, condividendo.
    Nella festa però avviene un fatto: viene a mancare il vino. La gioia è sul punto di esaurirsi; la compagnia sta per sciogliersi. Quello che gli incaricati della festa hanno predisposto, secondo tutti i calcoli e previdenze che il caso richiedeva, non ha retto.
    Anche questo passaggio del racconto ha il suo corrispondente nella nostra esperienza. Ogni gioia o impresa umana consegnata soltanto al suo dinamismo naturale, al calcolo e alle forze umane, è esposta all'esaurimento e sovente anche alla corruzione. In un certo momento sembra arrivare al capolinea e non riesce a dare più niente di sé: capita con l'amore. Pensate agli ardenti innamoramenti che si svuotano, e alle coppie che, pur avendo incominciato il rapporto con sincerità e buona volontà, finiscono per non trovare più né motivo né gusto per stare insieme.
    Capita anche con i propositi generosi e con la solidarietà. Possiamo essere spontaneamente generosi, ma inconsapevoli di quali siano le sorgenti perenni della generosità.
    C'è nel racconto un particolare interessante: Gesù c'è, con i suoi discepoli, ma “mescolato” quasi “sommerso”, “ignorato”, “anonimo”. Non emerge: non è stato presentato come l'invitato famoso e non appare nemmeno come l'animatore della festa o il centro dei rapporti.
    È uno dei tanti dunque: nessuno lo pensa come l'uomo chiave, né gli chiederebbe la soluzione del problema. C'è bisogno che qualcuno, che lo conosce già, lo tiri fuori dall'anonimato, lo indichi come colui che può risolvere l'increscioso incidente di una festa che si sta guastando.
    A questo punto entra in scena la dolcissima figura di Maria, immagine della Chiesa e quindi di tutti noi. E che sia tale lo indica il dettaglio, non solo narrativo, ma simbolico ed allusivo, che Gesù era lì “con i suoi discepoli”.
    Essa avverte per prima la situazione, anche prima di Gesù. Lei, le situazioni umane le sente quasi d'istinto. Non le ha dovute assumere: è nata e vissuta dentro la condizione umana proprio come noi. Lei non è un essere divino incarnato; è una creatura umana, nata e vissuta nelle condizioni comuni.
    Maria non fa critiche, neanche materne, a coloro che hanno fallito il calcolo; non fa commenti da “esperta” dei pranzi e delle feste familiari, e non indica soluzioni tecniche su come e dove nei dintorni si possa trovare una soluzione.
    Essa indica e ricorre a Gesù. Alla risposta di Gesù che dimostra di non voler essere dipendente dai legami di parentela, essa gioca un'altra carta, la sua fede: “Fate quello che vi dirà” (Gv 2,5).
    Anche in questo caso c'è un'indicazione di quello che la Chiesa e noi cristiani portiamo di specifico e di risolutivo nella festa della vita: il senso della presenza di Dio, l’esperienza di Cristo, la fiducia nel suo cuore e nel suo potere.
    Ed è anche un'indicazione per il nostro modo di agire: non da critici della triste condizione umana, non principalmente da “esperti” che dimostrano di avere una lista di soluzioni, ma da persone solidali, disposte a condividere quello che abbiamo di fede e di conoscenza di Gesù.
    All'inizio e in ogni momento del nostro cammino, al centro della nostra attenzione c'è sempre Gesù. Lo conosciamo, lo frequentiamo, lo prendiamo come chiave della gioia, lo mostriamo a tutti come salvezza piena e definitiva».

    1.5. Ai piedi della Croce: rinascere continuamente nella carità

    «Maria ai piedi della Croce (Gv 19,25-27) è una icona pasquale. La rappresentazione “lacrimosa” è prevalsa soltanto negli ultimi secoli. Nel Vangelo invece non si fa cenno alle lacrime o alla tristezza. Semplicemente “stava in piedi” (Gv 19,25), prendendo parte consapevolmente a questo avvenimento supremo dell'umanità.
    La croce, per San Giovanni, coincide con la glorificazione di Gesù; è il momento culminante della sua rivelazione, il suo andare verso il Padre. “Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Ed è anche il momento del dono dello Spirito.
    Dalla Croce nasce la comunità dei credenti, rappresentata dal piccolo gruppo fedele che è radunato attorno ad essa e simboleggiata dall'acqua del Battesimo e dal sangue dell'Eucaristia che emanano da Cristo. Sulla croce e su questo gruppo si fonda la nuova unità del genere umano, che Cristo deve realizzare secondo la promessa messianica.
    In questa scena che rappresenta la Chiesa nascente si trovano incastonate le parole rivolte a Maria, che suggeriscono più un simbolo da decifrare, un mistero da svelare, che il racconto di un gesto filiale.
    Gesù chiama Maria a una nuova maternità che ha origine dalla croce e per la croce diventa feconda. E una nuova capacità di far nascere uomini dallo Spirito. Maria sarà Madre di Cristo, non solo per averlo accolto nel suo seno, ma perché, identificandosi dappertutto e totalmente con la comunità che nasce dalla croce, lo concepirà continuamente nella storia in milioni di persone lungo i secoli. E un'altra annunciazione; per noi una rappresentazione dell'Ausiliatrice.
    Maria raffigura la Chiesa universale e anche le singole comunità locali. Tutte nascono ai piedi della croce, sono chiamate a goderne le ricchezze significate dall'acqua e dal sangue e a renderne testimonianza con l'ardente fedeltà di quel primo nucleo.
    Per questo, la comunità dei discepoli prende Maria con sé. Da allora è presente dovunque ci sia la comunità cristiana: visibilmente per la venerazione e i segni di devozione dei credenti; più profondamente per la sua intercessione che dà sempre segni nuovi e imprevedibili. È la compagnia che anche noi sentiamo nelle nostre comunità e nelle nostre imprese.
    La croce ci ricorda il valore dell'offerta di sé a Dio nella carità pastorale. Gli atteggiamenti e i gesti di Cristo, che sovente ricordiamo come esemplari (accoglienza, ascolto, appoggio, illuminazione, misericordia), hanno nella croce il loro coronamento, la loro spiegazione, il loro prezzo.
    Il Pastore, che Giovanni presenta nel capitolo 10, è quello che dà la vita. Se ciò venisse ignorato, la carità pastorale diventerebbe tecnica di approccio, pubbliche relazioni, forma di beneficenza piuttosto che di salvezza.
    Con Maria, accanto alla croce, scopriamo quali sono le energie per la trasformazione che Dio vuole operare in noi e nelle nostre comunità: l'acqua e il sangue; la Riconciliazione e l'Eucaristia. La liturgia che viviamo è tutta improntata alla pedagogia sacramentale. Le pagine evangeliche e gli itinerari liturgici propongono in mille modi questa pedagogia».

    1.6. Nel Cenacolo: la comunità radunata dallo Spirito Santo

    Il gruppetto che raffigurava la Chiesa accanto alla Croce viene presentato in Atti cap. 1, al ritorno dal luogo dell'Ascensione a Gerusalemme (At 1,14). La comunità del Risorto si raduna al completo nel Cenacolo, il luogo dove è stata proclamata e sigillata la nuova alleanza, dove la antica Cena Pasquale è stata riempita del suo significato definitivo, dove è stata istituita l'Eucaristia, dove Gesù è apparso diverse volte ai dodici insieme. E tutta un'immagine della Chiesa!
    In questo contesto, di una comunità radunata al completo, con un patrimonio di verità e con una missione affidata, Luca annota “Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria la Madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1,14)
    È l'unica volta che Maria viene nominata nel "periodo postpasquale". Ed è pure l'ultima di tutto il Nuovo Testamento. Si tratta di un accenno brevissimo e fugace. Maria non sembra protagonista della scena! Prima di lei vengono elencate "alcune donne". Sono quelle medesime che Luca ha nominato nel racconto della crocifissione, la sepoltura, la scoperta della tomba vuota, le apparizioni.
    Tra queste donne però, Maria la Madre di Gesù, non viene mai inclusa ne nominata. Impressiona che ora, presentando ordinatamente e in forma completa la comunità del Risorto metta nella lista singolarmente col nome e il titolo la Madre di Gesù.
    Concentriamo dunque lo sguardo su Maria, che è collocata dopo le donne, come in una categoria diversa, tutta sua. Il testo esprime in primo luogo una convinzione di fede dove c'è la Chiesa, la comunità di Cristo, c'è sempre Maria e viceversa, come nella concezione e nella nascita del Messia, come nelle prime rivelazioni (ai pastori e ai magi, a Zaccaria e Simeone, nel Tempio e a Cana), come nel momento dell'offerta totale.
    È un'indicazione per la nostra vita personale, che ha influsso determinante sul nostro agire pastorale. Nelle chiese e comunità che noi formiamo e animiamo ci dev'essere Lei, con un posto distinto, come compagnia, memoria, specchio e ispirazione.
    Maria è la perfetta discepola spirituale, unica nella sua categoria, nella quale emergono la disponibilità totale alla volontà di Dio e la fiducia negli interventi di Dio per adempiere quello che ha promesso.
    In tal senso Maria è come una roccia, un ancoraggio di speranza nel tempo di attesa. I discepoli si sentono orfani della presenza visibile di Gesù. Sono inviati ad una missione nel mondo della quale hanno un'idea vaga non sanno in che cosa consiste, quali siano le vie più adeguate; non hanno esperienza della sua forza nascosta.
    La presenza di Maria dà senso all'attesa, la riempie di fiducia, ne fa una serena esperienza spirituale che è stata proprio la sua: attendere il tempo della maturazione senza decadimenti né cedimenti.
    La comunità con Maria si dispone a ricevere lo Spirito e di fatto lo riceve. Diventa così feconda e capace di generare Gesù nei popoli. Maria aveva l'esperienza dello Spirito e della sua fecondità perché era stata la prima ad essere riempita da esso e a dare alla luce il Figlio di Dio nella storia umana. Ella è garanzia e salvaguardia per riconoscere e interpretare autenticamente l’azione dello Spirito nell'umanità. Con la forza dello Spirito la Chiesa è chiamata a continuare l'incarnazione di Cristo, a rendere concreto il suo amore per l'uomo in molteplici forme, a rinnovare la sua capacità di servizio.
    Don Bosco ci ha insegnato a sentire questa presenza. L'ha avvertita prima lui stesso e l'ha confessata nella sua vita e opera. Ma l'ha data anche come ricordo ai missionari "Fate conoscere Maria e vedrete dei miracoli". È una consegna anche per noi, per il nostro cammino spirituale».
    (SS, brani scelti, pp. 198-222)

    2. Con Don Bosco, padre e amico

    Don Bosco è stato riconosciuto dal Papa Giovanni Paolo II “maestro di spiritualità giovanile, perché ha saputo rendere vivo il Vangelo per i giovani, accogliendoli nelle loro attese e nella loro voglia di vivere” (Juvenum Patris 5). La Chiesa ha riconosciuto anche ufficialmente la validità di questa esperienza spirituale, proclamando la santità di molti membri, consacrati e laici, della Famiglia Salesiana.
    Don Vecchi aiuta a cogliere la ricca fisionomia spirituale di don Bosco, evidenziando in lui lo splendido accordo di natura e di grazia, che ha saputo esprimere concretamente in un progetto di vita fortemente unitario: il servizio dei giovani. Anche noi siamo chiamati a vivere questa “grazia di unità” nella nostra vita, in cui l’umano e il divino si armonizzano in un’esistenza spirituale senza sbilanciamenti né spaccature.

    2.1. Uno splendido accordo di natura e di grazia

    «La fisionomia spirituale di Don Bosco è stata definita “uno splendido accordo di natura e di grazia” (Costituzioni Salesiane, art. 21)
    Non si tratta di una armonia modesta, normale, che si confonde nel comune. E qualche cosa che colpisce fortemente... come un panorama straordinario, un quadro particolarmente riuscito, una musica vibrante. Non sono pochi gli studiosi che si sono espressi nello stesso senso. “Uno degli uomini più completi che abbia conosciuto la storia” (Joergensen). “Agostino, Francesco, Caterina da Siena, Don Bosco vanno annoverati tra i culmini dell'umanità” (Hertling).
    “Noi l'abbiamo veduta da vicino questa figura, in una visione non breve, in una conversazione non momentanea; una magnifica figura che l'immensa, l'insondabile umiltà non riusciva a nascondere... una figura di gran lunga dominante e trascinante: una figura composta, una di quelle anime che per qualunque via si fosse messa, avrebbe certamente lasciato grande traccia di sé, tanto era egli magnificamente attrezzato per la vita” (Pio XI).
    La nostra finalità non è tessere un elogio o panegirico, ma scoprire il “tipo” di persona e di spiritualità: armonia tra profondo istinto di vita e apertura a Dio, passione per tutto quanto è umano e profondità spirituale. “Accordo o armonia”, dice più che unità. Questa si ottiene a volte saldando le parti, a volte sacrificando aspetti: dà l'immagine di qualcosa di raggiunto. Armonia dice pienezza che diventa splendente nel gioco delle tensioni: nessuna veniva mortificata in favore dell'altra o della tranquillità. La sua natura umana, tenera e affettuosa, sensibile all'amicizia, divenne il segno trasparente dell'esperienza di Dio. Questa a sua volta produsse una finezza sempre maggiore di umanità.
    Tale armonia appare nella sua persona: tenerezza e austerità, intelligenza e praticità, rettitudine e furbizia, santità e scioltezza nel mondo. Appare anche nella sua spiritualità: lavoro e contemplazione, Dio e il prossimo, carità e professionalità, ubbidienza e libertà. Appare pure nella sua pedagogia: disciplina e familiarità, ragionevolezza e spontaneità, esigenza e bontà.
    Sono le medesime tensioni che noi sentiamo. Per questo nell'ultimo tempo si è sottolineata sovente la sua caratteristica principale: la grazia dell'unità».

    2.2. Profondamente uomo

    «”Profondamente uomo…ricco della virtù della sua gente…aperto alle realtà terrestri” (Costituzioni Salesiane, art. 21).
    La prima cosa che colpiva era la sua umanità. Era la manifestazione della sua santità, mentre questa appariva come lo splendore della sua umanità. L'umanità si manifestava in una capacità di affetto intenso e personale. Questa divenne la sua forma abituale di rapporto; mai formale, burocratico, amministrativo, sempre vicino e avvolgendo la persona in una atmosfera di stima. Lo si vede nell'oratorio, ma anche nelle udienze, nei viaggi, per la strada. Ad affezionarsi era portato dal suo temperamento, ma diventò la sua forma di imitare Cristo. Nelle sue memorie ricorda che da ragazzo aveva preso un merlo e l'aveva messo in una gabbia. Lo curava e gli dava da mangiare come si fa con un amico. Un giorno il gatto si avvicinò alla gabbia e lo l'uccise. Sconsolato si mise a piangere. Sua madre gli disse: “Ma perché piangi? Ci sono tanti uccelli nel bosco”. Ma tutti gli altri non valevano per lui quello a cui si era affezionato. In quella opportunità fece il proposito di non attaccare mai il cuore a creatura alcuna. Felicemente – commentò un autore – non lo adempì.
    Questa forma di relazionarsi personalmente e con intensità di affetto costituì il segreto della sua prassi educativa. C'è tutta una collezione di aneddoti che lo ricordano; dalla frase detta a Gastini: “Sono un povero sacerdote, ma ti voglio tanto bene che se un giorno avessi soltanto un tozzo di pane lo dividerei con te”; fino al commosso ricordo di Don Albera: “Bisogna dire che Don Bosco ci prediligeva in modo unico tutto suo: se ne provava il fascino irresistibile. Io mi sentivo come fatto prigioniero da una potenza affettiva che mi alimentava i pensieri, le parole e le azioni. Sentivo di essere amato in modo non mai provato prima, singolarmente, superiore a qualunque affetto. Ci avvolgeva tutti e interamente quasi in una atmosfera di contentezza e di felicità”.
    All'affetto, come tratto di umanità, si deve aggiungere la capacità di amicizia. Quante e diverse ne ebbe sin dai primi anni della vita, nella giovinezza, nell'età matura! La gioia di condividere, di stare e lavorare assieme è una caratteristica del suo temperamento. Amico del fratello Giuseppe col quale spartì trattenimenti e confidenze; amico dei ragazzi della borgata per i quali raccontava storie e preparava trattenimenti (oggi ricordati con un bel monumento al Colle Don Bosco); amico dei compagni di Chieri coi quali fondò la società dell'allegria, amico del collega Comollo, con cui stabilì un patto oltre la morte; amico dei ragazzi ebrei, discriminati. Questo tratto continua nella maturità, in cui coltiva l'amicizia con sacerdoti, religiosi, cooperatori e giovani, scrittori, perseguitati, politici, autorità. Lo lascerà documentato in una serie di raccomandazioni di questo tenore: “Tutti quelli con cui parli diventino tuoi amici”».

    2.3. Profondamente uomo di Dio

    «Questa ricca umanità, sensibile, concreta, pratica, capace di mescolarsi con i problemi del suo tempo era il risultato finale di un generosa risposta alla grazia: “Uomo di Dio, ricolmo dei doni dello Spirito” (Costituzioni Salesiane, art. 21). Era questa una dimensione in parte nascosta per il temperamento. Infatti sebbene Don Bosco fosse portato a comunicare i propri sentimenti riguardo all'interlocutore, non lo era altrettanto per manifestare la sua esperienza interiore. Gli scritti e le lettere lasciano trasparire poco dei suoi sentimenti profondi.
    Don Bosco non ha lasciato una “Storia dell'anima”, come la piccola Teresa o Giovanni XXIII. Ha lasciato la storia dell'Oratorio. Non scrisse il “Diario spirituale”, ma il quaderno di esperienze pedagogiche.
    Ma la profondità spirituale in parte era nascosta anche sotto il suo stile di azione. “Troppo ostinato e scaltro, troppo avido di denaro e facile a parlare o far parlare di sé”, lo trovava un cardinale (Card. Ferrieri). Veniva messa in discussione per l'apparente disordine e per i limiti reali della sua opera educativa, che doveva aiutare a crescere i ragazzi poveri e non presentava dunque i “pregi” dell'opera educativa esemplare. “Se Don Bosco avesse realmente spirito di pietà, dovrebbe impedire certi disordini nella sua casa”, disse un altro cardinale male impressionato dalla spontaneità non totalmente regolata di Valdocco.
    Eppure era chiarissimamente manifestata soprattutto attraverso la fede in Dio e la carità verso il prossimo. “Ho sfogliato molti processi: ma non ne ho trovato uno così riboccante di soprannaturale” (Card. Vives). “Per rintracciare una figura delle stesse proporzioni, occorre rifare di secoli la storia della Chiesa e raggiungere i santi fondatori dei grandi ordini religiosi” (Card. Schuster).
    Un altro aspetto della sua dimensione spirituale è la ricchezza dei doni dello Spirito: la prudenza, la fortezza, la saggezza. Riguardano tutti l'azione, la lettura dei segni, il capire gli uomini e gli avvenimenti. Ma soprattutto si sottolinea un tratto: “Viveva come se vedesse l'invisibile” (Eb 11,27). L'espressione è presa dalla lettera agli Ebrei; lo scrittore sacro descrive la fede dei patriarchi che vissero nella precarietà sostenendo dure prove nella speranza salda che si avverassero le promesse di Dio. Descrive bene la maniera di collocarsi di don Bosco di fronte alle cose di questo mondo e agli avvenimenti storici come se vedesse la presenza di Dio che opera in essi».

    2.4. Un progetto di vita fortemente unitario: il servizio dei giovani

    «Il punto di fusione di tutta la sua vitalità naturale con le ispirazioni della grazia è un progetto di vita unitario: il servizio dei giovani. Bisogna qui considerare tutto lo sforzo di Don Bosco per realizzarlo, le difficoltà superate per questa donazione totale e il pieno impiego delle sue energie fisiche, intellettuali, spirituali. Il progetto, e non più il “sogno”, assunto con la sensibilità di un cuore generoso e portato avanti con fermezza e costanza, finì per modellare la sua personalità, e divenne il luogo storico della sua maturazione come santo originale».
    (SS, Brani scelti, pp. 28-36)

    3. Sull’esempio dei santi

    Uno sguardo fisso sulla vita dei santi, quelli di ieri e quelli di oggi, nella loro grande varietà e tipologia. La santità è un dono fatto a tutti e un compito affidato a ciascuno. La santità giovanile nella Famiglia Salesiana è un riferimento da offrire ai ragazzi e ai giovani anche ogg, particolarmente la figura di Domenico Savio: il programma di santità indicatogli da don Bosco è un programma sempre valido e attuale.

    3.1. Espressione della sinfonia dell’amore di Dio per noi

    «La storia dei santi è appassionante. Essi rappresentano tipi umani originali e imprevedibili sul versante della bontà, della libertà nel donarsi. Illuminano in maniera straordinaria il valore e il senso della vita e hanno uno sguardo particolarmente profondo sul nostro rapporto con Dio e con il mondo. Si legge ancora con ammirazione e frutto Sant’Agostino. La piccola Teresa, con la sua narrazione della vita spirituale, ci è contemporanea.
    Ma più ammirevole ancora è la galassia dei santi e delle sante. Appaiono sotto tutti i cieli e in tutte le condizioni: uomini e donne, suore e madri di famiglia, intellettuali e ignoranti, sacerdoti e laici, adulti e adolescenti, pastori e martiri, missionari instancabili, come S. Francesco Saverio, e malati fisicamente immobili, come Alexandrina da Costa.
    In tutti si sente la presenza di Dio che dà un nuovo volto all’esistenza umana. Tutti riflettono, con particolare luminosità, la persona e il ministero di Cristo. Perciò non c’è campo della carità dove non ne appaia qualcuno: l’assistenza ai malati anche gravissimi, il soccorso ai giovani poveri di ogni tipo, la beneficenza, l’assistenza ai carcerati ed emarginati, l’educazione dei ragazzi, l’orientamento spirituale delle persone, l’evangelizzazione di coloro che non conoscono Cristo. Nell’insieme si sente la sinfonia dell’amore di Dio per noi, con i suoi diversi toni e possibilità. Per questo le biografie ci immergono anche nel tempo in cui il santo è vissuto e mostrano come vi reagisce un vero discepolo di Gesù».

    3.2. La santità è un dono fatto a tutti e un compito affidato a ciascuno

    «Santi e sante ci sono anche oggi, conosciuti da noi sebbene ancora non dichiarati dalla Chiesa. Poco tempo fa è morta Madre Teresa di Calcutta. Folle, anche di non cristiani, hanno preso parte ai suoi funerali. Personaggi di spicco hanno voluto renderle un omaggio finale di ammirazione. L’avevamo vista direttamente o per televisione percorrere diverse parti del mondo per incoraggiare la speranza, la cura della vita e la pratica dell’amore verso gli ultimi.
    Alcuni anni fa cinque monaci sono stati uccisi in Algeria. Avevano ricevuto l’invito a lasciare il paese per evitare la morte. Hanno scelto di rimanere per essere elementi di pace e testimoni della fede in mezzo a un popolo martoriato. Potremmo scrivere parecchi volumi sui santi di oggi, cercandoli anche nella nostra cerchia più vicina. La santità, che in alcuni appare eminente, è un dono fatto a tutti i battezzati. S. Paolo chiama santi i membri della comunità cristiana anche se denuncia le loro mancanze. Non si riferisce dunque alle loro qualità morali attuali, ma a un altro fatto: essi appartengono a Dio, sono stati raggiunti da Cristo con una chiamata o rivelazione, sono inabitati dallo Spirito. Vi è una bella espressione di Sant’Agostino: non chiamati perché santi, ma santi perché chiamati. Tale dono viene descritto come rigenerazione, nuova creazione, vita nuova, nuova nascita, adozione da parte di Dio, filiazione, inabitazione dello Spirito Santo, vita eterna.
    Dal dono consegue un compito, come avviene con la vita o con l’intelligenza: svilupparlo. È quello che lo Spirito fa. Egli come un Maestro interiore suggerisce, ispira, incoraggia, lancia luce sulla strada. Il cristiano risponde, segue, assume; così modella il cuore secondo la forma di Cristo. Quando questo dialogo raggiunge livelli alti di attenzione e di docilità creativa, ne viene fuori un santo: un capolavoro dello Spirito. Egli è l’artista delle singole opere e della “galleria”: la santità della Chiesa».
    (DIREDIO, pp. 78-80)

    3.3. La santità giovanile

    «Domenico Savio, nel 1954 e 1958, segnò il record, ottenne il Guiness di gioventù tra le persone canonizzate, non martiri. Quando morì era alla soglia dei 15 anni: esattamente 14 anni, 11 mesi e 7 giorni.
    Trent’anni dopo, nel 1988, ebbe luogo il sorpasso da parte della Beata Laura Vicuna, beatificata in occasione del centenario della morte di don Bosco: lei alla sua morte aveva 12 anni, 9 mesi, 17 giorni.
    In attesa c’è Zeffirino Namuncurà, ancora come Venerabile, cioè con la vita sottomessa già a esame da parte degli esperti in esperienza cristiana e trovato esemplarmente maturo, anzi eroico nella pratica delle virtù evangeliche: egli morì a 18 anni, 8 mesi, 15 giorni.
    Sono tre giovani cresciuti negli ambienti salesiani di mondi diversi che, possiamo dire oggi, hanno percorso le strade del progetto formativo salesiano e beneficiato dell’ambiente della comunità educativa.
    Ad essi si uniscono i giovani martiri della Polonia, beatificati nel giugno 1999 a Varsavia: erano cinque giovani oratoriani, tra i 19 e i 23 anni, tutti frequentatori regolari dell’Oratorio, animatori di gruppi, impegnati in attività, imprigionati proprio per essere pubblicamente conosciuti come giovani di fede.
    Nel 1988 Giovanni Paolo II ha indirizzato una Lettera ai Salesiani dal titolo “Un Maestro per l’educazione”. Tra le molte affermazioni incoraggianti c’è questa: “MI piace considerare di don Bosco che egli realizza la sua personale santità mediante l’impegno educativo, vissuto con zelo e cuore apostolico e che sa proporre al tempo stesso la santità quale meta concreta della sua pedagogia. Egli è un educatore santo che sa formare tra i suoi giovani santi come Domenico Savio”.
    La singolarità di Domenico Savio è l’aver condiviso la santità di don Bosco, trasmessa e proposta dal suo maestro; perché questi se ne accorse della stoffa che aveva il ragazzo col quale si era incontrato. Racconta infatti così il suo primo incontro: “Conobbi in quel giovane, cresciuto in famiglia cristiana, un animo tutto secondo lo Spirito del Signore; e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la grazia divina aveva operato in così tenera età”. Questa sua perspicace osservazione veniva ispirata e sostenuta da una convinzione: la disponibilità dei ragazzi per una proposta di vita di grazia, la loro capacità di un’esperienza di Dio e la felicità che ne avrebbero sentito. È questo il tema della sua predica che mosse Domenico Savio ad intraprendere con un’intenzione diretta ed esplicita, la strada della santità. Impressionato dalle parole di don Bosco sulla possibilità e felicità del farsi santo, Domenico Savio fa questa richiesta: “Mi dica come debbo regolarmi per incominciare l’impresa”.
    Don Bosco, attrezzato di una buona dottrina ed ormai esperto dell’animo giovanile, non sorrise, non scrollò scetticamente il capo, non sfuggì il problema, si dimostrò invece pronto a tracciare un programma da mettere in atto. Il programma ci interessa perché, tradotto in termini attuali, costituisce una proposta di santità per i giovani di oggi.
    a) “Costante e moderata allegria” disse innanzitutto don Bosco. Con questo lo invitava non a una ritiratezza straordinaria o a una pia separatezza, quasi alienazione dalla vita giovanile; ma a convivere con i compagni, condividendo con loro lavori, compiti, gioia, aiuti. Un invito a badare alla propria crescita, cercando di conoscere quello che il Signore ha depositato in noi di bene e di bello, valorizzando i rapporti e l’ambiente in cui ci troviamo.
    b) “Esattezza nei doveri di pietà e di studio” disse don Bosco come seconda indicazione adeguata all’ambiente in cui si svolgeva la vita di Domenico Savio. Voleva dire valorizzare quanto di religioso abbiamo ricevuto e progressivamente capirlo in profondità nelle sue dimensioni, significati e conseguenze. Desiderare e arrivare ad un incontro personale con Gesù che ci aiuti a confrontare problemi e situazioni che viviamo con la sua Parola e con la sua vita. Passare dall’incontro momentaneo ed occasionale, all’amicizia e alla frequentazione assidua, per diventare suoi discepoli: preghiera, vita nella comunità ecclesiale, impegno giovanile per il Regno. Ma don Bosco aggiunge lo studio: è interessante che egli congiunge strettamente quello che appare come “religioso” o “di chiesa” con quello che sembra “profano”, “di mondo”: lo studio, il lavoro, il divertimento. Don Bosco consiglia dunque di combinare alcune tensioni: lavoro e temperanza, azione e preghiera, quotidiano e festa, amicizia e capacità di autonomia.
    c) “Partecipare assiduamente con i compagni alla ricreazione, praticare ogni atto di bontà e aiuto possibile” disse ancora don Bosco come terza indicazione. Domenico Savio da parte sua si diede a fondare un gruppo di vicendevole aiuto, offrì i suoi servizi in una nota epidemia di colera che imperversava Torino, sospirò per l’unione della Gran Bretagna con la chiesa Cattolica, espresse il desiderio di diventare sacerdote. È forse questa, del servizio e della carità, la dimensione della santità che i giovani colgono più immediatamente, quella dalla quale vengono attratti e alla quale più credono. Perché queste esperienze esprimano tutta la loro carica di amore e sprigionino tutto il loro dono di grazia nella vita dei giovani, devono essere collocate nello spazio del Regno con la consapevolezza che Dio opera attraverso di loro; devono avere la caratteristica della gratuità: devono diventare da occasionali a definitive e totali, a pieno tempo e a piene forze».
    (Intervento a Lecce, in occasione del 50° di presenza salesiana, 1999)

    4. Fino al dono totale di sé nel martirio

    Il martirio è una realtà sempre presente nella storia della Chiesa, quella delle origini, ma anche quella più recente. Don Vecchi ci ricorda il senso e il valore del martirio, invitandoci poi ad assumere quegli atteggiamenti spirituali evocati dalla testimonianza dei martiri: la fortezza e la radicalità evangelica, che tutti, pur con modalità diverse, siamo chiamati a vivere.
    Viene infine ricordata l’esemplarità e la testimonianza di cinque giovani oratoriani martiri, messi a morte sotto il regime nazista e recentemente proclamati beati in Polonia.

    4.1. Offerta della vita a testimonianza della fede

    «Il giorno di Pasqua del 1998, nel messaggio al mondo, il Papa ha associato in un unico ricordo i testimoni evangelici della risurrezione e i martiri del nostro tempo. Una delle iniziative per il giubileo è stata quella del martirologio del secolo XX, cioè il catalogo di coloro che dal 1900 fino ai nostri giorni furono uccisi per la fede. I Sinodi dell’Africa, dell’America e dell’Asia hanno annoverato il martirio e la memoria dei martiri tra i punti più importanti della vita cristiana odierna e della nuova evangelizzazione. Della vita e non solo della storia cristiana! I martiri non sono solo “glorie” o “esempi”, ma rivelazione vivace di una dimensione dell’essere cristiano: la testimonianza di Cristo e della vera vita.
    Martirio, nel significato originale del termine, indicava la deposizione di un teste, per iscritto e sotto giuramento, con valore di prova: dunque il massimo di credibilità, di garanzia di verità, che si poteva chiedere.
    Il Vangelo applica la parola a Gesù che rende testimonianza del Padre e della vita vera con la parola e le opere; ma soprattutto con la passione e la morte. Egli è il testimone, il martire per eccellenza.
    La applica poi a coloro che raccontarono la risurrezione di Gesù o, successivamente, la annunciavano. Ciò comportava esposizione al fallimento e alla derisione e anche rischio di morte, come si verificò già all’inizio della Chiesa col martirio di Santo Stefano.
    Lo stesso Gesù associa questa confessione dei suoi discepoli ad una assistenza dello Spirito Santo. “Vi porteranno nei tribunali... e vi tortureranno... sarete miei testimoni di fronte a loro e di fronte ai pagani... Non preoccupatevi di quel che dovrete dire e di come dirlo. Non sarete voi a parlare, ma sarà lo Spirito del Padre vostro che parlerà in voi” (Mt 10, 17-18.20).
    Presto e per sempre nella storia, martirio prese il senso di offerta della vita in morte cruenta a testimonianza della fede. Il martire non si difendeva con argomenti per dimostrare la sua innocenza di fronte a quello di cui veniva accusato. Anzi approfittava per parlare di Gesù, dichiarava quanto la fede in Cristo fosse importante per lui, confessava la sua appartenenza al gruppo cristiano. Aveva persino il coraggio di esortare giudici e carnefici a ricredersi e rinsavire.
    Oggi si uccide ancora per ragione di fede. Ne sono prova i sette monaci dell’Algeria e tanti altri, religiosi, religiose e fedeli laici, caduti dove imperversano l’integralismo o forme magiche di religiosità. Altri morirono e muoiono nell’esercizio della carità o nello sforzo di riconciliazione durante conflitti etnici, guerre civili e situazioni di insicurezza generale.
    È più frequente però una ragione “umana”, legata profondamente alla fede. Così i regimi ideologici del secolo XX fecero stragi di credenti, cattolici, protestanti, ortodossi sotto l’accusa di opposizione al bene del popolo, di sovversione, di favoreggiamento dei nemici dello Stato. Non domandavano nemmeno se l’accusato volesse rinunciare alla fede. Lo eliminavano senza processo. Sovente lo diffamavano attraverso una stampa potente e inscenavano tribunali fantocci.
    È interessante vedere come si avvera la parola di Gesù: delle montature accusatorie ci siamo dimenticati; di quello che i martiri hanno proclamato con la loro sofferenza e col loro silenzio ci ricordiamo e beneficiamo: il valore della vita, la dignità della persona chiamata alla comunione con Dio e alla responsabilità di fronte a lui, la libertà di coscienza, la critica contro tragiche deviazioni come il razzismo, l’integralismo, il potere assoluto dello stato, la discriminazione, lo sfruttamento dei poveri».

    4.2. Fortezza e radicalità evangelica

    «Si dice che nessuna causa va avanti senza i suoi martiri, senza cioè coloro che ci credono fino a dare la vita per essa. La fede comporta sempre una certa violenza. Gesù insegna che alla vita piena si arriva attraverso la morte. Egli giunse alla gloria attraverso la passione. Chi vuole la corona, dice S. Paolo, deve sostenere la lotta e chi vuole il traguardo deve agguantare la corsa; e allenarsi con sacrificio.
    Oggi questo pensiero non ci è molto congeniale. C’è un dono dello Spirito Santo che ce lo fa capire e assumere: la fortezza. Tutti ne abbiamo bisogno. Forse nessuno vorrà ucciderci a motivo della nostra credenza religiosa. Ma c’è tutta una concezione cristiana dell’esistenza da sostenere e scelte di vita che richiedono lucidità e resistenza. E ci sono circostanze personali, malattie, situazioni di famiglia e di lavoro, che esigono un saldo ancoraggio nella speranza.
    Essere martire è una vocazione. Lo Spirito, non il giudice o il carnefice, fa i martiri, cioè i grandi testimoni. E come ogni vocazione, esprime una dimensione dell’esistenza cristiana che è comune a tutti.
    A Roma il ricordo dei martiri è familiare. Lo tengono vivo molte chiese, ma soprattutto le catacombe che riportano alle condizioni precarie della comunità cristiana in tempi di persecuzione e alle vicende in cui si videro coinvolti singoli cristiani per accuse che riguardavano la loro religione.
    Pitture, disegni, incisioni, sarcofagi e ambienti sono una vera catechesi, una riflessione sulla fede fatta in “tempi” di martirio: tempi di minoranza, significatività provocatoria, prove, adesione e amore.
    In altri contesti è una realtà attuale, ma non sempre si trova la meditazione intensa, ricca e articolata che ci impressiona nei luoghi classici.
    I presupposti, le implicanze, quello che sottostà al martirio, è parte non prescindibile della formazione nella fede. Questa è fonte di gioia e di luce, ma non si offre a “buon prezzo”. Le parabole del “tesoro nascosto”, per il quale il compratore deve vendere quanto possedeva, ce lo ricordano.
    Il martirio è collegato ad una delle note senza le quali il vangelo perde il suo colore, il suo sapore, il suo filo, la radicalità. È una specie di dinamismo interno per cui si punta verso il massimo possibile ed è tipico della fede. Non è integralismo, che è adesione cieca alla materialità delle proposizioni; non è massimalismo, che è pretesa e ostensione di coerenza nelle idee e nelle esigenze. È proprio “gusto” e conoscenza della verità, adesione di amore alla persona di Cristo».
    (SS, pp. 84-87)

    4.3. Un gruppo “giovanile” tra i beati martiri polacchi

    «Il 13 giugno 1999, sono stati beatificati in Polonia 108 martiri, tra i quali un salesiano sacerdote e cinque giovani dell’Oratorio Centro Giovanile di Poznan: Edoardo Klinik (23 anni), Francesco Kesy (22 anni), Jaronogniew Wojciechowski (20 anni), Czeslaw Jozwiak (22 anni), Edoardo Kazmierski (23 anni). Furono arrestati nel settembre 1940 e percorsero diversi luoghi di prigionia. Il 1° agosto 1942 fu pronunziata la sentenza: condanna a morte per tradimento allo stato. Furono presi di mira e condannati senza difesa per la loro appartenenza ai movimenti cattolici, dai quali si sospettava potessero nascere resistenze. È risaputo infatti che i nazisti, anche se non lo dicevano direttamente, portavano avanti una persecuzione per motivi di fede. Furono decapitati nel cortile del carcere di Dresda il 24 agosto 1942, mentre si celebrava nelle comunità salesiane la commemorazione mensile di Maria Ausiliatrice.
    I cinque giovani erano oratoriani, tutti e cinque consapevolmente impegnati nella propria crescita umana e cristiana, tutti e cinque coinvolti nell’animazione dei compagni, legati tra loro da interessi e progetti personali e sociali, presi di mira quasi insieme e imprigionati in sedi diverse ma in un brevissimi periodo di tempo. Ebbero un precorso carcerario insieme e subirono il martirio lo stesso giorno e allo stesso modo. L’amicizia oratoriana rimase viva fino all’ultimo momento.
    Singolarmente e come gruppo, questi giovani fanno emergere la forza plasmatrice dell’esperienza oratoriana, quando essa può contare su un ambiente, su una comunità giovanile corresponsabile, su una proposta personalizzata, uno o più confratelli capaci di accompagnare i giovani in un cammino di fede e di grazia. I cinque giovani vengono da famiglie cristiane. Su questo fondamento poi, la vita e il programma dell’Oratorio hanno stimolato la generosità verso il Signore, la maturità umana, la preghiera e l’impegno apostolico.
    Il gruppo, come luogo di crescita e di impegno, è stato determinante. Vengono nominati sempre come “il gruppo dei cinque”. L’esperienza oratoriano produsse tra di loro una solidarietà giovanile basata sugli ideali e i progetti, che si è manifestata nella condivisione sincera, nel vicendevole sostegno per affrontare le prove, nella spontaneità e nella gioia.
    L’amicizia li portò a continuare gli incontri quando le forze di occupazione requisirono l’oratorio lasciando ai Salesiani soltanto due camere e trasformando l’intero edificio e la chiesa in magazzini militari. In una camera e con un pianoforte proseguirono le attività corali e gli incontri amichevoli. Più tardi, privati anche di questa possibilità, i luoghi di riunione diventarono i piccoli giardini di città, i prati presso il fiume e i boschi vicini. Niente di strano che la polizia li identificasse o li confondesse con coloro che si erano costituiti in associazioni clandestine. L’amicizia divenne sostegno vicendevole durante il passaggio attraverso i vari carceri fino alla morte».
    (Santità e martirio all’alba del terzo millennio, Lettera ai Salesiani, 29 giugno 1999, ACG 368, pp. 3-36)

     


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