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    Preadolescenti, pratica sportiva, evangelizzazione



    Mario Delpiano

    (NPG 1990-04-42)


    Ci interessiamo di ragazzi, di sport-gioco e animazione. Lo abbiamo fatto da educatori.
    Riconosciamo nello sport-gioco, vissuto con la sua «qualità vitale», un luogo privilegiato per avviare percorsi di liberazione della vita e di emancipazione del preadolescente. In esso abbiamo individuato possibilità significative di comunicazione intersoggettiva e di elaborazione culturale arricchita dallo scambio intergenerazionale.
    L'interesse per lo sport e il gioco da parte dei ragazzi, coltivato entro condizioni educative, non finalizzato ad altro che a se stesso, né strumentalizzato a fini ideologici, si rivela essere un ambito vitale di esperienza di «valorizzazione», cioè di scoperta della vita in quanto valore per i ragazzi e le ragazze di oggi.
    Ci chiediamo allora in una prospettiva esplicitamente pastorale: questo tema deve interessare, e fino a che punto, la comunità ecclesiale? Ha delle prerogative per richiamare su di sé l'at tenzione costante degli educatori alla fede, o va considerato preoccupazione di «altri educatori», competenti per farlo e interessati al fenomeno?
    Di più ancora ci chiediamo: quale rilevanza può assumere lo sport nell'educazione alla fede dei ragazzi e delle ragazze di oggi? Lo sport è e resta soltanto una passione grande dei preadolescenti, o può, anzi deve interpellare, in quanto potenziale ambito di esperienza vitale, la passione educativa di chi, nella comunità, vuole farsi compagnia ad ogni uomo, ai preadolescenti in particolare?
    Quale allora la funzione, il posto, il senso dello sport in un progetto di pastorale dei ragazzi di una parrocchia, di un oratorio, di un'associazione, di una scuola cattolica, in quanto ambienti formativi in cui si vive comunitariamente anzitutto l'esplicita intenzionalità di educare alla fede le nuove generazioni all'interno dei processi educativi?

    I TEMPI DELLA IDEOLOGIA TOTALIZZANTE

    Nel clima post-ideologico in cui viviamo, sembrano ormai lontani i tempi in cui, nella comunità ecclesiale, si viveva (almeno a livello latente) la conflittualità tra attività sportiva e attività «religiose», e perciò si tentava di elaborare le contraddizioni e di regolarne i rapporti attraverso soluzioni diverse ma ugualmente, oggi almeno, inadeguate.
    Tale conflittualità tra ambiti di vita diversi rivelava l'esistenza di processi di assolutizzazione nell'ambito educativo, tali che, di fronte a una proclamata superiorità e dignità dell'attività religiosa, si finiva per produrre, come reazione, assolutizzazioni di attività «profane», prettamente educative, quasi per volerne affermare l'autonoma consistenza.
    La conflittualità perciò veniva alla fin fine elaborata e governata all'interno di due modi molto diversi di considerare il rapporto tra i processi di educazione (come l'attività sportiva, anche se ad essa non le si attribuiva dignità educativa come altre attività) e processi di evangelizzazione.

    Il modello della dipendenza gerarchica

    Sono passati anzitutto i tempi della dipendenza gerarchica dell'attività sportiva, per esempio all'interno dell'oratorio parrocchiale, dai momenti delle attività «religiose» come il catechismo e la pratica religiosa rituale.
    È persino divertente richiamare alla memoria i tempi in cui la pratica sportiva all'oratorio veniva legata ai sistemi di controllo della presenza alla messa domenicale o al catechismo. Erano i tempi delle tessere: si giocava la partita o si era ammessi agli allenamenti solo dopo aver adempiuto a modo ai doveri superiori e alle pratiche «importanti», che rivendicavano a sé assoluta precedenza nella vita del ragazzo, e che d'altronde venivano pacificamente condivise nella loro assolutezza dall'ambiente socio-ecclesiale.
    Lo sport era vissuto come un'attività importante dai ragazzi, ma assolutamente di second'ordine da parte di tanti operatori della comunità ecclesiale. Conferma di ciò era data dal fatto che l'omissione delle pratiche religiose richiedeva la immediata penalizzazione dei ragazzi, per esempio attraverso la sottrazione dell'attività sportiva, attività da essi vissuta come piacevole ed importante.
    Non si trattava però solo di una questione di stratagemmi educativi per richiamare l'attenzione su «cose importanti per gli adulti» e non ancora tali per i ragazzi; di interventi cioè finalizzati ad inculcare l'importanza di determinati valori.
    Questo comportamento rifletteva invece una concezione antropologica e teologica, una spiritualità che potremmo chiamare della «dipendenza gerarchica» dei valori e delle attività profane da quelle religioso-sacrali. Tale concezione produceva, come effetto concomitante, la strumentalizzazione delle attività e dei valori ritenuti minori e il loro sacrificio sull'altare dei valori sacrali, considerati appunto assoluti. Al punto da affermare l'inconsistenza e il disvalore dei primi senza il supporto e la «benedizione» dei secondi.
    Il modello della dipendenza giocava in realtà una concezione sacrale dell'esperienza credente, tale da rivelarsi esperienza «assolutizzante e totalitaria», chiusa al riconoscimento della consistenza, della dignità e al rispetto dell'autonomia, pur relativa, dell'attività ludico-sportiva dei ragazzi, in quanto esperienza di liberazione della soggettività psico-corporea, di scoperta del legame vitale con gli altri, di produzione di senso nell'esistenza.
    In tale prospettiva diveniva perlomeno difficile sottrarsi al pericolo di strumentalizzare l'esperienza ludico-sportiva del preadolescente in funzione della sua socializzazione religiosa e della trasmissione della dottrina e delle pratiche religiose.
    Si stentava inoltre a riconoscere che l'esperienza sportiva, se condotta in modo autentico ed educativo, poteva costituire un momento importante «in se stesso» per la liberazione del soggetto, anche se non veniva agganciata direttamente ad esperienze religiose rituali o non conduceva meccanicamente alla condivisione dei momenti religiosi della vita della comunità.
    Questo atteggiamento rivelava però anche una percezione indistinta di verità, tutta da liberare, importante, anche se essa si traduceva soltanto in una sana inquietudine dell'educatore alla fede: non si poteva ritenere «compiuto» il processo formativo, senza essere giunti alla condivisione e alla celebrazione della fede nel Signore Gesù professata dalla comunità.
    Lo stesso atteggiamento rivelava però anche un'impazienza poco lungimirante di fronte ai tempi lunghi dell'educativo. Si preferiva collocare frettolosamente l'offerta esplicita della fede, senza preoccupazione di far emergere a sufficienza dall'esperienza una ricerca e una domanda più profonda, cui il «senso specifico» dell'esperienza di fede intendeva rispondere.
    In ogni caso i ragazzi stessi abitavano una cultura unitaria entro cui era pacificamente riconosciuto «un posto e un tempo per ogni cosa»: un tempo per giocare e fare sport, un tempo per pregare, un tempo per fare e un tempo per celebrare la fede.
    Tutto alla fine rimaneva ben ricomposto. Solo chi era «deviante» poteva trovarsi a disagio.

    Il modello della separazione

    La crescita rapida dell'autonomizzazione dei mondi vitali e delle esperienze umane nei confronti dell'ambito religioso-sacrale con l'avanzare della secolarizzazione, l'emancipazione della stessa esperienza sportiva rispetto agli ambiti di vita, hanno favorito l'emergere di un atteggiamento nuovo degli operatori di pastorale, rispetto all'interesse e alla pratica sportiva dei ragazzi.
    Un atteggiamento sollecitato anche dall'esigenza di ridefinizione dello specifico dell'esperienza credente e di una sua corrispettiva emancipazione rispetto al puro discorso sociologico e a quello culturale. Non si trattava solo della presa di coscienza che ogni attività educativa possedeva una propria consistenza e una ragion d'essere culturale; ci si rendeva conto che l'esperienza religiosa possedeva le proprie «ragioni», differenti e magari «alternative».
    L'effetto di tale presa di coscienza fu quello di bandire, o perlomeno di ridimensionare negli ambienti educativi ecclesiali (parrocchie, oratori e associazioni in particolare), la pratica e l'interesse sportivo, come attività ed esperienze non specifiche della comunità ecclesiale.
    Se i ragazzi cercavano sport e gioco, allora in quartiere e nella società civile dovevano crearsi luoghi, spazi, offerte per tale interesse dei ragazzi; ma ciò non sembrava riguardare direttamente la comunità. La sua proposta invece doveva concentrarsi sull'offerta di cammini di fede, esperienziali o contenutistici, di iniziazione o di appartenenza cristiana.
    La comunità predisponeva un'offerta formativa per chi era interessato, per chi si rivolgeva ad essa con una richiesta specifica di iniziazione o di pratica religiosa.
    In tal modo si celebrava e sanciva, per quegli ambienti ecclesiali, la separazione e il distacco dai luoghi di socializzazione e di inculturazione dei ragazzi, insieme alla separazione delle esperienze di vita quotidiana da quelle di fede; si moltiplicarono così i possibili percorsi di socializzazione, fino ad una parcellizzazione e settorializzazione davvero «dissociante» delle competenze e delle offerte.
    In tal modo ogni percorso formativo per i ragazzi diveniva un optional, legato al fascino che esso aveva sul soggetto o al prestigio sociale delle proposte. E non fu neanche un male!
    L'effetto della scelta fu quello di incentivare la fuga dei ragazzi verso i luoghi della socializzazione sportiva, ma al contempo quello di produrre in molti una forte conflittualità, dilaniati com'erano da opposte tensioni: le proposte soggettivamente ambite e affascinanti dello sport da un lato, e quelle indotte dalla pressione familiare o di alcuni adulti importanti dall'altra.
    Non che i ragazzi e le ragazze vivessero come una grande deprivazione soggettiva il fatto di dover scegliere l'allenamento in sostituzione del catechismo, o l'esperienza di gruppo-squadra rispetto all'esperienza di gruppo- classe!
    Il sistema della socializzazione religiosa fondato sulle scadenze simbolico-rituali della prima comunione e della cresima, quali tappe socialmente riconosciute di iniziazione, faceva sentire ancora tutto il suo peso.
    Le comunità ecclesiali non avevano assunto pienamente la sfida al ripensamento dei processi di iniziazione cristiana dentro un contesto secolarizzato.
    Molti tentativi nuovi, aperture progressive, ripensamenti profondi dei processi formativi che tenevano conto del processo di secolarizzazione ma an che di una visione globale non settorializzata né parcellizzata dell'educativo, prendevano silenziosamente avvio, tra misconoscimenti e denunce larvate.
    Chi non si ricorda del tempo in cui gli oratori venivano designati con l'appellativo «giocatori»?
    Eppure nel travaglio di elaborazione di nuove vie educative i due modelli venivano di fatto superati nella prassi.

    L'EDUCATIVO, LUOGO DI RISIGNIFICAZIONE DELL'ESPERIENZA SPORTIVA DEI RAGAZZI

    La riflessione che proponiamo intende sviluppare appunto una comprensione dell'esperienza ludico-sportiva in quanto «luogo» rilevante per dire la fede cristiana dentro la vita quotidiana dei ragazzi.
    La prospettiva della teologia dell'Incarnazione si propone come possibilità di ripensamento profondo del significato e del valore dei processi di liberazione umana, in qualsiasi ambito di attività si collochino e, nel nostro caso in particolare, di quelli attorno allo sport in quanto esperienza ludica.
    Siamo convinti che nessuna esperienza del preadolescente resta irrilevante per il farsi e il dirsi della salvezza, cioè della vita in pienezza, nella sua vita quotidiana.
    Nessun ambito di vita può risultare estraneo all'accadimento di eventi di comunicazione della vita che divengono invece gesto liberante di vita, gesti- parole, simboli vitali che veicolano il messaggio di salvezza per il ragazzo di oggi.
    In questo senso riconosciamo che l'esperienza sportiva e ludica può divenire sacramento dell'incontro con il dono della vita in pienezza per il preadolescente di oggi, quando chi la offre è una comunità appassionata alla vita che si impegna a offrirla in dono e a offrirne anche le ragioni del suo impegno.

    Lo sport-gioco come esperienza di liberazione per il preadolescente

    Non solo gioco e sport possono rivelarsi esperienza di un dono di vita da parte di una comunità attenta ai bisogni di vita e di crescita dei ragazzi; questa esperienza può divenire altro ancora, se coltivata nel clima temperato dell'educativo.
    Il dono scatena la libertà e la capacità di risposta creativa del soggetto; esso diviene allora un importante momento di liberazione: l'esperienza del gioco- sport attiva la presa di coscienza del proprio mondo interiore a partire dalla consapevolezza intorno al proprio corpo, sollecita l'assunzione di responsabilità sulla propria vita, scatena la produzione di processi creativi, relazionali, linguistici, comunicativi, che caratterizzano la piena umanizzazione dell'uomo. Essi trascinano l'individuo verso la soglia di percezione del mistero che abita la vita. Essi liberano vita.

    Lo sport-gioco momento privilegiato di educazione della domanda di vita

    La domanda di vita dei ragazzi, che può progressivamente sbocciare in consapevole domanda di salvezza, si esprime tra i preadolescenti come consapevole domanda di cose da manipolare, attività da svolgere, compagnia da cercare, voglia di liberazione della soggettività attraverso il corpo da esprimere nello spazio.
    Accogliere i preadolescenti per quel che sono, prenderli veramente sul serio come co-protagonisti nei processi formativi, implica anzitutto l'accettazione del «punto di partenza» sul quale essi sono collocati.
    Questo in altri termini significa, per una comunità evangelizzatrice, l'impegno a produrre e percorrere in compagnia itinerari di educazione alla fede che assumano la domanda al livello reale in cui essa è formulata in termini di consapevolezza: per esempio, nel nostro caso, l'interesse ludico-sportivo e inoltre la capacità di farla crescere ed elaborare.
    Per chi intende camminare «in compagnia di tutti» i preadolescenti, questo livello di elaborazione della domanda non può essere scavalcato o negato, se non si vogliono intraprendere itinerari di educazione alla fede sospesi nel vuoto.
    L'educazione della domanda di vita dei ragazzi, a partire dai livelli minima- li dell'uscita dall'espropriazione di sé e dalla consegna cieca a proposte tanto affascinanti quanto alienanti, fino alle soglie dell'esperienza del «senso» delle cose e del mistero, è un cammino graduale ma necessario per colui che non vuole perdere per strada i ragazzi più deboli.
    Ne va di mezzo la tanto conclamata fedeltà all'uomo, al preadolescente destinatario del processo salvifico.

    L'esperienza ludico-sportiva come esperienza di soglia

    La ricchezza antropologica dell'esperienza ludico-sportiva realizzata nella fedeltà alla verità che essa contiene, permette di raggiungere le soglie umane del valore, dell'esperienza di senso culturale elaborata, quale la gratuità, la libertà, la creatività, la comunicazione globale e profonda, la solidarietà.
    In questo senso l'esperienza sportiva che ricupera il suo legame originario col «gioco» è un importante spazio di educazione del ragazzo a quelle «esperienze di soglia del religioso» quali sono le esperienze di valore, di qualità della vita.
    Si tratta di esperienze di vita trasformanti, che liberano la soggettività, aprono all'alterità, favoriscono l'accoglienza; attraverso di esse il senso del mistero, lo stupore, l'attesa verso la vita come dono, possono sbocciare alla consapevolezza del preadolescente e produrre atteggiamenti nuovi verso la vita.

    DALLA PARTE DELLA COMUNITÀ CHE ANNUNCIA IL VANGELO DENTRO LA VITA

    Alcune ulteriori considerazioni si riferiscono invece alla comunità ecclesiale degli adulti appassionati alla vita e desiderosi di evangelizzare la vita dei preadolescenti.
    Riconosciamo, al momento presente, nell'impegno di evangelizzazione dei preadolescenti, una priorità e un'urgenza rispetto a tutte le altre azioni-iniziative che la comunità ecclesiale può gestire con loro.
    Collocarsi in una prospettiva evangelizzatrice significa allora riconoscere di essere impegnati a produrre gesti liberanti di vita misurati sulla domanda, povera e grande insieme, dei destinatari, per offrire insieme le ragioni di questi gesti.
    Allora i gesti di liberazione della vita del preadolescente attraverso lo sport, il gioco, e quant'altra attività vitale egli persegua, diventano il linguaggio gestuale, il linguaggio significativo, attraverso cui la comunità si fa vicina, alleata del preadolescente, sua interlocutrice lungo il cammino di produzione e di liberazione della vita. Questi gesti rappresentano la condizione irrinunciabile per poter acquisire il diritto di parlare, di raccontare, di dialogare con loro.
    Questi gesti quotidiani che si incarnano in una presenza qualificata, rassicurante ma anche liberante, di animazione dentro le attività e le esperienze sportive, sono così, nell'intenzione della comunità, i gesti sorprendenti di produzione della vita che rinviano «oltre» i ragazzi: oltre se stessi, oltre i loro bisogni, oltre le esperienze prodotte. Sono gesti che aprono uno spazio nuovo, un nuovo scenario.
    Diventano essi stessi gesti simbolico-sacramentali.
    Ci pare questo, in un tempo di logoramento degli apparati, di desensibilizzazione dei soggetti, di svuotamento di significato dei linguaggi, il «linguaggio efficace» per poter acquisire diritto e credibilità a narrare del Dio alleato dei preadolescenti, del «grande amico» che con loro divide il cammino e il pane.

    LE CONDIZIONI PER UNA EVANGELIZZAZIONE COMPLETA

    Richiamo qui solo schematicamente alcuni elementi che potrebbero divenire le condizioni irrinunciabili perché il servizio educativo della comunità, attraverso l'animazione nello sport e nel gioco, divenga gesto autentico di evangelizzazione.
    - Prima condizione: la garanzia della «qualità» educativo-liberatrice dell'esperienza ludico-sportiva. Solo quando questa esperienza viene «relativizzata» in funzione della soggettività del preadolescente, dei suoi bisogni e della loro elaborazione, essa è collocata in una corretta prospettiva evangelizzatrice. Il fatto di orientarla alla persona non produce né strumentalizzazione di essa né svuotamento del suo carattere di gratuità.
    - Seconda condizione: la «de-assolutizzazione» di ogni esperienza ludico-sportiva. Lo sport, oggi soprattutto, anche per la ritualità e carica simbolica che l'accompagna, acquista spesso la connotazione di surrogato/ sostitutivo della religione. Se non rego lato da un progetto di umanizzazione, esso vanta le pretese di un assoluto.
    Anche in connessione di ciò, si produce il fatto che oggi, per tanti soggetti, e per i preadolescenti in special modo, la «religione dello sport» diventa sostitutiva della pratica e dell'appartenenza religiosa.
    La condizione richiamata esprime allora l'esigenza di una cultura dello sport come capitolo della cultura della vita (lo sport-gioco come valore vitale). E ciò significa: uno sport «relativizzato» a tutta l'esperienza di vita della persona e uno sport per tutti i soggetti. Ancora: uno sport-gioco in quanto «valore», qualità della vita umana, è «valore finito», che dunque si apre e si correla ad altre «qualità» della vita, e rimane aperto al «di più di senso», ad un «senso altro» come quello della fede e di ogni esperienza religiosa.
    - Terza condizione: la collocazione dell'esperienza e del vissuto sportivo- ludico all'interno della globalità dell'esperienza del preadolescente. Spesso la pratica e il consumo di sport rappresentano una semplice parentesi, del tutto isolata dalla vita quotidiana del ragazzo. Essa diventa in tal caso momento di fuga sostitutivo e alienante.
    L'esperienza diviene invece «generatrice» di vita quando è capace di ritessersi in unità con il resto dell'esperienza quotidiana; diventa educativa quando accetta di misurarsi con le altre esperienze, e il «senso» in essa disvelato si riversa su tutta quanta la vita.
    Di qui l'importanza che tale vissuto acquisisca una «qualità»: l'apertura a lasciarsi risignificare e misurare dall'esperienza credente, in quanto esperienza di un «di più di senso» che colloca in una prospettiva nuova, fa entrare in un «altro mondo» il ragazzo con il suo vissuto.
    - Come ulteriore condizione indico la possibilità di ritrovare momenti narrativi e celebrativo-simbolici per lo sport (la festa!); occorre dar vita a momenti in cui parole e gesti nuovi fioriscono sulle labbra e sul corpo di tutti. Parole e simboli che raccontino di quello che si vive e si è vissuto; in cui nascano narrazioni di vita tra mondo dei ragazzi e mondo degli adulti, capaci di aprire il preadolescente alla memoria della vita, alla consapevolezza delle «ragioni vitali» per cui adulti e comunità s'impegnano a dividere vita con loro. È questo lo spazio privilegiato, mi pare, per una catechesi che diviene annuncio e celebrazione.

    QUASI UN ITINERARIO DELL'ESPERIENZA SPORTIVA

    Ogni interesse, considerato domanda di vita da accogliere nella sua autenticità e profondità, può costituire un punto di partenza per un itinerario educativo.
    Possono essere individuate alcune tappe intermedie, riformulati gli obiettivi, individuate le esperienze e gli interventi.
    Il tutto può assumere la forma di itinerario educativo pensato dentro la logica progressiva del seme, continua e discontinua insieme, come i processi vitali.
    Elenco soltanto alcuni possibili movimenti progressivi:
    - dallo sport-gioco come espropriazione di sé, strumentalizzazione, riduzione della persona a corpo, alla riappropriazione della soggettività protagonistica e dell'unità della persona attorno al corpo vissuto;
    - dallo sport-gioco vissuto nella individualità solitaria, nella competitivi- tà, allo sport-gioco come luogo di intersoggettività, di comunicazione, di cooperazione;
    - dallo sport come consumo, come prestazione, come record, allo sport- gioco come luogo della produzione del valore (gratuità, pace, solidarietà, giustizia);
    - dallo sport-gioco come esperienza del limite e del suo superamento, alla esperienza del limite invalicabile e della creaturalità;
    - dallo sport come esperienza simbolica di vita, all'incontro con il mistero di un Dio della vita «che gioca» con l'uomo perché abbia vita in abbondanza;
    - dallo sport-gioco come vita posséduta e accolta, allo sport come luogo di offerta e di consegna agli altri della propria esperienza di vita.


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