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    Evangelizzare narrando



    R. Tonelli - L. A. Gallo - M. Pollo

    (NPG 1992-03-23)


    I cristiani testimoniano la loro speranza, raccontando la storia di Gesù di Nazareth e della fede che ha suscitato.
    Raccontano quello che hanno vissuto, scoperto e compreso. Non spiegano ad altri cose che essi solo conoscono. E neppure cercano di fare dei proseliti, smerciando di sottobanco prodotti raffinati. Lo fanno perché hanno sperimentato la potenza meravigliosa del suo vangelo per promuovere la vita e consolidare la speranza.
    Oggi però molte difficoltà si addensano su questo compito e, tanto spesso, l'esito non corrisponde alla passione di chi racconta.
    Qualcuno diventa rassegnato e si trincera dietro uno strano silenzio. Altri invece gridano più forte, con la pretesa di coprire i disturbi con il suono della propria voce.
    Il dossier fa una proposta alternativa: la narrazione può rappresentare un modello rinnovato di evangelizzazione.
    Per ora motiviamo e precisiamo la proposta. Poi, con calma, saranno suggerite indicazioni di metodo e modelli concreti.

    L'EVANGELIZZAZIONE COME EVENTO DI COMUNICAZIONE

    Dobbiamo prima di tutto comprendere un aspetto dell'evangelizzazione a cui, troppo spesso, siamo insensibili.

    Una specie di definizione di evangelizzazione

    "Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda" (EN 14). La riaffermazione coraggiosa della missione evangelizzatrice si accompagna alla ricerca, sincera e attenta, degli irrinunciabili principi di rinnovamento.
    Il primo elemento di rinnovamento investe il modo di comprendere lo stesso avvenimento.
    Il documento definisce l'evangelizzazione come un processo complesso, articolato in differenti interventi (EN 17-23). Con una schematizzazione utile, li riassume in tre: la testimonianza, l'annuncio, l'esperienza vitale e comunitaria. Di ciascuno offre una sua descrizione per evitare cattive letture.
    Testimonianza è un modo di essere presenti nella realtà e la qualità dell'impegno per trasformarla. Questa presenza, condivisa con tutti gli uomini di buona volontà, è orientata a creare uno stile di vita e spazi concreti dove sia possibile per tutti vivere la propria quotidiana esistenza in modo umano. È giudicata e verificata sulla qualità di questo impegno e sull'esito che esso è capace di assicurare.
    La sua capacità interpellante non è data dalla distanza che i cristiani cercano di assumere nei confronti degli altri uomini o nelle differenze culturali in cui si trincerano. È assicurata invece dalla serietà con cui perseguono una reale trasformazione della realtà e dallo stile con cui si impegnano e per cui si pongono come alternativi rispetto a molti modelli dominanti.
    La testimonianza fa nascere domande attorno al senso dell'esistenza, personale e collettiva. A queste domande, l'evangelizzazione risponde attraverso l'annuncio, la seconda dimensione dell'evangelizzazione. Nell'annuncio il credente dà le ragioni dei gesti di testimonianza che ha posto. Li colloca in un orizzonte di definitività, li interpreta, e, soprattutto, li collega esplicitamente con il mistero del Dio di Gesù Cristo, nella comunità ecclesiale.
    L'annuncio, nella prospettiva suggerita da Evangelii nuntiandi, non è perciò la diffusione di parole, ma la giustificazione attraverso la parola proclamata ("dare le ragioni", dice esplicitamente) di un impegno promozionale.
    La terza dimensione dell'evangelizzazione è costituita dal clima sperimentato nella comunità dei credenti. Anche questo momento è importante. Spesso risulta decisivo per assicurare, nell'oggi e per connaturalità, della verità di quanto è proposto per il futuro. Lo dice molto bene il documento che stiamo citando: "Adesione al Regno, cioè al 'mondo nuovo', al nuovo stato di cose, alla nuova maniera di essere, di vivere, di vivere assieme, che il Vangelo inaugura" (EN 23). I cristiani proclamano, con coraggio, una parola che costruisce una qualità nuova di vita nella vita quotidiana condivisa con tutti.
    È importante non dimenticare che l'Evangelii nuntiandi propone questi tre momenti come dimensioni dell'unico processo di evangelizzazione. Sembra ricordare che solo nella articolazione complessiva il processo è vero.

    L'evangelizzazione per la fede

    Questa figura di evangelizzazione aiuta anche a comprendere meglio l'esito di tutto il processo e, di conseguenza, introduce criteri qualificanti per ripensarne l'organizzazione.
    L'evangelizzazione ha come obiettivo costitutivo quello di generare la fede, riallacciando quel dialogo con le culture, la cui rottura "è senza dubbio il dramma della nostra epoca" (EN 20).
    L'affermazione va compresa bene.
    Nella fede cristiana è presente un pacchetto di dati, che hanno una loro consistenza molto precisa, che supera e giudica ogni esperienza personale. In gergo tutto questo viene chiamato "la dottrina della fede": le verità teologiche su Dio, sull'uomo, sul rapporto che lega nell'amore queste due libertà e sul progetto che egli ha per la nostra pienezza di vita.
    Questo contenuto della fede, documentato dalla tradizione ecclesiale, è un dato importante e irrinunciabile, per riconoscere un fondamento saldo e sicuro, su cui radicare la decisione di affidarsi totalmente a Dio. Rinunciando ad esso, corriamo il rischio di fondare tutto sulla sabbia, esponendo la nostra costruzione ai venti impetuosi della crisi.
    Per qualcuno fede è solo questo. Si vive nella fede quando si conosce questo pacchetto di verità, si è capaci di esprimerlo in modo abbastanza corretto e ci si impegna ad adeguare la propria esistenza alle proposte in esso contenute. L'evangelizzatore ha soprattutto il compito di trasmetterlo con fedeltà e fermezza.
    Questo modo di vedere le cose sembra davvero riduttivo.
    La fede è l'esperienza personale nei confronti del progetto globale di esistenza proposto dalla "dottrina della fede". Vive nella fede colui che fonda la sua vita e la speranza sulla vittoria definitiva contro la morte, nel nome di Gesù, ripetendo, nella sua vita quotidiana, i gesti e le parole con cui Gesù e i suoi discepoli hanno proclamato la loro speranza.
    Due dimensioni risultano qualificanti in questo modo di comprendere la qualità della fede. Esse influenzano fortemente lo sviluppo del processo di evangelizzazione.
    La prima è costituita dall'atteggiamento vitale con cui il credente esprime quella qualità nuova di esistenza, che nasce sul fatto di affidare la propria vita e la propria speranza ad un evento, collocato oltre quello che una persona è in grado di riconoscere e di progettare per sé. Questo aspetto della fede ricorda l'espressione personale della fiducia che nutriamo in qualcuno, nella cui proposta ci riconosciamo per radicare la nostra speranza. Evangelizzare per suscitare la fede significa, in qualche modo, continuare l'opera di generazione della vita, perché diamo ragioni per vivere. È importante non dimenticare che lo scambio di ideali avviene sempre attraverso un processo di identificazione. Non richiede l'esperto e il competente, come quando si tratta di insegnare una disciplina scientifica o di introdurre all'uso di uno strumento tecnico; esige invece un testimone. Le ragioni per vivere sporgono infatti verso l'ignoto e il non posseduto. Non diventano significative perché sono pienamente verificate; lo diventano solo perché sono rese significative dalla testimonianza di alcune persone. Siamo disposti ad accettare il rischio di giocare la nostra esistenza su un fondamento che non riusciamo a possedere in modo pieno e verificabile, perché stimiamo "degni di fiducia" questi nostri interlocutori.
    La seconda componente della vita di fede che l'evangelizzazione vuole suscitare, è costituita dal modo con cui una persona fa proprie e riesprime le verità teologali della fede oggettiva, trascinandole dal livello del conosciuto a quello del vissuto.
    Noi possediamo espressioni consolidate per dire la nostra fede. Ci vengono da lontano. Alcune hanno origine direttamente dai tempi della prima comunità cristiana, come manifestazione dell'esperienza fatta con Gesù. Altre sono andate maturando nella coscienza della Chiesa nel lungo cammino dei secoli, e le incontriamo ormai, precise e solenni, nei documenti ufficiali. Altre, infine, propongono, con l'autorevolezza che riconosciamo al Papa e ai Vescovi, il livello oggi raggiunto dalla fede ecclesiale, su temi e problemi importanti.
    Tutte esprimono quel modo comune per dire la fede, che ci permette di credere in compagnia con i cristiani dei tempi passati e con quelli sparsi nei quattro angoli del mondo.
    Un fatto è innegabile e decisivo: il credente deve imparare a dire la sua fede nella professione di fede della Chiesa, perché la Chiesa è il luogo della verità, nell'unità e nella carità.
    Il riferimento alle formule della fede ecclesiale e il confronto con i documenti in cui sono contenute, non vanno pensati però come un progressivo avvicinamento della personale professione di fede ad un codice già confezionato e concluso di affermazioni, da ripetere con la preoccupazione di non sbagliare neppure una virgola.
    La persona del credente è sempre al centro della sua professione di fede. Dice parole che si avvicinano al mistero con la stessa forza coinvolgente dei simboli dell'amore e della poesia.
    La preoccupazione sui "contenuti", tradizionale per la vita nella fede, non può essere di certo esclusa dai compiti dell'evangelizzazione. Va recuperata da una prospettiva meno oggettivistica e più attenta alla centralità della persona.
    Come si nota, il problema è di scottante attualità. Ci ritorneremo nell'ultima parte del capitolo per comprenderlo prima di tutto dal punto di vista teologico.
    La meditazione di Evangelii nuntiandi ci ha aiutato a pensare, in termini corretti, alla evangelizzazione.
    Riconosciamo così che l'evangelizzazione è costituita da fatti e parole che i credenti pongono per dire la loro fede nel Signore Gesù e per suscitare nuove esperienze di fede.
    I fatti sono la produzione della vita e la trasformazione della realtà nella logica del Regno di Dio che Gesù ha inaugurato. Le parole sono l'interpretazione credente di questi gesti in un annuncio chiaro e inequivocabile de "il nome, l'insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio" (EN 22).
    Accoglie nella fede la proposta contenuta nella evangelizzazione colui che fonda nell'evento di Gesù, testimoniato nella attuale comunità ecclesiale, le ragioni per vivere e per sperare, e vive la sua vita quotidiana come espressione, gioiosa e sofferta, di questa qualità nuova sperimentata.
    Lo stesso documento chiede a tutte le comunità ecclesiali di ripensare al modo con cui viene realizzata l'evangelizzazione, confrontandosi con coraggio con i nuovi problemi che il contesto culturale lancia, in una fedeltà rinnovata alla sua missione costitutiva. Si tratta di una revisione globale: investe in modo complessivo le dinamiche in cui si svolge il processo dell'evangelizzazione. Non è certamente sufficiente aggiornare qualche elemento o eliminare qualche disturbo.

    La prospettiva della comunicazione

    Di fronte a problemi complessi, per muoversi in modo accorto, è necessario scegliere una prospettiva da cui guardare il tutto.
    Scegliere una prospettiva significa orientare il proprio sguardo e la propria decisione in una direzione tra le tante possibili. Una realtà "complessa" (come è l'evangelizzazione in questo nostro tempo) si presenta a chi cerca di interpretarla come un dato composto da molti elementi diversificati. Si può descrivere questa realtà o si possono progettare interventi per modificarla solo se si procede per approssimazioni successive. Ciascuna di esse è costruita a partire da scelte previe, che funzionano come principi selettivi e orientativi nella complessità.
    Ogni lettura è così di fatto parziale rispetto alla globalità: considera solo determinati aspetti, ha i suoi metodi di lavoro e utilizza strumenti specifici. Restituisce però la possibilità di muoversi con una certa agilità, indicando problemi e suggerendo soluzioni.
    Proponiamo qui una prospettiva precisa e concreta: consideriamo l'evangelizzazione come un atto di comunicazione.
    Lo schema interpretativo utilizzato è uno dei tanti. Certamente è possibile rileggere l'insieme da altri punti di vista. Rappresenta però una collocazione abbastanza consolidata e, a nostro avviso, molto ben giustificata anche teologicamente.
    Anche Evangelii nuntiandi sembra suggerire uno schema interpretativo unitario di carattere comunicativo: "La questione è indubbiamente delicata. La evangelizzazione perde molto della sua forza e della sua efficacia se non tiene in considerazione il popolo concreto al quale si rivolge, se non utilizza la sua lingua, i suoi segni e simboli, se non risponde ai problemi da esso posti, se non interessa la vita reale" (EN 63).
    La Rivelazione è comunicazione: Dio parla di sé all'uomo, utilizzando il linguaggio umano e le logiche in cui si realizza, come strumento per far accedere al mistero. Lo dice in modo solenne la Dei Verbum: "Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar dell'uomo, come già il Verbo dell'Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo" (DV 13).
    L'evangelizzazione ripete la stessa struttura linguistica. Essa è comunicazione tra soggetto e soggetto: l'evangelizzatore propone qualcosa del mistero grande di Dio per la vita dell'uomo attraverso sistemi linguistici che riconosce sempre "umani" e che seleziona in base alla loro significatività.
    Anche la risposta che l'uomo dà all'appello contenuto nella evangelizzazione, ripete lo stesso schema comunicativo. La persona dice la sua decisione attraverso esperienze e parole del proprio vissuto quotidiano. Esse si portano dentro l'accoglienza di Dio come ragione decisiva della propria esistenza, o il suo rifiuto, nel gioco di una libertà che si piega o resiste.
    Appello e risposta possiedono perciò una struttura visibile che veicola un evento più profondo e radicale. Perché comunicazione "ad" un uomo e "di" un uomo, sono nell'ordine simbolico: una struttura di significazione in cui un senso diretto, primario, letterale, designa un altro senso indiretto, secondario, figurato, che può essere appreso soltanto attraverso il primo.
    Da questa prospettiva di comunicazione tra soggetto e soggetto per realizzare uno scambio di messaggi di natura simbolica, possiamo analizzare la struttura complessiva dell'evangelizzazione, alla ricerca di eventuali principi di rinnovamento.
    L'evangelizzazione può "aiutare a vivere" solo quando gli autentici contenuti dell'evangelo sono offerti secondo modalità comunicative corrette, tali cioè da assicurare ad essi la possibilità di risuonare come "buona notizia" nelle concrete situazioni.
    Di difficoltà per una autentica comunicazione ce ne sono molte, soprattutto in questa nostra stagione culturale. Dobbiamo collocarci nel cuore dei problemi e trovare prospettive adeguate di soluzione.

    COSTRUIRE INTERAZIONI PER COMUNICARE

    Ci sono in giro persone e modelli teorici che descrivono la comunicazione tra persone con uno schema interpretativo di tipo meccanicistico. Il mistero dell'incontro di due soggettività nel terreno dello scambio dei significati viene risolto come travaso di contenuti da una persona-che-sa ad una-che-deve-imparare. L'unica cosa importante è data dall'oggetto scambiato. Mille attenzioni sono spese per curare la sua adeguatezza rispetto a parametri oggettivi e normativi.
    Studiando più attentamente il processo comunicativo, ci siamo accorti che le cose non vanno proprio così.
    La comunicazione è uno scambio di segni che evocano realtà ed eventi sempre un poco misteriosi. In esso la soggettività ha un peso veramente determinante ed è scarso quel realismo oggettivistico, caro a tanta letteratura.
    La comunicazione non è un travaso di informazioni tra due interlocutori. Quando una persona parla del "pane" ad un amico o quando l'evangelizzatore afferma, con entusiasmo, che Dio è padre della nostra vita e il fondamento della nostra salvezza, non prende da un deposito, terso e controllato, un "qualcosa" (pane, padre, salvezza), il cui significato è unico ed universale. L'operazione è molto più complessa. Attinge dal suo mondo interiore un insieme di esperienze e di significati di cui riempie il segno lanciato sull'interlocutore. Pane è "pane-per-me". Padre è l'esperienza che io ho fatto di essere figlio e padre. Comunicando qualcosa, ognuno tenta così di trascinare l'altro nel proprio mondo interiore. Di fronte a questa pretesa, le persone si difendono e resistono, contrapponendo il proprio mondo interiore a quello dell'altro. La stessa espressione evoca esperienze e significati spesso molto dissonanti. Se la pretesa di conquistare l'altro al proprio mondo interiore non viene sostituita con l'apertura verso il mondo dell'interlocutore, la comunicazione diventa impossibile: un evento raro, desiderato quanto irraggiungibile.
    Per questo ciò che viene scambiato dal punto di vista "fisico" conta molto di meno del processo profondo in cui sono coinvolte le persone che entrano in comunicazione.

    L'importanza della interazione per la comunicazione

    La costatazione è decisiva per comprendere adeguatamente i fenomeni che si scatenano nell'atto comunicativo e, di conseguenza, anche nell'evangelizzazione che della comunicazione ripete logiche e difficoltà. Ci pensiamo ancora un attimo, con la esplicita preoccupazione di immaginare prospettive di soluzione.
    Ogni comunicazione intersoggettiva è costituita da due elementi, strettamente interdipendenti: il "contenuto" e la "relazione". L'abbiamo già ricordato: l'oggetto scambiato é il "contenuto" della comunicazione; il rapporto conflittuale che lega i due interlocutori si definisce di solito come la "relazione comunicativa". Quando comunichiamo qualcosa ad altri, il secondo elemento (la relazione) classifica il primo, offrendo una serie di "istruzioni per l'uso". Esse definiscono il modo corretto con cui vanno assunti i contenuti e manifestano il modo con cui chi parla considera la sua relazione con l'interlocutore.
    Un esempio può chiarire meglio l'affermazione.
    Quando una persona dice ad un'altra "Che furbo sei!", gli lancia un contenuto e gli dice come lo deve interpretare. Per questo, chi riceve il messaggio capisce al volo se lo deve interpretare in senso letterale, come ammirazione o in senso ironico, come commiserazione per la poca furbizia dimostrata. La stessa espressione può comunicare così significati opposti. Essi vengono decifrati a partire dal tono con cui sono pronunciati e dal tipo di rapporto che viene instaurato.
    In gergo, la relazione che interpreta il contenuto viene definita spesso come "metacomunicazione": comunicazione sulla comunicazione. La metacomunicazione rappresenta una componente fondamentale del processo comunicativo, capace di condizionarlo pesantemente o di sollecitarne una evoluzione positiva, nonostante i limiti di cui esso soffre.
    Essa percorre i sentieri misteriosi del rapporto interpersonale affettivo e emotivo: è costituita dall'interazione che lega persona a persona. L'interazione positiva genera tra le persone una condivisione di opinioni, di idee, di valori, di significati, perché scatena uno scambio emotivo di intensa reciprocità. E tutto questo attiva la possibilità di comunicare veramente, avvicinando il proprio mondo interiore a quello dell'altro e piegando l'uso soggettivo dei significati verso quello del proprio interlocutore.

    Costruire interazioni positive nell'atto della comunicazione

    Le interazioni positive scattano in modalità e su occasioni molto diverse, in quel magma misterioso e spesso indecifrabile che è la comunicazione interpersonale.
    Quando due persone si vogliono bene, riescono facilmente a comprendere quello che l'altro dice, molto prima che egli abbia spalancato la bocca per parlare. Basta un sorriso o il lieve balenare dello sguardo, ad assicurare uno scambio di profondità insperata.
    Quando, invece, l'amore sta naufragando sotto l'onda del sospetto o della gelosia, riesce quasi impossibile trovare parole convincenti. Tutte sono interpretate male e anche i gesti, nati dalla più intensa buona volontà, finiscono per convincere dell'opposto.
    L'amore - o la sua crisi - rappresenta un elemento scatenante l'interazione nella comunicazione.
    Un altro fatto, capace di produrre interazione positiva, è la condivisione degli ideali: la stessa passione politica, l'accanimento per un progetto comune, l'entusiasmo per gli stessi colori sportivi. In questi casi, soprattutto se si comunica attorno all'oggetto dell'interesse comune, ci si intende subito, senza alcuna difficoltà; proprio come diventa quasi impossibile trovare una piattaforma di dialogo, quando passione e entusiasmo militano su frontiere diverse.
    L'amore e la condivisione rappresentano modelli di interazione previ alla comunicazione. La metacomunicazione è costituita da un vissuto che precede l'atto comunicativo.
    Viene spontaneo chiederci se sono l'unica strada praticabile o se l'esperienza e la ricerca non ci possano aiutare a trovare altre modalità, più inserite nello stesso atto comunicativo.
    La questione è delicata. Spesso infatti siamo chiamati a comunicare qualcosa quasi all'improvviso, con interlocutori sconosciuti, senza nessuna possibilità di ricostruire quel tessuto emotivo previo che assicura l'incidenza del processo.
    Basta pensare a quello che capita in molti contesti di evangelizzazione. Chi presiede un'eucaristia e fa l'omelia, per esempio, ha davanti a sé generalmente un'assemblea eterogenea, con la quale i rapporti affettivi sono assai labili. Non ha purtroppo il tempo di tessere una trama di scambi intersoggettivi, tali da assicurare una metacomunicazione adeguata per i gesti e le parole che pone. Se non riesce a trovare modelli linguistici capaci di suscitare interazioni positive nell'atto comunicativo stesso, si condanna, con le sue mani, all'insignificanza comunicativa. Più fortunato è il ritmo comunicativo di un gruppo di formazione cristiana. In questo contesto ci sono tempi e modi a disposizione per assicurare la trama necessaria di interazioni. Il clima di forte frammentazione culturale e il pluralismo di appartenenze a cui siamo sottoposti, non permettono però di dare per scontato troppo facilmente quello che invece va quotidianamente costruito e consolidato, con tenacia e competenza.

    Difficoltà dalla parte dell'asimmetria educativa

    Colui che si interroga sul come assicurare interazioni positive nell'atto comunicativo, non si confronta solo con questo problema.
    Ci muoviamo in un orizzonte segnato da una chiara intenzione educativa. E questa costatazione pone in evidenza un'altra dimensione irrinunciabile del processo comunicativo.
    L'educazione è l'azione attraverso cui un adulto, inserito in una società e collocato in un preciso frammento di tempo, aiuta i giovani ad entrare in questa esperienza. Lo fa, condividendo i significati che ha ereditato e che ha progressivamente rielaborato per dare a se stesso ragioni per vivere e per sperare. Non cerca esecutori ripetitivi del già vissuto; sollecita, al contrario, verso una riespressione personale e autentica "dentro" il senso che egli ha prodotto e che offre con amore, perché altri possano ritrovare il proprio senso all'esistenza. La relazione che corre tra educatore ed educandi è fondamentalmente di tipo comunicativo.
    Anche l'invito a radicare le ragioni per vivere e per sperare nell'evento fondante dell'amore di Dio, è un evento di educazione, realizzato in una relazione comunicativa. Una persona, una comunità, un gruppo di credenti, portatori di un insieme di ragioni per credere alla vita e sperare in essa dentro la morte, consegnano ad altri il proprio ideale, perché anch'essi, in piena responsabilità e con riconquistato protagonismo, si decidano per questa prospettiva.
    L'educazione è però una relazione comunicativa molto speciale.
    Richiede una profonda intenzionalità reciproca; gli interventi e le mete vanno condivise e concordate da tutti i protagonisti.
    Eppure, non è mai una relazione alla pari, tra due interlocutori che raggiungono l'accordo attraverso il sottile gioco degli influssi o dei patteggiamenti. L'educazione invece risulta una relazione tra "diversi": è una relazione asimmetrica.
    Gli interlocutori sono differenti: per età, per cultura, per formazione, per sensibilità, per maturazione, per vocazione. Proprio perché diversi, accettano di scambiarsi qualcosa di fondamentale e riconoscono che solo in questa relazione possono tutti crescere.
    Il dono che è l'altro e che l'altro propone non viene accolto quando l'interlocutore rinuncia alla diversità e tenta faticosamente di raggiungere l'omogeneità. È considerato invece dono prezioso, proprio perché proviene da uno che sento e valuto asimmetrico rispetto al mio mondo.
    L'educatore inoltre propone ad altri qualcosa che gli è stato affidato. Lo fa con amore e rispetto; sa di essere ricercato e accolto proprio per questo suo servizio. Scambiando ragioni per vivere e per sperare, penetra così nel santuario intimissimo dell'esistenza personale con un'autorevolezza che non è mai patteggiata.
    Diversità, propositività, autorevolezza rendono veramente speciale la relazione comunicativa.

    IL RACCONTO COME INTERESSANTE MODALITÀ DI INTERAZIONE

    Esiste un modo di comunicare, capace di conquistare interazioni positive, assicurando autorevolezza espressiva, efficacia progettuale, anche nello stato di asimmetria?
    Una lunga e consolidata esperienza e l'approfondita conoscenza dei processi comunicativi aiutano a rispondere positivamente alla domanda.
    La narrazione rappresenta una forma speciale di interazione. Essa costruisce interazione e la potenzia fino ad assicurare alla comunicazione un livello di efficacia impensabile e sconosciuto agli altri modelli comunicativi.
    Non va confusa con quello che capita quando ci mettiamo a leggere un bel romanzo, magari avvincente come può essere una storia poliziesca. Lì si realizza proprio il contrario della interazione: il rapporto tra scrittore e lettore è a direzione unica; il lettore è lontano da chi gli fa proposte, in una situazione di tranquillità e autonomia; può arrivare immediatamente all'ultimo capitolo, se, preso dall'impazienza della curiosità, cerca di sapere come fa a finire la sua storia; può inoltre chiudere il libro quando vuole, eliminando il condizionamento del narratore nella sua vita.
    La narrazione rappresenta un interessante modello di metacomunicazione, capace di rendere significativi i contenuti espressi nel processo comunicativo, proprio perché propone alternative serie a queste possibilità. La fiducia sulla narrazione è legata di conseguenza alle condizioni che assicurino, linguisticamente, la capacità interattiva tra interlocutori.
    Esaminiamo rapidamente queste condizioni.

    La narrazione come ospitalità

    La narrazione autentica, quella che assicura lo scambio di ragioni di vita e di speranza che l'educazione esige, è una forma avanzata di ospitalità. Chi narra invita coloro a cui la narrazione è rivolta ad entrare nel suo mondo e si dichiara disponibile ad interagire con il mondo dei suoi ascoltatori: accoglie nel suo mondo e si fa accogliere in quello degli interlocutori.
    L'abbiamo sperimentato tutti, ogni giorno. Ci sono persone che quando parlano sembrano abbracciare il proprio interlocutore, in un incontro appassionato che ha il sapore gioioso dell'accoglienza incondizionata; e ce ne sono altre invece che, dicendo magari le stesse cose, giudicano nelle parole pronunciate e condannano impietosamente.
    Figure tipiche di questo atteggiamento così diverso sono i due personaggi della grande storia dell'accoglienza, raccontata da Gesù: il padre e il fratello maggiore della parabola cd. del "figlio prodigo" (Lc. 15, 11-32). Quando il ragazzo scappato di casa ritorna, il padre lo accoglie con un profondo abbraccio di pace e di riconciliazione. Non gli fa nessun rimprovero; non permette al ragazzo neppure una parola di pentimento. Non agisce così per rassegnazione e per indifferenza; e neppure certamente perché ha paura di rovinare tutto, adesso che le cose sono tornate alla normalità. La colpa è stata gravissima. Ha prodotto sofferenze pungenti in tutti. Il padre non può chiudere un occhio, come se non fosse successo nulla. Non è questo lo stile di Dio verso il peccato dell'uomo, che Gesù ci ha rivelato. A chi ha provocato tanto dolore, il padre rinfaccia il suo tradimento con la parola più dolce e inquietante possibile: l'abbraccio della gioia e della festa.
    Il figlio maggiore contesta questo comportamento, rinfacciando la cattiva condotta del fratello. Ricorda la disobbedienza del fratello e sottolinea il suo tradimento. La sua parola è dura: un giudizio di condanna senza appello.
    Il padre "ospita" il figlio tornato finalmente tra le sue braccia. Il fratello lo contesta e lo accusa.
    Il racconto di questa bellissima storia evangelica rende continuamente attuale l'esperienza dell'ospitalità. Raccontandola, Gesù ha ospitato nel suo abbraccio i peccatori disperati. Raccontandocela ogni giorno nella comunità dei salvati, ci ospitiamo reciprocamente nell'abbraccio dell'amore che genera riconciliazione.
    Questo è lo stile di comunicazione che l'espressione "ospitalità" vuole evocare. La qualità nuova di vita non nasce sulla congruenza logica delle informazioni; né si radica sulla loro verità. Le accuse fatte dal figlio maggiore erano terribilmente vere. Siamo restituiti alla vita, come lo è stato tra le braccia del padre il ragazzo fuggito di casa, perché il gesto che accompagna le parole e il loro tono ci permettono di sperimentarne tutta l'autenticità.
    L'ospitalità, suscitata e sperimentata nello stile della comunicazione, "interpreta" i contenuti fatti circolare, li rende significativi e veri.
    L'esempio raccontato è prezioso per comprendere un'urgenza che non può assolutamente essere disattesa. Sarebbe fuorviante interpretare le esigenze della ospitalità come un tentativo di appiattire le differenze o di banalizzare le responsabilità.
    In questo caso, la comunicazione perde inesorabilmente la sua qualità educativa. Diventa inutile e inconcludente: un vuoto rincorrersi di suoni e di immagini, che ci lasciano nel greve sapore della morte, personale e collettiva.
    La parola si misura con la verità e con le sue esigenze. La sostiene. La difende. La propone. Lo fa con quell'indice alto di autorevolezza che è richiesto in colui che inizia il processo. Si tratta infatti di spingere a superare il già acquisito per immettere in modo personale nel mondo dell'inedito. La comunicazione educativa non pone sotto silenzio quello che giudica le singole soggettività: un simile compromesso collocherebbe subito dalla parte della morte.
    La parola, esigente e inquietante, non viene pronunciata però in modo duro, sicuro, autoritario, solo a partire dalla pretesa che le cose dette sono "vere". È racconto, accogliente e ospitante in cui si intrecciano le esigenze più irrinunciabili con l'esperienza, sofferta e sognata di chi parla e di chi ascolta.

    La narrazione come invito alla decisione

    Queste note aprono verso una seconda condizione: la capacità di esprimere un invito pressante verso una decisione.
    Ci sono delle comunicazioni che lasciano il tempo che hanno trovato. Le informazioni scambiate non entrano mai nel mondo interiore degli interlocutori. Non danno senso all'esistenza né chiedono di verificare il valore di quello condiviso. Semplicemente servono a coprire un tempo vuoto. Non si avverte il disagio di una comunicazione tanto impersonale, perché non interessa a nessuno né il suo contenuto né la relazione in cui esso scorre.
    Di questo tipo sono le conversazioni da salotto, le mille parole vuote con cui si occupa il tempo tra sconosciuti, in uno scompartimento ferroviario, nell'attesa di arrivare alla meta. Purtroppo, di questo stile possono essere anche comunicazioni che di natura loro hanno un respiro ben diverso: lasciamo tranquillamente sfogare chi sta parlando, tanto sappiamo già bene cosa fare e come pensare e non ci interessa assolutamente quello che viene detto.
    Un giorno mi è capitato di assistere (il verbo esprime esattamente la condizione psicologica...) ad una celebrazione eucaristica in una grande chiesa gremita di gente. Il microfono era spento e non si sentiva veramente nulla dell'omelia, oltre le prime file di banchi. Chi parlava, continuava come se niente fosse; e chi ascoltava non mostrava nessun interesse a modificare la situazione.
    La comunicazione era bruciata alla radice da una metacomunicazione che sembrava lanciare, più o meno, questo messaggio: "Di' quello che vuoi, tanto non me ne importa nulla!".
    Una comunicazione educativa vuole invece incidere: cerca uno scambio, sincero e disponibile, sul senso dell'esistenza.
    La narrazione rappresenta un modello comunicativo, orientato da una metacomunicazione di questo tipo: "Bada! Sta attento a quello che viene detto! È importante per la tua vita!".
    Lo stretto legame che lega gli avvenimenti raccontati al fluire del tempo, intrecciando nella storia narrata il presente con il suo passato e il suo futuro, fa scaturire spontaneamente questo invito a "stare attento". Eventi insignificanti diventano esempi coinvolgenti. La storia raccontata appella all'interlocutore, con la stessa intensità con cui si sente coinvolto il narratore. Egli si sente piegato verso questa avventura; si rende conto di doverla accogliere in sé, proprio perché si sente "ospitato" nel racconto.
    La forza di coinvolgimento non è data dalla razionalità dei motivi e dalla acutezza dei concetti. Non nasce dalla pretesa del narratore di entrare con violenza nella vita di altri. A questi attacchi sappiamo difenderci: reagiamo fuggendo nell'indifferenza e ascoltando con i piedi in un altro mondo.
    Sono i fatti a chiedere attenzione, rispetto, disponibilità: fatti evocati in un onda di emozioni, che porta ad "amarli", a sentirli "nostri", anche se hanno protagonisti lontani. Chi racconta, ama la realtà raccontata e la fa amare.
    Per questo diventa invito ad una decisione personale coraggiosa. Il racconto, interpretato dall'invito: "Bada! C'entri anche tu! Ti interessa veramente", supera la tentazione dell'indifferenza. Chiede una decisione coraggiosa e rischiosa.
    L'indifferenza tormenta chi racconta un pezzo della sua vita, frammischiato alla vita di altri, per la vita dei suoi interlocutori. Chiede una decisione: per la logica che percorre il racconto o contro di essa. Non lo fa in modo duro e sicuro, mettendo davanti le esigenze indiscutibili della verità.
    Lo fa per la vita. Per questo chiede una decisione, raccontando storie.

    La narrazione come fonte di stupore

    La narrazione assicura comunicazione coinvolgente anche perché sa scatenare quel clima di stupore, che è condizione fondamentale per accettare di mettere in discussione il proprio mondo interiore e per affacciarsi a quello dell'altro, sconosciuto e indecifrabile sempre.
    Questo è un aspetto molto importante. Infatti, chi accetta di sperimentare la vertigine e il tremito dello stupore, sa esporsi all'inatteso. Non cerca solo le strade già note e quelle già sperimentate da una lunga dimestichezza. Si lascia invece sorprendere dall'ignoto.
    Di stupore ce ne vuole molto, quando ci si mette a giocare con il senso dell'esistenza e si costruiscono i frammenti di una speranza che sa resistere anche al timore e alla sconfitta della morte.
    Due aspetti, molto interdipendenti, assicurano alla narrazione la capacità di generare stupore.
    Nella narrazione si intrecciano avvenimenti e il loro senso in una successione nel tempo, che aiuta a ritrovare, in collegamento vitale, fatti, valori, idee, sentimenti degli eventi raccontati e l'orientamento esistenziale di chi racconta, il suo modo di vedere le cose e di entrare in rapporto con gli altri, gli eventi, il mondo.
    Viene così organizzato il tempo: il presente si riempie di passato, fino a portare a memoria quello che è stato vissuto ed è ormai dimenticato; il presente si riempie anche di prospettiva, perché persino il futuro assume i toni caldi ed esperienziali di un presente narrato.
    Lo sguardo verso il futuro è pieno di speranza. Il racconto si protende verso l'avventura non ancora sperimentata, per mostrare come quello che è collocato oltre diventa la ragione di quanto si sta vivendo.
    La storia raccontata infatti "finisce bene". Per questo produce stupore e speranza, in un contesto in cui le belle storie sembrano fatte apposta per finire male. Ciò che permette alla storia di "finire bene" non è qualcosa di "logico" rispetto all'intreccio degli avvenimenti. E neppure è l'esito del sottile gioco dell'astuzia o della potenza degli interlocutori. Tutto questo non genera stupore. Produce soltanto sicurezza e, spesso, un pizzico di gelosia. Finisce invece "imprevedibilmente" bene: quando tutti i conti sembravano orientati in una direzione, le logiche si capovolgono improvvisamente e felicemente.
    La grande storia che finisce bene è il racconto della croce di Gesù. L'avevano conquistato e distrutto, per eliminare un riferimento inquietante. E stavano ormai festeggiando la vittoria della loro malvagità. All'improvviso, quando persino gli amici si erano piegati alla disperazione dei fatti, la vita sconfigge la morte. Il crocifisso è il Risorto, vincitore della morte per sé e per gli altri.
    I cristiani raccontano questa meravigliosa storia, nella trepida speranza che continui a succedere così. Ne abbiamo molte prove: l'avventura dei credenti è tutta segnata da crocifissi risorti.
    I segni sono però tutti nel passato; non possono servire come dimostrazione, ma solo come "scommessa". Verso il futuro siamo ancora nella attesa e nella speranza. Raccontando questa storia di vita, suscitiamo stupore e speranza.
    Raccontare è quindi riproporre una interpretazione della vita, riproducendo quello che è accaduto e, addirittura, inventando quello che si sogna possa accadere. E questo con una sequenza che non è mai "questa e solo questa", come quando si cerca di dimostrare un teorema di matematica o una legge di fisica. Nell'infinito susseguirsi dei tanti possibili eventi del reale, il racconto ne sceglie alcuni e li organizza in una proposta che continua a restare "racconto": un modo soggettivo e autoimplicativo di porsi di fronte ad una realtà che viene riconosciuta più grande e solenne di quella raccontata.
    L'incontro non si chiude nel semplice gioco di due soggettività, con il rischio di intristire in un sostegno reciproco che assomiglia tanto alla disponibilità del cieco a diventare guida di un altro cieco.
    Il racconto immerge, al contrario, nel mistero del tempo, tra passato e futuro, in avvenimenti vissuti e sognati che danno consistenza alla speranza, in un incontro solidale tra persone che vivono una storia comune, partecipando al racconto.

    COSA È "NARRAZIONE"?

    Abbiamo fatto un'operazione strana. Abbiamo affermato che la "narrazione" può rappresentare un modello privilegiato di comunicazione, senza dire esattamente che cosa è.
    L'abbiamo fatto apposta... per essere fedeli ad un metodo narrativo mentre ne affermiamo l'importanza.
    È tempo però di dare una descrizione di narrazione, indicando il suo movimento linguistico e precisando cosa in concreto distingue l'invito a privilegiare i modelli narrativi, rispetto a quelli argomentativi e denotativi.
    Un simpatico racconto aiuta a rispondere alla domanda, proprio attraverso un metodo narrativo.
    "Si pregò un rabbi, il cui nonno era stato alla scuola di Baalschem, di raccontare una storia. Una storia, egli disse, la si deve narrare in modo che possa essere d'aiuto. E raccontò: Mio nonno era paralitico. Un giorno gli si chiese di narrare una storia del suo maestro. Ed allora prese a raccontare come il santo Baalschem, quando pregava, saltellasse e ballasse. Mio nonno si alzò in piedi e raccontò. Ma la storia lo trasportava talmente che doveva anche mostrare come il maestro facesse, cantando e ballando lui pure. E così, dopo un'ora, era guarito. È questo il modo di raccontare storie".
    Questo testo propone un modello di comunicazione, dotato di un indice molto alto di capacità evocativa e di autocoinvolgimento. Per questo lo citano in tanti come esempio interessante di "narrazione". Riletto all'interno delle esigenze tipiche dell'evangelizzazione, suggerisce, con una facile trasposizione, quali sono le condizioni che deve possedere una narrazione per diventare momento di evangelizzazione, senza banalizzarsi a vuota fabulazione.

    Comunicazione di una esperienza

    In primo luogo, è narrativo quel modello di evangelizzazione che è costruito sulla comunicazione dell'esperienza di colui che narra e di coloro a cui si rivolge il racconto.
    Tante volte ci siamo impressionati fortemente dal tono delle grandi catechesi apostoliche, come sono documentate dagli Atti e dalle Lettere. Giovanni, per esempio, apre la sua Lettera con una testimonianza solenne: "La vita si è manifestata e noi l'abbiamo veduta. Noi l'abbiamo udita, l'abbiamo vista con i nostri occhi, l'abbiamo contemplata, l'abbiamo toccata con le nostre mani" (1 Gv 1, 1-2). Anche Paolo ricorda l'esperienza personale quando sottolinea i temi centrali della sua predicazione (si veda, per esempio, 1 Cor 15 e 2 Cor 12).
    Questa è una dimensione qualificante dell'annuncio cristiano: quello che viene comunicato proviene da una esperienza personale diretta e si protende verso gli altri con l'intenzione esplicita di suscitare nuove esperienze. Esso non è prima di tutto un messaggio, ma una esperienza di vita che si fa messaggio, in una catena ininterrotta che riporta all'esperienza fondante che alcuni credenti hanno avuto in Gesù.
    Chi racconta sa di essere competente a narrare solo perché è già stato salvato dalla storia che narra; e questo perché ha ascoltato questa stessa storia da altre persone. La sua parola è quindi una testimonianza; la storia narrata non riguarda solo eventi o persone del passato, ma anche il narratore e coloro a cui si rivolge la narrazione. Essa è in qualche modo la loro storia. Chi narra, lo fa da uomo salvato, che racconta la sua storia per coinvolgere altri in questa stessa esperienza.

    Una comunicazione che spinge alla sequela

    In secondo luogo, la narrazione si caratterizza per l'intenzione autoimplicativa. La formula di gergo sottolinea una esigenza fondamentale: l'evangelizzazione è sempre il racconto di una storia che spinge alla sequela. La sua struttura linguistica non è finalizzata cioè a dare delle informazioni, ma sollecita ad una decisione di vita.
    L'invito alla conversione non viene assicurato perché sono diffuse informazioni non ancora note, ma perché l'interlocutore viene chiamato in causa in prima persona. Non può restare indifferente di fronte alla provocazione: le due braccia spalancate del padre che aspetta con ansia il ritorno a casa del figlio perduto, costringono a decidere da che parte si vuole stare. Nasce formazione non sulla misura delle cose nuove apprese, ma nel riconoscimento dello stile di vita a cui sono sollecitati coloro che desiderano far parte del movimento dei credenti.
    Abbiamo già sottolineato la cosa nella ricostruzione dei racconti della Cena, fatta nel primo capitolo.
    Altri esempi vengono dalle parabole. Esse non sono il resoconto di avvenimenti, consegnati all'analisi critica dello storico. Non sono preziosi e significativi perché riusciamo a ricostruire il tempo e il luogo in cui si svolge l'avvenimento narrato o perché possiamo verificare la congruenza dei particolari. Sono invece una chiamata personale a coinvolgersi nell'avvenimento per prendere posizione.
    La scelta di privilegiare una prospettiva implicativa su quella descrittiva è importante anche per una ragione di competenza.
    Quando si è chiamati a trasmettere informazioni tecniche, il diritto alla parola viene misurato sulla competenza posseduta: chi conosce le cose da dire, può parlare; chi non le conosce bene, deve tacere.
    Quando invece al centro della comunicazione c'è l'invito alla sequela e al coraggio della conversione, la scienza non basta più. Ci vuole la passione e il coinvolgimento personale. Il diritto alla parola non è riservato solo a coloro che sanno pronunciare enunciati che descrivono in modo corretto e preciso quello a cui ci si riferisce. Chi ha vissuto una esperienza salvifica, la racconta agli altri; così facendo aiuta a vivere e precisa lo stile di vita da assumere per poter far parte gioiosamente del movimento di coloro che vogliono vivere nell'esperienza salvifica di Gesù di Nazareth.
    Per questa ragione, l'evangelizzazione è sempre interpellante.
    La comunità ecclesiale sa che l'esito resta imprevedibile, consegnato al misterioso gioco di due libertà (quella di Dio e quella dell'uomo) a reciproco confronto. Non per questo narra la storia di Gesù in modo rassegnato o distaccato, quasi che le bastasse pronunciare le parole che deve dire, per assolvere la sua missione. La comunità ecclesiale sa che è autentica la storia narrata solo quando viene avvertita come storia interpellante. Per questo è tormentata dall'indifferenza. Vuole una scelta di vita: per Gesù o per la decisione, folle e suicida, di salvarsi senza di lui.

    Una comunicazione che anticipa nel piccolo quello che si annuncia

    In terzo luogo, l'evangelizzazione è narrativa quando possiede la capacità di produrre ciò che annuncia, per essere segno salvifico. Il racconto si snoda con un coinvolgimento interpersonale così intenso da vivere nell'oggi quello di cui si fa memoria. La storia diventa racconto di speranza.
    Non si tratta di ricavare dalla memoria di un calcolatore delle informazioni fredde e impersonali, ma di liberare la forza critica racchiusa nel racconto.
    I cristiani sono per vocazione gli annunciatori della speranza, perché testimoni della passione di Dio per la vita di tutti.
    Per poter parlare in modo sensato della salvezza di Dio che è Gesù dobbiamo mostrare con i fatti che è possibile crescere come uomini e donne nella libertà e nella responsabilità, capaci di amare in modo oblativo, impegnati per la realizzazione della giustizia, testimoni del senso della sofferenza e della morte. Solo così, possiamo mostrare efficacemente "la forza dello Spirito, quella che può essere vista e udita" (At. 2, 33), quella che si traduce in gesti che non sono mai posti invano (Gal. 3, 4).
    Annunciare la fede significa dunque narrare di un Dio "che dona lo Spirito e opera meraviglie" (Gal. 3, 4), poggiando questa narrazione "non su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza" (1 Cor. 2, 4).
    La comunità ecclesiale condivide la storia e la vita di tutti, per gridare, a parole e con i fatti, dal suo interno la grande promessa di Dio, che la riguarda direttamente: "Fra poco farò qualcosa di nuovo. Anzi ho già incominciato. Non ve ne accorgete?" (Is 43, 18-19).
    Così chi narra di Colui che ha dato la vista ai ciechi e ha fatto camminare gli storpi, fa i conti con la quotidiana fatica di sanare i ciechi e gli storpi di oggi. Anche se annuncia una liberazione definitiva solo nella casa del Padre, tenta di anticiparne i segni nella provvisorietà dell'oggi.
    Troppe volte le situazioni tragiche restano nella loro logica disperata ed oppressiva. Sembrano un grido di rivolta contro l'evangelo della vita e della speranza.
    Il racconto della storia di Gesù, a differenza dell'argomentazione che tutto spiega e su ogni caso ha la parola sicura, parla con concretezza e con realismo della sofferenza dell'uomo. Non possiede la chiave dialettica per risolvere tutte le situazioni e non ha la pretesa di districare in modo lucido i meandri oscuri della storia. Condivide il cammino faticoso dell'uomo; cerca di superare le contraddizioni in compagnia con tutti; parla, con parole buone, rispettose, riconcilianti, concrete.
    La parola evangelizzata mostra con i fatti il Dio della vita: libera e risana, rimettendo a testa alta chi procede distrutto sotto il peso degli avvenimenti, personali e collettivi; restituisce dignità a coloro a cui è stata sottratta; dà a tutti la libertà di guardare al futuro, in una speranza operosa, verso quei cieli nuovi e nuove terre dove finalmente ogni lacrima sarà asciugata (Apoc 21).


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