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    Pedagogia dell'accompagnamento educativo /3

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    (NPG 2019-8-62)


    Emilio è orfano.

    Non importa che abbia
    un padre e una madre:
    assunti su di me i loro doveri,
    eredito tutti i loro diritti
    (Jean Jacques Rousseau, Emilio, o dell’educazione)

    Gli allievi non te li scegli. Ti càpitano per caso, devi lavorare con loro chiunque essi siano, non puoi preselezionarli. Te li trovi davanti e anche se non rispondono ai tuoi desideri e alla tua immaginazione, sono quello che sono e con questo loro essere devi fare i conti.
    O forse no? Non possiamo essere ingenui. Occorre riconoscere francamente che ogni proposta educativa da un certo punto di vista preseleziona gli educandi; già il fatto di predisporre un certo progetto, di stilare un programma, di fissare determinare regole funge da sbarra al cancello di entrata della relazione educativa. Scuola a parte, ogni proposta educativa che richiede una scelta da parte dell’educando (o dei suoi genitori o tutori) prevede già un’immagine dell’educando stesso. La scuola dell’infanzia è proposta a tutti i bambini ma in realtà si rivolge a quei bambini i cui genitori scelgono la scuola dell’infanzia: il rischio del serpente che si morde la coda è alto.
    Occorre dunque cautelarsi dall’eccessiva rigidità della preselezione implicita in un progetto educativo ma anche non illudersi che il progetto sia davvero rivolto a “tutti”; chi non ama la montagna probabilmente non parteciperà a una escursione, chi la odia non vi parteciperà sicuramente. Chi non ama il calcio non si divertirà durante la partita (a proposito: ma è scritto nei Vangeli o l’ha ordinato il medico che in ogni progetto educativo debba trovare posto la partita di calcio e che ogni proposta formativa debba per forza concludersi con la sfida calcistica educatori contro ragazzi? Siamo così schiavi della moda e del costume che non possiamo fare a meno del calcio, tra l’altro un dispositivo inquinato dalla violenza, dalla corruzione e dai milioni facili? Abbiamo così poca fantasia come educatori da dover ripercorrere strade già tracciate e non avere il coraggio di proporre il nuovo – che magari non sia l’altrettanto logora caccia al tesoro?)
    Il processo educativo, che potremmo definire di “costruzione” dell’allievo, inizia già quando ci si pone attorno a un tavolo e si inizia a pensare al progetto da proporre. La progettazione è già educazione. Ma il problema reale è tutto ciò che di implicito e di latente c’è in questo processo, il cosiddetto “curricolo nascosto”, quel processo di costruzione dell’allievo che avviene in un certo senso alle spalle dell’educatore. In questo senso l’architettura dell’educazione, gli spazi e i tempi nei quali e lungo i quali si snoda l’accadere educativo, hanno un effetto di costruzione del soggetto. "Colui che si pone il problema di una educazione buona non sa affatto che l'architettura medesima del collegio segna il processo educativo, la camerata notturna disciplina il sonno, i grandi corridoi distribuiscono l'interiore e il sociale, i grandi giardini lo scambio del discorso le sue forme. Il modo della distribuzione spaziale organizza le finalità di socializzazione e la sorveglianza, garantisce l'assegnazione dei ruoli tra scolari e maestri e tra scolari e scolari, presiede alla formazione delle classi, crea le condizioni per il modo comunitario di nutrirsi e di vivere collettivamente la nutrizione. Ogni organizzazione educativa ha la sua microfisica: la mente come il corpo dell'educando subiscono un processo di trasformazione e di adeguazione a vari modelli. E' una educazione il cui destinatario viene costruito”.[1]
    Questa straordinaria pagina pedagogica potrebbe dar luogo a fraintendimenti. Non crediamo si debba intendere come segno di un costruttivismo strutturalista radicale, per il quale l’allievo è totalmente costruito dal contesto, ma ci ricorda comunque che i ragazzi che abbiamo davanti sono sempre “dentro” un progetto educativo. Non siamo soltanto le organizzazioni che abbiamo attraversato, ma siamo quello che siamo anche per il segno che queste ci hanno lasciato dentro, soprattutto a livello profondo e latente. La scelta di dormire in tenda ha un effetto prepotentemente educativo sui ragazzi; la scelta di portarli in albergo ne ha un’altra. Una non è migliore dell’altra a priori, ma occorre capiurue quanto essa è coerente con i fini del progetto educativo. Occorre concentrarsi su ciò che accade all’interno degli spazi e dei tempi educativi e cu ciò che essi fanno ai/dei soggetti. Questo è importante perché ci mette al riparo dalla declinazione pedagogia di quella che Michel Foucault chiamava “volontà di sapere”, che si traduce nell’atteggiamento di chi vuole conoscere l’identità del ragazzo “fuori” dal contesto educativo e che spesso sfocia nel mancato rispetto della privacy (almeno fino al punto in cui il ragazzo risponde un meritato e sano “fatti gli affari tuoi”).
    Forse allora occorre capire che il “fuori” ci sfugge sempre e che nella relazione con noi il ragazzo ci mostra la maschera dell’educando; usando il termine “maschera” in senso greco con tutta l’ambiguità del suo significato. La maschera è la persona ma al tempo stesso è il personaggio, è il ruolo che non esaurisce in sé l’individuo ma al di là del quale non è possibile né consigliabile andare. In questo senso Rousseau ci suggerisce che dovremmo considerare i nostri educandi come “orfani”, perché la relazione educativa che giochiamo con loro è uno spazio che si smarca dal “fuori”, anche da quello delle famiglie Affidare il proprio figlio a un estraneo, per quanto preparato, è un gesto difficile e da non prendere alla leggera. E dopo la scampata strage di ragazzi a S. Angelo Lodigiano del marzo 2019 viene da chiedersi con quali criteri vengono selezionati gli adulti che si occupano dei ragazzi. Per guidare un bus scolastico basta avere la patente? Per servire a tavola in una mensa scolastica basta essere camerieri? Piuttosto che speculare squallidamente sull’accaduto a livello politico gli sciacalli di certa stampa dovrebbero porsi queste domande. Ma una volta che i ragazzi ci sono stati affidati la responsabilità educativa è tutta nostra, ed è un po’ vile cavarsela sempre attaccando il web, le famiglie, la scuola o qualche altro colpevole. Se i ragazzi stanno otto ore al giorno in rete si tratta certamente di uno scandalo, ma adesso questi stessi ragazzi sono qui, insieme a me, e posso lavorare sul loro rapporto con il web.
    Ma c’è una traccia del “fuori” che i ragazzi esibiscono, e che forse è il motivo per cui sono qui, oggi, davanti a noi. Si tratta del bisogno di formazione, del desiderio di accompagnamento che caratterizza gli adolescenti e i giovani. E’ evidente li osservi in modo onesto e privo di pregiudizi a chiunque frequenti i ragazzi che mai come in quest’epoca essi chiedono in maniera commovente di essere seguiti, guidati, ascoltati da una generazione adulta che semplicemente ha altro da fare. Se un ragazzo di quindici anni scrive lettere a Dylan Dog, confidando le sue paure segrete a un personaggio dei fumetti, forse il mondo adulto non dovrebbe ironizzare ma si dovrebbe semplicemente vergognare.
    La straordinaria purezza, la verginità degli sguardi dei ragazzi ci richiama al dovere di educare, ci dice che non possiamo sottrarcene. “I ragazzi e i giovani sono in generale degli esseri adorabili, pieni di quella sostanza vergine dell’uomo che è la speranza, la buona volontà: mentre gli adulti sono in generale degli imbecilli, resi vili e ipocriti (alienati) dalle istituzioni sociali in cui crescendo sono venuti a poco a poco incastrandosi”.[2] Non è detto che il processo educativo sia destinato a finire in questo modo; ma capire che il desiderio di formazione dei ragazzi è l’unica legittimazione ad educarli, a farli entrare in un progetto educativo dei quali siamo totalmente responsabili e che fornirà loro un supplemento di identità, un nuovo modo di essere, è il primo passo verso l’accompagnamento. Perché non è mai possibile accompagnare realmente chi non sente il desiderio di farsi accompagnare e trova, finalmente, chi a questo desiderio ha la ferma intenzione di rispondere.

    NOTE

    [1] Fulvio Papi, Educazione, Isedi, 1978 pag. 45, ripubblicato con il titolo Sull’educazione da Mimesis.
    [2] Pier Paolo Pasolini, I Dialoghi, Riuniti, Roma, 1992, pag. 150.


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