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    Mosè, l’uomo delle prove


    PG e Arte / Storia “artistica” della salvezza

    Maria Rattà

    (NPG 2019-04-76) 

    1.
    La vita di Mosè si potrebbe definire come l’esistenza di un uomo messo alla prova. Da un re straniero, dalla propria impetuosità, da Dio e dal proprio popolo.
    L’arte che illustra la prima parte della sua vita (dal contesto in cui nasce fino all’uscita dall’Egitto) mette sui piatti di una stessa bilancia la tenerezza e il dramma. È forte, ad esempio, l’impressione che si ha guardando tele come quelle di Edward John Poynter (Israele in Egitto, p. 4) che traccia – con dovizia di particolari e una prospettiva d’ampio respiro – la condizione degli Israeliti schiacciati dal potere. L’artista mette letteralmente in scena una vera e propria “macchina” dalle dimensioni gigantesche per il trasporto di un enorme leone in granito rosso. Il quadro si popola di figure e architetture che palesano lo sfarzo della corte faraonica, ma anche le durissime condizioni cui è sottoposto il popolo ebreo. Eppure, già qui compare uno spiraglio di umanità, nel dettaglio di un Egiziano che offre soccorso e acqua a uno schiavo caduto. È quasi un anticipo di quella tenerezza che accompagna i primi vagiti di Mosè, quando – dopo l’abbandono sulle acque del Nilo – proprio la figlia del faraone lo scopre e lo salva. Accanto all’ansia della madre che teme di essere scoperta, al suo dolore e alla disperazione (resa magistralmente da William Blake, p. 9) per un distacco innaturale, gli artisti descrivono anche la dolcezza di un “passaggio di consegne”, come fa Rupnik (p. 18) in un suo mosaico, in cui il bambino nella cesta galleggia sulle acque, mentre le braccia di due donne – la madre e la principessa – sono tese verso di lui, una per lasciare e l’altra per accogliere. Edwin Long crea invece un’immagine pervasa da una forte sensualità, ma anche da un sottofondo di tenerezza espresso nell’incontro delle mani del piccolo Mosè e della giovane principessa (p. 17). Le raffigurazioni artistiche assumono però un tono diverso quando comincia la vita del Mosè adulto. Poynter descrive la scena dell’uccisione dell’Egiziano narrando la circospezione di Mosè, l’angoscia della sua vittima e la “curiosità” di un personaggio misterioso che osserva da lontano (p. 20). Botticelli, per le Prove di Mosè nella Cappella Sistina, dispiega invece tutta l’impetuosità di Mosè, colto da una vera e propria foga che lo porta ad assassinare il nemico e poi a fuggire (p. 21). Da questa fuga comincia una vita nuova, in una nuova terra, e proprio in questa nuova terra Dio inizierà a rivelarsi al suo servo, apparendogli nel roveto ardente. Paura, stupore, indegnità, timore. Sono questi i tratti emotivi principali che connotano le opere relative all’episodio biblico (pp. 30-34). Ritornato in Egitto per chiedere al faraone la liberazione del popolo d’Israele, si srotolano, una dopo l’altra, le fila di dieci piaghe che Mosè profetizza di volta in volta al sovrano. L’arte qui parla ora il linguaggio di un realismo estremo (come nelle immagini di James Tissot) ora uno più “favolistico” (ma non meno impressionante) nei codici miniati medievali, che con la loro essenzialità non mancano di descrivere a tinte forti il contrasto tra la luce e il buio, tra il volere di Dio e l’ostinazione del faraone. Il manoscritto W.106, conservato presso il Walters Art Museum di Baltimora, ricorre a una netta separazione delle singole scene, in modo che salti subito agli occhi il divario incolmabile tra il popolo guidato da Mosè e quello capeggiato dal faraone. Immerso nella luce dorata il primo, nell’oscurità il secondo (pp. 54; 60). Il cuore del faraone si ammorbidirà solo dopo l’ultima, grande piaga: la morte dei primogeniti. Arthur Hacker immagina un angelo della morte in volo, vestito di rosso e con la spada sguainata (p. 64). Le sue vesti vermiglie sembrano vaporizzarsi in fumo all’estremità, ricordando quasi il sangue, quel sangue che per la Bibbia è segno della vita. È un angelo che affronta la propria missione coprendosi gli occhi, come a dire che la morte non guarderà in faccia nessuno, non farà sconti: anche il figlio del faraone, infatti, perderà la vita. Lawrence Alma-Tadema immortalerà in una sorta di “interno familiare” il dolore estremo che rende impietrito il padre in lutto, mentre Mosè e Aronne, sullo sfondo, giungono a fargli visita (p. 66). Finalmente il sovrano manderà via gli Israeliti… ma se ne pentirà e li inseguirà “nel” Mar Rosso aperto da Mosè. Sarà una vera e propria carneficina: gli Egiziani saranno travolti dalle acque che si richiudono, e periranno in mare. Così ce li mostrano Cosimo Rosselli, Ivan Aivazovsky e Frederick Arthur Bridgman (pp. 79-80), in immagini animate da potenti giochi di luce, in cui la vita e la morte entrano prepotentemente in scena.

    2
    L’uscita dall’Egitto, dopo la “burrascosa traversata” del Mar Rosso, sfocia finalmente in un canto liberatorio. È quello di Mosè, ma è soprattutto quello di Miriam e delle donne che l’arte ha immortalato in scene cariche di un dinamismo e di un senso del ritmo tali da avere lo stesso effetto di fermo-immagini di un musical. James Tissot riproduce quasi il suono dei tamburelli (p. 2), mentre William Gale pare rendere udibili le voci armoniose delle donne che esultano (p. 4), ed Edward Poynter mostra invece una vera e propria danza, con un ondeggiare coinvolgente di braccia e di vesti (p. 7). Questo dinamismo si fa un po’ meno prorompente nelle rappresentazioni che seguono, quelle del miracolo della manna. È tuttavia un episodio importante, perché – soprattutto nell’arte successiva alla riforma tridentina – esso diventa un espediente per parlare di Eucaristia, tema centrale della teologia e della dottrina di quel tempo. Basti pensare ad alcune tele di Tintoretto, come quella ospitata dalla Scuola Grande di San Rocco a Venezia (Raccolta della manna, p. 12) e quella della chiesa di San Giorgio Maggiore (La caduta della manna, da alcuni interpretata come Il rifiuto della manna, p. 13). Ha sempre un doppio livello di comprensione anche un altro avvenimento: Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia. È un’immagine presente già nelle catacombe di San Callisto (p. 20) quale rappresentazione simbolica del sacramento del Battesimo e che cattura poi l’attenzione, nuovamente, di Tintoretto (con un’opera sempre destinata alla Scuola Grande di San Rocco, p. 21). Particolarissima è la scelta di Jacob Jordaens (p. 23), che taglia la tela impedendo di vedere la roccia, ma puntando l’attenzione sui volti illuminati e stupiti di Mosè e del popolo, come se l’acqua, per la sua ricchezza, fosse un faro che li illumina, perché, in fondo, il Battesimo (di cui l’avvenimento è simbolo), è detto anche “illuminazione” e rende i cristiani luce del mondo. E sempre di luce si parla quando si dipana l’episodio della salita di Mosè sul Monte Sinai. La gloria del Signore è un fuoco sulla cima della montagna e così la presenta Jean-Léon Gérôme (p. 34), mentre Mosè, con le Tavole della Legge, appare come un’ombra in controluce, e una schiera incalcolabile di persone attende ai piedi del monte, riempiendo letteralmente tutta la parte destra della tela. Le visioni dei codici miniati e anche quella di Chagall (pp. 35-36), sono invece più intimistiche, descrivendo con semplici tratti il rapporto personale e unico tra Dio e Mosè. Ma, per quest’ultimo, le prove non sono ancora finite. Dio lo inviterà a scendere dal monte perché il popolo, sotto la guida di Aronne, si è costruito un vitello d’oro e lo sta adorando. Il manoscritto Add. 54180, conservato presso la National Library di Londra, mostra la scena (p. 42) in tutta la sua nuda e cruda verità: il vitello è innalzato su un tronetto e il popolo suona e prega, inginocchiandosi dinanzi a esso. Il manoscritto W.196 del Walters Art Museum di Baltimora (p. 48) ci mostra un uomo letteralmente basito dinanzi a questo tradimento: Mosè ha lo sguardo fisso sul vitello d’oro, davanti al quale sta, a mani giunte, il popolo d’Israele. Lascia cadere le braccia e, così, anche le tavolette. Ha toni ancora più drammatici l’Add. 54180: un Mosè dal volto sofferente scaglia a terra le tavolette, che si spezzano cadendo al suolo (p. 49). Con l’orrore dipinto sul volto per l’abominio compiuto dal suo popolo ce lo presenta invece William Blake, autore di un Mosè così esterrefatto che sembra tirarsi indietro, levando in alto le braccia in un gesto di sconvolgimento (p. 50). Tuttavia, Mosè non smette di essere uomo di preghiera e amico di Dio. Intercede per il popolo e ottiene per una seconda volta le Tavole della Legge. Nel colloquio con Dio il suo volto diventa così luminoso che egli è costretto a coprirlo con un velo quando scende dal monte, e così lo raffigura un mosaico del Centro Aletti (p. 55). Accanto a lui, i sandali, deposti al suolo, a indicare che egli sta per scoprire nuovamente il viso e ritornare al suo colloquio sacro. È un Mosè luminoso quello che descrive anche Michelangelo (p. 56) nella tomba di papa Giulio II. Ce lo indicano chiaramente le “corna”, i due raggi posti sul suo capo e frutto non di una bizzarria dell’artista, ma di un errore di san Girolamo, che nel tradurre la Bibbia confuse il termine karan con keren, tramutando in corna il raggio di luce che si sprigionava dal viso di Mosè. Il popolo è ancora in viaggio verso la Terra Promessa, ma Mosè non riuscirà a vederla: la contemplerà dal Monte Nebo, prima di morire. Un commento giudaico a questa pagina della Scrittura narra la morte di questo grande uomo, rapito da un bacio di Dio sulla sua anima. E come rapito in volo lo descrive Alexandre Cabanel (p. 84), in una tela maestosa, in cui la pesantezza della morte, del distacco dalla vita, sembra farsi leggera, sorretta da quegli angeli che aiutano Mosè ad andare verso il suo Dio, verso quell’Io sono che aveva orientato tutto il suo cammino. Fino alla meta finale. Fino alla “vera” ed eterna terra promessa.

    (Il numero delle pagine si riferisce agli studi pdf pubblicati nella Newsletter e nel sito)


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