I giovani nella Bibbia /4
Raffaele Mantegazza
(NPG 2017-07-69)
La saggezza ebraica ha ereditato dai popoli circostanti un genere letterario, quello sapienziale, che ci sembra eminentemente pedagogico. “La sapienza è una scienza pratica basata sull’esperienza”[1]: la definizione icastica di von Rad ci sembra ancora ottima per definire il tipo di sapere, di competenza, di perizia che la letteratura sapienziale prevede; si tratta di un sapere che è molto simile a quello dell’artigiano, un sapere pratico, legato a competenze che possono esser trasmesse di padre in figlio con un atteggiamento pedagogico che è quello della scuola di bottega. Un sapere dunque adatto ai bambini e ai ragazzi che stanno crescendo. Ma sapienziale è anche la conoscenza che porta a potersi orientare nei casi della vita; prevede dunque una vita conoscibile, comprensibile e studiabile attraverso l’osservazione di una quantità di casi. Le sentenze della sapienza sono esempi di una “verità empirico-gnomica”, il che significa che essa è sempre aperta, provvisoria, frammentaria e mai definitiva e che è possibile che sussistano l’una di fianco all’altra due proposizioni contraddittorie e una non smentisca l’altra; di qui l’aspetto ludico, di enigma, di gioco: quello della sapienza non è un cosmo ma è empiria, sottoposta a regole che possono cambiare e anche contraddirsi.[2]
Educare un fanciullo è dunque un atto intrinseco alla dimensione sapienziale dell’esistere: la sapienza è un sapere pedagogico ma rifiuta le pedagogie sistematiche e sicure di sé, prediligendo un’apertura problematizzante che si concretizza nell’uso della poesia, dell’aneddoto, del mashal, del pensiero narrativo. Nella letteratura sapienziale il maestro non dà ordini ma consigli che possono essere o meno ascoltati; ci si rivolge all’allievo con frasi del tipo “se farai... allora...”, perché la pedagogia sapienziale si rivolge in ultima analisi alla libertà di chi ascolta; solo l’allievo sarà depositario delle sue decisioni, il maestro potrà solo (ma non è poco) cercare di chiarirgli le conseguenze dei suoi atti. Ci sembra adeguata a questa concezione dell’educazione l’osservazione di Walter Benjamin a proposito del “consiglio” come specifico dono che l’educatore può dare all’educando. “Consiglio, infatti, è meno la risposta ad una domanda che la proposta relativa alla continuazione di una storia”[3]. La pedagogia sapienziale è dunque arte di narrare storie, che siamo aperte e mai definitive e che richiedono il contributo attivo dell’educando per la loro eventuale continuazione.
La sapienza è sapere concreto e il padre che nel libro dei Proverbi prende la parola conosce bene la vita, le sue insidie e i suoi tranelli. Così al ragazzo da educare sono prospettate due vie alternative, quella della malvagità e quella della bontà e della vita passata a rispettare i precetti: non si danno scelte intermedie: “la strada dei giusti è come la luce dell’alba / che aumenta lo splendore fino al meriggio / la via degli empi è come l’oscurità”[4]. Come spesso capita nella letteratura sapienziale è la via dei malvagi ad essere descritta con dovizia di particolari e vivacità di toni (forse perché il male è più facile da descrivere di quanto non lo sia il bene)[5]: apprendiamo che essere malvagi significa compiere ingiustizie nei confronti degli anelli deboli del consesso sociale: “se i peccatori (...) / ti dicono ‘Vieni con noi / complottiamo per spargere sangue / insediamo impunemente l’innocente / inghiottiamoli vivi come gli inferi / interi, come coloro che scendono nella fossa: / troveremo ogni specie di beni preziosi / riempiremo il bottino le nostre case (...) / figlio mio non andare per le loro strade / tieni lontano il piede dai loro sentieri”[6]. I peccatori destinano tutte le loro energie a progettare e compiere il male, esso diventa parte di loro in senso fisico come chiarisce la metafora alimentare: “essi non dormono se non fanno del male / non si lasciano prendere dal sonno se non fanno cadere qualcuno / mangiano il pane dell’empietà / e bevono il vino della violenza”[7]
Ma il figlio sappia che tutto ciò non porterà loro alcun bene, anzi il male che essi hanno messo in moto si rivolgerà contro di loro, travolgendoli, e insieme a loro travolgendo i loro figli: “costoro complottano contro il proprio sangue / tendono agguati contro se stessi / tale è la fine di chi si dà alla rapina / la cupidigia toglie di mezzo colui che ne è dominato”[8].
Ma laddove la pedagogia sapienziale si fa più concreta e più efficace a livello educativo è nel personaggio della donna adultera, personificazione seducente della via del male che crediamo potesse essere estremamente efficace nei confronti dei ragazzi e degli adolescenti; la donna adultera è straniera e simboleggia la conversione degli ebrei a culti di altri popoli o al sincretismo, considerato come il principale nemico da combattere in nome della purezza religiosa; YHWH è il compagno della giovinezza che la forestiera ha lasciato per vendersi ad altri culti, e il ragazzo non deve fare la stessa cosa, deve rimanere fedele al suo amore giovanile fuggendo “[la] forestiera che ha parole seducenti / che abbandona il compagno della sua giovinezza / e dimentica l’alleanza con il suo Dio / la sua casa conduce verso la morte / e verso il regno delle ombre i suoi sentieri”[9]. La forestiera conduce alla morte, come il culto degli idoli. Il tutto viene descritto con immagini vivide di estrema carnalità: “stillano miele le labbra di una straniera / e più viscida dell’olio è la sua bocca / ma ciò che segue è amaro come assenzio; / i suoi piedi scendono verso la morte / i suoi passi conducono agli inferi”[10].
SI tratta di una vera e propria antipedagogia, una pedagogia negativa, che certamente presentava i suoi rischi: la donna corruttrice è davvero molto desiderabile. Ed è anche straordinariamente scaltra e conosce alla perfezione le armi della seduzione; si vede qui come l’autore del testo conosca alla perfezione l’animo umano: egli sa che nell’uomo, e in particolare nel ragazzo, esistono punti di aggancio per una seduzione fisica e corporea, sensuale e delicata al tempo stesso. Il messaggio pedagogico è chiaro: per combattere il male occorre smascherarlo nella sua pretesa di fare del bene al soggetto: non basta il vuoto moralismo, occorre studiare le arti di seduzione del male, i dispositivi educativi che esso prevede e allestisce, come fa la donna adultera quando prepara la camera delle seduzioni: “ho messo coperte soffici sul mio letto / tela fine d’Egitto / ho profumato il mio giaciglio di mirra / di aloe e di cinnamomo / vieni, inebriamoci fino al mattino / poiché mio marito non è in casa / è partito per un lungo viaggio”[11]. E soprattutto occorre contrapporre a queste armi altre strategie analoghe, votate però al bene; chi pensi che la cultura ebraica sia contraria ai piaceri del corpo e nello specifico al piacere sessuale, legga con attenzione questi versi che costutiscono la risposta concreta e operativa della sapienza alle lusinghe tese al giovane dalla forestiera: “ha ucciso gli animali, ha preparato il vino / e ha imbandito la tavola”[12]. E più avanti: “Venite mangiate il mio pane / bevete il vino che vi ho preparato / abbandonate la stoltezza e vivrete / andate diritti per la via dell’intelligenza”[13].
La sapienza non propone dunque al ragazzo una alternativa di tipo moralistico o ascetico alla pedagogia sensuale della donna idolatra: a contrario essa prepara un banchetto, o meglio un contro-banchetto e offre il suo amore al giovane, contrapponendo alla seduzione del male la seduzione del bene; contro ogni lettura rigoristica o ascetica, il giudaismo sapienziale sa benissimo che non sono i piaceri del corpo ad essere negativi (e come potrebbero esserlo se sono stati creati da YHWH?) ma semmai ad essere malvagio è colui o colei che utilizza questi piaceri (pervertendoli) per raggiungere i propri fini crudeli e desolidarizzanti. Dunque, occorre insegnare ai ragazzi che il corpo è qualcosa di bello e di positivo e che i piaceri che esso ci può dare, inquadrati in un orizzonte etico e teologico di liberazione dal male e di solidarietà con gli altri esseri viventi, sono tra le cose più alte create da Dio. Solo fatte queste premesse si può cogliere il senso morale e non moralistico di alcuni passaggi del testo, per esempio questi versetti molto plastici e quasi favolistici che propongono la formica, come spesso capita nelle culture antiche, come esempio di lungimiranza: “Va’ dalla formica, o pigro / guarda le sue abitudini e diventa saggio / essa non ha né capo / nè sorvegliante né padrone / eppure d’estate si provvede il vitto / al tempo della mietitura accumula il cibo”[14].
Dunque il libro dei Proverbi, vero libro di testo pedagogico dell’antico Israele e probabilmente anche manuale di pedagogia ad uso dei genitori e degli educatori, è tutt’altro che un libro cupo; nei suoi primi capitoli, che sono forse i più direttamente pedagogici, esso esprime una pedagogia della gioia di vivere declinata però in senso altruistico e solidale; in questo senso la sapienza è depositaria di una saggezza antica, forse addirittura più antica del mondo. È la capacità di fare di un ragazzo un uomo, di guidarlo per le vie del bene senza negare la presenza del male, di adattare gli insegnamenti alla vita di un giovane, con tutta la sua concretezza, fisicità, voglia di vivere.
NOTE
[1] Gerhard von Rad, Teologia dell’Antico testamento vol. I: Teologia delle tradizioni storiche di Israele, Brescia, Paideia, 1972, pag. 470.
[2] Per tutto questo discorso cfr. von Rad, cit.
[3] Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962, pag. 247.
[4] Prov 4, 18,19.
[5] Cfr. R. Mantegazza, L’educazione e il male. Riflessioni per una teodicea pedagogica, Milano, Angeli, 2008.
[6] Prov 1, 10-15.
[7] Prov 4, 16-17.
[8] Prov 1, 18-19.
[9] Prov 2, 16-18.
[10] Prov 5, 4-5.
[11] Prov 7, 16-19.
[12] Prov 9, 2.
[13] Prov 9, 5-6.
[14] Prov 6, 6-8.