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    Temporalità e socialità



    Antropologia in movimento per una pastorale in movimento

    Mario Pollo


    (NPG 2016-07-20)

    In questi ultimi decenni si è assistito a una profonda trasformazione del percorso che conduce l’uomo dalla nascita alla morte e che non appare più scandito dalle diverse età della vita. Trasformazione che è stata prodotta dalla convergenza di due fenomeni sociali fortemente interconnessi: l’individualizzazione dei percorsi di crescita e la fine del determinismo delle età.

    L’individualizzazione dei percorsi di crescita

    L’individualizzazione dei percorsi di crescita, come sostiene Heinz, consiste nel fatto che: «Lo scorrere della vita non trova più le sue radici nella classe sociale, in regole di età o di genere o in una pretesa normalità. Si assiste nelle nostre società ad una de-standardizzazione della vita degli uomini e delle donne e ad una diversificazione delle scelte di vita. La vita diviene così una successione complessa di situazioni transitorie che gli individui devono selezionare, organizzare e controllare loro stessi. Ognuno deve concepire se stesso come un’agenzia pianificatrice delle decisioni di vita. Le persone oramai sono ritenute responsabili della loro vita, la quale assume forme più individualizzate, ma anche più selettive. La nuova sfida consiste ormai nello sfruttare al meglio le opportunità del mercato, i dispositivi istituzionali e il reticolo delle relazioni sociali per orientare in modo calcolato la propria traiettoria di vita» (Heinz, 1996, pp. 83-84).

    La fine del determinismo delle età

    Come prima evocato, l’itinerario di crescita delle nuove generazioni deve fare i conti anche con la fine del determinismo delle età, sostituito da una sorta di ethos infantilistico che le attraversa tutte. Per comprendere il senso di quest’affermazione è necessario ricordare che la vita delle persone tradizionalmente era scandita dal passaggio attraverso varie età. L’ingresso in ognuna di queste età comportava l’acquisizione di un particolare stile vita, di modelli di comportamento e di responsabilità specifiche e, a volte, anche di un particolare tipo di vestiario.
    In alcune età l’ingresso era formalizzato e sancito da un rito di passaggio e/o di iniziazione. Nelle società arcaiche, ad esempio, l’uscita dall’infanzia e l’ingresso nell’età adulta, era sancito da un rito che richiedeva al giovane di sottoporsi a una prova in cui superamento comportava, oltre alla dimostrazione del possesso di alcune abilità specifiche, la capacità di affrontare la solitudine e la paura che essa generava. Naturalmente a questa prova il giovane veniva adeguatamente preparato e il suo superamento gli consentiva l’acquisizione di un nuovo status sociale riconosciuto dalla comunità.
    Nel modello che prevedeva il passaggio ordinato da un’età della vita ad un’altra, a partire dalla seconda metà dell’ottocento l’infanzia godeva di una protezione particolare. Infatti, era previsto che il bambino entrasse progressivamente in contatto con le informazioni, gli atteggiamenti e i comportamenti del mondo adulto. Per garantire che questa progressione avvenisse in modo ordinato, nella società era stata organizzata una vera e propria segregazione dell’infanzia che comportava la messa in opera di un’accurata selezione delle informazioni e dei comportamenti ai quali il bambino era esposto sulla base della sua età.
    L’avvento della televisione ha infranto questa segregazione poiché i bambini di qualsiasi età guardandola ricevono le stesse informazioni degli adulti e nello stesso tempo possono osservare quei comportamenti che un tempo venivano loro accuratamente nascosti. Questo ha fatto sì che i bambini fossero, e siano, costretti a compiere un’evoluzione cognitiva, affettiva, sociale e individuale accelerata che li conduce precocemente al di fuori dell’infanzia. Questo ha indotto alcuni studiosi come Postman e Meyrowitz a parlare di fine o di scomparsa dell’infanzia (Meyrowitz, 1993).
    La socializzazione non più legata all’età non riguarda solo più l’infanzia, poiché è divenuta un fenomeno sociale generale che colpisce tutte le età e, quindi, anche gli adulti e gli anziani. In seguito a questo appare oramai scontata l’affermazione che l’età cronologica sia sempre meno indicativa del modo di vivere delle persone e che, quindi, l’orologio interno delle persone non sia più potente e costrittivo come una volta (Neugarten, pp. 809-825). Anche nelle età un tempo definite evolutive l’età anagrafica non appare più predittiva del livello di sviluppo raggiunto.
    Alla radice della fine del determinismo delle età vi è la nuova temporalità disegnata dai media elettronici, in particolare dalle moderne tecnologie della comunicazione e della telematica (tablet, computer, tv satellitare, fax, modem, telefoni cellulari, ecc.), che stanno creando delle reti di comunicazione che in tempi sempre più ravvicinati consentono agli individui di entrare in relazione, anche se sono fisicamente dislocati in luoghi spazialmente molto lontani.
    Paul Virilio sostiene che queste tecnologie elettroniche stanno trasformando lo “spazio-tempo” in uno “spazio-velocità” (Armitage J., 2001). Infatti, i media elettronici trasmettono i loro messaggi a una velocità prossima a quella della luce. Ora, secondo la fisica relativistica, alla velocità della luce il tempo tende a zero, cioè non scorre e rimane fissato nell’istante atemporale simile a quello delle radiazioni elettromagnetiche presenti prima del big bang. Questo significa che i media elettronici disegnano uno spazio in cui il tempo non scorre, o scorre quasi impercettibilmente, e in cui domina la realtà dell’istantaneo.
    L’emersione della velocità nella comunicazione umana, grazie alle scoperte dell’elettronica, ha fatto si che non solo si modificasse l’esperienza umana del tempo ma che anche lo spazio smarrisse la sua dimensione costitutiva: la distanza. La comunicazione elettronica, infatti, ha abolito la distanza e, quindi, la faticosità del percorrerla perché attraverso il computer, il telefono, la televisione e la radio è possibile raggiungere persone e luoghi situati all’altro capo del mondo pressoché istantaneamente e senza alcuna fatica.
    Lo spazio-velocità appare quindi come uno spazio-tempo paradossale privo della distanza e in cui non è più presente lo scorrere del tempo della storia. Questo spazio-tempo è quanto di più lontano esista da quello naturale in cui l’uomo ha sempre abitato, almeno sino all’avvento della società industriale.
    Mentre i media elettronici interrelano le persone all’interno di uno spazio sociale/virtuale sempre più grande, accade che queste stesse persone tendano a perdere, o perlomeno a indebolire, le loro relazioni comunicative con gli esseri umani che hanno abitato prima e che abiteranno dopo di loro lo spazio e il tempo. In altre parole, le persone tendono a perdere "memoria", intesa qui come la capacità di percepire la loro vita quale figlia e madre di una storia, cioè come il legame di responsabilità che le lega alle generazioni passate e a quelle future. Non solo, questa trasformazione della temporalità riguarda anche il tempo di vita delle persone e si manifesta nell’incapacità di percepire la propria esistenza come una storia dotata di senso. Vita in cui solo il tempo presente sembra avere un valore e un senso e che, quindi, appare più come un susseguirsi di presenti che non come un racconto dotato di un inizio e di una fine legati da un intreccio, di cui le età erano i capitoli, che ne svela il significato.
    In altre parole la fine del determinismo delle età è lo specchio della crisi del tempo della storia, di quel tempo cioè che è definito dagli studiosi della temporalità umana: tempo noetico o nootemporalità.
    A tutto questo occorre aggiungere l’osservazione che, paradossalmente, la scomparsa dell’infanzia ha fatto sì che tutte le età successive manifestino dei tratti infantili e siano perciò affette da quello che all’inizio del paragrafo è stato indicato come “ethos infantilistico”.

    L’ethos infantilistico

    Barber (2010, p. 5) afferma che «le sette età dell’uomo shakespeariano rischiano di essere spazzate via da una puerilità che dura tutta la vita» e ricorda che nel 2004 il Webster’s American Dictionary ha proposto la parola adultescent (neologismo coniato incrociando adult e adolescent) come parola dell’anno. In quasi tutti i paesi economicamente più sviluppati sono state utilizzate parole forse meno raffinate, ma comunque molto efficaci per indicare questa condizione ibrida da cui sembrano afflitti i giovani e in molti casi anche gli adulti: in Italia: “mammoni”, in Germania: “Nesthocker”, in Giappone: “freeter”, in India: “zippy” e in Francia: “puériculture”.
    In queste società il dissolvimento del determinismo delle età sarebbe anche la conseguenza di un ethos infantilistico indotto dalle esigenze di un’economia fondata sul consumo in un mercato globale. Questo ethos infantilistico riuscirebbe «a plasmare l’ideologia e i comportamenti della società consumistica radicale in cui viviamo con la stessa forza con cui l’”etica protestante” – come la chiamava Max Weber – è riuscita a influenzare la cultura imprenditoriale di quella che al tempo era una società produttivistica agli albori del capitalismo» (Barber, 2010, pp. 5-6).
    L’ethos infantilistico che affligge gli adulti e che fonda le loro aspettative nei confronti della vita ha origine nell’infanzia, dove la precoce “maturazione del bambino” ha anche come fine non la sua crescita sociale, intellettuale e spirituale ma la sua abilitazione al consumo (Pecora, 1988, p. 154). Tutto questo ha all’origine le esigenze del mercato dei consumi perché in un mondo con troppi prodotti e compratori in numero insufficiente, i bambini diventano consumatori preziosi (Barber, 2010, p. 29). Abilitati al consumo precocemente «gli adulti che invecchiano rimangono giovani consumatori per tutta la vita, gli “uomini bambini” (Jones & Klein, 1970, p. 341), mentre bambini e preadolescenti vengono trasformati in consumatori adulti» (Barber, 2010, p. 30).

    I riti di iniziazione

    Come prima accennato, nel percorso ordinato che regolava la transizione della vita umana all’interno delle diverse età un ruolo importante era giocato dai riti di iniziazione o di passaggio.
    È utile ricordare che nelle società tradizionali l’iniziazione perseguiva lo scopo di introdurre una persona nella conoscenza di cose nascoste e/o all’aggregazione in un gruppo, una comunità, una setta, una società segreta o semplicemente una diversa età della vita in cui avrebbe vissuto una nuova esistenza. L’iniziazione era equiparata a una nuova nascita perché la persona, pur rimanendo apparentemente uguale a come era prima di vivere questa esperienza, accedeva a una nuova condizione di esistenza. Secondo Ries vi sono tre tipi di riti iniziatici: quelli puberali, quelli di ingresso in una società religiosa chiusa e quelli di iniziazione a una vocazione mistica.
    I riti puberali sono tra i più arcaici e diffusi della storia umana poiché svolgevano una funzione fondamentale per la costituzione delle culture e delle società. Tuttavia il loro ruolo non è mai stato esclusivamente sociale, perché questi riti perseguivano anche lo scopo di realizzare pienamente l’homo religiosus. Infatti, molto spesso il passaggio dalla condizione infantile a quella adulta che questi riti consentivano era anche il passaggio a una condizione religiosa più piena. La confermazione o cresima cattolica appartiene, da questo punto di vista e seppur parzialmente, a questa classe di riti.
    I riti di ingresso in una società religiosa chiusa consentivano o di entrare a far parte di una società religiosa chiusa o segreta, come le sette o gruppi e associazioni particolari, mentre quelli di iniziazione a una vocazione mistica conducevano alla scoperta e alla realizzazione di una vocazione come, ad esempio, quella del sacerdote.
    Tutti i tre tipi di rito iniziatico erano accomunati da tre caratteristiche. La prima è data dal riferimento a un archetipo, a un modello esemplare collocato nell’illud tempus, nel tempo delle origini, ed era ritenuto essere l’origine del rito. Il modello archetipo donava al rito la sua efficacia, la sua potenza e consentiva, quindi, all’iniziato di raggiungere una più piena e compiuta dimensione esistenziale. La seconda caratteristica è costituita dalla constatazione che tutti i riti iniziatici utilizzano il simbolismo della morte iniziatica. Infatti, attraverso il rito, l’iniziato muore rispetto alla sua condizione di vita precedente. Di solito questa morte si manifesta attraverso un simbolismo particolare. Infine, la terza caratteristica comune è costituita dal simbolismo della nuova nascita che segue la morte iniziatica e che indica l’assunzione da parte dell’iniziato di una nuova vita a cui il rito l’ha abilitato. L’esperienza della morte e rinascita secondo Eliade modifica sia la condizione ontologica dell’iniziato e gli rivela la sacralità della vita umana e del cosmo entrambe create dalla divinità.

    La fine dei riti puberali e la nascita di un loro simulacro

    Tornando alla realtà sociale e culturale contemporanea è del tutto evidente che i riti puberali sono quasi completamente scomparsi dalla vita sociale, salvo la cresima, che però in molte realtà è celebrata in un’età che non consente il raggiungimento di un’autonomia e di una responsabilità adulta, e perciò il suo carattere di immissione in una esperienza di fede adulta - a livello antropologico - è più formale che sostanziale. Gli altri due tipi di rito, invece, sono ancora presenti e in particolare il terzo è presente all’interno dell’esperienza religiosa cristiana, anche se praticato da un esiguo numero di persone.
    La scomparsa dei riti puberali e comunque dei riti che segnavano il passaggio da un’età della vita a un'altra ha avuto degli effetti evidenti sull’esistenza delle persone di ogni età. In particolare, gli effetti sulle generazioni adolescenziali e giovanili sono leggibili nel porsi degli adolescenti e dei giovani in modo incerto, e a volte angoscioso, nei confronti del futuro, in conseguenza anche del fatto che il processo di infantilizzazione fa apparire la vita adulta verso cui la loro crescita dovrebbe condurli non solo priva di soglie di ingresso. ma anche priva di reali discontinuità rispetto alla loro condizione di vita in cui sono immersi.
    In epoca moderna nelle età precedenti quella adolescenziale e quella giovanile, la transizione da un’età all’altra più che attraverso veri e propri riti di passaggio avveniva sostenendo delle prove di esame che consentivano l’ingresso in un ordine di scuola superiore. Tuttavia nella realtà sociale contemporanea anche queste prove hanno perso gran parte della loro potere iniziatico perché, per un eccesso di iperprotezione, esse sono state rese progressivamente meno temibili e, quindi, dotate di una minore potenzialità generatrice di quelle paure/angosce costitutive delle prove iniziatiche o di passaggio. Questo fa sì che essi siano vissuti solo superficialmente come luogo della transizione da una condizione esistenziale ad un'altra, con la conseguenza che il bisogno di riconoscimento del nuovo status acquisito rimanga in buona parte insoddisfatto.
    Gli effetti della crisi dei riti di passaggio nelle età infantili, adolescenziali e giovanili si manifestano in particolare sugli adolescenti. Infatti, è tra gli adolescenti, che si verifica la ricerca spontanea di una esperienza che colmi il bisogno di iniziazione al percorso esistenziale che li libererà dalla dipendenza dai genitori e li condurrà all’autonomia e alla responsabilità della vita adulta. Non è perciò un caso che nel passato i riti di passaggio più importanti, che erano proprio quelli che conducevano dalla dipendenza infantile all’autonomia adulta, avvenissero nella o al termine dell’adolescenza. Come accennato prima, questo particolare rito di passaggio sottoponeva chi lo compiva a un’esperienza che richiedeva la temporanea separazione dalla comunità, la solitudine nell’affrontare una prova che comportava un rischio serio e, quindi, la sperimentazione della paura e dell’angoscia. Per superare la prova l’adolescente doveva utilizzare le conoscenze e le abilità che avevano costituito l’oggetto della sua formazione. In questo rito di passaggio l’adolescente entrava in esso in possesso di uno status sociale, quello infantile, e ne usciva con un altro, quello adulto.
    La ricerca spontanea da parte di alcuni adolescenti di un’esperienza che surroghi l’assenza di riti di passaggio e che sia in grado di sancire chiaramente la fine dalla loro dipendenza dai genitori e la conseguente conquista dell’autonomia, avviene con l’iniziazione all’uso di droghe. Iniziazione che assume la funzione di succedaneo del rito di passaggio perché il loro uso, essendo connotato dalla proibizione e dal rischio, produce, proprio perché gesto trasgressivo, una presa di distanza dal mondo dei genitori. Per alcuni versi è anche un tentativo di fuggire dalla prigione dell’infantilizzazione perché, come ricorda Zoja, «l’uomo della nostra società, sperduto, passivo, capace solo di compiere gesti compiuti da milioni di altri uomini, sogna segretamente una trasformazione che lo faccia adulto, inconfondibile, protagonista e creatore e non solo consumatore» (Zoia, pp. 7-8).
    La droga si rivela però un succedaneo pericoloso e non assolutamente in grado di garantire il passaggio e l’iniziazione dell’adolescente, perché l’esperienza del suo consumo avviene senza il contenimento, la protezione e il quadro di senso simbolico assicurato dal rito sociale/religioso e il riconoscimento da parte della cultura sociale della validità dell’esperienza iniziatica. Il risultato è che invece di svolgere una funzione emancipatoria l’iniziazione al consumo della droga ne svolge una distruttiva e implosiva. Nella cultura sociale contemporanea la droga è una promessa mendace di un viaggio iniziatico verso il mondo dell’identità adulta, che però si conclude quasi sempre sugli scogli dell’autodistruttività e, quindi, con un naufragio.
    Altri adolescenti sperimentano riti di iniziatici la cui finalità è l’essere accettati da gruppi particolari, dotati di norme trasgressive o devianti. Questi riti spesso consistono semplicemente nel compiere un’azione trasgressiva/deviante o nell’affrontare un serio rischio. Anche in questo caso il rito, lungi dal sostenere una crescita personale, rischia di far implodere regressivamente l’adolescente.

    Ricostruire riti di passaggio all’interno della riscoperta della nootemporalità

    Il quadro abbozzato, che indica, da un lato, la crisi della scansione della vita attraverso le età, la fine dei riti di passaggio puberali e, dall’altro lato, la necessità antropologica di ricostruire il tempo della vita umana attraverso il ritmo del susseguirsi dell’età, in cui non si entra nell’età successiva automaticamente in base all’anagrafe, bensì superando una qualche prova socialmente riconosciuta, evidenzia l’urgenza dell’impegno da parte della comunità ecclesiale di riprogettare la scansione della propria vita lungo l’asse nootemporale, che altro non è che l’orizzonte temporale che caratterizza il tempo della storia della salvezza cristiana.
    In altre parole, questo significa che la comunità deve essere quel luogo della memoria e del progetto/sogno di futuro in cui la crescita delle nuove generazioni avviene seguendo un ritmo temporale e in cui ritrovano il loro valore le prove necessarie per il passaggio da una tappa del percorso di crescita all’altra. La credenza che il passaggio da uno stadio evolutivo ad un altro possa avvenire senza fatica e impegno, senza ansie e paure, del tutto automaticamente, ha un effetto distruttivo sulla formazione delle persone, della loro forza interiore e della loro identità, e le allontana, invece di avvicinarle, alla condizione adulta, lasciandole prigioniere di quella che è stata definita adultescenza.
    La presenza del tipo di prove che possiedono le caratteristiche del rito di passaggio richiede la presenza di una comunità in cui gli adulti, pur nelle loro esigenti richieste ai giovani, siano in grado di far sentire loro che sono accolti e amati per come sono e oggetto di una fiducia incondizionata.


    Bibliografia

    Armitage J. (a cura di), Virilio Live: Selected Interviews, London, 2001.
    Barber B. R., Consumati. Da cittadini a clienti, Einaudi, Torino 2010.
    Heinz W.R., L’ingresso nella vita attiva in Germania e in Gran Bretagna, in Cavalli A. Galland O. (a cura di), Senza fretta di crescere, Liguori Editore, Napoli 1996.
    Levi G. E Schmitt J.C., Storia dei giovani. Vol.1: Dall’antichità all’età moderna, Laterza, Bari 1994.
    Jones D. e Klein D., Man-Child: A Study of the Infantilization of Man, Mc Graw-Hill, New York 1970.
    Meyrowitz J., Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna 1993.
    Neugarten B. L., Age Distinctions and Their Social Functions, in Chicago Kent Law Review, LVII, pp. 809-825.
    Pecora N. O., The Business of Children’s Entertainment, Guilford Press, New York 1988.
    Zoja L., Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza, Raffaello Cortina, Milano, 1985.


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