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    Sulla scia di don Bosco, con e per i giovani. Una comprensione salesiana della pastorale giovanile



    Intervista a Fabio Attard, Consigliere mondiale per la pastorale giovanile

    (NPG 2016-01-5)


     

    DOMANDA. Come sei venuto elaborando una tua personale comprensione di PG?

    RISPOSTA. Riprendo il dialogo con NPG che oramai va avanti da alcuni anni. Alla prima domanda che è abbastanza personale rispondo offrendo una visone frutto del mio cammino vissuto all’interno della Congregazione Salesiana.

    IL GRANDE QUADRO

    Vorrei iniziare con uno sguardo al “grande quadro” che pian piano andava costruendosi nelle sue varie parti. Rivisitando la parte iniziale del mio viaggio personale, riconosco che ho avuto la fortuna di vivere gli anni di studio e di formazione con alcune persone che mi hanno fatto gustare ciò che di più bello e prezioso esiste nel cammino della fede ecclesiale. Oggi mi rendo sempre più conto come la comprensione della pastorale giovanile (PG) per me è stata come un’esperienza di maturazione continua. Per spiegarmi meglio uso l’immagine di un albero perché esprime bene ciò che voglio dire. Io vedo la mia vita nell’immagine dell’albero che ha tre livelli interdipendenti tra di loro e che nel loro insieme contengono la sintesi del mio cammino: il cammino della fede, quello della Chiesa, e quello vissuto sui passi di don Bosco. Sono le tre parti che assumono la funzione portante del mio cammino: la fede, la Chiesa, la Congregazione.

    Le radici: la Parola e il Mistero

    Sono sempre più convinto che ogni esperienza di PG non può trovare il suo senso ultimo se non all’interno dell’esperienza della fede: celebrata e vissuta. Questo non è un discorso pietistico o devozionalista. Questo è un punto irrinunciabile. Una PG che mira a offrire un percorso di maturazione piena, di proporre una felicità duratura, è una PG che si alimenta dal logos che le dà senso, che le offre contenuto. Incontrare la “parola” è incontrare Cristo come un’esperienza fondante.
    Più giro il mondo salesiano, e non solo, più mi convinco che se non partiamo da Cristo che è “la Parola” ci imbattiamo nel rischio inevitabile di dire tante cose senza in effetti dire niente. Senza Cristo il nostro fare fa rumore, ma non fa storia. La nostra proposta si degenera in un attivismo che consuma il tempo, ma non costruisce la persona. Alle nostre spalle abbiamo alcuni decenni, quelli post-conciliari, nei quali notiamo tanti esperimenti che sono finiti nel vuoto. La tragedia è che questi esperimenti sono stati fatti su quella materia prima che si chiama persone, giovani, futuro!
    La “Parola” va accolta, assunta, vissuta. Per chi accetta di essere pastore dei giovani, il mistero celebrato diventa “il” nutrimento per eccellenza. L’eucaristia e i sacramenti non sono materia da distribuire, ma esperienze da vivere. Solo se vissuti da parte di chi educa diventano forza e si traducono in proposte pastorali. Chi ha vissuto come pastore dei giovani in ambienti non cristiani tutto questo lo coglie in maniera ancora più forte. In questi ambienti il vissuto sacramentale della comunità diventa nutrimento per una testimonianza silenziosa, una prima evangelizzazione. Chiunque con onestà assume il compito di vivere con il cuore del buon pastore, sente la necessità che il proprio cuore aneli ai corsi d’acqua che sgorgano dai sacramenti.

    L’albero: il Concilio Vaticano II

    Accanto al fondamento della parola e del mistero celebrato, credo che l’esperienza ecclesiale del Concilio Vaticano II abbia avuto un impatto notevole sulla mia comprensione della PG. Specialmente nei miei anni di formazione teologica mi hanno fortemente coinvolto e plasmato.
    Durante questi anni ho avuto l’opportunità di assimilare l’asse portante del Concilio da parte di docenti che hanno vissuto l’esperienza del Concilio molto da vicino. Mi hanno anche segnato lo studio e l’analisi di ciò che giunse negli anni immediatamente successivi a questo evento, perché in essi ha preso lentamente forma lo spirito del Concilio stesso.
    Mi limito a citare le quattro grandi Costituzioni del Vaticano II: la loro articolazione fin dall’inizio mi ha guidato. Una Chiesa (Lumen Gentium) alimentata dalla Parola (Dei Verbum) e nutrita dal Sacramento (Sacrosanctum Concilium) che assume la chiamata di dialogare con il mondo (Gaudium et Spes). Sono sempre più convinto inoltre che la figura del Beato Paolo VI rappresentava per me fin dall’inizio la personificazione dello spirito del Vaticano II. Sono cresciuto all’ombra del Vaticano II. E questa esperienza la considero un dono grande nella mia attuale missione.

    I frutti: Carisma e Ministero

    La terza parte dell’albero è il carisma di don Bosco. Sono cresciuto in un oratorio dove la presenza soltanto per alcuni anni dei Salesiani ha lasciato un traccia profonda. Lì, nella mia cittadina natia, avevano lasciato un’ereditata tale che dopo la loro partenza un sacerdote diocesano ha continuato con lo stesso spirito l’esperienza e la proposta salesiana. In più, mio padre era l’unico catechista laico in quell’oratorio, un fatto che ha reso lo spirito salesiano molto sentito nella vita della mia famiglia.
    Finito il liceo, sono entrato nel seminario diocesano, immediatamente dedicandomi alla pastorale dei ragazzi e dei giovani della mia parrocchia e nello stesso oratorio dove sono cresciuto. Dopo il primo anno di liceo, faccio il passo verso la Congregazione Salesiana. Oggi lo vedo come una continuazione di ciò che vivevo fino allora. Un grande beneficio era quello di essere accompagnato dal mio direttore spirituale e da un mio docente di teologia morale.
    Don Bosco – non riesco a vedere la mia esistenza senza di lui!
    Da ragazzo il suo volto era un invito. Da giovane seminarista quell’invito non potevo lasciarlo andare nel vuoto. Quello stesso volto e quello stesso invito continuano ad accompagnarmi mentre giro il mondo animando i miei fratelli nelle loro varie presenze.

    PUNTI NODALI

    All’interno di questo “grande quadro” cominciavano a formarsi alcuni punti fermi. In ogni cammino vocazionale esiste un processo all’interno del quale si comprende come il passato contiene dei germi che progressivamente crescono in convinzioni che fanno nascere il futuro. Quello che conta è come si vive il momento “presente” di ogni fase facendo si che ci sia un collegamento, una progressione, uno sviluppo.
    Scoprendo e vivendo l’esperienza del nostro Padre e Maestro don Bosco, ho scoperto che il discorso delle virtù e sulle virtù, che oggi sta tornando nell’ambito della filosofia, è un tema che per noi Salesiani ci appartiene in maniera radicale e del tutto naturale. Leggendo e studiando la storia del nostro carisma notavo come le virtù costituiscono il tessuto di base per una vera e integrale esperienza educativo-pastorale.

    Virtù – fede speranza e carità

    Le tre virtù teologali in genere le sentiamo spesso commentate alla luce di un discorso teologico, non sempre in dialogo con la fatica del vivere cristianamente la vita. Da una riflessione accurata sulle nostre fonti e una familiarità con gli studi di questi ultimi decenni, diventa sempre più chiaro come in don Bosco il discorso sulle virtù sia essenzialmente intrecciato con la sua personale esperienza e proposta educativo-pastorale. Lo coglie molto bene Pietro Braido quando alla fine della sua ultima pubblicazione scrive: “il precoce e sempre più profondo radicamento in Dio fece di lui un prete costantemente ispirato non al lucro e alla fama, ma soltanto a fede operante nella carità, tutta rivolta a promuovere «la gloria di Dio e la salvezza delle anime»”[1].
    Per noi oggi questa affermazione ha forti conseguenze. Prima di tutto a livello personale, dove la nostra testimonianza ha bisogno di un solido radicamento nelle virtù se vuole essere una valida proposta educativo-pastorale. In un linguaggio molto terra terra, se il salesiano non attira, non tira. La forza dell’attrazione non è collegata a tecniche pedagogiche, ma a convinzioni personali che della fede si nutrono, con la carità si consegnano, e con la speranza si portano avanti. Convinzioni che sono come degli indicatori e dei segnali per il cammino dei giovani.
    Aggiungerei altri tre punti fermi che insieme alle virtù rafforzano il cammino di una pastorale giovanile, specialmente quella salesiana, sempre più bisognosa di elementi e scelte che evidenziano la sua anima familiare.

    Empatia

    Il tema dell’empatia mi pare che sia uno di quei punti privilegiati che va ben studiato. Nell’articolo 39 delle nostre Costituzioni, che tratta del Sistema Preventivo, leggiamo che la pratica di tale Sistema: «esige da noi un atteggiamento di fondo: la simpatia e la volontà di contatto con i giovani. «Qui con voi mi trovo bene, è proprio la mia vita stare con voi». Stiamo fraternamente in mezzo ai giovani con una presenza attiva e amichevole che favorisce ogni loro iniziativa per crescere nel bene e li incoraggia a liberarsi da ogni schiavitù, affinché il male non domini la loro fragilità. Questa presenza ci apre alla conoscenza vitale del mondo giovanile e alla solidarietà con tutti gli aspetti autentici del suo dinamismo».
    La parola «simpatia» nell’edizione inglese delle stesse Costituzioni è tradotta con empathy. Questa parola da subito mi ha fatto riflettere se fosse solo questione linguistica o piuttosto se qui non abbiamo un’importante riflessione da compiere.
    Sul discorso sull’empatia mi ha molto aiutato la riflessione di Edit h Stein, santa Teresa Benedetta della Croce che questo tema lo ha scoperto e approfondito nei suoi studi di fenomenologia. È un tema che la accompagna fino all’incontro con santa Teresa d’Avila e, Credo di non sbagliare nel dire che quella di don Bosco era una simpatia per i giovani che conteneva una carica umana e spirituale più di quanto mostrasse. Il suo desiderio di entrare in contatto con loro era, nelle parole di Edith Stein, quel desiderio di em-patia (Ein-Fühlung), cioè un “atto conoscitivo… che è rivolto alla percezione soggettiva dell’altro, alla sua «esperienza» interiore e perciò anche alla sua stessa personalità.”[2]
    Credo che in don Bosco noi cogliamo oltre il desiderio del “sentire” (fühlen), quello dell’“em-patizzare” (ein-fühlen) che favorisce accanto a una conoscenza, anche la reale e sentita partecipazione nel mondo dei giovani e dei ragazzi come tali. Nel linguaggio che usiamo oggi, empatia è la parola che esprime l’esperienza di coloro che accettano la sfida di abitare nella cultura dei giovani. Proprio quello che a noi come Salesiani è chiesto.

    Accompagnamento

    È sulla base di questa esperienza empatica che si genera l’esperienza dell’accompagnamento. Qui entriamo in un campo molto delicato quanto pastoralmente indispensabile. L’esperienza personale di don Bosco, dalla sua età adolescente fino alla sua piena maturità, fu segnata dall’esperienza dell’accompagnamento. Non abbiamo lo spazio per dirlo come merita. A questo proposito il cammino di riflessione intrapreso dal Dipartimento di Pastorale Giovanile sta gettando luce su un aspetto che dobbiamo rivalutare e riproporre con creatività e intelligenza.
    L’accompagnamento personale dei giovani lo possiamo proporre nella misura in cui lo viviamo. Don Bosco ce lo consegna prima di tutto in quanto esperienza personale che poi diventa paradigma pastorale. Scoprire l’importanza dell’accompagnamento spirituale dei giovani non è un optional sul quale si può avere opinioni variegate. Accompagnare i giovani è una chiamata che va colta e presa sul serio, pena l’abbandono dei nostri giovani nel momento chiave della loro vita.
    Offrire cammini ai giovani verso una maturazione piena, non può esaurirsi soltanto nella proposta del tempo libero. Quest’ultima è essenziale come piattaforma che offre spazi verso mete che superano il solo consumo del tempo. La cultura e lo sport, nella loro dimensione di crescita umana e artistica, è uno spazio che mentre incontra e raffina il desiderio del bello, educa in un ambiente comunitario la domanda del vero fine, e propone l’esperienza del buono nell’esperienza con l’Uno.
    Accompagnare spiritualmente i giovani risulta un’esperienza integrale dove le varie dimensioni di un progetto educativo camminano insieme verso la maturazione di una persona piena. La frequente reazione che si sente circa la poca presenza di accompagnatori spirituali sta ad indicare un vuoto nell’essersi accompagnati da parte di chi è chiamato ad accompagnare i giovani. E l’esperienza ce lo dice chiaro e tondo: chi non vive un’esperienza di accompagnamento, non coglie il bisogno degli altri di essere accompagnati.

    Disciplina – discere

    Un quarto punto fermo: disciplina. Chiarisco subito cosa intendo con questo termine. Intendo la parola nel suo significato etimologico che viene dal termine latino discere: acquisire, o tentare di acquisire della conoscenza o un’abilità nel fare qualcosa. La disciplina alla quale ogni educatore ed educatrice sono chiamati obbliga a un duplice impegno. Prima di tutto, c’è il dovere di saper leggere la cultura attuale che dà forma e categorie al vissuto dei giovani. Non è secondaria la chiamata a conoscere e a essere familiari con il territorio dove abitano i nostri giovani, a comprendere il loro linguaggio e sintonizzarsi con i loro schemi che non sono i nostri.
    Il secondo impegno è quello di un serio studio e assimilazione del carisma salesiano. La storia del nostro Padre e Maestro va studiata e approfondita perché all’interno di essa abbiamo gli strumenti necessari per camminare come degni pellegrini con i giovani oggi. La lettura e lo studio delle nostre origini sono una condizione necessaria per tradurre nell’oggi gli elementi fondamentali di un carisma che ha il grande potenziale di dialogare con la vita dei giovani superando la barriera del tempo e della contingenza storica per il fatto che parla al cuore.

    POLARITÀ

    Dal grande quadro con i suoi punti fermi, passo ad alcuni elementi che in questi ultimi decenni si presentano non tanto come degli slogan, quanto come delle polarità che aiutano a chiarire sempre di più i vari processi della pastorale giovanile.

    Affettivo – effettivo

    Il binomio con il quale apro questa parte ci appartiene come Salesiani. Nella suo opera Trattato dell’amore di Dio, san Francesco di Sales si sofferma sull’amore affettivo ed effettivo. Per lui la carità possiede questi due atti provenienti e derivanti da se stessa: uno è l’amore effettivo e l’altro è l’amore affettivo o affettuoso. Una sua frase spiega la duplice dimensione dell’amore che per noi continua a avere una rilevanza forte: “l’amore effettivo che come un altro Giuseppe, servendosi della pienezza dell’autorità regale, sottomette e disciplina tutto il popolo delle nostre facoltà, potenze, passioni e affetti alla volontà di Dio, perché venga amato, servito e obbedito in tutte le cose… l’altro è l’amore affettivo o affettuoso che, come un piccolo Beniamino, è molto delicato, tenero, piacevole e amabile; ma, in una cosa, più fortunato di Beniamino, perché la carità, sua madre, non muore generandolo, ma anzi sembra acquistare una nuova vita per le dolcezza che ne prova.”[3]
    Quanto è urgente per noi recuperare l’armonia tra le due dimensioni per una presenza che abbia una chiara capacità di reggere l’edificio educativo ma anche l’opportunità di farlo in maniera piacevole, amabile. È una polarità che non lascia spazio a interpretazioni sbilanciate del rapporto educativo: chiarezza e carità.

    Sapienza – conoscenza

    Il secondo binomio in questa nostra cultura segnata dall’abbondanza dell’informazione, è quello del sapere e della conoscenza. In quanto educatori se la conoscenza non facilita e favorisce una profonda sapienza, sarà una conoscenza priva delle mappe necessarie. Questo binomio lo vedo molto collegato alla sfida tra educazione e evangelizzazione. Nel vero percorso educativo, chi educa non si soddisfa nel ‘dare’ informazione, la conoscenza che possiede. L’educando ha bisogno e chiede di essere aiutato a maturarsi in maniera sapienziale.

    Predicatore – profeta

    Terzo: in una società post-moderna e globalizzata il predicatore ha perso la sua importanza, ed è sostituito dal profeta. Chi è capace solo di parlare lascia impronte solo sulla sabbia fino alla prossima onda, non fa breccia nel muro del pluralismo culturale, tanto meno arriva a dare vita e entusiasmo a un certa indifferenza diffusa. Solo chi parla con la sua vita, cioè il profeta, riesce a suscitare se non interesse, almeno curiosità. Solo il profeta arriva a dire cose senza usare parola. La coerenza e l’autenticità del profeta sono la parola capita da tutti. Nell’esperienza educativo-pastorale il cuore dei giovani è raggiunto da chi con pazienza sa dire le cose con la propria testimonianza della vita.

    Parola – silenzio

    Questo quarto binomio è collegato al precedente. Nel momento in cui i giovani ‘sentono’ l’autenticità di un educatore, di un’educatrice, il silenzio di quest’ultimi parla forte come, se non addirittura più forte della stessa loro parola. Lo sguardo silenzioso di chi veramente vuole bene incide in maniera inconfondibile nel cuore dei giovani. Il silenzio di chi educa con il cuore, parla al cuore dei giovani. Viene in mente la parola di un padre del deserto che disse che se il suo silenzio non dice niente, allora è inutile che parli! Lo stesso vale per i giovani: comunica con loro solo chi a loro è pronta a dare la vita, poi, forse, la parola.

    Eroe – pellegrino

    Un altro binomio, il quinto, che segna in maniera molto chiara il cammino della pastorale giovanile è quello tra l’eroe solitario e il pellegrino. Vivere la pastorale giovanile è nella sua essenza un’esperienza comunitaria non solo a livello di una comunità educativo-pastorale, ma ancor di più nel senso di una comunità dove gli stessi giovani diventano protagonisti del processo educativo. Educare è fare parte di un cammino, di un pellegrinaggio dove chi accompagna, accanto alla buona conoscenza della strada, sa anche di dover fare i conti con la fatica del camminare insieme con i giovani. L’ascolto della loro storia diventa un tipo di apprendimento indispensabile per chi accompagna i giovani. Uno impara educando e camminando con loro. Nel pellegrinaggio non esistono eroi. Le persone che fanno la differenza sono coloro che infondono speranza. E il frutto più bello di tutto questo è la fiducia accordata loro dai giovani.

    Pescare – seminare

    Un binomio sempre più attuale è quello che aiuta il passaggio dal modello della pesca a quello della semina. Specialmente nel campo dell’animazione vocazionale, tale binomio racchiude un cambio di paradigma. In una società dove il discorso dominante era segnato dal vocabolario religioso, la proposta pastorale aveva degli appoggi sociali e culturali importanti. Invece in una società post-moderna e globalizzata, tale prominenza del discorso religioso non c’è più. Nel cuore dei ragazzi e dei giovani la proposta della fede molte volte trova un terreno arido da qualunque esperienza religiosa diretta. La parola, innanzitutto, va condivisa, offerta, seminata nel cuore dei giovani. Una semina che è segnata dall’accoglienza, dall’ascolto, dalla pazienza e soprattutto dall’amore evangelico. La parabola del seminatore in questo scenario nuovo acquista una rilevanza che sfida quelle resistenze da parte dei pastori che fanno fatica a dialogare con questa nuova realtà.

    Evento – processo

    Una delle convinzioni fondamentali che si va sempre più acquisendo è quella che vede la pastorale giovanile come una proposta che prende la forma di un processo. All’insegna del binomio precedente – pescare / seminare – i giovani sono stanchi di esperienze “lampo”. Ciò che non ha una continuità non incide. Il processo, invece, dice appartenenza, lo si vive all’interno di una comunità di persone. Il senso di una vera e sentita amicizia è frutto di un cammino, di un processo. L’evento isolato, senza un prima e un poi, rimane un’esperienza che tocca soltanto la superficie: superficiale appunto. Una pastorale giovanile svolta all’interno di un processo diventa un’esperienza di maturità, paziente ma profonda, e per questo duratura. E qui si sente l’importanza di una proposta pastorale che prende in considerazione e dialoga con la nostra attuale società segnata maggiormente dall’ascesa dell’individuo a scapito della comunità. Solo mediante processi che hanno visione e contenuto, processi che sono in sintonia con le sfide culturali e sociali, la pastorale giovanile supera il pericolo del rumore, lasciando un’impronta nel cuore.

    Consumare – proporre

    Un processo “propone” un cammino, evitando la tentazione reale e sottile che sia solo un’esperienza che “consumi” il tempo. Per molti educatori e pastori che fanno leva su una proposta giovanile che inizia dalla base culturale e sportiva, è molto saggio accorgerci che la cultura e lo sport, nel loro indispensabile contributo ai giovani, sono una piattaforma dove si cerca di portare la buona notizia con intelligenza pastorale. La cultura e lo sport sono mediazioni che vanno assunte e gestite con la dovuta preparazione e professionalità. Ma vanno anche viste e interpretate come opportunità che non solo offrono eventi da apprezzare e consumare ma anche come convergenze di esperienze umane e valoriali all’interno delle quali si aprono le frontiere del senso, esperienze di valori evangelicamente ispirati, cammini di una crescita integrale.

    Cambio – punti fermi

    Zygmunt Bauman sul tema di una società in continuo cambio – la società liquida – tra le sue molteplici riflessioni ha offerto una che tratta il tema della frammentarietà e dell’articolazione. Tra le due lui non vede una contrapposizione. Dice che anche là dove c’è la frammentazione, il puzzle, esiste un determinato numero di pezzi e un’immagine “già fatta” da ricomporre: “nel costruire un'identità, invece, gli individui non sanno quali e quanti pezzi hanno e neppure dove possono arrivare, quale figura ne uscirà.”[4] Ecco dove il binomio “cambio e punti fermi” acquista significato. Come pastori e educatori, spetta a noi saper cogliere l’invisibile dietro il visibile, le possibilità e il desiderio di crescita dove sembra che ci sia solo vuoto, confusione e morte. Perciò quando Bauman dà a questo stato di cose il nome di “realtà liquida”, in quanto la discontinuità e la dimenticanza non sono “difetti”, ma “dimensioni” che fanno cultura, per noi tutto questo è un richiamo che ci spinge a cogliere i punti fermi che ci indicano la via da percorrere, la direzione da prendere.

    Diagnosi – discernimento evangelico

    Infine il binomio sul quale si sofferma anche Papa Francesco nella Evangelii Gaudium nel capitolo secondo che tratta la crisi dell’impegno comunitario:
    Prima di parlare di alcune questioni fondamentali relative all’azione evangelizzatrice, conviene ricordare brevemente qual è il contesto nel quale ci tocca vivere ed operare. Oggi si suole parlare di un «eccesso diagnostico», che non sempre è accompagnato da proposte risolutive e realmente applicabili. D’altra parte, neppure ci servirebbe uno sguardo puramente sociologico, che abbia la pretesa di abbracciare tutta la realtà con la sua metodologia in una maniera solo ipoteticamente neutra ed asettica. Ciò che intendo offrire va piuttosto nella linea di un discernimento evangelico. È lo sguardo del discepolo missionario che «si nutre della luce e della forza dello Spirito Santo» [San Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis 10]… Esorto tutte le comunità ad avere una «sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi»” [Beato Paolo VI, Ecclesiam Suam 19] (50-51).
    Quella che Papa Francesco richiama qui è la stessa chiamata che è alla base di questo rinnovamento pastorale tanto auspicato dal Concilio Vaticano II. La sfida è quella di nutrirsi di una visione evangelica che abbraccia il tempo e la storia con tutti i mezzi disponibili. Una visione che però va oltre la sola diagnosi e la lettura puramente sociologica. La chiamata al discernimento, indirettamente accennata all’interno del tema dell’accompagnamento spirituale che ne è una componente essenziale, trova qui le sue radici e il suo nutrimento. Il missionario dei giovani è il discepolo amato che nutrendosi dalla forza dello Spirito legge, dialoga e propone l’esperienza dell’amore ricevuto per essere condiviso.

    STRADE DA PRIVILEGIARE

    In questa parte mi soffermo su alcune scelte, opzioni pastorali che credo dobbiamo privilegiare. Mi limito a due non perché siano esaustive, ma perché all’interno di esse si trovano intrecciate varie dimensioni e aspetti che si richiamano a vicenda.

    Profezia

    Il tema della profezia all’interno della riflessione e dell’esperienza della pastorale giovanile sta prendendo sempre più il doveroso riconoscimento. La ricerca del senso da parte dei giovani, il valore di una esperienza pastorale che li marca ha sempre a che fare con persone la cui testimonianza “parla”. Questo “parlare” è composto da varie dimensioni che cerco di commentare.
    Il pastore che si dona in maniera autentica è colui in cui tutta l'esistenza, tutto il suo operare fluisce da una sola esperienza: l’esperienza mistica. La persona mistica è colei che ha trovato la vera amicizia e si lascia plasmare da questa sua familiarità con Dio. Per essere più preciso uso le parole che Simone Weil usa nei confronti del suo direttore spirituale. Lei che veniva da una forte esperienza di lontananza e indifferenza in relazione alla fede, in una delle lettere al suo padre spirituale scrive: “Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrene che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio.”[5]
    Per noi salesiani la profezia ha un modello: don Bosco. L’esperienza mistica la vediamo nel nostro Padre e Maestro. Amare e imitare don Bosco è un impegno che ci permette di leggere bene i segni del tempo, quello nostro. Da lui dobbiamo imparare come ha saputo trovare quelle vie antiche e sempre nuove che hanno la capacità di parlare oggi a noi per primo, poi ai giovani. Nel suo discorso di chiusura al Capitolo Generale 26, don Pascual Chávez dice:
    Cosa farebbe Don Bosco oggi? Non lo sappiamo! Ma sappiamo che cosa ha fatto ieri e dunque possiamo sapere che cosa fare per agire come lui oggi. È questione di conoscenza ed imitazione… È assolutamente indispensabile contemplare Don Bosco, amarlo, conoscerlo ed imitarlo, per scoprire le sue motivazioni più profonde e trainanti, quelle da cui ricavava l’energia che lo faceva lavorare per i giovani instancabilmente; le sue convinzioni più salde e personali, che lo portavano a non tirarsi indietro, che anzi lo rendevano affascinante e convincente; i suoi obiettivi definiti e chiari, che lo facevano andare avanti, con una sola causa per cui vivere: vedere felici i giovani qui e nell’eternità.[6]
    In don Bosco abbiamo quel modello di profezia che racchiude la tanta desiderata paternità e maternità che i giovani oggi cercano e non sempre trovano. In un suo articolo "Se la Chiesa non ha più padri", Susanna Tamara coglie questa urgenza pastorale quando scrive:
    Nel padre o nella madre spirituale non c’è niente di nuovo, bensì qualcosa di straordinariamente antico: la sete di un’anima che incontra un’altra anima in grado di aiutarla a cercare l’ acqua. Non occorrono nuovi «input», nuovi dicasteri, nuove sfide, nuovi raduni oceanici. Occorre soltanto ricordarsi che nell’uomo esiste una parte di mistero e che questa parte va nutrita. La natura umana è sempre uguale e, per crescere interiormente, richiede le stesse cose oggi come ai tempi dei padri del deserto.[7]
    Tale paternità e maternità non si riduce ad una idea, per quanto buona e bella possa essere. Ha bisogno di un ambiente, di una comunità. Non può passare inosservata la priorità alla domanda di appartenenza da parte dei giovani. Sono convinto che la pastorale giovanile già nell’oggi ci chiede sempre più lo sforzo di lasciarci guidare da un immaginario comunitario del futuro. Su questo tema il cardinale Walter Kasper ha offerto una riflessione molto pertinente in una conferenza dal titolo "La Chiesa Cattolica oggi, ieri, domani". Egli dice che una delle sfide per la comunità dei credenti è il “rinnovamento della forma di communio della Chiesa.”[8] E si sofferma sul termine “dialogo”:
    «Dialogo» è una parola chiave dell’ultimo Concilio, nei cui documenti si ritrova una trentina di volte, in contesti diversi… Nel dialogo non si condivide qualcosa con l’altro, ma si condivide con lui se stessi, anzi, si condivide se stessi. Il dialogo, inteso teologicamente, significa darsi reciproca testimonianza ognuno della propria fede e, in tal modo, partecipare della ricchezza dell’altro, lasciarsene arricchire, ma poi comprendere anche meglio e più profondamente la propria fede.
    La pastorale giovanile di domani dobbiamo già viverla in questa logica oggi. Questo immaginario comunitario ci chiede di “crescere nella propria identità. Perché, per l’identità cristiana, nella sequela di Gesù, è essenziale l’essere per gli altri e con gli altri.”
    Tutto questo lo possiamo comprendere e poi vivere con la stessa dedizione che fu di don Bosco. La sua chiamata la visse con una fedeltà che aveva una duplice tensione: al Dio Trinitario e ai giovani, mendicanti di senso. Come in ogni epoca della storia dove esistono grandi cambiamenti, quali educatori della fede e alla fede, noi salesiani dobbiamo formarci a cogliere i segni e le grida dei giovani che sono alla continua ricerca di persone e ambienti dove le loro domande sono decifrate. Solo con il linguaggio appreso alla scuola di Gesù come inviato del Padre possiamo con la forza dello Spirito offrire quell’acqua viva che disseta la loro sete e soddisfa la loro ricerca.

    Formazione

    Arrivare all’arte dell’e-ducere è un cammino che non si improvvisa. Solo un vero e serio processo formativo assicura l’apprendimento dell’arte educativo-pastorale. In una sua lettera su questo tema che porta il titolo "Per voi studio",[9] don Juan Vecchi definisce questo impegno come l’applicazione della “totalità dell’essere ad accogliere il mistero di Dio e di leggere alla luce della fede, con intelligenza e obiettività, le sue tracce nella natura e la sua presenza nella storia umana.” Diventa sempre più urgente correggere una certa immagine del salesiano e delle nostre comunità sempre disponibili, costantemente alle prese con nuovi progetti… Io per voi studio ci fa pensare anche a un Don Bosco capace di cercare i tempi e i luoghi che favoriscono la solitudine attiva, il raccoglimento e la progettazione. Sono i suoi tempi di preghiera, gli esercizi spirituali annuali, certe pause che gli permettono una maggior concentrazione, ma anche il suo lavoro d’ufficio dal quale venne una abbondante corrispondenza, concezioni di nuovi progetti e una produzione di scritti, tutt’altro che trascurabile.
    E conchiude: “Direi che, come senza preghiera il nostro fare rischia di non essere missione («lavoro e preghiera»), così senza «studio», senza sapienza e competenza, il nostro operare difficilmente raggiunge le mete che il servizio educativo pastorale si prefigge.”
    In un processo formativo integrale, non esiste dicotomia tra lo spirituale e il culturale. L’unità tra le due dimensioni la chiede la missione giovanile. Chi con convinzione trova il tempo e lo spazio per “stare” con Dio, alla stessa maniera trova, anzi cerca il tempo e lo spazio per “stare” con gli altri. La contemplazione e lo studio, la preghiera e la riflessione sono due atteggiamenti di un cuore che ha fatto dell’amore-agape una scelta fondamentale. Chi al centro della propria vita mette l’impegno di una vita evangelica solida, vive necessariamente tale impegno a favore degli altri. Il primo e il secondo comandamento della legge nella loro unità costituiscono la spina dorsale di ogni vita cristiana, di ogni proposta pastorale.
    Nel recente documento Pastorale Giovanile Salesiana. Quadro di Riferimento, un’attenzione speciale è data allo specifico della pastorale giovanile salesiana: il Sistema Preventivo. All’introduzione del Capitolo 4 si legge: “il Sistema Preventivo è la fonte e l’ispirazione di una forma concreta e originale di vivere e attuare la missione salesiana che chiamiamo la Pastorale Giovanile Salesiana… il suo principio ispiratore è la carità pastorale. La sua centralità diventa una reale prospettiva di rinnovamento per la pastorale dei giovani e quindi criterio, perno della progettazione pastorale a tutti i li­velli. Il Sistema Preventivo (…) progetto educativo di educazione integrale, si articola sostanzialmente secondo due direzioni: come proposta di vita cristiana (Spiritualità Giovanile Salesiana) e come metodologia pedagogica pratica” (p. 77).
    Lo specifico della pastorale giovanile salesiana si trova nel Sistema Preventivo in quanto tale sistema “ci ricollega all’anima, agli atteggiamenti e alle scelte evangeliche di Don Bosco. La prassi salesiana ha come quadro di riferimento e come misura di autenticità l’attuazione del progetto pastorale-spirituale-pedagogico di Don Bosco. La «genialità» del suo spirito è legata alla attuazione del Sistema Preventivo” (p.79).[10] La sua «genialità» rimane la nostra forza e il dono più bello che possiamo condividere con i giovani.
    Infine, sotto la chiamata alla formazione, credo che vada anche messa l’attenzione a processi sistematici insieme a esperienze sistemiche. In varie parti del mondo sta crescendo la consapevolezza che ogni proposta giovanile deve necessariamente “dialogare” con il sentire dei giovani, le loro aspettative, le loro speranze ma anche le loro angosce e incertezze. In effetti, i processi di pastorale giovanile che camminano bene sono quelli che riescono a percepire l’urgenza di fondo che sta alla ricerca dei giovani. Il contenuto di ogni percorso pastorale ha senza dubbio un peso non indifferente. Ma quello che oggi più che ieri incide sulla decisione dei giovani di restare in un processo è il fatto che il percorso stesso già “annuncia” uno spazio con il quale loro si identificano.
    Sentirsi accolti, facendo parte di un gruppo che cammina, diventa sempre di più un criterio di riuscita dei vari percorsi pastorali. L’incertezza del cammino di un gruppo è già una condanna a priori negl’occhi dei giovani. Dovendo vivere con il tema dell’incertezza a tutto campo, dalle relazioni familiari, dal loro futuro nel mondo del lavoro, e altro, in nessun modo posso sopportare anche l’incertezza all’interno dei cammini pastorali.
    La ricerca sui giovani che partecipano alle GMG ci dice che la continuità del cammino pastorale assicura e offre non solo uno spazio qualificato ma anche un paradigma dove si maturano visione di vita, scelte della vita e mete che sono assunte con intelligenza e tradotte in obiettivi che danno senso e direzione alla propria vita.
    Processi sistematici assicurano quei parametri dove le sfide non sono percepite come problemi, ma vanno riconosciute e affrontate come opportunità con l’appoggio e il sostegno di altri. Un cammino sistematico assicura un ambiente di crescita perché propone l’esperienza dell’accompagnamento. E sappiamo bene che da esperienze dove i giovani si lasciano interrogare in maniera sistematica vengono fuori processi che favoriscono sistemi: esperienze sistemiche. In altre parole si supera con gradualità uno dei pericoli inconsciamente assunto e subito dai giovani: il pericolo della frammentazione. Tale cammino richiede dai pastori e educatori una non indifferente capacità di cogliere sia i pericoli ma anche le opportunità che il pianeta giovani nasconde nel suo grembo.

    METODO

    Per porre in marcia questa visione c’è bisogno di un metodo, un modo di procedere che evita la trappola dell’improvvisazione.

    “Reflective practitioners”

    Uno dei temi che sta guadagnando molta attenzione nel mondo anglofono è quello che favorisce la riflessione attorno alla pratica pastorale. Reflective practitioners sono coloro che nel loro ministero trovano il tempo e lo spazio per fare una riflessione sul loro vissuto, sulle loro scelte sui cammini percorsi. Riflettere sulla pratica pastorale ci aiuta a evitare il pericolo di trascurare i grandi cambiamenti in atto nel mondo, intorno a noi e al nostro ministero. E tale pericolo porta con sé un secondo pericolo, quello di aver smesso di imparare quando abbiamo finito i nostri studi teologici. Senza una attenta riflessione sulla pratica ministeriale, la pastorale giovanile è in pericolo di perdere la sua vitalità, entrando in un circolo vizioso di ripetizione sterile.
    All’interno della nostra Congregazione questo non è un tema nuovo. Già all’inizio del suo ministero come Rettor Maggiore, la sua seconda lettera circolare, n.290 dell’agosto 1978,[11] don Egidio Viganò scrive: “Don Bosco alimentava questo suo carisma di predilezione pastorale con una costante meditazione sulle iniziative di salvezza volute dal Signore e sul perché della sua vocazione sacerdotale… e rinforzava questo suo particolare ascolto della volontà di Dio con riflessioni realiste sulle responsabilità storiche di una società in transizione.”
    In questo senso quella che don Viganò chiama “urgenza di inventiva” conferma come “lo stile salesiano non è una cosa fatta una volta per sempre: è piuttosto un compito di sana creatività soprattutto in questo momento di trapasso culturale…; è indispensabile riflettere «salesianamente»; non bastano né le sole scienze dell’educazione, né solo quelle della fede, e nemmeno una nostra esperienza più o meno acritica sorretta per anni da una mentalità ormai richiamata alla conversione da un Concilio Ecumenico e da due Capitoli Generali.”

    Comunità Educativo-Pastorale (CEP) e Progetto Educativo-Pastorale Salesiano (PEPS)

    Nella Congregazione abbiamo in questi ultimi decenni sviluppato una riflessione sul soggetto e sul progetto che dobbiamo solo rafforzare, assicurando che diventi sempre più un patrimonio educativo-pastorale.

    Non è qui il posto di soffermarmi sulla Comunità Educativo-Pastorale (CEP) e sul Progetto Educativo-Pastorale Salesiano (PEPS), tema che abbiamo sviluppato in vari momenti, per ultimo nel percorso del Ripensamento della Pastorale Giovanile Salesiana con la pubblicazione del volume Pastorale Giovanile Salesiana. Quadro di Riferimento. Tali istanze e spazi non sono strutture di burocrazia pastorale, ma esperienze dove l’essere Chiesa diventa un’esperienza reale e viva, comunità, per il bene dei giovani, attraverso un cammino che è progetto. La comunità che ha un progetto in verità vive un’esperienza nella quale la carità pastorale e l’intelligenza pedagogica diventano dono.

    DOMANDA. Quale il contributo salesiano alla PG oggi e quali i punti che dobbiamo rinforzare?

    RISPOSTA. Essendo ogni esperienza carismatica nella Chiesa un dono con un contributo specifico, quello del carisma salesiano lo vediamo all’interno del campo della pastorale giovanile. Se possiamo constatare un contributo valido e positivo, giustamente dobbiamo anche soffermarci su quelle aree che vanno meglio curate, sostenute e rafforzate.

    CONTRIBUTO

    Parlo di un “contributo” salesiano alla pastorale giovanile partendo dall’interno dello stesso carisma salesiano. Credo che nella nostra storia e tradizione salesiana, da don Bosco fino ai nostri giorni, il cuore del carisma è stato sempre considerato il Sistema Preventivo. C’è da andare subito al vissuto di don Bosco. Basta leggere le sue lettere ai salesiani dell’America in quel 1885 per capire la determinazione di non lasciar cadere, oppure indebolire, questa fondamentale convinzione: “Di poi vorrei a tutti fare io stesso una predica o meglio una conferenza sullo spirito salesiano che deve animare e guidare le nostre azioni ed ogni nostro discorso. Il Sistema preventivo sia proprio di noi.”[12]

    Comprensione e condivisione del Sistema Preventivo

    Come don Bosco anche noi oggi viviamo di questa forte convinzione che il Sistema Preventivo è il cuore del carisma salesiano, è il contributo più valido e bello che viviamo a favore di tanti che incontriamo sul nostro cammino. Avendo già commentato la centralità del Sistema Preventivo per noi salesiani, credo che tale centralità all’interno del nostro processo pastorale è un dono più che mai attuale.
    Nel suo libro Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco, Pietro Braido chiarifica come l’esperienza che don Bosco ci trasmette è una proposta integrale che conosce uno straordinario equilibrio:
    In rapporto alla ricostruzione del ‘sistema preventivo’ ne derivano almeno due conseguenze. Anzitutto, l’esposizione del suo aspetto propriamente 'pedagogico' non ne esaurisce l’intero ambito: esso, infatti, comprende anche una chiara dimensione pastorale e ‘spirituale’, in rapporto sia agli educatori che agli educandi. In secondo luogo, l’adeguata utilizzazione degli scritti di don Bosco, espressione e dimensione della sua intera esperienza vitale, dovrà essere effettuata, quando occorre, mediante l’ interpretazione dei contenuti esplicitamente pedagogici nel loro intreccio con gli altri elementi congruenti: teologici, giuridici, agiografici, ‘spirituali’, ascetici, organizzativi.[13]
    Ed è qui il primo dovere della pastorale giovanile salesiana, cioè fare attenzione a non perdere ma a custodire gelosamente tale eredità. In più, far sì che tale patrimonio carismatico e pastorale sia non solo conosciuto ma condiviso. Questa chiamata è molto forte nella lettera Iuvenum Patris che San Giovanni Paolo II scrive nel 1988, centenario della morte di don Bosco. In essa scrive:
    Per san Giovanni Bosco, fondatore di una grande Famiglia spirituale, si può dire che il tratto peculiare della sua “genialità” è legato a quella prassi educativa che egli stesso chiamò “sistema preventivo”. Questo rappresenta, in un certo modo, il condensato della sua saggezza pedagogica e costituisce quel messaggio profetico, che egli ha lasciato ai suoi e a tutta la Chiesa, ricevendo attenzione e riconoscimento da parte di numerosi educatori e studiosi di pedagogia.[14]

    L’attenzione ai poveri attraverso l’educazione

    Un secondo aspetto è quello di un’attenzione sempre più sentita che favorisce l’educazione ai ragazzi e ai giovani poveri. Sappiamo bene che l’educazione è una chiave che rompe il ciclo di una povertà che molto volte si impone in maniera ripetitiva. Offrire un percorso di formazione integrale significa dare ai nostri destinatari la possibilità di un futuro che da soli non arrivano a ottenere.
    In alcune parti del mondo siamo chiamati a offrire progetti e esperienze educativo-pastorali non solo all’interno della stessa Chiesa locale e a vari Ordini e Congregazioni religiose, ma anche stiamo collaborando con agenzie governative e non-governative in progetti educativi a favore di grandi fasce di giovani poveri. Credo che tale contributo non debba essere visto come una estensione del nostro fare, ma come una meta del nostro essere presenti sul territorio come educatori e pastori a favore di chi nella vita non ha nessuna possibilità educativa. Credo che l’esperienza salesiana nei vari continenti conferma il valido contributo dei salesiani nel campo educativo e sono anche convinto che la nostra presenza è un modello di come si può essere inseriti nella vita delle persone offrendo loro nuove vie per un futuro più dignitoso, non impedito da barriere religiose, culturali e sociali.

    Una riflessione sistematica su evangelizzazione e educazione

    Un terzo contributo che già dal periodo post-conciliare la Congregazione ha preso sul serio è il cammino di una riflessione sistematica su evangelizzazione e educazione. Con piacere ma anche con un senso di responsabilità notiamo come la riflessione salesiana è viva sia all’interno della nostra Congregazione ma anche sta servendo come esempio a tanti altri che come noi sono impegnati nella pastorale giovanile. Ci sono tante testimonianze ed esperienze al riguardo. Per ultimo noto con soddisfazione il contributo che sta dando il volume Pastorale Giovanile Salesiana. Quadro di Riferimento alle Chiese locali, istituti, comunità e gruppi che da questo cammino colgono luce per la loro azione pastorale.
    Includo anche il lavoro assiduo e molto apprezzato della nostra Università Pontifica Salesiana nel campo della pastorale giovanile, catechetica, educazione. Generazioni intere sparse in tutte le parti del mondo hanno beneficato di questa proposta che con i suoi centri affiliati in vari continenti continua a essere al servizio di tanti ragazzi e giovani.

    PUNTI DI CRESCITA

    Ho messo come titolo ‘punti di crescita’, non per evitare la parola ‘debolezze’ ma perché nel campo dell’educazione preferisco sempre vedere le debolezze nella prospettiva del futuro, cioè della crescita. Ecco allora i punti di crescita: dove c’è la luce ci sono le ombre, perciò non devono farci paure le ombre occasionali. Quello che mi fa paura è soltanto l’ombra totale, cioè l’assenza totale di luce, di futuro, di speranza.

    Ogni presenza come espressione di Chiesa

    Se c’è un punto sul quale credo che dobbiamo ancora investire più di quanto stiamo già facendo è la nostra convinzione che la presenza salesiana è una presenza di Chiesa. Qui entra in gioco, prima di tutto, quale modello di Chiesa abbiamo. La visione di Chiesa che ci propone la Lumen Gentium è un modello di Chiesa comunione, comunità di fede, speranza e carità. Se poi guardiamo alle nostre origini, la prima comunità di Valdocco, vediamo un modello pastorale che nella sua composizione riflette la stessa diversità della comunione ecclesiale. Don Juan Vecchi commenta bene questa originale esperienza di Valdocco quando scrive:
    Quando pensiamo all’origine della nostra Congregazione e Famiglia, da dove è partita l’espansione salesiana, troviamo soprattutto una comunità, non soltanto visibile, ma addirittura singolare, atipica, quasi come una lucerna nella notte: Valdocco, casa di comunità originale e spazio pastorale conosciuto, esteso, aperto. Vi arrivavano, per interessamento o per curiosità, personaggi del mondo civile e politico, cristiani ferventi ed ecclesiastici che vedevano in essa un risveglio religioso, vescovi del mondo. In tale comunità si elaborava una nuova cultura, non in senso accademico, ma nella direzione di nuovi rapporti interni tra giovani ed educatori, tra laici e sacerdoti, tra artigiani e studenti, un rapporto che rifluiva sul contesto del quartiere e della città.[15]
    La riflessione di d. Vecchi prosegue con una domanda che credo facciamo bene a tenere viva. Ci serve come una sfida verso orizzonti ancora da esplorare: “Saranno le nostre comunità oggi capaci di provocare un fenomeno simile, anche se di minori proporzioni?”[16] È qui che si misura il livello di crescita in una delle aree fondamentali per la pastorale giovanile.

    Più consapevolezza dell’azione evangelizzatrice nella nostra azione educativa

    La seconda area di crescita forma uno dei punti che continuamente ritorna sia nei nostri Capitoli Generali come anche in maniera più larga a livello dei documenti della Chiesa, specialmente nei Sinodi.
    Già il Beato Paolo VI nella esortazioni Evangelii Nuntiandi si è soffermato su questo punto, o forse è meglio chiamarlo pericolo: cioè quello di lasciarci trascinare da una risposta ai bisogni che sia più attenta a ciò che si fa e come lo si fa, piuttosto che dare attenzione al perché si fa quel che si fa. Il Papa, mentre inizia da quella che è la chiamata primordiale fondata sull’invito del Signore Gesù: “la presentazione del messaggio evangelico non è per la Chiesa un contributo facoltativo: è il dovere che le incombe per mandato del Signore Gesù”, continua:
    Non dobbiamo nasconderci, infatti, che molti cristiani, anche generosi e sensibili alle questioni drammatiche che racchiude il problema della liberazione, volendo impegnare la Chiesa nello sforzo di liberazione, hanno spesso la tentazione di ridurre la sua missione alle dimensioni di un progetto semplicemente temporale; i suoi compiti a un disegno antropologico; la salvezza, di cui essa è messaggera e sacramento, a un benessere materiale; la sua attività, trascurando ogni preoccupazione spirituale e religiosa, a iniziative di ordine politico o sociale. Ma se così fosse, la Chiesa perderebbe la sua significazione fondamentale.[17]
    Lo stesso invito lo troviamo nella nostra riflessione come salesiani: basta richiamare le lettere circolari dei nostri Rettori Maggiori che contengono un richiamo continuo a questa sfida che se non rafforza il nostro apporto educativo-pastorale, finisce per indebolirlo e snaturarlo completamente. È anche la direzione che prende il nostro ultimo Capitolo Generale 27: “Siamo consapevoli che la forza e la condivisione delle motivazioni di fede e la ricerca quotidiana dell’unione con Dio arricchiscono la riflessione pastorale, conferiscono creatività all’annuncio del Vangelo, ci spingono a dare la nostra vita ai giovani.”[18]

    DOMANDA. E partendo da esperienze vissute, o che conosci e che aprono strade nuove...

    RISPOSTA. In questo campo credo che valga il principio più volte sottolineato che in ogni carisma esiste quello che è sanamento antico e creativamente nuovo. Ci sono nel carisma salesiano alcuni elementi fondanti che bisogna comprendere alla luce del vangelo, e proporre alla luce del mistero della Chiesa. Per esempio, l’esperienza che don Bosco porta avanti a Valdocco è radicata nella storia del suo tempo ma in qualche modo lo supera. Vivere la missione salesiana insieme come educatori e pastori, e viverla con un progetto dove i giovani sono protagonisti, credo sia la frontiera che in parecchie presenze sta diventando sempre più chiara.

    CEP

    Laici collaboratori della missione salesiana

    Qui sta una delle strade che bisogna seguire e rafforzare. Penso allo sforzo di varie ispettorie che stanno sempre più prendendo sul serio la formazione dei laici collaboratori della missione. Ci sono proposte in Spagna, Belgio, Italia, dove ci sono percorsi sistematici sia di formazione come anche di progettazione pastorale, salesiani e laici che vanno lette anche alla luce di un modello di Chiesa comunione.
    Penso allo sforzo in che stanno facendo i salesiani in Germania per pensare come vivere e proporre il Sistema Preventivo in un ambiente secolarizzato; uno sforzo a livello di riflessione ma anche di proposte pastorali. Penso al cammino di riflessione e formazione che abbiamo a Quito, al Centro Salesiano Regionale di Formazione dove centinaia di partecipanti, salesiani e laici, seguono un corso sulla salesianità per ritornare nelle loro ispettorie a rafforzare il carisma salesiano.
    La collaborazione con i laici non è una cosa meccanica, funzionale. Richiede un atteggiamento pastorale che sia in sintonia con un cammino ecclesiale che trova nella Evangelii Gaudium un forte punto di riferimento. Però tale cammino richiede che noi salesiani siamo convinti di questa ecclesiologia di comunione.
    La famosa lettera di don Vecchi Esperti, testimoni e artefici di comunione. La comunità salesiana – nucleo animatore[19] contiene un richiamo che invita tutti noi ad approfondire questa scelta ecclesiale e carismatica.

    Giovani protagonisti

    Collegata con il tema dei laici si trova la chiamata a guardare ai giovani non soltanto come oggetti della nostra azione educativo-pastorale, ma soprattutto come soggetti protagonisti della missione salesiana.
    In questo campo abbiamo esperienze molto incoraggianti nel campo del Movimento Giovanile Salesiana (MGS). Negli ultimi decenni nella Congregazione Salesiana insieme con l’Istituto della Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA) esiste un cammino molto incoraggiante dove i giovani stessi sono i protagonisti di un cammino pastorale sistematico. Nelle varie parti del mondo stiamo assistendo a esperienze del MGS dove attraverso cammini sistematici di riflessione, celebrazione e azione pastorale, molti giovani stanno facendo scelte di fede molto qualificate.
    Là dove il MGS sta crescendo, si notano due cose: anzitutto una comprensione della proposta di don Bosco non piatta e superficiale: una proposta integrale che riesce a offrire spazi vari con una meta, un obiettivo, all’interno di un ambiente che accompagna, e che non si limita solo a offrire divertimento.
    E poi la presenza di salesiani e laici che prendono sul serio don Bosco, la sua storia, la sua esperienza umana, spirituale e pedagogica. Salesiani e laici che hanno un progetto pastorale con una chiara identità carismatica, che vivono una esperienza di pastorale giovanile che sa dialogare ed è in sintonia con il cammino della Chiesa locale.
    Una delle cose che rattrista più in questo campo è la superficiale conoscenza del patrimonio carismatico del nostro fondatore. Una scarsa conoscenza di don Bosco, una debole conoscenza della cultura attuale dei giovani, e peggio ancora una mancata sintonia con il cammino pastorale della Chiesa, risultano in una miscela pericolosa e dannosa per tanti giovani.

    PASTORALE DELLA FAMIGLIA

    Una strada nuova, ma sempre antica è senza dubbio quella della pastorale familiare. I nostri Rettori Maggiori varie volte hanno richiamato la centralità della famiglia per la nostra pastorale giovanile. Alla luce dei due sinodi che la Chiesa sta celebrando in questi anni, per noi Salesiani questo momento storico ha un richiamo molto forte.
    Per noi lo “spirito di famiglia” è uno dei punti forti. Le nostre presenze le chiamiamo “case”, non monasteri o conventi. Noi parliamo di accoglienza, di ascolto, di camminare con i giovani. Tutto questo non è poesia. Don Pietro Braido offre una validissima riflessione sul tema “famiglia” quando alla fine della sua opera conclude con un capitolo che porta il titolo Verso il domani.[20] In questo campo a noi sarà chiesta tutta l’inventiva pastorale. Scrive Braido:
    «La famiglia viva può diventare, per il ‘sistema preventivo’, paradigma di un ‘rinnovamento nella continuità’… È necessario inventare una concreta e articolata ‘pedagogia preventiva familiare’, che riapplichi, con particolare cura critica, in situazioni mutate, i concetti chiave del ‘sistema’, in particolare la problematica ‘amorevolezza’, oscillante tra creatività affettiva, senso rassicurante di appartenenza, possessività ansiosa, violenza».
    In alcune parti già esistono percorsi di coinvolgimento dei genitori come protagonisti all’interno del progetto educativo-pastorale attraverso strutture come le associazioni di insegnati e genitori. In qualche ispettoria già si trova una proposta di formazione ai genitori degli allievi per tutto l’arco del curriculo scolastico. Stanno anche aumentando proposte che offrono spazi di crescita pedagogica e formazione alla genitorialità in ambienti come gli oratori, centri di assistenza e alfabetizzazione per gli immigrati. Esistono anche proposte di formazione catechetica e biblica a genitori in vari centri scolastici e oratori.
    Senza dubbio la riflessione che verrà fuori dopo i due sinodi sarà anche per il Dicastero un motivo per mettere in moto processi a livello regionale e ispettoriale. I convegni sulla pastorale familiare proposti in Spagna e Italia negli ultimi anni sono un segno eloquente di un’attenzione che va incoraggiata per le sue conseguenze pastorali. Sono sicuro che, come ha augurato l’ultimo CG27, in questo campo noi salesiani abbiamo una bella strada da percorrere.

    DOMANDA. A partire da una tua personale riflessione dopo 6 anni di servizio mondiale e con ancora 6 anni di compito di far aumentare la consapevolezza e il buon pensiero e buona azione. Insomma, se volessi “consegnare” la tua riflessione ed esperienza... Cosa consegneresti?

    RISPOSTA. Dopo le tante pagine scritte (che spero non avranno annoiato il lettore), rispondo in maniera telegrafica.
    Prima di tutto mi piacerebbe consegnare un “pozzo di speranza”!
    Siamo eredi di un Padre e Maestro che ci ha lasciato un carisma molto bello, molto attuale. Un Padre e Maestro che ci ha dato un esempio che non possiamo ignorare, l’esempio del Buon Pastore per i giovani, specialmente i più poveri. La sua è una storia che non ha fine, non ha confine. La sua storia continua oggi e noi siamo chiamati a assumerla come una bellissima eredità. C’è da guardare il futuro con ottimismo. C’è da essere veramente persone di grande speranza. È la virtù che fa della fede una bella esperienza di carità e amore. E i giovani, specialmente coloro che non hanno niente e nessuno, ci supplicano di non fallire questo appuntamento.
    La seconda consegna che farei è la supplica di essere “uomini di Dio”!
    La breccia che bisogna aprire oggi nel cuore delle persone accade soltanto se siamo persone di Dio. Da qui inizia, o abortisce, tutto. Tutto quello che possiamo fare, che dobbiamo fare non decollerà mai se non siamo persone portatrici del fuoco di Dio. Il CG27 lo esprime in maniera chiara: “Come per Don Bosco, così per noi il primato di Dio è il fulcro che dà ragione della nostra esistenza nella Chiesa e nel mondo. Tale primato dà senso alla nostra vita consacrata, ci fa evitare il rischio di lasciarci assorbire dalle attività, dimenticando di essere essenzialmente «cercatori di Dio» e testimoni del suo amore in mezzo ai giovani e ai più poveri (CG27, 32).
    La terza consegna è che siamo “conoscitori del carisma salesiano”!
    Prendo le parole di don Egidio Viganò che nella sua ultima lettera completa – Come rileggere oggi il carisma del Fondatore [21]– indica l’urgenza di una lettura e conoscenza del carisma come fondamento della nostra consacrazione:
    La rilettura fondazionale non poteva essere semplicemente uno studio, più o meno scientifico, delle fonti, ma un discernimento spirituale fatto da discepoli impegnati dal di dentro nella stessa esperienza vocazionale… Il ritorno alle fonti non doveva essere una passeggiata archeologica attraverso documenti antichi, ma la rivisitazione dei momenti di fondazione e del cuore del Fondatore, nella sua esperienza originale di discepolo del Signore…. Quanto più chiara è la propria identità di consacrati, tanto più esigente è la ricerca di una dinamica aggiornata del carisma.
    Il discepolato, la consacrazione e la missione esigono la conoscenza aggiornata e dinamica del carisma. È l’invito del Signore Gesù. È la chiamata che ci rivolgono i giovani oggi.

    NOTE

    [1] P. Braido, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, voll. 2 (LAS, Roma 2009), in vol. 2, Cap. XXXV: Istantanee e visione d’insieme, p.684.
    [2] Vedi l’articolo di P. Reinhard Körner ocd, “Empatia” nel senso di Edith Stein: Un atto fondamentale della persona nel processo cristiano della fede, in https://www.ocd.pcn.net/edsi_kor.htm
    [3] San Francesco di Sales, Trattato dell’amore di Dio, 11,4.
    [4] M. Aime, recensione del libro di Z. Bauman, Intervista sull'identità, Laterza 2009, in "La Stampa", 30 agosto 2003.
    [5] R. Rondanina, Simone Weil. Mistica e rivoluzionaria, Edizioni Paoline, Torino 2001, p. 284.
    [6] P. Chávez, Il CG 26: una carta di navigazione verso il Giubileo del 2015. All’insegna del “Da mihi animas, cetera tolle”. Discorso di chiusura, 12 aprile 2008.
    [7] S. Tamaro, Se la Chiesa non ha più padri, in "Il Corriere della Sera", 2 agosto 2010.
    [8] W. Kasper, La Chiesa Cattolica oggi, ieri, domani, conferenza data il 27 marzo 2012 alla Università Pontificia Salesiana, Roma.
    [9] J. Vecchi, ACG 361, Per voi studio.
    [10] Cfr. P. Chávez, ACG 407, La Pastorale Giovanile Salesiana.
    [11] E. Viganò, ACS 209, Il Progetto Educativo Salesiano
    [12] Lettera a don Giacomo Costamagna, in Fonti Salesiane, p. 454.
    [13] P. Braido, Prevenire Non Reprimere: Il Sistema Educativo di Don Bosco (LAS, Roma 1999) p. 132.
    [14] San Giovanni Paolo II, Lettera Iuvenum Patris, nel Centenario della morte di San Giovanni Bosco, 31 gennaio 1988, n.8.
    [15] J. Vecchi, ACG 373, Ecco il tempo favorevole.
    [16] Idem.
    [17] Evangelii Nuntiandi n. 32.
    [18] Salesiani di Don Bosco, Capitolo Generale 27, n.54 (2014).
    [19] J. Vecchi, ACG 363, Esperti, testimoni e artefici di comunione. La comunità salesiana – nucleo animatore.
    [20] P. Braido, Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco (Las, Roma 1999) pp. 377-404.
    [21] E. Viganò, ACG 352, Come rileggere oggi il carisma del Fondatore.


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